Anime & Manga > Slam Dunk
Segui la storia  |       
Autore: HeavenIsInYourEyes    17/10/2015    1 recensioni
Ci sono scene in cui si ributterebbe per riviverle in ogni minimo dettaglio, senza spostare neppure una virgola; altre vorrebbe cancellarle, modificarle, rispondere "Ma" anziché "Beh", dire "Sì" invece di "No".
Mitsui continua a chiedersi cosa sarebbe successo se non avesse abbandonato il basket, se, se… Ne è talmente schiacciato da sentire l’aria mancare e più ci pensa, meno riesce a trovare una via d’uscita.
Ed è così che si sente anche quando apre la porta della palestra; poco, è solo uno spiraglio ma gli basta per sentire la testa girare, il cuore pulsare e tutto il resto farsi effimero.
Il suo "se" più grande se ne sta lì, trasportata dalla musica e leggera come l’aria.
Shibahime è… Da dove può cominciare per descriverla?
Genere: Generale, Introspettivo, Sentimentale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Akira Sendoh, Hisashi Mitsui, Nuovo personaggio
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
 <<  
Per recensire esegui il login o registrati.
Dimensione del testo A A A

Le 12.15. La partita è già cominciata da un quarto d’ora.
Shiba scuote la nuca, cerca di concentrarsi su altro.
Lo studio della Dottoressa Nakajima è rosso. Non rosso sangue, è più un rosso pomodoro, che è comunque un colore orribile da scegliere per una parete. Ecco, assomiglia ai capelli di Sakuragi.
Chissà cosa starà combinando quel cretino. Avrà già commesso qualche fallo? Nanaka dice che è un vero spasso quando gioca a basket, non ne imbrocca mezza.
Serra le labbra per non scoppiare a ridere.
Preme le mani sui braccioli della sedia e per un attimo è tentata di alzarsi e correre fuori, buttare lì un frenetico «Oggi proprio non posso c’è una cosa più importante che devo fare!» ma lo scricchiolio della porta la immobilizza sulla sedia di velluto scuro.
La dottoressa le rivolge un sorriso cordiale «Mi perdoni per l’attesa.»
«Ah, no, si figuri…» porta le mani fra le ginocchia, stringendole. Non si sente poi così diversa dalla bambina coi codini che faceva penzolare le corte gambine dalla poltrona.
La donna si siede davanti a lei, incrocia le gambe e vi poggia sopra le mani giunte.
Shibahime lancia un’occhiata all’orologio…
«Allora, mi parli un po’ di lei, Sendoh-san.»
Può dire addio alla partita.

 

Mo Chùisle

Capitolo 12
Life is a box of chocolates: you never know what you're gonna get.

 “Mrs. Wilkinson: Doveva essere una donna speciale tua madre.
Billy: No, era solo la mia mamma.”
                                       -Billy Elliot, Stephen Daldry-

 

Il giorno in cui tutto è cambiato se lo ricorda come se fosse ieri…
E' il sei aprile, due giorni dopo il suo compleanno e ad Adare[1] ha appena smesso di piovere dopo mesi e mesi di pioggia, di quella fine fine che punge la pelle.
Shiba ha sei anni, lunghi capelli ricci che non stanno in ordine e guance paffute di un porpora acceso che risplende sull’incarnato pallido.
Si è svegliata da qualche minuto e stropiccia gli occhietti pesti di sonno con il pugno chiuso, sbadigliando a bocca larga nella disperata ricerca dei suoi genitori.
Fa capolino nel salotto, appese alle pareti ci sono ancora le decorazioni per la piccola festicciola tenuta con degli amichetti, palloncini azzurri e gialli che si sovrappongono in una cascata di stelle filanti colorate. Piccole campanule blu prendono il sole sul davanzale e le tende color panna svolazzano ad ogni passaggio di leggera brezza, disseminando per la stanza quell’odore particolare di erba bagnata.
«Otōsan[2] ?
» lo chiama con voce sottile e quando lo sente rispondere, ciabatta fino all’entrata.
Minuscole gocce di pioggia scendono dal tetto di paglia, infrangendosi sugli scalini in pietra e suo padre se ne sta lì, lo sguardo puntato sui fiori piegati e la sigaretta accesa fra le dita ossute.
Se si concentra può ancora vederle muoversi veloci sulla tastiera del portatile, vagare pigramente fra i capelli di sua madre quando guardavano un film sul divano… Sono particolari stupidi che le si sono incastrati nella mente e ogni tanto tornano a farle compagnia, quando pensa che vorrebbe essere lontana lontana, senza più preoccupazioni.
Osserva la sua schiena ricurva come i fili d’erba piegati dal vento e si avvicina con un sorriso smagliante. Striscia i piedi troppo piccoli per quelle ciabatte a forma di gatto e trascina il suo coniglio di pezza tenendolo per una zampetta, stringendoselo contro il petto quando si sporge per vedere il suo viso.
«Otōsan!» lo richiama allegra, mostrandogli un sorriso sdentato. Suo padre si ridesta, le sorride impigrito e torna a guardare davanti a sé «Mamma dov’è?»
«In camera con il dottore. Non sta bene.» è tutto quello che le dice prima di tornare a fumare.
È solcato da una stanchezza che non gli ha mai visto ma Shiba non ci fa caso.
A quell’età non fa caso a molte cose.
Ad esempio, anche lei la settimana prima ha avuto il raffreddore perché gliel’ha attaccato Dolly, la figlia dei vicini; basta stare a letto sotto le coperte, prendere del the caldo e tutto passa.
Zampetta fino in camera e la prima cosa che vede è la larga schiena del dottore paffuto; ricorda che di nascosto le regalava sempre le caramelle al miele quando andavano nel suo studio.
«Ciao Shiba.» sua madre sorride stanca, un po’ a lei e un po’ al dottore che traffica con la valigetta; le mormora qualcosa ma lei è troppo distante per capirli e ha la vaga sensazione che comunque non comprenderebbe metà delle sue parole.
Sa solo che sua mamma non è più la donna energica che insegnava danza nella palestra vicino alla scuola o quella che ballava con lei le domeniche pomeriggio in salotto, mentre in tv davano vecchi film.
Abigail Lynch aveva corti capelli rosso fuoco, un cespuglio di fitti ricci che incorniciavano un volto ovale ricoperto da una miriade di lentiggini.
Lavorava al Lena’s e il suo sorriso era pura calamita per gli avventori.
Suo padre ha detto che quando l’ha incontrata ha sentito l’elettricità scorrergli in corpo, la stessa che si prova poco prima che piova o allo scocco di un bacio.
Era abbagliante come il sole e lucente come le lanterne che svolazzano nel cielo scuro alla Festa delle Lanterne.
Il medico le scompiglia i capelli nel passarle di fianco, sorridendole un poco «Come ci siamo fatte grandi» ma Shiba si limita a stringere le labbra, imbarazzata da tutte quelle attenzioni «Tutta suo padre!» esplode in una fragorosa risata.
Sua madre gli si accoda, anche se in maniera più lieve e intervallata da colpi di tosse «Per fortuna non ha preso la mia esuberanza.»
«Fosse come te, a quest’ora starebbe picchiando qualche ragazzino al parco» le rivolge un’altra occhiata «Fai la brava, mh. Noi ci vediamo domani, Abby.»
«Aha.»
Il lieve chiudersi della porta fa calare un drappo di silenzio che Shiba ha il timore di strappare, mentre osserva la figurina emaciata di sua mamma.
I ricci rossi sono un ricordo lontano coperto da un foulard blu che richiama le onde del mare in tempesta e il suo sorriso ha lo stesso bagliore del sole che si corica dietro le alte montagne Mourne[3] quando la notte giunge, accompagnata dal freddo.
«Mháthair[4] , non stai bene?» si arrampica sul letto «Hai il raffreddore?»
Sua madre si solleva, se l’avvicina e le scocca un sonoro bacio sulla fronte. Può ancora avvertire le sue labbra tremule sulla pelle fresca e come sembravano di carta pesta tanto erano screpolate.
«Sto morendo, Shiba-chan.»
Sua madre ha sempre avuto la sfrontatezza di dire le cose senza edulcorarle, pregio che non le ha trasmesso fra il mucchio di peculiarità tutte sue. Di lei ha solo i capelli folti e di un colore troppo improponibile per una giapponese, tratti delicati e orecchie un po’ appuntite ma quell’ombrosità nel carattere è tutta di suo padre.
«E perché?»
«Perché succede a tutti, prima o poi» le ha sorriso stanca, ha preso un riccio fra i capelli e ha cominciato a rigirarselo fra le dita «Lo sai che sei nata in un giorno di pioggia? Pioveva così da quattro mesi: prima forte forte poi sempre più piano. Ma quando sei nata tu è come se fosse spuntato il sole.»
Sua madre aveva un modo tutto suo di dirle le cose, facendola sentire la creatura più meravigliosa che mai avesse vagato sulla terra e se avesse saputo che tutto quello prima o poi sarebbe finito, di sicuro non avrebbe sparato uno stupidissimo «Muori ma poi torni, no?»
Avrebbe dovuto capire che qualcosa non andava perché per la prima volta, Abygail si è limitata a scuotere la nuca senza darle risposta alcuna, tenendosela stretta stretta a sé.
«Stai tanto vicina a papà, ne avrà bisogno. E non bere a canna, pettinati i capelli prima di andare a dormire…» si è voltata verso di lei e l’ha trovata in lacrime «Mi mancherai, Mo Chùisle.»
Ha preso il cancro ed è morta un sabato mattina.
Suo padre da quel momento ha parlato sempre meno, ha messo in vendita la casa in pietra e ha chiesto il trasferimento nel suo paese natale, un posto sperduto in Giappone di cui a malapena si ricorda il nome. Ricorda il via vai di persona che aiutavano a portar via mobili e scatoloni mentre lei se ne stava seduta sulle scale, chiedendosi perché non potevano restarsene ad Adare.
Suo padre le ha detto qualcosa come «Qui piove sempre, non mi piace neanche un po’.» ma Shiba ha capito troppo tardi che la pioggia non c’entrava. Semplicemente ci sono volte in cui i ricordi schiacciano così tanto che relegarli in un angolo non basta, bisogna andarsene ed è quello che ha fatto lui qualche mese dopo, lasciandola davanti al cancello della scuola.

Ma lei è piccola, un po’ stupida e pensa solo che a scuola comprende la metà delle cose che le dicono i compagni, se gliele dicono. Metà del tempo lo trascorre da sola a sentirsi urlare contro cose, l’altra metà lo passa a piangere chiusa in bagno perché i bambini la prendono in giro, le tirano i capelli e le danno della tipa strana.
«Fai la brava con le maestre, tratta bene i tuoi compagni» le ha scompigliato i capelli di fronte al suo broncio «Ti voglio bene.» ha aggiunto prima di andarsene e avrebbe dovuto capire che non sarebbe mai più tornato, perché una cosa del genere non gliel’ha mai detta dacché è nata...
«E poi mi hanno adottata i Sendoh.» aggiunge in un soffio.
Solleva le spalle, serra le labbra e guarda la dottoressa, che non l’ha interrotta nemmeno per un secondo.
«E come si trova, adesso?»
Si ridesta, ricordandosi di essere seduta su di una poltrona in uno studio rosso e non nel lettone di casa sua in Irlanda, con la pioggia che si infrange senza sosta sulle finestre «Mh, sì, bene… Cioè, dovrei essere loro grata per avermi scelta
«Ma…?»
Già, ma? Shiba non sa bene cosa rispondere, anche se un mucchio di parole le gironzolano in testa, frenetiche e inafferrabili. Dovrebbe dirle che li adora per averle dato un tetto decente sulla testa ma che spesso si sente soffocare, perché Madoka è apprensiva e la vorrebbe più come suo figlio, che è splendido splendente ma lei mica può diventare come Akira. E lo adora, Akira, lo ama il suo Acchan tutto sorrisi e risate, di quelle che rimbombano per tutta casa e che si sentono perfino se ti trovi dall’altra parte del mondo ma pensa che qualcosa si sia rotto tra loro perché a volte la guarda in modo strano, come se preferisse non averla mai scelta in mezzo alla miriade di bambini urlanti.
Shiba boccheggia, sta per dirle qualcosa anche se ancora non sa bene cosa ma la dottoressa guarda l’orologio «È ora. Direi che per oggi può bastare» le rivolge un fugace sorriso prima di ripararsi dietro la scrivania, fra le scartoffie «Mi farebbe piacere se potessimo rivederci. Facciamo settimana prossima?»
È tentata di dirle di no, perché reputa tutto quello uno spreco di tempo e soldi ma pensa che se dicesse di no per davvero, poi litigherebbe con Madoka e non ha proprio voglia; arriverebbe dunque suo padre, che con una scusa qualsiasi si infilerebbe nel suo santuario per difendere l’amore della sua vita, facendola sentire orribile e quella sensazione che le si attacca fin dentro le ossa e non se ne va più, è decisamente troppo da sopportare.
Allora annuisce, stiracchiando le labbra quando prende il foglietto con su scritto data e ora del prossimo appuntamento.
Si è dimenticata tutto di quello che le ha detto la dottoressa Nakajima nei primi cinque minuti di incontro ma un cosa le è rimasta impressa, mentre gira la maniglia per filarsela via: quel «Sendoh-san, c’è ancora molto da lavorare ma vedrà che ne usciremo fuori.» che l’ha fatta sentire nel posto giusto, nonostante la consapevolezza che qualche stazione di bus più in là, un paio di persone hanno forse atteso la sua venuta.

Quando apre le porte dello stadio, Shiba viene accolta da un boato che fa tremare il pavimento.
Si lascia trasportare dal vociare, ritrovandosi sugli spalti in alto che si gettano sul campo e alzando lo sguardo verso il tabellone, capisce di essere arrivata troppo tardi: Shohoku 70 - Ryonan 66; deglutisce al pensiero di aver sorriso ed esultato interiormente quando ha notato che la sua scuola ha vinto con uno stacco di 4 punti.
Nota che fra le teste calde della squadra non c’è Mitsui. Magari lo hanno sostituito. O magari lo hanno espulso perché ha attacco briga con qualcuno.
Nella folla che affluisce verso le uscite scorge l’esile sagoma di Nanaka, attorniata dalle sue pargole del club di ginnastica.
«Nana!» la chiama a gran voce, sbracciandosi.
La ragazza sussulta e dopo un istante di titubanza si avvicina «Alla fine sei venuta.» ghigna sorniona.
«Sì, ma tanto è già finita.»
«Ma è già qualcosa, non trovi?» le scompiglia i capelli «Com’è andata dalla dottoressa?»
Alza le spalle «Bene.»
Nana la scruta ma non si addentra nel discorso. Poi brilla, come se avesse appena vinto alla lotteria «Comunque Mitsui è svenuto in campo! Non è fantastico?!»
«Vedo che la cosa ti sconvolge.»
«Dovresti esserne felice anche tu.»
«Andiamo! Non sono mica così stronza!»
L’altra arcua un sopracciglio prima di scuoterla per le spalle «Ma che hai capito?! Intendevo che adesso puoi consolarlo.»
Guance imporporate, Shiba volge il viso verso la squadra che sta festeggiando in campo e il suo pensiero vola a suo fratello, immobile fra i compagni piangenti.
Akira c’ha speso così tanta fatica per quella partita e in soli quaranta minuti si è visto portar via uno di quei pochi sogni che tiene ben chiuso nel cassetto sin da quando è un bambino troppo alto per la sua età, coi capelli più corti e le felpe troppo larghe.
«Tuo fratello è stato bravo» Nana sorride lieve, lo sguardo puntato sul campo che si sta svuotando dopo gli ultimi festeggiamenti, poi si stringe nelle spalle «Credo andranno a festeggiare. Puoi unirti all’armata Sakuragi, se ti va. Così mi controlli le mie piccole.» lancia un’occhiata rassegnata alle beniamine del club di ginnastica, fin troppo ciarliere con quegli attaccabrighe degli amici di Hanamichi.
«Tu non vieni?»
«Nah, ho cose più importanti da fare.»
E prima che possa chiederle quali faccende siano più importanti di una serata di bagordi, si ritrova ad osservare la schiena stretta dell’amica che tenta di infilarsi nella marmaglia di gente.
«Ma, ehi! Non mi va di andare se non ci sei!»
«Te la caverai! Ricordati di controllarle! Domani abbiamo l’ultima gara, non voglio si ubriachino come l’ultima volta!»
Shiba si alza sulle punte, cercando la sua lunga treccia «Si può sapere cos’hai da fare?!»
«Devo chiudere la finestra! L’ho lasciata aperta!»
Shiba non capisce.
Non può tornare dopo che l’ha chiusa?

 
Una volta fuori dal palazzetto, Shiba si guarda attorno alla disperata ricerca di suo fratello, fino a che lo scorge, coi capelli bagnati e piatti.
«Acchan! Acchan!»
Lo chiama a gran voce ma Akira non si ferma, fugge come una scheggia.
«Senpai, andiamo?» Ume la tira per una manica.
Annuisce ma forse non dovrebbe essere lì con loro, a festeggiare. Con Mitsui che la guarda con un leggero sorriso.
Forse dovrebbe essere con Akira.
Ma tanto sa che non andrà a casa.

Nanaka entra in casa di filato, dimenticandosi di togliersi le scarpe una volta che si è chiusa la porta alle spalle.
«Nana, sei tu?» la voce di sua madre la fa sobbalzare.
«Sì…» si avvicina al salotto, facendo capolino «Credevo che oggi avessi una riunione.» osserva le sue mani ben smaltate di scuro pescare qualche carta dal mazzo di tarocchi, sparpagliandole sul tavolo.
«Il capo ha avuto un contrattempo, l’hanno spostata a lunedì» si massaggia la fronte, scompigliandosi la frangia scura «A proposito, credo che Spock abbia fatto cadere qualcosa in camera tua.»
«Ah…»
«Ho sentito un tonfo prima.»
Ringrazia che sua madre sia troppo presa da altro per concedersi il beneficio del dubbio, tipo che un ladro a quest’ora potrebbe star rubando gioielli a paccottiglie al piano di sopra, prima di sgozzarla sul divano blu su cui è seduta.
«Quel gatto va addomestico, l’altro giorno ha rotto il vaso della nonna.»
«Tanto era orribile.»
«Lo so, ma me l’ero lasciata per questa riunione, nel caso fosse un fiasco colossale.» esala sarcastica, facendola sorridere. Sua madre ha solo quarant’anni ma tutta accartocciata sul divano, con indosso un maglione sgualcito e i capelli legati alla bene e meglio, dimostra il doppio della sua età. Non è sempre stata così. Un tempo rideva di più e urlava di meno, la baciava prima di andare a dormire e veniva a vedere le sue partite.
Poi papà ha assunto una nuova segretaria e tutto è precipitato.
«Vado di sopra a riposarmi. Domani ho la partita.»
«Magari passo a vederti.» torna a concentrarsi sulle carte e Nana annuisce, conscia che tanto non si presenterà.
Zampetta di sopra, il cuore le sale in gola per l’ansia e quando apre la porta, precipita sul fondo della stomaco con un tonfo sordo, quasi fosse stato in sospensione per tutto quel tempo.
«Dovresti sempre chiuderla la finestra. Può capitare che entri brutta gente in casa…» ma lei non risponde, continuando a fissare i cocci sparpagliati del vaso di fiori che una volta se ne stava sul davanzale «Scusami, non ho fatto in tempo a salvarlo.»
«Non fa niente…»
Nana getta le chiavi di casa sulla scrivania, fa scivolare la borsa lungo la spalla e quando anche la giacca è stata sfilata, si concentra su quella meraviglia di Akira che siede sul suo letto.
Beh… Sedere, nh, diciamo che è sdraiato, ecco. E legge una rivista di moda.
«Lo sapevi che il colore di quest’anno è il viola?» la guarda in faccia con un sorriso bonario «Ti starebbe bene come colore.»
«Il viola mi fa schifo.»
«Lo so… Ma ti starebbe bene.» ripete, tornando a concentrarsi sulla modella della pagina # 58.
Nana sospira pesantemente, ha un macigno a livello dello stomaco che si è posato da quando ha messo piede nel palazzetto. Sente che dovrebbe dire qualcosa, ma il silenzio che l’altro le regala le impedisce di formulare qualsivoglia frase.
E’ pietrificata, ha il timore che qualsiasi parola sbagliata porterebbe a una guerra di dimensioni apocalittiche, di quelle che nemmeno Buddha potrebbe scongiurare.
«Oi, fai come se fossi a casa tua.» l’apostrofa con ironia e Nana si ridesta.
Si scolla dalla porta chiusa a chiave e si siede sul bordo del letto, osservandolo in tutta la sua lunghezza: i suoi piedi sbordano, è troppo piccolo per lui; solo adesso capisce perché, quelle rare volte in cui è rimasto perché troppo tardi, si è rannicchiato tanto da costringerla a dormire in un minuscolo spazio vitale.
Indossa la divisa sportiva della scuola, la giacca è piegata con cura sulla spalliera della sedia mentre le Nike sono posate sotto la finestra aperta da cui entra una leggera brezza.
Si avvicina, poggiando un ginocchio sul materasso «Avresti dovuto asciugarti i capelli. Rischi di prenderti un malanno.» allunga una mano per carezzarglieli, ma si blocca quando nota il suo sguardo.
E’… Distaccato.
Non è l’Akira Sendoh che si intrufola in camera sua per sfogarsi con del sano sesso per la partita andata male. Questo è l’Akira Sendoh che si intrufola in camera sua in cerca di non sa bene cosa, ma qualunque cosa sia lei non crede di potergliela dare.
«Tanto non ho partite importanti da giocare, per il momento.» replica asciutto, tornando a sfogliare le pagine patinate.
Nana porta la mano tesa sopra l’altra, giocherella con le dita e con il braccialetto dell’amicizia che quella scemotta di Shiba le ha comprato in vacanza tanto tempo fa, quando girovagare ubriaca per il mercato notturno le era parsa una buona idea.
«Sì, ecco… Mh, al riguardo--»
«Se dici “Mi dispiace” rompo tutti i tuoi trofei.»
«Ma se non lo dicessi, non saprei come cominciare a parlarti--»
«E allora non farlo!» la sua voce si alza, la rivista è ormai riversa a terra in mezzo ad un mucchio di altre riviste. Nana vorrebbe defenestrarlo ma la voce del ragazzo si placa, come se la tempesta fosse già passata «Non farlo, non—Non è che ne ho bisogno. Insomma, è solo basket, no? Non è mica la fine del mondo, no? Ci saranno altre partite, mica dobbiamo morire. Non è che i miei mi hanno promesso di tornare solo se avessi vinto, domani saranno comunque qui e io dirò loro che ho perso e loro mi diranno che così è la vita. Che—Sì, com’è quella cosa che dici sempre tu a Shiba?»
«Che la vita è una salita ma il panorama in cima è fantastico?»
«Sì, quella cosa lì!» si mette a sedere «E’ tutto così. E’ solo una partita…»
«Già…» Nana si siede, dandogli le spalle. Distende le braccia, lascia che le mani scivolino sul ruvido tessuto delle coperte a fiori. Fa dondolare i piedi, ancora sopraffatta dallo sfogo mal riuscito del ragazzo.
Non è da Akira alzare la voce, non è da Akira piombare in casa sua solo per parlare… Non è da Akira stringere una delle sue mani con la propria, non quando sembra che tra loro sia calato un velo di intimità troppo profondo da poter sfilare.
«Non hai mai la sensazione di star deludendo qualcuno, quando le cose non vanno?»
«Ad esempio?»
«La squadra. La squadra contava su di me e alla fine abbiamo perso» lo guarda oltre la spalla, i suoi occhi blu risplendono di una luce strana «Mi sono sentito così sotto pressione, dover trascinare tutti anche quando ormai non c’era più nulla da fare. Mi chiedo a che cosa siano valsi tutti i pomeriggi spesi ad allenarmi.»
«Parli così perché avete perso.»
«È che mi fa così incazzare che tutto dipenda da me e--»
«E se gli altri fossero un po’ più bravi, probabilmente a quest’ora avreste vinto.»
«No è che--» i piedi strisciano sul letto, le sue parole si fanno più pesanti mentre si sistema sul cuscino «A volte lo penso, che gli altri non siano abbastanza e mi sento uno schifo, perché se siamo arrivati qui è anche grazie e a loro… La verità è che ho sottovalutato l’avversario. Mi sono concentrato solo su Rukawa e non mi sono accorto che lo Shohoku è pieno di elementi validi» Nana annuisce, fissandosi i piedi che vanno su e giù fino a che Akira non cambia argomento, allora è costretto a guardarlo «Lo porti ancora?» giocherella con il braccialetto «Credo che Shiba il suo l’abbia perso.»
«Se la testa di tua sorella non fosse attaccata al collo, perderebbe pure quella.» esala con tono divertito.
«Ricordi quando siamo andati a Jodogahama[5] con i miei?» la voce di Akira le pare distante, quasi stesse cercando di acciuffare un pensiero perduto da tempo.
«Aha…» e come fa a dimenticarselo? In quella vacanza le ha rubato il loro primo bacio uscendosene fuori con un divertito quanto spiazzante «Non sai da quanto volevo farlo!» «Ho dovuto pulire casa una settimana per convincere mamma a farmi venire.» ricorda con un sorriso nostalgico.
«E Takashi ti aveva chiesto di fargli da schiavetta per guadagnare qualcosa in più.»
«E alla fine non mi ha nemmeno dato tutti i soldi!» scoppia a ridere, tappandosi la bocca quando sente la voce di sua madre risuonare nel corridoio, probabilmente immersa in una qualche chiacchierata di lavoro con un collega.
Solo quando la sua voce si fa distante, Akira torna a parlare «Dovremmo riandarci… Al mare.»
«Già.»
«Solo io e te. Senza Shiba. Senza i miei» Nana si sdraia, lasciandosi avvolgere per la vita, il suo respiro calmo sulla schiena «Potremmo uscire senza doverci nascondere.»
«Mhmh.»
«Inventiamo una scusa e ce ne andiamo.» ripete piano, nascondendo uno sbadiglio fra i suoi capelli.
Nana osserva le loro mani intrecciate «Ti va di farlo?» glielo chiede senza pensare, tanto il cervello non collabora.
Akira se ne sta in silenzio, scuote la nuca e un placido «Non mi va. Sono stanco.» si insinua nella calma apparente calata sulle loro nuche.
Nana osserva le loro mani, distoglie lo sguardo ma inevitabilmente quello torna a posarsi su di loro.
Pensa che le loro dita incastrate con tanta naturalezza, non sono così male…
«Mi sarebbe piaciuto andare ai Campionati Nazionali.»
«Ci andrai presto. Sei tra i Best five, no?»
«Già… Nana…?»
«Mh?»
«Dovremmo stare così un po' più spesso…»
E neanche tutto quello è poi così male.

 
«Murosaki, scendi da lì!» Kogure starnazza con apprensione, mentre cerca di salvare la stellina del club di ginnastica da morte certa. Sta mostrando le proprie abilità di ginnasta utilizzando dei coltelli come clavette, il che non sarebbe esattamente un problema se non fosse che quello scemo di Sakuragi sta cercando di imitarla, proclamandosi genio perfino in quella disciplina.
«Guarda come te lo prendo al volo!»
Miyagi, alla non numerabile birra, fa ciondolare il capo «Hanamichi, così rischi di infilzarti un occhio.»
«Magari è la volta buona che ci libera della sua idiozia.» è l’adorabile commento che proviene da un Rukawa più di là che di qua, spalmato contro uno Yasuda terrorizzato di venir colpito.
Ayako si copre il volto con una mano, imbarazzata «Possibile che quei caproni debbano sempre dare spettacolo?»
«La mia Ayakuccia ha ragione!»
«Ti stai sbrodolando la birra sul pacco, tappo.»
«Cosa—Ma dove cazzo guardi, teppista?!» i due cominciano a bisticciare e se non si pestano è solo per buona pace di quel santone dell’occhialuto, che ha già perso sette vite nel vano tentativo di sedare risse cominciate a pranzo e non ancora conclusesi in quel baretto sperduto chissà dove.
«Concludiamo la serata in bellezza!» ha urlato qualcuno nelle retrovie, mentre decidevano dove finire quel loro vagabondaggio e quando uno dell’armata ha aggiunto «Conosco un localino carino a pochi isolati da qui! Sarà divertente!» avrebbero dovuto capirlo che localino carino, nella bocca di uno di quei bifolchi, significava manco a Caracas ci sono inferni del genere.
«Fuji-chan, scendi!» Ume cerca di fermarla ma quando le sue grida vanno a vuoto, la ragazzina si volta verso una Shiba con la vitalità di un condannato a morte «Se si spacca qualcosa, Itou senpai ci uccide» mormora la Watanabe in crisi «Ah, ma la senpai non ci raggiunge?»
«Ha detto che doveva chiudere la finestra.» spiattella la Sendoh con scazzo, mangiandosi una manciata di noccioline.
«La finestra…»
«Ma sì, ma che ne so» sbrodola uggiosa «Senti, vado a prendere un po’ d’aria. Qui si muore.»
«Mh, vuole un po’ di compagnia senpai?»
«No, no, preferisco che mi controlli Fujiko-chan» lancia un’occhiata sconsolata alla ragazzina «Nana non deve sapere che si è ubriacata, eh.»
L’altra porta una mano sulla fronte «Sarò muta come un pesce—Fujiko, no!» si catapulta verso l’amica, impegnata a lasciarsi abbordare da uno che potrebbe essere suo padre.
Shiba scuote la nuca, lasciandosi carezzare dalla brezza fresca della sera che le scompiglia i lunghi capelli.
Si chiede come sta Akira, un pensiero fugace che viene sbalzato via non appena la portafinestra si apre. Guarda oltre la spalla, incrociando lo sguardo un po’ annebbiato di quello scemo di Mitsui che si deve essere scolato almeno quattro birre. Non si sono rivolti che mezza parola nell’arco di tutta la giornata e Shiba non sa se essergliene grata o delusa.
Non sa più niente, ormai.
«Ehi, la Murosaki sta dando spettacolo. Non vieni dentro?»
«Sì, tra poco arrivo» Shiba si mette a braccia conserte, spera che con quell’atteggiamento scostante il ragazzo si defili ma i minuti passano e, di sottecchi, può ancora scorgere la sua sagoma incollata al muro «Oi, ho detto che arrivo.»
«E chi ti sta aspettando? Che due coglioni, nemmeno sul balcone posso starmene in santa pace.» sbuffa scazzato, tracannando la Asahi[6].
Shiba trasalisce, per un istante le sembra di rivedere il teppista dai capelli lunghi che sbraitava per ogni quisquiglia, che le scaraventava contro il proprio malumore costringendola a subire senza fiatare.
Puoi anche andartene…
Poggia la nuca contro il muro. Porca vacca, si sta comportando esattamente come lui. Capisce perché la tratti come una povera imbecille, fa soltanto bene!
Lo scruta con la coda dell’occhio e il cuore perde più di un battito. Li lascia scappare, tanto non può riafferrarli quando si tratta di lui, non c’è mai riuscita.
È serio, il suo profilo è talmente rigido da strapparle un sorriso colmo d’amarezza. Quando la smetteranno di comportarsi come due ragazzini? E soprattutto, quando la smetterà di vederlo come il cretino che ha mandato all’aria tutto solo perché incapace di saziare il proprio ego?
Si passa le mani sul volto, gli occhi le pizzicano eppure nessuna lacrima si versa sulle guance rosse.
E’ troppo stanca per tutto, ormai.
«Perdonami, sono solo stanca. E nervosa. Tutto qui.» fa fatica a pronunciare quel gomitolo di parole, perfino Mitsui sembra incapace di digerirle.
«Ovvio che sei nervosa, non mangi un cazzo.»
Shiba non sa se restare colpita per la delicatezza con cui infarcisce ogni singolo discorso o se per il suo comprenderla nonostante gli anni passati. Si avvale della facoltà di non pensare che tanto ne uscirebbe fuori solo con un bel mal di testa.
«Qualcosina l’ho mangiata.»
«Un paio di stuzzichini, tre patatine--»
«Che fai?! Conti quello che mangio?!»
«Quello che non mangi, vorrai dire…» sospira «Senti, non sono affari miei--»
«Ecco, appunto!»
«Ma non credi di star degenerando?» Shibahime lo guarda ad occhi larghi, sorpresa per la sua scelta di parole. Vorrebbe correggerlo con un saccente «Esagerando, si dice esagerando!» ma quel degenerando buttato lì le lascia un senso di calore addosso che non riesce a scrollarsi neppure quando la brezza notturna le scompiglia i lunghi capelli.
È come se avesse superato il limite da un pezzo e tutto stesse sfuggendo al suo controllo. Ha affrontato quell’argomento un mucchio di volte, le domande sembrano non esaurirsi mai e quando crede che tutto stia tornando al proprio posto, c’è sempre qualcosa che sposta ogni tassello.
Mitsui non aggiunge altro, finisce di bere la sua birra e apre la portafinestra che getta sul salone gremito di gente.
La musica dapprima ovattata si fa più presente ed è forse per quello che gli parla con assoluta tranquillità «Tu giochi a basket quando le cose non vanno.» quasi si aspettasse di non venire udita, di saperlo già dentro.
«Eh?» ma la sua voce la raggiunge carica di confusione e Shiba capisce di essere in trappola.
Deglutisce «Quando litighi con i tuoi o prendi un brutto voto o la terapia non va, tu giochi a basket. Lì, nel campetto vicino alla spiaggia. È sempre stato così.»
«Almeno io mangio.» replica piccato, quasi si sentisse in colpa per essere stato psicanalizzato in maniera così superficiale.
Shiba però ride, si trattiene dallo scagliargli contro la panca su cui si è appena lasciata cadere «Voglio solo dire che ognuno reagisce come può» sembra chetarsi e lei prosegue «Akira non torna a casa quando perde, Nana spacca il soggiorno quando le gare non vanno… Io non mangio.»
Mitsui si gratta la testa, non ha l’aria molto sveglia «E non sarebbe meglio se anche tu spaccassi il soggiorno?»
«Seh, così poi mamma spacca me» fa dondolare i piedi, stringe le dita intorno al bordo «E poi non ho abbastanza cose da spaccare, in casa.»
«Le cose vanno così male?»
«Non vanno.»
«Non vanno… In che senso?»
«Non vanno… E basta. Quando le cose non vanno non è che vadano in qualche modo!»
Mitsui aggrotta le sopracciglia, fa per dirle qualcosa ma si blocca per poi uscirsene con uno scettico «… Sei ubriaca, vero?» che per poco non le fa cadere la mascella in terra.
Shiba fa ciondolare la nuca «E’ la stessa cosa che mi ha chiesto mio padre quando ho lasciato la squadra, anni fa.»
«Perché l’hai fatto?» butta giù un sorso di birra.
Shiba non si aspetta una domanda del genere, non posta con così tanta sincerità e curiosità. Boccheggia, alla ricerca delle parole giuste che non portino allo scoppio dell’ennesima guerra insensata. Potrebbe dirgli che da quando si sono lasciati è precipitata in una specie di oblio da cui a fatica è riuscita a risalire ma questo rischierebbe di addossargli una colpa che, forse, sta cercando di scrollarsi via a piccoli passi.
«Non mi andava più.» pronuncia apatica, sollevando le spalle ma quello non c’è. E’ sparito, andato, eclissatosi dietro la porta scorrevole. Fantastico, proprio ora che aveva deciso di aprirsi un po’ ecco che quel demente se la fila.
Al Diavolo lui e il suo essere così menefreghista e—
«Tieni, credo tu ne abbia bisogno più di me.»
E il suo essere così scioccamente imprevedibile.
Le porge una birra prima di sedersi al suo fianco. Distante, lasciando che uno spesso strato d’aria faccia loro da barriera.
Le basterebbe allungare una mano per poterlo sfiorare, le dita sono però serrate intorno al gelido collo della bottiglia.
«Grazie…» gli mormora piano, vedendolo sventolare una mano.

Da lì al vedere i cavalieri dello zodiaco nel cielo il passo è davvero breve; il fatto che non vi siano stelle nel manto buio è ovviamente un dettaglio di cui nessuno dei due tiene conto.
Shiba è impegnata a cercare Orione, mentre Mitsui ha già visto Pegaso e Andromeda. Afferma di aver visto anche Hercules ma forse è stato solo tratto in inganno da un gruppo di ubriachi appoggiati alle balaustre che hanno urlato «Quello è il ragazzo di Phil!»
Ed è proprio in quel momento di quiete, quando ormai è già sulla strada dell’ebrezza, che Shiba se ne salta fuori con uno di quei discorsi che da sobria non avrebbe mai tirato in ballo...
«Hai avuto qualcuna, poi?» avrebbe voluto dirgli Dopo di me, ma le sembra di ergersi su di un piedistallo che nemmeno ha avuto l’onore di lucidare, tanto in basso era.
Lo vede massaggiarsi la cicatrice, perso in chissà quali pensieri. Poi le sue dita si aprono e i suoi occhi si assottigliano «Mah, qualcuna.»
«Hai addirittura bisogno di contarle, wow.» fischia, prima di tornare a bere la birra.
L'aiuta a soffocare un mucchio di parole inutili, discorsi frivoli e frasi colme di dubbi che la attanagliano da quando ha messo la parola addio sulla loro pseudo storia.
«Ehi, non è colpa mia se il mio fascino le stende tutte.»
«Il fascino… Una volta erano i discorsi sul basket a stenderle tutte.»
«Figurati se con loro parlavo di basket… Figurati se ci parlavo.»
«E di che parlavate?»
«Ma boh… Cazzate. Non è che me ne fregasse qualcosa. La prima che mi sono scopato non mi ha neppure detto il suo nome» la birra le va di traverso, si ritrova a tossire convulsamente «Oi, stai bene?» le rifila qualche pacca sulla spalla con la forza di un branco di gnu, rischiando di farle sputare i polmoni.
«Sto bene, solo—Kami, sei davvero rozzo.» la voce le trema prima di sfumare in una risata sciocca, di quelle che la fanno piangere dal ridere e dolere lo stomaco. Non sa cosa sia quella morsa che le prende ogni viscera del proprio corpo, costringendola a rannicchiarsi pur di non avvertire dolore. Sa bene che c’è stata qualcuna dopo di lei, non è così scema da credere che sia rimasto illibato perché ancora invischiato nel loro ricordo, ha solo peccato di presunzione nel credere che le avrebbe rifilato qualche bugia per farla sentire meglio.
Shiba si sente invece sopraffare dal vuoto di quei due anni trascorsi senza di lui e se non fosse per la strana calma che li circonda, probabilmente lo sommergerebbe con quelle solite domande che riducono i loro discorsi a campi di battaglia.
Mitsui beve un sorso poi si apre in un leggero sorriso «Me lo diceva sempre anche Akane.»
«La tua schiava sessuale?»
«Una con cui sono stato» Shiba avverte lo stomaco contorcersi «E’ durata qualche mese, poi è dovuta partire. Era più grande di me.» le confida qualche dettaglio che non le da modo di crearsi un’immagine di questa donna che ha conquistato il suo cuore.
«Più grande?»
«Avrà avuto sì e no trent’anni.»
«Cosa?!» questa volta i polmoni li sputa davvero, seguiti a ruota dagli occhi ormai scivolati dalle orbite o dalla mascella precipitata al suolo «Ma è una vecchia!»
«Cosa--» scoppia a ridere di fronte alla sua faccia contratta dall’incredulità.
«Che cosa ridi?! Sono seria!»
«Non credi di star esagerando?»
«Potrebbe essere tua madre!»
«Seh, mia nonna.»
Sventola le mani «Oh, hai capito che intendo!» Shiba tossicchia «E come l’hai conosciuta?»
«Mah, non ricordo bene. Credo me l’abbia presentata Tetsuo o stava con uno degli altri, non ne ho idea. Mi è piaciuta per un po’. Era… Matura.»
«Matura…»
Si gratta la nuca «Mi capiva al volo, non so spiegarlo. Era come se ci fosse già passata e sapesse sempre cosa dire per farmi calmare. E poi a letto era una bomba.»
Sì, dell’anteguerra…
«E tu?»
«Io che?»
«Avrai avuto qualcuno anche tu.»
Shiba può contarli sulla punta di una sola mano i ragazzi che ha avuto dopo di lui, sempre se ragazzi si possono chiamare.
Sono storie durate qualche mese ed eclissatesi nel giro di messaggi mai più inviati, chiamate sempre meno frequenti e deliziosi «E’ meglio se non ci vediamo più» annunciati davanti una tazza di the fumante.
«Qualcuno… Pochi. Forse un paio.»
Il ragazzo ghigna «Mi prendi per il culo?»
«E perché dovrei?»
«Vuoi farmi credere che una come te non ha avuto altri ragazzi?»
«Una come me?» Shiba storce il naso «Non ho avuto tempo per i ragazzi. Sai, gli allenamenti e--»
«Vi allenavate anche al corso di cucina? Cos’è, dovevi allenarti a far girare il mestolo?»
«A quanto pare la mia capacità di sapermi tenere un ragazzo è pari a quella di saper cucinare una frittata.»
Mitsui pare rendersi conto della piega che ha preso la discussione, perché l’ironia viene rimpiazzata da una serietà che raramente adopera «Ti sono piaciuti, almeno?»
«Alcuni sì, altri no.» ma la verità è che dopo di lui nessuno è riuscito a entrarle nel cuore, barricandocisi senza più intenzione di volersene andare e quando qualcuno ci ha provato, Shiba ha avuto la prontezza di sbatterli fuori, troppo stanca di soffrire.
Butta giù un altro sorso, si stringe nella giacca della divisa della squadra «Non dovresti essere a consolare tuo fratello?»
Lo guarda di sottecchi «Quando perde, sparisce.»
Mitsui arcua un sopracciglio «Sparisce?»
«Ma sì, puff!, non rientra, a malapena chiama per dirmi dov’è e il giorno dopo torna tutto come prima. Chi lo capisce è bravo…» il ragazzo la guarda allucinato e senza ritegno, le scoppia a ridere in faccia «Beh, lo trovi divertente?»
«No, no—Cioè, a dir la verità sì.»
«Beh, a me non piace» si impunta «La casa è enorme per due persone, figurati per una…»
«Già…»
Shiba pensa che il silenzio con Mitsui-Redento non è così diverso dal silenzio con il Mitsui-Capelli a Scodella o Mitsui-Teppista.
Non sa che discorso intavolare eppure si accorge che non c’è bisogno di riempierlo con frasi vuote o di circostanza o qualsiasi altro rumore. Si sta bene, si sta bene come non lo si stava da un sacco di tempo.
«Cosa credi che faccia, quando sparisce?»
Shiba lo guarda ad occhi larghi. Non sa il perché di quella domanda e neppure perché gliel’abbia posta «Non ne ho idea.»
«Non glielo hai mai chiesto?» scuote la nuca «Beh, dovresti...» Shiba non fiata, ancora confusa per tutto quel discorso senza senso; senso che va eclissandosi completamente quando il ragazzo scoppia a ridere senza un motivo. Shiba è convinta che gli sia andato in pappa il cervello, dopo lo svenimento «Le cose non sono davvero cambiate.»
«Mh?» ha la gola secca, le parole sono perite sulle labbra serrate.
«Nonostante tutto, finiamo sempre col parlare di tuo fratello. E basta.»
«Come sempre? Ma non è vero! Quand’è che ne abbiamo parlato?!» si acciglia, perde quel briciolo di tranquillità che è riuscita a strapparsi in sua presenza. E tutti i discorsi fatti sul loro futuro come stelle sportive? E tutti i discorsi fatti sulla scuola, le università che non frequenteranno e i genitori?
Dove li ha dimenticati, quel cretino?
«Beh, sempre» Shiba grugnisce «E’ così, no? Alla fine spunta il suo nome e ci ritroviamo a parlarne come se non avessimo null’altro da dirci.» Shiba si cruccia; stava dando ad Akira del discorso inutile, come il classico Oggi c’è proprio un bel tempo, non trovi?
«Beh, allora troviamo qualcosa da dirci!» esclama, presa da un impeto di stupidità che non sa da dove sia saltato fuori.
«Che?!»
«Ma sì… Che ne so… Cos’hai fatto di bello oggi?»
La mascella di Mitsui per poco non si stacca. E’ perplesso, la guarda come se fosse sotto allucinogeni e di tanto in tanto lancia un’occhiata alla propria birra, giusto per accertarsi che tra i due è lui quello che ubriaco.
Ciononostante risponde, non senza un pizzico di scetticismo «Ahm, ho—ho giocato la partita. Sai, quella per cui ora stiamo festeggiando.» solleva la bottiglia.
Shiba arcua un sopracciglio; ancora non si è rincoglionita «Mh, ora dovresti chiedermi cos’ho fatto io.»
«E… Perché?»
«Come perché?! È per fare conversazione! Così non parliamo di mio fratello!»
«Ah, già… Beh, cos’hai fatto tu?»
«Mi sono allenata.» piccola bugia, ma non può certo far male.
Il silenzio cala tra loro. No, decisamente non sanno tenere in piedi una conversazione. Gli mancano le basi, forse. Shiba si rende conto che parlare di Akira viene loro naturale proprio perché semplice; non vengono tirati in ballo argomenti troppo personali e non rischiano di riportare a galla vecchi dissapori.
Comincia a chiedersi se davvero Mitsui non abbia ragione, perché ricorda a malapena se sua madre faccia l’impiegata o la maestra, se suo padre sia dirigente di un’azienda o un bancario, se mai lui queste cose gliele abbia effettivamente raccontate e se lei gliele abbia effettivamente chieste.
«Mi ha fatto piacere che tu sia venuta alla partita.» glielo confessa con placidità, ha un leggero sorriso ad addolcirgli i lineamenti.
«Sono arrivata alla fine.»
«È già qualcosa.»
Shiba respira profondamente «So che te la sei cavata.»
Mitsui la guarda sorpreso, poi il suo ego si gonfia a dismisura «Guarda che non me la sono solo cavata, sono stato un portento!» e senza che lei abbia chiesto nulla, Hisashi le racconta dei canestri che ha segnato, di come abbia smarcato suo fratello, di come Taoka abbia deciso di sostituire il suo avversario perché consapevole della sua bravura.
Lo lascia vantarsi come ai vecchi tempi.
Per un istante le sembra di vedere il ragazzo delle medie con i capelli ridicoli e l’orgoglio mai sgonfio. Non accenna al suo svenimento e nemmeno lui lo tira fuori.
Shiba sa che Mitsui sa, ma preferisce tacere.
E’ così bello vederlo animato dall’antica passione che l’aveva fatta cadere per lui.
E’ così bello risentirsi per un attimo una ragazzina innamorata.
La porta finestra si apre e i due si voltano, incrociando la figurina esile di Ume «Senpai, torniamo a casa?» ha le guance rosse per il troppo caldo e cerca di sedare i piagnistei di una Fujiko brilla terrorizzata per la partita di domani.
Guarda l’orologio «Sarà meglio andare.»
«Senpai Mitsui, viene anche lei? Anche gli altri stanno andando.»
«Aha, ok.» butta giù l’ultimo sorso e la segue dentro.

 
«Magari domani vengo a vederti.»
Shiba osserva la sua ombra, slanciata sotto la luce dei lampioni «Non sei obbligato.» getta un'occhiata alla banda di casinisti più avanti di qualche metro.
«Ma sì, se ho tempo…» sghignazza «Magari alla Itou cade una clavetta in testa.»
«Ma che stronzo!»
Il suo profumo la inebria o forse è la birra, non ne ha idea. Sa solo che per un istante è tentata di lasciarsi andare e poggiare la testa sulla sua spalla, con la speranza che non l’allontani.
Se non lo fa è solo perché Mitsui tiene una certa distanza.
«Ascolta, per la rivista…»
«Eh?» scuote la nuca «Lascia perdere, non è importante.»
«No, è che… Lo so che sono un mucchio di stronzate, ma non voglio che tu possa pensare sul serio una cosa come quella.» la guarda fisso, Shibahime sente l’aria mancarle in gola.
È quell’elettricità di cui le ha sempre parlato suo padre, quella che c’è prima dello scocco di un bacio o dell’arrivo della pioggia…

«Una cosa… Cosa?»
«Che ti considero un secondo posto.»

… Quando ci si riscopre innamorati.


 


[1]: Adare: villaggio nella contea di Limick, Irlanda. Il Lena’s è un pub realmente esistente della zona.

[2] Otōsan: papà in giapponese

[3]: Mourne Mountains: montagne irlandesi nella contea di Down.

[4]: Mháthair: mamma in irlandese, si legge

[5]: Jodogaham beach: spiaggia appena fuori Miyako, nella prefettura Iwate. Letteralmente significa “terra dalla sabbia pura”

[6]: Asahi: birra giapponese.
 


Buona sera ♥
Capitolo piuttosto traumatico, cioè traumatico per me perché è stato una faticaccia scriverlo.
Il POV di Shiba è stato di un difficile, ma di un difficile che a un certo mi sono detta: scrivi di getto e bom e non ho idea di come sia venuto fuori. Nel complesso non mi dispiace ma ammetto che forse avrei potuto analizzare meglio determinate situazioni.
So che è un po’ cortino e in realtà doveva esserci un’altra parte, ma ho preferito lasciarla per il prossimo che, alleluja alleluja!, sarà il giro di boa per questi due testoni XD No, parlando di tempo non ho idea di quando sarà anche perché sto abbozzando un’altra storia sempre su Slam Dunk (che non vedrà mai la luce se prima non finisco questa, me lo sono ripromessa) e quindi mi divido tra le due. Ad ogni modo è già abbozzato, stanchezza, lavoro e sonno a parte non penso farò passare ere geologiche.
Ah, ovviamente Forrest Gump mi è stato di ispirazione per la stesura, perché lo amo, è un capolavoro e volevo avere qualcosa di suo in questa storia quindi se notate certe somiglianze, sappiate che è tutto voluto.
Ringrazio infinitamente chi continua a leggere Mo Chuisle anche se in silenzio, con la speranza che la storia non vi dispiaccia e ovviamente riverso tutto il mio amore cosmico su Ice_DP e ReginaMills89 che sono state così carine da commentare il capitolo precedente. A volte vi considero le mie fan numero uno, ci siete sempre e mi siete di stimolo per andare avanti anche quando vorrei solo vegetare sul letto con la speranza che sia già weekend. Siete deliziose, dico sul serio ♥
Ringrazio anche chi ha aggiunto la storia tra le seguite/ricordate/preferite. Come al solito, chi avesse voglia e tempo per dirmi cosa ne pensa è sempre il benvenuto, sia che si tratti di pareri negativi o positivi.

Alla prossima!
HeavenIsInYourEyes.


P.S. Una cosa che mi dimentico sempre di scrivere: chiedo venia per il tipo di carattere con cui la storia è scritta; l'html mi odia e mi scombina tutto quando pubblico, non ho idea del perchè.

   
 
Leggi le 1 recensioni
Segui la storia  |        |  Torna su
Cosa pensi della storia?
Per recensire esegui il login oppure registrati.
Capitoli:
 <<  
Torna indietro / Vai alla categoria: Anime & Manga > Slam Dunk / Vai alla pagina dell'autore: HeavenIsInYourEyes