Storie originali > Generale
Ricorda la storia  |      
Autore: vannagio    17/10/2015    6 recensioni
«Cosa è successo a quel povero pesciolino rosso?».
Benedetta alzò lo sguardo. Angela Bonsignore era seduta su una panchina con una rivista di gossip aperta sul grembo e le stava rivolgendo un sorriso bonario. Era una donna paffuta e con addosso quel vestito a fiori tutto merletti pareva una bomboniera.
«É saltato fuori dalla boccia e ci ho messo il piede sopra». La fronte della Signora Bonsignore si increspò come la carta crespa, così Benedetta si sentì in dovere di aggiungere: «Per sbaglio».

[Dedicata a Dragana, che oggi compie gli anni. Tantissimi auguri!]
[Vincitrice dei premi "Miglior film", "Miglior attrice protagonista" e "Miglior attrice non protagonista" agli Oscar Efpiani 2016]
Genere: Drammatico | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate, Violenza
- Questa storia fa parte della serie 'Una storia di metallo e inchiostro'
Per recensire esegui il login o registrati.
Dimensione del testo A A A

A Veronica.
Per tutte le entusiasmanti avventure che abbiamo vissuto insieme, e per quelle future.
Buon compleanno!




La terra di Milestone Park




La terra di Milestone Park era rossa come la ruggine, annidata sotto le unghie assomigliava molto al sangue rappreso. Aveva perfino lo stesso sapore ferroso, come aveva potuto constatare quando le era schizzata in faccia una piccola zolla.
Non appena la buca fu abbastanza profonda, Benedetta tirò fuori dalla tasca dei jeans un fagottino di carta e lo scartò con delicatezza. Il contenuto dell’involucro le ricordò la caramella gommosa alla fragola mezza sciolta che aveva trovato tra le penne del suo astuccio qualche giorno prima. Solo leggermente più maleodorante.
«Cosa è successo a quel povero pesciolino rosso?».
Benedetta alzò lo sguardo. Angela Bonsignore era seduta su una panchina con una rivista di gossip aperta sul grembo e le stava rivolgendo un sorriso bonario. Era una donna paffuta e con addosso quel vestito a fiori tutto merletti pareva una bomboniera.
«É saltato fuori dalla boccia e ci ho messo il piede sopra». La fronte della Signora Bonsignore si increspò come la carta crespa, così Benedetta si sentì in dovere di aggiungere: «Per sbaglio».
«Mi dispiace, devi essere molto triste».
Benedetta lanciò un’occhiata perplessa alla melma appiccicosa che teneva tra le mani e si strinse nelle spalle.
«Naah. Era solo uno stupido pesce. Nemmeno lo volevo. Solo che papà ha insistito per comprarmelo e così...».
Si strinse nuovamente nelle spalle, poi lasciò cadere il fagotto nella buca e lo ricoprì accuratamente con la terra smossa.
«Come mai ti sei presa la briga di seppellirlo, se non ci tenevi?», chiese la Signora Bonsignore.
«Perché quella volta che ho cercato di scaricare nel cesso la tartarughina, si è intasato il tubo di scarico e si è allagato il bagno. Papà si è arrabbiato». Picchiettò per bene la terra che copriva la buca e si asciugò il sudore sulla fronte con la mano sporca di rosso. «Anche quella era un suo regalo, l’aveva comprata alla festa di Santa Rosalia».
«E magari anche quella l’hai pestata per sbaglio?».
«No. Era sulla scrivania e le è caduto addosso il salvadanaio».
«Ma che ci faceva sulla scrivania?».
Benedetta si alzò, si spazzolò con le mani le ginocchia rosse e raccolse lo zaino.
«Il salvadanaio?».
«No, la tartarughina».
«Be’... pensavo avesse voglia di sgranchirsi le gambe».
La Signora Bonsignore rise. E questo era strano, perché di solito quando la gente sentiva la storia della tartaruga finiva col rimproverarla per l’idea stupida che aveva avuto. Lei al contrario non commentò, ma ripose la rivista di gossip nella borsa e si mise in piedi a sua volta. Non era molto alta, Benedetta aveva tredici anni e la superava di una spanna. Profumava di brioche appena sfornate e questo invece non era strano, perché era proprietaria di un panificio sulla 18th Avenue di Bensonhurst, tra la 80th e la 79th Strada. Proprio di fronte al palazzo in cui abitava Benedetta.
«Devo tornare al panificio», disse infatti la signora. «Mi faresti compagnia?».
Benedetta fece di sì con la testa. In fondo era quasi ora di cena, avrebbe dovuto incamminarsi verso casa in ogni caso. Lungo la strada passarono di fronte alla Lavanderia Johnson, dove Johnson in persona stava litigando animatamente con Jimmy Il Buffo. Benedetta fece per fermarsi, la Signora Bonsignore però la afferrò per il gomito e la invitò a proseguire. Benedetta non protestò, ma si voltò indietro ancora una volta. Jimmy il Buffo stava ridendo sguaiatamente del viso rosso lampone di Johnson.
«Il gossip è divertente solo sui rotocalchi», le disse la signora. «Lasciamo che se la sbrighino da soli. Se avessero voluto aiuto, lo avrebbero chiesto».
Milestone Park distava solo pochi isolati dal Panino Rustico e impiegarono circa cinque minuti per raggiungere l’ingresso del panificio, davanti il quale sedeva il fratello della Signora Bonsignore, Calogero. Aveva il viso sprofondato in un manuale di taglio e cucito.
«’sera», biascicò Benedetta.
Il Signor Bonsignore la degnò a mala pena di un’occhiata di traverso e lei non ebbe nulla in contrario. Suo padre diceva sempre che quell’uomo era un poco di buono e a guardarlo bene, manuale di taglio e cucito a parte, non era difficile crederlo. Con quella cicatrice scura sulla guancia e lo sguardo cattivo le faceva venire i brividi. Lo superò rapidamente ed entrò nel locale, che al contrario dell’uomo era caldo e accogliente. L’odore croccante di pane abbrustolito e origano la salutò facendole il solletico allo stomaco. Benedetta si appoggiò a palmi aperti sul vetro del banco, mangiandosi con gli occhi tutto il bendidio esposto: arancine, tranci di pizza, pane conzato, crostate, cassate, biscotti alla nutella, bomboloni alla crema... Nel frattempo la Signora Bonsignore si era allacciata il grembiule intorno alla vita e un fazzoletto tra i capelli brizzolati. Andò dietro al banco, prese un’arancina alla carne con un tovagliolo e gliela porse. Benedetta esitò per qualche istante, mordendosi il labbro, ma alla fine scosse la testa.
«Non ho soldi con me».
Il sorriso della Signora Bonsignore si allargò.
«Non fa niente, offro io. Sei stata così gentile ad accompagnarmi!».
«Non ho fatto niente di speciale, ero di strada. E poi, con tutto il rispetto, signora, nella vita nulla è gratis e nessuno fa niente per niente. Perfino chi fa beneficienza, sa? Ho letto da qualche parte che si pagano meno tasse».
La Signora Bonsignore si fece immediatamente seria e per un attimo Benedetta temette di averla offesa, allo stesso modo in cui si erano offese altre persone nella medesima situazione.
«Sei una ragazza molto intelligente», disse invece. «Facciamo così. Tu prendi l’arancina e in cambio...», indicò un pacchetto unto accanto alla cassa, «...fai una consegna per conto mio al 8112 di 18th Avenue, famiglia Miller. Il ragazzo delle consegne è già impegnato».
Benedetta spostò lo sguardo dal pacchetto all’arancina alla carne. Tutto sommato era un prezzo ragionevole, così accettò. Fece sparire l’arancina in tre morsi (era troppo buona) e uscì dal panificio col pacchetto da consegnare. Il Signor Bonsignore non stava più leggendo il manuale ma ascoltando Johnson della Lavanderia Johnson. Con il cappello accartocciato tra le mani, Johnson le ricordava quella volta che lei aveva chiesto alla maestra se per piacere le concedeva una proroga per consegnare il tema. Solo che il Signor Bonsignore non pareva bendisposto quanto la maestra. Lungo il marciapiede, due donne stavano assistendo alla scena e parlottando fitto. Benedetta passò loro accanto e captò dei frammenti della conversazione.
«E quindi la figlia di Johnson sostiene di aver riconosciuto il suo aggressore?».
«Certo. Jimmy Il Buffo. Ma secondo la polizia ha un alibi, è in una botte di ferro».
Benedetta non ci mise molto a sbrigare la commissione, e quando una mezzoretta più tardi tornò al panificio con i soldi dei Miller, la Signora Bonsignore stava tentando di consolare un Johnson in lacrime.
«Grazie, cara. Lasciali pure vicino alla cassa. Va’ a casa, ora. Farai tardi per la cena», le disse congedandola con un sorriso mesto.
Benedetta non se lo fece ripetere due volte, la vista di una persona che piangeva la faceva sentire come se avesse inghiottito un sasso, così posò i soldi dove le era stato detto, salutò sommariamente e si fiondò fuori. Attraversò la strada e prima di entrare nel palazzo in cui abitava, si fermò a riprendere fiato e a specchiarsi sul finestrino di un’auto. Si tolse un po’ di terra rossa dal viso e dalle mani con un fazzoletto, poi si leccò il palmo destro e tentò di appiattire i capelli spettinati con la saliva. Anche i jeans e le converse erano diventati color ruggine, ma per quelli purtroppo non poteva fare molto. La piccola speranza di avere il tempo per cambiarsi prima dell’arrivo di suo padre morì sul nascere nel vederlo già seduto a tavola con la divisa da agente di polizia ancora addosso.
«Tesoro! Stavo giusto dicendo a tua madre che ero in pensiero. Sempre che sia riuscita a sentirmi con tutto il chiasso che sta facendo». Come a dargli ragione dalla cucina arrivò il frastuono di una stoviglia di metallo che si schianta a terra. «Ehi, imbranata, spero che non fosse la nostra cena!».
«No, tutto a posto, non ti preoccupare», rispose la voce trafelata della mamma.
Suo padre si rivolse nuovamente a lei, sorridente.
«Che fai lì impalata? Vieni qui!».
Benedetta appese lo zaino all’appendiabiti e si lasciò abbracciare docile come un gattino, perché aveva notato subito la pistola accanto al cestino del pane. Quando suo padre la lasciò andare, si concesse qualche istante per guardarla con più attenzione e nel metterla a fuoco i suoi occhi divennero subito ombrosi.
«Eccoci qua!», esclamò la mamma, uscendo dalla cucina con una teglia di lasagne e le spalle rigide. «Benedetta, finalmente, dove ti eri cacciata? Ti sei lavata le mani?».
Lei in risposta cercò di avvertila con lo sguardo, ma ormai era troppo tardi.
«Le mani? Cinzia, dico, ma hai visto com’è conciata tua figlia?», sbottò suo padre. «Stai crescendo una selvaggia. Non sei buona nemmeno a insegnarle l’educazione!».
La teglia traballò leggermente tra le mani della mamma.
«Papà, non è colpa sua. Sono caduta e...».
«Non devi giustificarla», la interruppe lui. «Corri in bagno a darti una ripulita».
Benedetta non si mosse. Fissava le dita di sua madre, serrate talmente tanto forte intorno ai manici della teglia da essere sbiancate.
«Hai sentito cosa ti ho detto?», chiese suo padre.
La mamma mimò un “Vai” con le labbra. Benedetta indugiò con lo sguardo per un secondo sulla pistola, ma alla fine obbedì. Corse in bagno col cuore in gola e si lavò più in fretta possibile, grattando via la sporcizia con talmente tanta foga da non essere più sicura che la schiuma fosse diventata rugginosa per la terra di Milestone Park. Una volta pulita, dovette fare violenza su stessa per non precipitarsi al trotto in soggiorno. Si sedette a tavola, mentre suo padre si allacciava il tovagliolo al collo e la mamma gli serviva una generosa porzione di lasagne sul piatto. Benedetta si morse l’interno guancia per impedirsi di tirare un sospiro di sollievo.
Mangiarono con le chiacchiere della tv in sottofondo. Benedetta non aveva molto appetito, un po’ per via dell’arancina, un po’ per via della nausea, ma anche se dopo le prime due forchettate si sentiva già pienissima, si impose di ripulire il piatto fino in fondo. Non avrebbe lasciato nemmeno una mollica di pane, a costo di ficcarsi la lasagna giù per l’esofago con un mestolo.
«Sai, Paolo. Stamattina sono passata di fronte alla boutique degli Smith... Pare che cerchino una commessa», disse la mamma a un certo punto.
Suo padre si bloccò con la forchetta a mezz’aria.
«E che ci facevi di fronte alla boutique degli Smith?».
«Ero uscita per fare la spesa». La mamma bevve un sorso d’acqua. «Pensavo... che ne diresti se facessi un tentativo? Col colloquio, intendo».
Suo padre posò la posata, si pulì accuratamente la bocca col tovagliolo, poggiò i gomiti sul tavolo e intrecciò le dita sopra il piatto. Benedetta infossò la testa nelle spalle e si riempì le guance con altre tre forchettate di lasagne.
«Non ti bastano i soldi che porto a casa? Credi che non sia capace di garantire un sostentamento adeguato a questa famiglia?».
Gli occhi della mamma divennero tondi come quelli del pesciolino rosso sepolto a Milestone Park.
«No, no, no, certo che no! È solo che... tu hai il tuo lavoro al distretto di polizia, Benedetta va a scuola... sono sempre sola in casa. Sarebbe un modo per cambiare aria e tenermi impegnata, non credi?».
Lui annuì una volta soltanto.
«Vuoi tenerti impegnata?». Si slacciò il tovagliolo dal collo, prese la teglia con il resto delle lasagne, la capovolse facendo cadere il contenuto per terra e poi si alzò. Le lasagne fecero splash sotto la suola di suo padre e una spruzzata di salsa si sparse a pioggia sul pavimento. «Eccoti servita».
Prese la pistola e la assicurò alla fondina, poi come se nulla fosse successo si sdraiò sul divano per il suo abituale sonnellino pomeridiano, chiuse gli occhi e dieci minuti dopo stava già dormendo profondamente con la bocca aperta, tanto è vero che nemmeno il rumore del mestolo di metallo accidentalmente caduto per terra lo svegliò. La brezza primaverile che entrava dalla finestra sopra il divano gli scompigliava i capelli a ritmo con la danza dei fiori sul davanzale. Così addormentato suo padre faceva molta meno paura.
Mentre aiutava la mamma a pulire il pavimento, raccogliendo il sugo rosso con uno strofinaccio, Benedetta dovette ricacciare indietro la bile che minacciava di risalirle la gola: non faceva che ripensare al pesce rosso che, sotto le sue converse, aveva fatto splash esattamente come le lasagne.
«Peccato, erano ottime», disse.
La mamma la ringraziò con un sorriso. Era così concentrata sui piatti da lavare che si era dimenticata di non rimboccarsi le maniche della camicia, e questo sì che era strano perché non l’aveva mai vista con le maniche della camicia rimboccate, diceva che non era elegante per una signora. Ma forse l’eleganza non c’entrava nulla, perché c’erano dei brutti segni violacei sui suoi avambracci. Benedetta fece finta di non vederli.
Concluse le faccende domestiche, andò a rintanarsi nella sua stanza con la scusa dei compiti. Aprì la porta e venne travolta da un allegro cinguettio. Sulla scrivania, infatti, c’era una gabbia. E nella gabbia un canarino.
“Ho pensato che fossi triste per il pesce rosso. Papà”, diceva il biglietto.
Benedetta infilò il dito indice tra le sbarre per accarezzare la testolina gialla dell’uccellino, che però saltellò via verso il punto più lontano della gabbia. Forse se lo stava immaginando, ma le sembrava quasi di vederlo, quel piccolo cuoricino spaventato che vibrava come un diapason sotto le piume.
«Sì, ti capisco, nemmeno tu mi piaci molto».


«Attenta a quelle api, potrebbero pungerti!».
La Signora Bonsignore era seduta sulla stessa panchina di sette giorni prima. Sopra al vestito celestino, portava una cappa azzurra con cappuccio che si chiudeva intorno al collo con un grosso fiocco blu. Assomigliava alla fata madrina di Cenerentola.
«Non sono api, sono vespe», rispose Benedetta. Un nugolo brulicante di vespe si era raccolto sul corpicino del canarino, mentre aveva scavato la buca. «Alle api piace solo il nettare dei fiori».
«Sono pericolose uguali».
«Sì, lo so. Lo dice anche mio padre. Sa, lui è allergico, deve portarsi dietro sempre la penna di adrenalina», rispose Benedetta. «Ma il segreto è rimanere calmi e non farle innervosire».
Agitò la mano un paio di volte e le vespe si sollevarono ronzando. Una di loro si posò sul suo palmo per una passeggiata di ricognizione. Benedetta ne approfittò per mettere il canarino nella buca e ricoprirlo velocemente con la terra. Questa volta aveva usato una piccola pala per scavare e, invece che direttamente sul terriccio, si era inginocchiata su una tovaglietta. Non si era sporcata nemmeno un po’.
«Un altro incidente?», chiese la signora, fissando la buca ormai chiusa.
«Si è preso l’influenza. Avevo messo la gabbia vicino alla finestra. A quanto pare le correnti d’aria non fanno bene ai canarini». Le vespe stavano ancora volando in cerchio sopra il piccolo tumulo di terra, disorientate dall’improvvisa scomparsa dell’uccellino. Benedetta fece volare via quella che stava ancora esplorando indisturbata la sua mano e si mise in piedi. «Vuole compagnia anche oggi?».
La Signora Bonsignore si illuminò e annuì.
Di fronte al 8123 di 18th Avenue si imbatterono in un piccolo campanello di gente, nel quale Benedetta riconobbe suo padre e il suo partner Andrew Stevenson, entrambi in divisa da agenti di polizia. Stavano interrogando un uomo dagli occhi rossi e il viso pallido come il gesso: Benedetta lo conosceva, era il padre di Jimmy Il Buffo. C’era anche un’ambulanza ferma accanto al marciapiede. Tre paramedici uscirono dall’edificio proprio in quel momento, spingendo una barella con sopra un sacco nero molto voluminoso. Vennero letteralmente assaltati dai presenti, tanto che furono costretti a procedere a spintoni per farsi largo. Addirittura a un certo punto si rese necessario l’intervento del padre di Benedetta e di Andrew per rimettere in riga un paio di ragazzotti. Alla fine, quando la barella fu caricata sull’ambulanza e l’ambulanza ripartita, ai curiosi non rimase altro da fare che ronzare in tondo e parlottare tra loro animatamente.
«Allora è vero? Jimmy Il Buffo si è impiccato?», stava domandando un uomo.
«Così sembrerebbe...», rispose un altro.
A Benedetta tornarono in mente le vespe e il canarino.
Dall’altro lato della strada, Johnson della Lavanderia Johnson aveva seguito con lo sguardo l’ambulanza finché non era scomparsa in fondo alla strada. Quando intercettò la Signora Bonsignore in mezzo alla folla, si toccò la tesa del cappello in segno di saluto. Lei rispose sollevando brevemente la mano.
«Johnson deve sentirsi in pace, adesso», disse Benedetta.
«Perché lo pensi?», chiese la signora.
«L’uomo che ha fatto del male a sua figlia non c’è più». Benedetta lanciò un’occhiata a suo padre, che stava ancora raccogliendo le testimonianze dei vicini di Jimmy Il Buffo. «Al suo posto mi sentirei in pace».
La Signora Bonsignore guardava dritto di fronte a sé.
«Può darsi. Ma il tipo di pace di cui parli ha un prezzo molto salato».
Benedetta scalciò un sassolino.
«Nella vita nulla è gratis. E in ogni caso, quel prezzo lo varrebbe fino all’ultimo centesimo».



Tre anni dopo


«Fanno trentaquattro dollari e cinquantasei centesimi».
Benedetta porse i soldi a Mary Johnson, figlia di Johnson della Lavanderia Johnson, che le consegnò la busta con gli indumenti di sua madre. Nel farlo le rivolse un accenno di sorriso impacciato e le cicatrici che partivano dagli angoli della bocca si tesero facendola assomigliare a un Muppet. Smise di sorridere bruscamente, come se all’improvviso le fosse tornato in mente un pensiero triste, ma le cicatrici continuarono a ridere al posto suo.
«Non mi dire... Quanto è durato? Tre giorni?».
La Signora Bonsignore era uscita dal retrobottega insieme a Johnson della Lavanderia Johnson in persona. Indossava un vestito dalla fantasia simil-damascata che sembrava essere stato confezionato usando le tende pacchiane di una casa piccolo-borghese. Stava trasportando un voluminoso pacco e fissando insistentemente le mani di Benedetta. Che se le guardò a sua volta e capì.
«No, il criceto sta bene. Per ora, almeno. Questo...», sollevò il pugno con le nocche incrostate di rosso, mentre uscivano dalla lavanderia fianco a fianco, dopo aver salutato i proprietari. «...è sangue, non terra. Me lo sono fatta prendendo a pugni un idiota del mio corso di letteratura che mi ha dato della lesbica».
La Signora Bonsignore fece vagare lo sguardo sui suoi indumenti: T-shirt nera, pantaloni mimetici e anfibi. Quando suo padre la guardava in quel modo, spesso le diceva anche che, se continuava a vestirsi da maschio, non doveva meravigliarsi se poi la prendevano per lesbica.
«Ben gli sta, chi giudica un libro dalla copertina si merita quello stesso libro sulla testa», disse invece la signora.
A Benedetta scappò da ridere.
«In realtà non me ne sarebbe fregato un caz... cioè, nulla, se non fosse che lui lo considerava un insulto». Si fermarono davanti all’auto di suo padre. «Posso darle un passaggio? Quel pacco sembra pesante».
La Signora Bonsignore scosse la testa, sorridendo.
«No, fare due passi farà bene alla circolazione delle mie povere gambe. E poi il nostro incontro fortuito mi ha già risparmiato un po’ di strada. Volevo parlarti».
Benedetta aggrottò la fronte.
«Di cosa?».
«Vorrei offrirti un lavoro. Il ragazzo delle consegne... Be’, diciamo che sono stata costretta a licenziarlo».
Benedetta inarcò un sopracciglio, gli occhi fissi sul pacco che lei stringeva al petto.
«Per questo oggi è andata lei in lavanderia?».
La Signora Bonsignore le diede un buffetto sulla guancia con un’espressione bonaria sul viso.
«Non devi rispondermi subito. Immagino che tu abbia bisogno di un po’ di tempo per riflettere. So bene come la pensi sulle offerte piovute dal cielo».
Lei annuì, grattandosi la nuca.
«Più che altro... perché proprio me?».
«Perché vedo del potenziale in te».
Rimuginare sull’offerta della Signora Bonsignore durante tutto il percorso in auto verso il Saint Vincent Catholic Medical Centers, e sulle scale che portavano al reparto, e lungo il corridoio fino alla stanza in cui sua madre era ricoverata, la aiutò a ignorare il tanfo di disinfettante e malattia che trasudava dalle pareti e le si appiccicava addosso. Quell’odore pizzicava come una pagliuzza nelle narici di qualcuno allergico alla paglia.
«Ti avevo detto di aspettarmi!», la rimproverò chiudendosi la porta alle spalle.
Sua madre, che stava riempendo un borsone con le sue cose, si voltò a guardarla e le sorrise raggiante. L’ematoma intorno all’occhio si era ormai trasformato in un’ombra giallastra. Il naso era ancora un po’ viola e gonfio, i medici avevano detto che sarebbe rimasto storto per sempre. “Dirò di essermelo rotto in un incontro clandestino di boxe, come nei film di Guy Ritchie”, ci aveva scherzato su sua madre, ma Benedetta non aveva riso.
«Volevo portarmi avanti, non ne posso più di questa stanza di ospedale».
Benedetta l’abbracciò di slancio, nonostante si fossero viste appena il giorno prima, ma sentendola gemere per il dolore la lasciò andare immediatamente.
«Scusa».
Lei agitò la mano, come per scacciare una mosca.
«Oh, sciocchezze. Un bell’abbraccio non ha mai fatto male a nessuno. Piuttosto... mi hai portato i vestiti che ti avevo chiesto?». Benedetta poggiò la busta della lavanderia sul letto e lei ci frugò subito dentro come una bambina impaziente la mattina di Natale. Tirò fuori la sua blusa preferita, quella bianca avorio col colletto di pizzo, ci affondò dentro il naso e inspirò a pieni polmoni. «Adoro il profumo del bucato fresco!». Fece per sfilarsi la camicia da notte, ma a metà del movimento si interruppe storcendo il viso in una smorfia. Le rivolse un’occhiata mortificata. «Ti dispiacerebbe...».
«Ci penso io».
La stoffa ingiallita della camicia da notte venne via come una vecchia pelle, svelandone una più delicata, a macchie altrettanto giallognole. Sua madre le dava le spalle, leggermente ingobbita per il freddo come un uccellino senza piume. Una volta, a Milestone Park, lei e il suo amico Billy Joe avevano trovato un nido caduto dall’albero. Dentro c’erano ancora i pulcini: esserini raggrinziti, senza piume, dalla pelle sottile, rosa, trasparente e tesa sulle ossicina sporgenti. Billy Joe aveva tentato di salvarli, ma lei aveva capito subito che erano spacciati.
Benedetta afferrò la blusa per non cedere all’impulso di fare a pezzi la stanza e aiutò sua madre a indossarla un braccio alla volta. Ad ogni bottone che si intrufolava dentro l’asola, vedeva le sue guance riacquistare colore. Quando fu vestita di tutto punto, gonna al ginocchio e scarpe di vernice eleganti, Benedetta la fece sedere sul letto in modo da spazzolarle i capelli.
«Ti ricordi quando eri bambina e lo facevo io a te?».
«Vagamente».
«Avevi dei capelli talmente folti! È un peccato che tu abbia deciso di tagliarli così corti».
«Mi davano fastidio, mi finivano sempre in faccia».
Benedetta lanciò la spazzola nella borsa e le intrecciò i capelli in una crocchia che legò alla base della nuca col fermacapelli di ossidiana della nonna. Sua madre si mise in piedi, si lisciò la blusa con le mani e sospirò soddisfatta.
«Così va molto meglio. Non sopportavo l’idea di uscire da qui in disordine. E poi tuo padre ci tiene così tanto che non vada in giro sciatta...».
Solitamente il tacito accordo che avevano stipulato imponeva di ignorare il grosso elefante che sedeva tra loro sul divano, in salotto. C’erano delle volte, però, in cui il grosso elefante non ne voleva sapere di starsene buono sul fottuto divano, scalciava, barriva, la spintonava di lato con quel suo pachidermico culone. C’erano delle volte in cui continuare a fare finta che non ci fosse diventava particolarmente difficile.
«Mamma, quanto tempo ancora pensi di sopportare tutto questo?».
Lei non chiese cosa intendesse, non cadde dalle nuvole, non fece la finta svampita come il suo solito.
E questa era già una consolazione.
«Tesoro...».
«Sai, ci ho pensato a lungo», la interruppe. «Potremmo liberarcene. Se la tua preoccupazione sono i soldi... ci inventeremo qualcosa. Ti aiuterò io. Prima in lavanderia ho incontrato la Signora Bonsignore. Mi ha offerto un lavoro nel suo panificio».
La mamma lanciò un’occhiata fugace alla porta per sincerarsi che fosse ancora chiusa, poi la afferrò per le spalle.
«Ne abbiamo già parlato tante volte. Non posso denunciarlo alla polizia. È lui la polizia!».
Benedetta strinse i pugni e prese un respiro profondo lungo un secolo. Improvvisamente era di nuovo sul trampolino più alto della piscina in cui aveva fatto il corso di nuoto tanti anni fa, voleva scoprire cosa si provava a saltare, nonostante fosse vietato per i bambini della sua età, nonostante Billy Joe le avesse detto che era pazza. Oltre le dita dei piedi, che sporgevano dall’orlo del trampolino, il quadrato azzurro era lontano quanto il fondo di un pozzo senza fondo.
«Con liberarcene non intendevo denunciarlo».
Sua madre corrugò la fronte, ma la comprensione le illuminò gli occhi quasi subito. Si allontanò di un passo da lei e si coprì la bocca, scuotendo la testa.
«Non sai di cosa stai parlando», bisbigliò la mamma.
Nell’istante immediatamente successivo al salto dal trampolino, l’euforia le aveva infiammato il cervello. Poi, però, Benedetta aveva percepito il vuoto sotto i piedi, la merenda aveva fatto un triplo salto mortale dentro al suo stomaco e a quel punto aveva capito: stava precipitando. Mentre sotto di lei la vasca diventava sempre più grande e minacciosa a una velocità nauseante, un unico pensiero coerente fischiava nelle orecchie insieme all’aria: “Perché l’ho fatto? Ha ragione Billy Joe, sono pazza”. Ma l’impatto con l’acqua era inevitabile, ormai. Non poteva tornare indietro al sicuro sul trampolino, si era sbilanciata volontariamente e doveva pagarne le conseguenze. Così si era rassegnata a cadere e aveva rotto l’acqua con un tonfo sordo.
«Lo so fin troppo bene, invece. Sono tre anni che ci rifletto su. Non vedo altra soluzione».
«Benedetta, ma ti ascolti? Stai parlando di... di...».
«Di salvarti la vita!». I contorni del viso di sua madre erano diventati tremolanti come la superficie della piscina vista dal fondo. La risalita era stata difficile, l’acqua si era avviluppata intorno a lei e la tratteneva giù come i tentacoli di una piovra. Ogni bracciata sembrava inutile. «É sempre peggio. Oggi in ospedale, e domani? Non puoi continuare a fargliela passare liscia, non puoi continuare a nasconderti dietro alla bugia che in fondo ci vuole bene. Perché lo proteggi?».
Inaspettatamente sua madre sorrise con aria triste.
«Non è lui che sto proteggendo, Benedetta. Sai quante volte ho fantasticato su Andrew Stevenson che bussa alla nostra porta per informarci che Paolo è rimasto coinvolto in una sparatoria? Pensi che non abbia mai pensato a... a quella cosa, in tutti questi anni? Quando lascia la pistola incustodita sul tavolo... Lo fa per intimidirmi, certo, ma anche per dimostrarmi quanto sono debole, che non avrei mai il fegato di afferrarla e svuotargli il caricatore nel petto. Eppure nella mia mente l’ho fatto almeno un centinaio di volte. Lui non sa... lui non sa che sarei davvero capace di farlo...». Si coprì il volto con entrambe le mani, singhiozzando. «...se non fosse per te».
Quando finalmente Benedetta si era accasciata sana e salva sul bordo piscina, tossendo e ansimando, un altro corpo era uscito dall’acqua. Billy Joe le aveva sorriso, bagnato fradicio. Era stato pazzo quanto lei da saltare dal trampolino.
«Credevo che... di essere solo io a pensare certe cose... avevo paura a parlartene, avevo paura che non avresti capito».
«No, tesoro, no», disse sua madre con le guance rigate dalle lacrime. «Capisco perfettamente cosa provi. Non sei tu, non è colpa tua. Tutto quello che hai passato... è mia, la responsabilità. Pensavo di riuscire a tenerti al sicuro. Pensavo di riuscire a evitare che tutto questo schifo ti contagiasse».
«Costringendomi a guardare quel pezzo di merda che ti fa del male?».
«Sempre meglio che vederti finire in prigione. O in un orfanotrofio perché io sono finita in prigione!».
Questa volta fu Benedetta ad afferrarla per le spalle. Spalle di grissini, che scricchiolavano sotto la sua presa. Le cicatrici sorridenti di Mary Johnson danzavano davanti ai suoi occhi.
«Mamma, perfino la cazzo di prigione è meglio di questa vita! E poi non deve finire per forza male, possiamo farlo sembrare un incidente. Ti prego, prometti almeno che ci penserai».
Lei tirò su col naso e si limitò ad annuire.
Il viaggio di ritorno in auto fu silenzioso. A casa, suo padre le accolse con una torta al cioccolato e un mucchio di regali. Strinse la mamma tra le braccia, piangendo come un coccodrillo, dicendo che era dispiaciuto e che non sarebbe successo mai più.
Mantenne la parola solo per qualche settimana.
Benedetta stava mordicchiando il tappo della penna, arrovellandosi il cervello sui compiti di algebra, quando voltò distrattamente lo sguardo verso la gabbietta posta accanto al termosifone e si accorse che il criceto non si muoveva più. Portò il viso alla stessa altezza delle sbarre e provò a pungolare con la penna l’animaletto, che rimase immobile, sdraiato sulla schiena, zampe all’aria.
«Sì, sei proprio schiattato».
Si lasciò andare contro lo schienale della sedia, continuando a giocherellare con la penna. Fissava soprappensiero il libriccino “Il mio amico criceto”, che stava in cima a una pila di altri libri su canarini, vespe, tartarughe e pesci sulla mensola sopra la scrivania. Fu in quel momento che udì i primi lamenti, subito seguiti dalla voce alterata di suo padre che inveiva contro la mamma. Il tanfo di ospedale si levò dalla sua mente come un banco di nebbia, invadendole le narici, e la penna le si spezzò tra le dita. Un attimo dopo stava correndo verso la camera da letto dei suoi genitori.
Trovò la mamma rannicchiata in posizione fetale sul pavimento e suo padre che la prendeva a calci nello stomaco. Il sangue di Benedetta si accese come una miccia che inevitabilmente detonò l’esplosione. Si lanciò contro suo padre a tutta velocità, ma lui si voltò appena in tempo e vedendosela piombare addosso come una furia, afferrò l’abat-jour sul comodino e la usò a mo’ di racchetta per colpirla al volo.
Benedetta rovinò a terra con la faccia in fiamme e qualcosa di viscido che le colava dalla tempia lungo la guancia. Si toccò il viso e si ritrovò le dita sporche di rosso. Il dolore le rimbombava nella testa come il gong di un’enorme campana, lasciandola intontita. La mamma piangeva, gemeva il suo nome e strisciava verso di lei. Suo padre, invece, lasciò cadere l’abatjour per terra come se scostasse e indietreggiò fin quando le sue ginocchia non incontrarono il bordo del letto. Si mise seduto sul materasso, fissando Benedetta con occhi sgranati e il viso terreo.
«Mi spiace... io non... ho reagito d’istinto... perdonami, tesoro, scusami...».
«Vai via», disse lei soltanto. Stava lottando contro l’assalto dei conati di vomito. «Vai via».
Lui obbedì come una marionetta.
Mezz’ora più tardi, la mamma le stava medicando i tagli sul viso. Anche lei aveva bisogno di medicazioni urgenti, ma aveva insistito per occuparsi prima di Benedetta.
«Ti sei accorta che il criceto è morto?», le chiese indicando la gabbia vicina al termosifone.
«Sì», rispose Benedetta. «I criceti non sopportano le fonti di calore dirette».
Le ferite friggevano a contatto col batuffolo di ovatta e l’odore di disinfettante le dava la nausea.
«Gli incidenti capitano, a volte», disse la mamma.
«A volte più spesso di quanto si penserebbe».
Sua madre annuì. Gli occhi cerchiati di rosso per il pianto.
«Non solo ai criceti. Anche alle persone».
Le stava rivolgendo lo stesso sorriso di Billy Joe, quando si era sdraiato bagnato fradicio sul bordo piscina, e Benedetta non ci mise molto a capire.
La mamma si era lanciata dal trampolino insieme a lei.



Quattro mesi dopo


Capì che suo padre si era addormentato quando cominciò a respirare profondamente con la bocca aperta. Benedetta fece un cenno alla mamma che smise di fingere di sparecchiare la tavola dai piatti del pranzo e tirò fuori dalla tasca del grembiule le fascette di plastica autobloccanti. All’inizio avevano pensato di usare le manette di suo padre, poi però la mamma aveva trovato le fascette nel ripostiglio ed erano convenute subito che sarebbero state più semplici da usare. Mentre Benedetta gli legava prima i polsi e poi le caviglie cercando di evitare movimenti bruschi, sua madre per precauzione fece sparire il telefono, il cercapersone, il cellulare, la pistola e la penna di adrenalina. Dopo di che si inginocchiarono entrambe di fronte al divano e si scambiarono un’occhiata.
«Ora o mai più, mamma», sussurrò Benedetta. «Se hai cambiato idea, questa è la tua ultima occasione per tirarti indietro».
Aveva un velo di sudore sulla fronte e muoveva gli occhi a scatti come un cavallo imbizzarrito, ma scosse la testa.
«Non ho cambiato idea», rispose. «Tu, invece?».
Benedetta si concesse un istante per guardare il volto addormentato di suo padre e si ritrovò a pensare al giorno in cui lui era tornato a casa con una vaschetta. “Ti piace?”, le aveva chiesto mostrandole la tartarughina dentro la vasca e lei non aveva saputo far altro che stringersi nelle spalle. Anche adesso le veniva solo da stringersi nelle spalle.
«Nemmeno io».
Fissò il barattolo che teneva in mano, aveva fatto dei buchini al tappo per far passare l’aria: dentro, tre vespe si contendevano una briciola di biscotto alla marmellata di fragole.
«Dove?», chiese sua madre.
«Sulla mano».
Mentre la mamma spalmava una goccia di marmellata di fragole sul palmo di suo padre, Benedetta agitò il barattolo come se stesse shakerando un cocktail, facendo incazzare terribilmente le vespe. Poi svitò il tappo senza toglierlo, capovolse il barattolo e lo poggiò sulla mano impiastricciata di marmellata. Solo a quel punto sfilò via il tappo da sotto il barattolo. Malauguratamente, nel corso dell’operazione, una vespa riuscì a sgusciare fuori e la punse sull’avambraccio.
«Ahia!», gemette piano, proprio mentre le altre due vespe pungevano ripetutamente il palmo di suo padre. La mamma le rivolse un’occhiata preoccupata. «Non è nulla», la rassicurò.
Per i primi quindici minuti non accadde nulla.
Suo padre continuò a dormire tranquillamente fino al primo attacco di tosse, che lo svegliò di soprassalto. Benedetta non perse tempo e gli tappò la bocca con del nastro da imballaggio prima che potesse rendersi conto di qualcosa. Nel momento in cui mise a fuoco lei e la mamma, sgranò gli occhi... per quanto possibile, dato che le palpebre e gli zigomi stavano rapidamente lievitando come una pagnotta nel forno inglobando i bulbi oculari sotto uno strato di pelle gonfia e rossa. Quando si accorse di essere legato mani e piedi, prese ad agitarsi nel tentativo di liberarsi. Benedetta lo tenne giù per le spalle.
«Tra poco respirare diventerà difficile e il nastro adesivo non ti renderà la cosa semplice». Lui mugugnò qualcosa di incomprensibile e Benedetta abbozzò un sorriso. «Spero che tu non stia sprecando le tue ultime energie per tentare di chiedermi “Perché?” e “Come?”. Il perché lo sai benissimo. Quanto al come... per prendersi cura di qualcuno, bisogna sapere cosa gli fa male».
La mamma fissava la scena impietrita.
«Benedetta... do-dobbiamo attenerci al piano».
Aveva ragione.
Lanciò un’ultima occhiata in direzione di suo padre, che si dimenava come un verme all’amo: i capelli, fradici di sudore, si erano attaccati al cranio; il volto era viola e gonfio come una melanzana; gli occhi si erano ridotti a due fessure e le labbra trasformate in due canotti; dal naso colava un fiume di muco e il petto si alzava e abbassava sempre più velocemente. Questa è l’ultima volta che lo vedo vivo, si disse. Ancora una volta non trovò niente di meglio da fare che stringersi nelle spalle.
Benedetta e sua madre trascorsero l’ora successiva fuori casa, in giro, cercando di farsi vedere da quanta più gente possibile. Comprarono dei bomboloni alla crema dalla Signora Bonsignore, presero un gelato nel chioschetto all’angolo con la 75th Strada e fecero una passeggiata veloce lungo una 18th Avenue agghindata, gironzolando tra le bancherelle della Festa di Santa Rosalia. Infine tornarono indietro fino a Milestone Park, dove sostarono per una mezzoretta sedute su una panchina. Era domenica pomeriggio, il parco brulicava di bambini urlanti e genitori trafelati.
La mamma si stava torturando le mani, aveva un aspetto insolitamente stropicciato. Si era dimenticata di abbottonare gli ultimi due bottoni della camicetta, aveva intrecciato i capelli in una crocchia frettolosa che pendeva moscia e storta dal fermacapelli e aveva rinunciato a truccarsi prima di uscire perché le mani le tremavano troppo.
«Il tuo avambraccio è gonfiato».
«Fa anche un prurito cane», disse Benedetta.
Rimasero in silenzio per un po’.
«Pensi...», balbettò sua madre. «...pensi che...».
«Sì», disse Benedetta. «Direi che ormai possiamo tornare a casa».
Un altro istante di silenzio.
«Altri cinque minuti?».
Benedetta la prese per mano. Aveva le dita gelate, nonostante l’aria calda di fine agosto.
«Altri cinque minuti».
Così cinque minuti dopo si erano incamminate verso casa. La mamma riuscì a centrare la toppa con la chiave dopo un paio di tentativi falliti che avevano lasciato dei piccoli graffietti sulla vernice della porta. Fece fare appena tre giri alla serratura, per poi bloccarsi con la mano sulla maniglia. Fissava il legno scuro della porta d’ingresso con quello che Benedetta chiamava lo sguardo del pesce rosso e respirava affannosamente.
«E se mi viene da vomitare?».
«Corri in bagno».
Lei annuì deglutendo a vuoto e per fortuna, una volta entrate, non vomitò.
Suo padre giaceva prono sul pavimento, probabilmente era caduto dal divano tentando di rompere le fascette. La mamma rimase impalata al centro della stanza stritolando spasmodicamente la cinghia della borsa, Benedetta invece si inginocchiò accanto al corpo e gli tastò il collo con due dita.
«Non c’è battito».
Fece per afferrarlo per un braccio, ma il singulto strozzato di sua madre la fermò.
«Non dovresti toccarlo».
«Ricordi? Siamo due persone spaventate che hanno appena trovato un loro caro per terra, immobile. Deve almeno sembrare che abbiamo provato a soccorrerlo, no?».
«Sì, hai ragione».
Voltò il cadavere in posizione supina e gli strappò il nastro adesivo dalla bocca. Le fascette di plastica non avevano lasciato segni intorno ai polsi e alle caviglie, constatò mentre le recideva con un coltellino, agganciarle sopra i polsini della camicia e il collo dei calzini era stata una buona idea.
«É quasi irriconoscibile», bisbigliò la mamma.
Per la terza volta nello stesso giorno, Benedetta si fermò a guardare il volto cianotico e deforme di suo padre. Pensò al criceto morto, che era rimasto dentro la gabbia per qualche ora di troppo e che, quando finalmente aveva trovato il tempo per seppellirlo, Benedetta aveva scoperto essere gonfiato come un palloncino. Aveva infilato il corpicino in un sacchetto nero, buttato la gabbietta nel ripostiglio e... voilà! del criceto non era rimasta alcuna traccia, se non una leggera puzza di putrido che era stata subito neutralizzata con qualche spruzzo di deodorante per ambienti alla lavanda. Presto anche suo padre sarebbe finito in un sacco nero. Presto il ricordo di lui sarebbe evaporato velocemente come le goccioline nebulizzate del deodorante.
Benedetta scattò in piedi, aprì la finestra sopra il divano e sparse una manciata di biscotti alla marmellata sul pavimento. I paramedici o chi per loro sarebbero giunti alla conclusione che le vespe erano entrate dalla finestra attratte dai fiori sul davanzale, che avevano virato sui biscotti alla marmellata e che avevano punto suo padre quando aveva tentato di scacciarle. Suo padre, che era solo in casa, non aveva trovato la penna di adrenalina ed era morto per shock anafilattico.
«Chiama il 911», disse alla mamma.
Ma proprio in quel momento qualcuno fece squillare il campanello di casa. Benedetta imprecò e il viso di sua madre divenne immediatamente livido.
«Chi può essere?», sussurrò.
«Non ha importanza. Chiunque sia, continuiamo a seguire il piano: abbiamo appena trovato papà, siamo sconvolte, stavamo per chiamare il 911».
Per fortuna la mamma non aveva bisogno di fingere: spalancò la porta d’ingresso che era già annegata in una valle di lacrime e si buttò addosso semisvenuta a un esterrefatto Andrew Stevenson in abiti civili. Il collega di lavoro di suo padre stava tentando di spiegare che era passato per invitare Paolo a una partita di bowling, quando si accorse di Benedetta rannicchiata sulla poltrona con lo sguardo perso nel vuoto e del cadavere sul pavimento ai piedi del divano.
«Cristo santo, che diavolo... Cinzia, chiama il 911!».
Si fiondò sul corpo, si rese conto che non aveva battito e tentò subito di rianimarlo con la rianimazione cardiopolmonare.
«É morto, non c’è niente da fare», disse Benedetta. «Eravamo uscite per una passeggiata. Lo abbiamo trovato così».
Lui però non le stava prestando ascolto.
«Cinzia, cazzo, quanto ci vuole per chiamare il 911? Il telefono non era vicino alla televisione?». Poi si voltò verso Benedetta. «Da quanto siete tornate?».
Lei portò le ginocchia al petto e le cinse con le braccia.
«Cinque minuti, forse. Credo sia stato punto da una vespa». Indicò la mano gonfia e nera. «Vedi?».
«Lui era allergico! Perché non si è iniettato l’adrenalina? La portava sempre con sé!».
«Forse l’ha persa».
Andrew si voltò ancora una volta verso di lei e si fermò a fissarla a lungo, strizzando gli occhi come un miope che sta cercando di mettere a fuoco qualcosa.
«Che è successo al tuo braccio? Perché è gonfio?».
Benedetta resistette per un pelo all’impulso di sussultare.
«Io... la vespa... era ancora addosso a papà, mi ha punto mentre cercavo di...».
«Il braccio non dovrebbe essere già così gonfio, hai detto che siete arrivate cinque...». Si bloccò a metà della frase con la bocca spalancata. Annaspò un paio di volte prima di balbettare: «Oh mio dio... siete state voi?!».
«NO!».
Andrew si mise in piedi, i suoi occhi sembravano sul punto di schizzare fuori dalle orbite.
«Per questo motivo l’adrenalina è sparita, gliela avete sottratta voi!».
Il cuore di Benedetta stava per sfondarle la casa toracica, ma invece fu il cranio di Andrew a venire sfondato.
Dalla mazza di baseball di suo padre.
Andrew Stevenson si afflosciò a terra come una marionetta senza fili. Dietro di lui la mamma aveva le dita serrate intorno al manico della mazza imbrattata di sangue, e ansimava. Si accanì sul corpo ai suoi piedi, fin quando una spruzzata di rosso non la colpì sul viso. La stanza cominciò a girare intorno a Benedetta, che scivolò dalla poltrona con la sensazione di essere diventata di gelatina. Abbassò lo sguardo e si ritrovò carponi sul pavimento, con le mani immerse in una pozzanghera di sangue. Proprio accanto alla testa di Andrew, che aveva lo stesso aspetto di un’anguria aperta in due.
«Desideravo farlo da quella volta che gli ho chiesto aiuto per denunciare Paolo e lui mi ha risposto “É solo stressato, tu cerca di non farlo arrabbiare”», disse la mamma con espressione spiritata.
All’improvviso nello stomaco di Benedetta il bombolone alla crema e il gelato cominciarono a darsele di santa ragione: ebbe appena il tempo di correre in bagno e di ficcare la testa nel cesso prima di vomitare anche l’anima. Poco dopo, una mano dalle unghie laccate di rosso, anche se forse non era smalto, le stava porgendo un asciugamano.
«Mi sembrava strano che stessi gestendo la situazione con tanta freddezza».
«Non me ne frega un cazzo di papà, ma Andrew...».
«Lo conoscevo, non ce l’avrebbe fatta passare liscia», la interruppe la mamma. «Non potevo permettere che mia figlia finisse in prigione».
Stava di nuovo sorridendo come Billy Joe sul bordo piscina. Benedetta si pulì il rivolo di vomito dalla bocca con l’asciugamano.
«Già, peccato che adesso il piano sia andato completamente a puttane. Siamo finite in un mare di merda con solo due cadaveri a farci da salvagente».
Fu come vedere Hulk che si ritrasforma in Bruce Banner: man mano che i suoi occhi di accendevano di comprensione e che il sorriso di Billy Joe le moriva sulle labbra, la mamma pareva diventare sempre più piccola, accartocciandosi su se stessa. Scoppiò in lacrime, disperata come una bambina alla quale hanno rotto il giocattolo.
«Oh dio, cosa ho fatto! Ho rovinato tutto!».
Si lasciò abbracciare forte da Benedetta. Sentirla così fragile tra le braccia, insieme al fatto di non avere ormai nient’altro da rimettere nello stomaco, la aiutò a tranquillizzare il battito cardiaco e a riordinare le idee nel cervello.
«Non ti preoccupare, mamma. Credo di sapere come tirarci fuori da questo casino».
Disse a sua madre di rimane in casa e di non aprire a nessuno che non fosse lei, poi volò giù per le scale del condominio e attraversò di corsa la strada. Calogero Bonsignore era dove era sempre, nonostante fosse ormai calata la sera: seduto di fronte al suo panificio, intento a leggere una qualche rivista di economia domestica. Benedetta gli si piazzò davanti a muso duro e gambe divaricate.
«Ho bisogno del suo aiuto».
Il Signor Bonsignore si leccò l’indice e voltò la pagina. Non fece nemmeno lo sforzo di alzare lo sguardo.
«La prego», insistette lei. «Posso pagare. Mia madre mi ha intestato un fondo per il college. Non è molto ma... la prego».
Altra pagina voltata. Benedetta avrebbe voluto strappargliela dalle mani, la fottuta rivista, e farla in mille pezzi.
«Senta, ho capito tanto tempo fa quello che ha fatto per Johnson della Lavanderia Johnson, è inutile che fa il finto tonto con me».
Il Signor Bonsignore ruttò. Benedetta pestò i piedi per terra.
«Ma insomma! Ho i soldi. Qual è il problema? Perché si comporta così?!».
«Perché è sordo come una campana». La Signora Bonsignore era comparsa sulla soglia del panificio, aveva le mani incipriate di farina e profumava di pane caldo. «Entra», le disse semplicemente prima che potesse muovere qualche obbiezione.
Il tono della voce era lo stesso di suo padre quando dava ordini, così Benedetta intuì che era meglio seguirla senza fiatare. La signora la condusse fino al retrobottega, dove affondò le braccia fino ai gomiti in una vasca colma di impasto filante e dal profumo acidulo. Nella sua mente, nel frattempo, Benedetta stava mettendo insieme le tessere del puzzle “Angela Bonsignore”. Un po’ come quando a undici anni aveva finalmente capito come facevano i bambini a finire dentro alle pance delle mamme. Qualcosa l’aveva intuita da sola, qualche altra informazione l’aveva letta su un libro, certe dicerie invece le aveva origliate dalle conversazioni degli adulti. Aveva avuto la verità sempre sotto gli occhi, solo che non aveva saputo unire i pezzi.
«Quella è terra o sangue di idiota?», chiese poi la signora.
Benedetta guardò in giù. Per la fretta di correre verso il Panino Rustico, si era scordata di lavare le mani.
«Sangue di idiota».
Il sedere della Signora Bonsignore era enorme e si scuoteva a ritmo delle sue spinte nell’impasto. Quella sera la signora indossava una camicia bianca con collo alto e una lunga gonna scura. Dal collo le pendeva un cameo. Intorno ai fianchi aveva legato un grembiule a quadri gialli e blu con merletto giallo.
«E suppongo ce ne sia parecchio a casa tua o non saresti venuta qui a importunare mio fratello».
«Davvero è sordo come una campana?».
«Davvero pensavi fosse stato lui ad aver aiutato Johnson?».
Benedetta si morse il labbro di fronte al sorriso incoraggiante della Signora Bonsignore e dopo qualche attimo di titubanza vuotò il sacco. Durante l’intero resoconto, la signora non fece una piega, continuò a impastare serenamente, come se stesse ascoltando una favola divertente.
«É un aiuto costoso, quello che chiedi», disse la signora a racconto concluso. «Preparare un soufflé da zero è difficile. Cercare di rimettere in sesto il soufflé ammosciato di qualcun altro è quasi impossibile».
«Il fondo per il college...».
«Non è sufficiente».
Le gambe di Benedetta minacciarono di cedere.
«Ma... io non ho nient’altro da offrirle».
«Nulla è gratis e nessuno fa niente per niente, me lo hai detto tu, ricordi?». La Signora Bonsignore chiuse lo sportello del forno nel quale aveva messo venti piccole pagnotte rotonde a cuocere e si pulì le mani con uno strofinaccio, fissando Benedetta dritto negli occhi. «Ma forse anche questa volta possiamo trovare un accordo».
La speranza germogliò nel suo cuore come una piccola gemma.
«Cioè?».
«Vieni a lavorare per me».
Benedetta aggrottò la fronte.
«Scusi, non capisco. Lei mi aiuta a sistemare ben due soufflé e in più mi offre un lavoro?».
La signora le scompigliò i capelli corti, come avrebbe fatto una dolce nonnina con la nipote.
«Sarai la mia ragazza per le consegne per il turno pomeridiano e verrai pagata come un normalissimo ragazzo delle consegne. Però farai anche un altro tipo di lavoro per me. E questo lavoro lo farai gratis, fin quando non avrai saldato il tuo debito. A quel punto sarai libera di andartene o di rimanere, ti do la mia parola. Anche se spero che alla fine deciderai di restare».
«E se accetto, mi aiuterà?».
«Non hai ancora chiesto di che lavoro si tratta».
«No, infatti, non l’ho chiesto».
Angela Bonsignore la studiò in silenzio per un po’. Aveva un sorriso compiaciuto, come una pasticcera che assaggia la torta appena sfornata e sì, aveva ragione, il cioccolato fondente si abbina alla perfezione con i lamponi.
«Sì, ti aiuterò», disse finalmente. «È tutto? Sei sicura di non avere altre domande?».
Benedetta non ebbe bisogno di pensarci su.
«Solo una. Ed è la stessa di qualche settimana fa. Perché proprio me?».
La prese sotto braccio e l’accompagnò all’uscita, mentre l’espressione sul suo viso diceva “Non è ovvio?”.
«Perché tu, mia cara Benedetta, hai un talento naturale per far morire le cose».
Era passata la mezzanotte quando gli uomini della Signora Bonsignore se ne andarono, lasciando la casa immacolata. La mamma stava già russando nel letto di Benedetta, aveva preso le sue gocce per dormire. Anche lei ne avrebbe avuto bisogno, sapeva già che non avrebbe chiuso occhio, ma l’idea di un sonno profondo durante il quale chiunque avrebbe potuto farle la qualsiasi senza che lei si svegliasse la faceva sudare freddo. Preferiva l’insonnia, tante grazie.
Andò in bagno per darsi una ripulita, con tutto quello che era successo non era nemmeno ancora riuscita a lavarsi le mani. Il sangue rappreso era rosso come la ruggine, annidato sotto le unghie assomigliava molto alla terra di Milestone Park.
Si leccò un dito.
Aveva perfino lo stesso sapore.



Una settima più tardi


«Ancora nessun passo avanti nelle indagini sulla morte di Andrew Stevenson, l’agente di polizia il cui cadavere era stato rinvenuto lunedì scorso in un palazzo abbandonato di Brooklyn, noto alle forze dell’ordine per essere il ritrovo abituale di tossicodipendenti. Non è chiaro ancora quali motivazioni abbiano spinto l’agente di polizia a introdursi nell’edificio. “Stiamo vagliando diverse ipotesi”, ha dichiarato il Detective...».

Lo schermo della tv si oscurò facendo swip. La cassiera del minimarket buttò il telecomando in un cestello colmo di cianfrusaglie e sbuffò.
«Uccelli del malaugurio, solo di disgrazie sapete parlare!».
Benedetta stava sistemando la spesa sul nastro trasportatore della cassa. Davanti a lei due signore chiocciavano animatamente.
«Eh, Carlie, hai ragione! Se non sono omicidi, sono le corna che le star di Hollywood si fanno a vicenda», disse quella col foulard a pois.
«Veramente non bisogna andare tanto lontano per sentir parlare di gente che fa le corna», intervenne quella con i riccioli grigio-violetti. Abbassò la voce con aria da cospiratrice, costringendo la cassiera e la sua amica a chinarsi verso di lei per ascoltare. «Avete saputo di Paolo Amato? Pare sia fuggito con l’amante. Povera Cinzia!».
«Hanno una figlia, vero?», domandò la cassiera.
«Sì», rispose Riccioli Grigio-Violetti. «Dovrebbe avere l’età di mia nipote. Va be’ che anche lei... corre voce sia una di quelle che...», si toccò l’orecchio con l’indice, «...capito, no?»
«Com’è che si chiama?».
«Mi chiamo Benedetta».
Le tre donne divennero tre statue di sale. Benedetta spinse il carello un po’ più avanti.
«Un’amica una volta mi ha detto che il gossip è divertente solo sui rotocalchi. A guardare voi sembrerebbe il contrario, ma almeno a spettegolare di Tom Cruise e Nicole Kidman non si rischiano figure di merda». Fulminò la cassiera con un’occhiataccia. «Posso pagare la mia spesa, adesso?».
Dieci minuti dopo stava uscendo dal minimarket con le buste della spesa e un sorrisone che le andava da un orecchio all’altro. Dal fondo del parcheggio Foulard A Pois e Riccioli Grigi-Violetti la stavano fissando come si fissa un piantagrane, ma lei le ignorò. Aveva un appuntamento.
Angela Bonsignore la aspettava seduta sulla solita panchina di Milestone Park. Quel pomeriggio, con la mantellina rossa sulle spalle, assomigliava alla versione anziana di Cappuccetto Rosso. Stava sfogliando una rivista scandalistica e teneva in grembo una biscottiera di latta in stile vintage. Non si erano mai perse in convenevoli, così quando Benedetta le si sedette affianco, la signora mise da parte la rivista e le porse la biscottiera.
«Non sapevo se ci tenessi, così nel dubbio...».
Benedetta sollevò il coperchio della latta quel tanto che bastava per sbirciarne il contenuto. Dentro non c’era altro che una specie di polvere biancastra molto fine.
«Cosa dovrei farne?».
«Non saprei», rispose la Signora Bonsignore. «So che ad alcuni piace spargerle nell’oceano».
«Penso che le scaricherò nel cesso».
«E se poi si intasa, come con la tartarughina?».
Risero brevemente.
«Come sta tua madre?», chiese poco dopo la signora.
«Bene. Domani ha un colloquio per un posto da commessa. Sorride molto più spesso, adesso. Si sta lentamente... riaccendendo. Credo che si senta finalmente in pace».
«E tu? Anche tu ti senti in pace?».
Benedetta si strinse nelle spalle.
«Non lo so, però ho capito una cosa. Mi ero sbagliata, quel giorno, davanti alla casa di Jimmy Il Buffo. Johnson non ha comprato la pace per se stesso. Adesso lo so». Benedetta abbassò lo sguardo sulla biscottiera. «Ma sono ancora convinta che siano stati soldi ben spesi, i suoi».
Una banda di marmocchi si stava facendo la guerra a colpi di zolle di terra, i loro volti erano striati di ruggine. Benedetta aspettò che si fossero allontanati abbastanza, poi si alzò dalla panchina portando la biscottiera con sé. Si fermò nel punto in cui fino a diversi mesi prima aveva sepolto i suoi animaletti, tolse il coperchio al contenitore di latta e lo capovolse. La cenere si accumulò in una piccola duna che ben presto il vento sparpagliò tutto intorno ai piedi di Benedetta, e la terra di Milestone Park divenne rosa.
La Signora Bonsignore l’aveva raggiunta.
«Sei pronta per il tuo primo giorno di lavoro?».
Un’altra folata disperse completamente la cenere, e la terra tornò rossa.
«Adesso sì».







_________________________________







Nota autore:
Questa storia è dedicata a Dragana, che oggi compie gli anni. Spero che il regalo le piaccia, nonostante non parli di argomenti molto allegri... Tanti auguri, cento di questi giorni!
Benedetta Amato è il personaggio di un’altra mia storia, dal titolo Rovi & Rose, perciò questo racconto costituisce a tutti gli effetti uno spin-off/prequel di quella long. Nel capitolo sei, Benedetta accenna al suo passato, ma ovviamente non sta dicendo la verità al Detective Martìnez.
Non sono mai stata a New York, non ho idea se la terra di Milestone Park sia davvero rossa, però era un’idea molto scenografica, così mi sono concessa una licenza poetica.
Bensonhurst è un quartiere di New York in cui vive una folta comunità italoamericana. Ogni anno, tra la fine di agosto e l’inizio di settembre, sulla 18th Avenue viene festeggiata la Festa di Santa Rosalia (che in Sicilia è la patrona di Palermo). Dato che Benedetta è italoamericana, il quartiere mi sembrava una buona ambientazione per la storia.
La frase “Ho un talento naturale per far morire le cose” è una citazione spudorata alla saga de La Confraternita del Pugnale Nero di J.R. Ward (roba molto colta e raffinata, insomma), che avevo infilato anche in Rovi & Rose: la dice Benedetta riferendosi a se stessa al Detective Martìnez. In sintesi, questa shot spiega come è nata la convinzione di Benedetta.
Mi pare non ci sia altro da aggiungere.
Rinnovo i miei auguri a Dragana - Ti auguro di trascorrere una piacevolissima giornata, vorrei tanto essere lì con te a festeggiare! - e ringrazio OttoNoveTre, che nonostante il mezzo mondo di distanza ha trovato il tempo per betarmi - Grazie grazie grazie! -.
È tutto. A presto, vannagio

P.S.: Nessun animaletto è stato maltrattato durante la stesura di questa storia.
   
 
Leggi le 6 recensioni
Ricorda la storia  |       |  Torna su
Cosa pensi della storia?
Per recensire esegui il login oppure registrati.
Torna indietro / Vai alla categoria: Storie originali > Generale / Vai alla pagina dell'autore: vannagio