L'eco dell'affronto
Dentolina si tappò le
orecchie con le mani, cercando di soffocare quelle vocine infantili
che cominciavano a parlare concitate per poi interrompersi fatalmente
e disperatamente sul più bello di un discorso, di un ricordo. Se non
le avesse sentite nemmeno iniziare le loro storie, forse sarebbe
andato tutto meglio, forse non avrebbe sofferto, forse non si sarebbe
sentita spezzata, non avrebbe percepito quei ricordi ridursi in
schegge taglienti nella sua mente, nel suo corpo, nel suo cuore. Ma
Dentolina non aveva a che fare con la Paura dai Secoli Bui, e aveva
dimenticato che a niente sarebbe valso il tentativo di sfuggirle.
Aveva dimenticato che la paura era dentro di lei, così come quelle
voci strazianti e straziate dalla sofferenza, dal terrore.
Dentolina le sentiva
tutte, dalla prima all'ultima, dalla più giovane a quella
dell'ultimo dente da latte caduto. Tutte quante le gridavano le loro
memorie, e la Fata le percepiva come una richiesta di aiuto, un
disperato ultimo appiglio al quale aggrapparsi prima di scivolare
definitivamente nell'oblio più oscuro e nero come la pece.
«Basta» implorò, non
sapendo bene a chi riferirsi in quel momento. Batteva le ali, ma
sentiva chiaramente di non riuscire più a sostenere quella doppia
fatica di combattere su due fronti due nemici diversi. Da una parte
c'era quel coro di bambini che rischiava di scomparire, dall'altra la
resistenza dell'aria rarefatta unita alla stanchezza di rimanere in
volo.
Non stanno credendo,
realizzò d'improvviso nel ricordare che lei non era mai affaticata
dal suo volo, mai. Non stavano credendo in lei, non le stavano dando
fiducia – e come potevano? Stava permettendo ad orribili filamenti
di oscurità di divorare i ricordi più preziosi dei bambini, dei
suoi piccoli bambini.
Proruppe in un gemito
incontrollato quando un bambino di un'epoca non troppo lontana si
interruppe mentre le sussurrava il suo sogno più grande, del quale,
Dentolina ne era sicura, non doveva più ricordare molto. E ora non
lo ricordava nemmeno lei. La consapevolezza che non avrebbe potuto
aiutarlo in nessun modo le strinse lo stomaco in una morsa dolorosa
che aveva dimenticato tanto tempo fa.
C'era disperazione in
lei, c'era orrore, c'era terrore, la paura di non riuscire a
risollevarsi, di non portare felicità ai bambini indifesi e alla
mercé di un'ombra folle e spaventosa che invadeva il mondo.
«Basta, per favore»
ripeté, la voce rotta da un singulto spontaneo.
Poté sentire, acuto e
penetrante, lo squittìo impaurito delle sue fatine rinchiuse nelle
gabbie. Tentò di alzare lo sguardo, ma i dentini le impedivano di
muoversi, le proibivano di distogliere l'attenzione da loro, come se
il solo fatto di starli ad ascoltare fosse loro di conforto.
«Oh, ma guarda chi
abbiamo qui!» esclamò una voce maschile compiaciuta.
Con un tonfo lieve,
Dentolina si lasciò cadere a terra, terrorizzata. Soltanto quando le
ginocchia toccarono il pavimento, con ancora tremendamente attive e
squillanti le voci dei piccoli esseri umani nelle orecchie, la Fata
guardò su: un'ombra lunga e flessuosa, che si stagliava su una
parete grigia, quasi nera, condusse il suo sguardo fino ad incrociare
la figura ancor più tetra di Pitch Black in cima ad una scala di
pietra.
«Benvenuta nei miei
domini, Dentolina» l'accolse l'uomo, guardandola con scherno, un
ghigno ad atteggiargli i tratti. «Non aspettavo visite, spero che tu
possa perdonare il disordine di quella pila», ed ammiccò alla
piramide irregolare di cilindri dorati che giacevano gli uni sugli
altri. Quando la Fata si focalizzò di nuovo su di loro, ebbe un
fremito nel sentire raddoppiata la potenza di quei ricordi infranti.
«Liberale!»
Sperò di averlo urlato,
ma dai lineamenti sempre beffardi di Pitch capì di non esserci
riuscita. Era troppo dolente per poter pensare di gridare.
«Povere creature»
scandì Pitch, melodrammatico, mentre scendeva la scalinata. «Come
ti senti, Fata dei dentini?» chiese poi, un po' meno beffardo.
Dentolina non rispose, né
credette che ce ne fosse davvero bisogno: lei, la Fata che mai osava
riposare, era prostrata a terra, spezzata nell'anima. Questo
doveva essere sufficiente.
«Liberale, Pitch. Libera
le fatine. Non senti come soffrono?»
L'Uomo Nero la guardò
penetrante. «Io sento la loro paura. E sento la tua»
«Io non ho paura di te!»
tentò Dentolina, rialzandosi seppur a fatica. Mentre stringeva i
pugni per infondersi forza, vide Pitch dileguarsi in un soffio. Si
voltò per seguire eventuali movimenti, barcollando per rimanere in
equilibrio.
Fu di nuovo l'ombra a
indicarglielo prima di ogni altra cosa. Era sempre più in alto di
lei, più inarrivabile, su una sorta di ponte sospeso sulla stanza.
La Fata saltò,
imponendosi di trovare la forza per volare. Riuscì ad arrivare a
qualche passo da lui quando, di nuovo, rovinò a terra distrutta.
Fece solo in tempo a cogliere una folata di vento che le fece capire
che l'Uomo si era allontanato un'altra volta.
Era sul punto di dirsi
che non sarebbe riuscita a volare più in alto quando lo scenario
intorno a sé cambiò: non era più su quel ponte sospeso, ma
all'estremità di un corridoio buio, opprimente, impregnato di
umidità. Si spostò appena all'indietro, toccando subito una
superficie fredda e ruvida alle sue spalle.
«Tu non hai paura di me»
annunciò la voce di Pitch che rimbombava nel posto angusto e
stretto. «Tu hai paura che, senza di te, i bambini non riusciranno
più ad essere felici come prima»
Dentolina sapeva fin dove
potessero spingersi i poteri e le sensazioni di Pitch, ma essere
testimone delle sue abilità la frastornava e agitava ugualmente.
«Smettila» sibilò,
poco convinta, appiattendosi contro il muro, cercando con gli occhi
il corpo dell'altro.
«Non ti sembra un po'
presuntuoso da parte tua, Dentolina?» chiese Pitch dall'oscurità.
Quando alle orecchie della Fata giunse il suo nome, gli occhi
cominciarono a vedere il lucore ambrato di quelli dell'avversario.
Non erano troppo lontani.
«Cosa?» domandò,
sinceramente stupita.
«Credi di essere davvero
così importante per i bambini, tu?»
Finalmente, Pitch si
stagliò contro il manto nerissimo dietro di sé, non smettendo di
avanzare. Dentolina inspirò a fondo, il significato di quelle parole
che non voleva mostrarlesi, interrotto e ovattato dall'eco degli
stivali dell'Uomo Nero sul terreno.
«Lo credi?» ripeté di
nuovo, a pochi centimetri da lei.
Dentolina ragionò e
considerò che la Custode della Memoria dei bambini necessariamente
avrebbe portato felicità ai più piccoli. Non solo: lei aveva
l'accesso a quella felicità, la proteggeva e l'aveva sempre fatto
insieme alle sue compagne perché nessuno osasse distruggerla.
Nemmeno – e soprattutto – Pitch.
«Sì» bisbigliò,
guadagnandosi un'occhiata stupita. «Ora libera le mie Fate»
«Altrimenti che fai?»
provocò Pitch, piegandosi per raggiungere l'altezza di Dentolina.
Mossa sbagliata,
pensò la Fata prima di tirare un pugno sulla faccia spigolosa
dell'interlocutore. L'aveva fatto con una potenza tale da avere le
nocche indolenzite, ma la fitta di dolore non riuscì ad evitarle un
sorriso trionfante nel constatare di avergli fatto male.
L'Uomo Nero si portò le
dita a massaggiarsi il mento, scoccandole uno sguardo furente.
«Non è saggio sfidarmi
in questo modo» sibilò tra i denti, prima di rimettersi in
posizione eretta. «Non lo è per niente»
Un frusciare sospetto
disfece l'espressione fiera di Dentolina. La Fata prese a guardare
alle spalle di Pitch, ma nemmeno se l'avesse prevista sarebbe stata
in grado di contrastare quella massa filamentosa di Incubi che la
stavano per attaccare. Lanciò un grido all'ultimo momento, cercando
per istinto una via di fuga che il posto non poteva offrirle. In un
attimo fu completamente circondata da un vortice scuro e fitto che le
impediva di vedere oltre. Sentì su di sé la paura più nera che la
invadeva, le penetrava la pelle e non la faceva respirare. Per un
attimo credette fosse la paura di tutti i bambini del mondo che
avevano smesso di credere in lei. Poi capì che quella era solo tutta
la sua angoscia più profonda.
Fu proprio la
consapevolezza che la fece capitolare alla mercé del vortice oscuro,
con l'unico frammento luminoso della stanza impresso nella mente: gli
occhi di Pitch.
Si risvegliò
all'improvviso nel suo regno, su di un padiglione casuale della
struttura. Fremette di colpo, temendo di ritrovarsi vicino Pitch
Black o, peggio, uno dei suoi Incubi Purosangue.
Si alzò, tremante ma in
parte rassicurata. Si prese qualche secondo per respirare e tornare a
pensare lucidamente. Era stata richiamata dalla mole di lavoro da
compiere, abbandonando perciò il palazzo di Nord, e forse si era
addormentata. Sicuramente era quella la spiegazione a tutto ciò che
aveva visto e che risultava incompatibile con la sua attuale
posizione.
Si guardò finalmente
intorno, e trasalì.
«No!» urlò in preda al
panico mentre realizzava di essere sola. Il suo alveare di rumorose
fatine non era con lei, non squittiva più, non svolazzava con i
dentini e le monete. Nemmeno questi c'erano più. Tutto era vuoto, ad
eccezione di lei.
Volò in fretta a
lanciare il segnale d'allarme rivolto agli altri Guardiani, poi
lasciò che la disperazione la invadesse totalmente.
Guardò all'orizzonte,
distinguendo le scie nere degli Incubi di Pitch che ancora erano
all'opera, ma lei non poteva fare niente: si sentiva stanca, senza
forze e così sola non avrebbe comunque potuto molto.
«Pitch!» strillò
rabbiosa, continuando a perlustrare ogni angolino della sua
residenza, continuando a risultare sempre più sconfortata
dall'assenza che vi regnava.
Gli avrebbe fatto pagare
quell'affronto, lo sapeva, lo voleva, se lo ripromise senza esitare.
Pitch Black l'avrebbe affrontata prima o poi, anche qualora si fosse
trovata completamente senza energie.
Si lasciò sfuggire un
gemito di angoscia nel rendersi conto che l'eco dei ricordi dei
bambini era svanita dalla sua mente. Ora non chiedevano più aiuto,
né le parlavano con le loro solite voci infantili e giocose.
Semplicemente, non c'erano. Erano sottoterra, nei domini dell'Uomo
Nero, e lei non era riuscita a salvarli, non era stata in grado di
riportarli in superficie, e nemmeno di aiutare le sue amiche e
compagne.
Sentì la rabbia montarle
dentro, in contemporanea alla promessa che, un giorno non molto
lontano, Pitch Black avrebbe assaggiato il suo disappunto.
Quando i Guardiani arrivarono, era ancora intenta a cercare briciole di speranza.
FINE
Angolo
dell'autrice: Salve a tutti!
Ho
voluto riempire quello che a me è sembrato una specie di vuoto nella
trama del cartone animato, cioè cos'è successo quando Nord ha
portato Jack nel suo ufficio? Ho reso di proposito i momenti
descritti più lunghi rispetto ad un reale svolgimento dei fatti per
dare l'idea della dimensione del sogno/incubo, che funziona,
ovviamente, in modo diverso da quella vera. Mi sono attenuta al
confronto tra Pitch e Jack Frost perché quella sequenza era troppo
scenica perché non la riprendessi almeno un po'. XD
Questa
è la mia prima storia nel fandom! Spero perciò di non aver fatto un
disastro con i personaggi che mi premono sempre tantissimo. Mi
rimetto a voi!
Ringrazio
infinitamente chi vorrà leggere e magari lasciarmi il proprio parere
in proposito! Davvero, grazie di cuore!
Un
bacio e alla prossima!
Menade Danzante