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Autore: Dea Elisa    18/10/2015    2 recensioni
Volesse il cielo che gli si cancellassero dalla mente i vissuti degli ultimi decenni. Dovere calpestare le mattonelle di quel pavimento senza l’idea fissa che i piedi di quella donna avessero fatto lo stesso, sorridere senza la vergogna di ricordare che centinaia di volte l’aveva fatto con lei e grazie a lei.
Genere: Malinconico, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Anna Ristori, Antonio Ceppi
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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«È caduta da cavallo e non mi riconosce più.» Fabrizio rivolse ad Antonio uno sguardo di preghiera, custodendo in lui ogni altro commento sulla condizione della sua amata. Il medico sapeva che l’idea che potesse trattarsi di un problema permanente l’avrebbe fatto impazzire, perciò si preparò anche a mentire. La conseguenza sarebbe infatti stata quella di avere un secondo paziente da curare e rassicurare.

La vita procede ineluttabile, e compito di Antonio era anche quello di confortare le famiglie: che avessero perso un figlio o un genitore, o una moglie, nessuno avrebbe potuto riportarli a loro. Avrebbero dovuto continuare a vivere per mantenere nell’aria la memoria della persona amata: solo così avrebbero potuto trovare un significato al progredire della loro esistenza, almeno per i primi anni dalla perdita, quando il dolore rende inabili nel compimento anche dei piccoli gesti quotidiani.

Il medico si avvicinò al letto e procedette a esaminare le condizioni generali della donna minuta il cui fragile corpo scompariva ricoperto delle numerose coltri. Il battito, il respiro, le pupille, le ecchimosi evidenti, i riflessi, recitò nella sua mente come rito di ogni visita.

La donna lo fissava apatica muovere le mani sopra il corpo che non riconosceva come proprio. Percepiva i suoi polpastrelli palpare cautamente l’addome, ma si sentiva fisicamente bene, perciò si domandava a che scopo fosse stato chiamato un medico. Solo non si ricordava come fosse finita in quel posto così sfarzoso, colorato e pulito, in mezzo a quel silenzio e a quella gente premurosa. Avrebbe ritrovato la strada di casa, se mai l’avessero lasciata libera.

Antonio terminò di visitare la donna, che non presentava segni di emorragie interne, né contusioni o ferite di grave entità, se non un ematoma al ginocchio e qualche segno sui palmi delle mani. Fisicamente si sarebbe ripresa velocemente; il problema risiedeva nel trauma cerebrale, e su quello Antonio non aveva strumenti per intervenire.

Si stava facendo l’alba, quando si rizzò in piedi e indicò a Fabrizio di seguirlo fuori dalla stanza.

Fabrizio gli strinse il braccio che sorreggeva la borsa di cuoio. «Mi dirai la verità?»

Non posso giurartelo, amico mio. «Farò il possibile» rispose asettico con le parole riservate in ogni occasione ai parenti di un malato. «Farò il possibile» ripeté agli occhi imploranti di rabbia, pena e terrore di un uomo innamorato che supplicavano che gli riportassero indietro Elisa. «È viva, Fabrizio, e adesso possiamo solo aspettare. Potrebbe rimanere così per giorni.».

Fabrizio alzò gli occhi al cielo sussurrando un’imprecazione.

«Ha battuto la testa, ma il colpo non è stato forte.»

«L’avevo rimproverata, è stata colpa mia se è uscita stanotte.»

«Non pensarci, la colpa non è di nessuno.» Quante volte si era ripetuto quella insulsa filastrocca che ora rifilava a chi si dannava dei propri sbagli. «Occupati solo di lei il meglio che puoi.»

«Non la lascerò un minuto.»

«Con parsimonia. Lascia che impari a conoscere gradualmente il mondo che l’accoglie. Potrebbe chiudersi in se stessa rifiutandolo.»

Fabrizio annuì, impaziente. «Ci si deve sentire maledettamente soli e spaesati» immaginò, gettando un’occhiata a Elisa che si guardava intorno immobile.

«Devi starle vicino, ma non impedirle di rielaborare la situazione con la sua mente. Non assillarla, non metterla con le spalle al muro. Parlale come se vi foste appena conosciuti.»

«E se…»

Antonio scosse il capo velocemente. «Non pensarci.»

Ma Fabrizio non poteva impedirsi di farlo, e lo stesso Antonio.

Fabrizio ed Elisa avrebbero imparato a conoscersi di nuovo, ed Elisa, chissà, avrebbe prima o poi accettato l’idea di essere la persona che era. E se questo non sarebbe successo, così si ostinava a ripetere Fabrizio, se Elisa non mi riconoscerà mai come l’uomo che l’ama, se mi rifiuterà, se vorrà andarsene da questa casa che non sente come sua…

Antonio cercò di interromperlo nel suo turbamento. Fabrizio era intelligente abbastanza per potere accettarlo… testardo sì, ossessivo, ma se si fosse impegnato a spiegargli che non avrebbe potuto fare nulla per obbligare una donna ad amarlo… Patetico, dichiarato da chi era certo del contrario. Non si guarisce mai, dalle ferite del cuore, e poteva scriverlo col sangue ogni volta che entrava in quella casa.

Quanto Antonio aveva gridato e pregato; avrebbe dato l’anima per potere vedere Lucia respirare ancora, perché potesse esserle concesso un fiato per spiegargli la natura del suo gesto. Non voleva crederci, di avere ucciso una donna per una vecchia scelta sbagliata.

Di averne uccise due, sebbene l’altra riposasse nella propria stanza qualche piano sopra la sua testa, ignara che Antonio si trovasse ora nella sua stessa casa.

Volesse il cielo che gli si cancellassero dalla mente i vissuti degli ultimi decenni. Dovere calpestare le mattonelle di quel pavimento senza l’idea fissa che i piedi di quella donna avessero fatto lo stesso, sorridere senza la vergogna di ricordare che centinaia di volte l’aveva fatto con lei e grazie a lei.

«È per questo che ti consiglio di parlarle lentamente e di limitare le visite della famiglia e degli altri della tenuta. Finché non riprende la memoria, dovrà costituirne una nuova, e potrebbe non piacerle.»

 



L’ultima rampa di scale prima dell’ingresso l’avrebbe riportato a galla da quella realtà che odiava volere accettare, un po’ come rischiava di fare Elisa di fronte a quello sconvolgimento della propria mente.

«Fabrizio, sei tu?»

Antonio si bloccò, i piedi su due gradini diversi, una mano aggrappata al corrimano come una morsa.

Se si fosse mosso senza rispondere, la sua presenza l’avrebbe resa sospettosa di intrusione.

Se avesse risposto si sarebbe fatto riconoscere alla prima sillaba.

Eppure non desiderava eseguire nessuna delle due azioni: l’aspettava voltato di spalle, affinché la donna per la quale nessuna amnesia avrebbe potuto fare svanire l’immagine si stupisse dell’uomo cui era stato concesso di posare i piedi su quei gradini. Che fosse un gesto di cattiveria, o di pigrizia, o di provocazione poco importava. Forse era solo spaventato, in quanto qualsiasi mossa avesse fatto avrebbe fatto insorgere l’ira negli occhi di Anna. Anche se lui agognava unicamente di vederli, a prescindere dall’emozione che essi serbavano.

«Ma cosa…»

Non riuscì nella promessa di non voltarsi.

Le morbide onde dei suoi capelli cadevano sulle sue spalle e lungo la schiena, scivolando sull’avorio del pizzo della veste da camera, che celava quel corpo sino ai piedi.

Quale orrore avere sperato di poterla dimenticare per sempre!

L’ora non le diede modo di esprimere ad alta voce la sua riluttanza, il suo odio, la sua rabbia nell’affrontare quell’ospite non gradito, sebbene nella penombra delle candele appese lungo la scala fosse chiaro come il suo compito nella tenuta fosse stato meramente di tipo professionale.

Antonio poggiò la borsa a terra e improntò i gradini per risalire la scala, ma Anna indietreggiò ad ogni suo passo, pronta a mantenere la distanza che aveva decretato.

Forse era lei, tra i due, ad essersi imposta di dimenticare. Ma non era cautela, il significato delle mani dinnanzi a sé; non denotava titubanza, la sua bocca socchiusa, né gli occhi rapidi a cambiare direzione.

Erano i gesti inconsci di chi conosceva bene la persona con cui si costringeva a non voler trattare.

«Spero di non avervi spaventata.»

«Mia madre sta male?»

«No, Elisa è caduta da cavallo.»

«Se non è richiesta vostra ulteriore presenza in questa casa, vi prego di andarvene.»

Gli volse le spalle, la vestaglia strusciante di protesta contro le gambe della donna.

Inseguila, Antonio, corri incontro a quei capelli ordinati, avvertine il profumo, così come quello della sua pelle. Gioca con le ombre delle candele lungo le scalinate, afferrale un polso senza farle male, ricorda cosa voleva dire accarezzarla, sorriderle, scombussolarle la vita di gesti parole e sguardi. Chiama il suo nome fino a farle male, piantale il tuo in mezzo alla memoria sbiadita, strappale l’imposizione di fuggire lontano da te. Amala, Antonio, anche se non puoi averla, anche se non può e non vuole vedere i tuoi occhi che gridano per avere una seconda possibilità.

«Anna.»

Ricordati com’era chiamare il suo nome in mezzo alla gente.

«Anna.»

Ricordati com’era sussurrare il suo nome da soli, il fuoco di un camino a spiare i vostri abbracci segreti.

Anna sostò un istante sulla rampa che portava al piano di sopra, lo sguardo fisso a terra e una mano a reggere la stoffa della veste.

E ricordati che non vorresti mai dimenticarla, anche se ti si prospettasse l’occasione, perché la corsa di Anna nel coprire la distanza di un piano confessava solo una cosa. Che anche lei avrebbe voluto farlo, avrebbe voluto spazzare via il tuo nome, i tuoi abbracci, le tue carezze. Invece si ostinava a ricacciarti in un angolo, pugnalando il suo cuore ogni giorno.

«Anna.»

I passi si tramutarono di nuovo in una pausa silenziosa d’attesa.

Antonio sollevò lo sguardo, senza distinguere altro che il dondolio delle fiamme delle candele.

No, non aveva dimenticato.




   
 
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