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Autore: Cassie chan    22/10/2015    14 recensioni
ATTENZIONE: non tiene conto degli eventi del settimo libro...!!Sono passati alcuni anni dalla fine della guerra, ed Hermione Jane Granger vive estromessa dal suo mondo, quello della magia, a causa di una condanna ricevuta tempo prima. Fidanzata delusa, disoccupata cronica, cinica perenne, Hermione ormai dispera dell'arrivo del principe azzurro. Ma quando arriva, non è facile riconoscerlo nelle fattezze affascinanti ma DECISAMENTE irritanti di Draco Lucius Malfoy, specie se babbano anche lui... ma la vita è decisamente strana e può anche capitare che ci si imbatta in una piccola fiaba, proprio quando si credeva di vivere in un incubo...:) PUBBLICAZIONE CAPITOLO 51 : 14 LUGLIO 2020
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Genere: Comico, Commedia, Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Ginny Weasley, Harry Potter, Lavanda Brown, Ron Weasley | Coppie: Draco/Hermione
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Dopo la II guerra magica/Pace
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'THE "HAVE A LITTLE FAIRY TALE" SAGA. '
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Dopo cinque anni di separazione e una residenza forzata in Italia per difendersi da Dimitri Karkaroff e Astoria Greengrass, Hermione torna in Inghilterra in cerca di Draco assieme al figlio Alex, di cui Draco stesso non sa nulla. Nel suo viaggio, Hermione viene aiutata da Dean, Pansy e Seth che la informano che Draco potrebbe essere ancora con Raissa Karkaroff. Una traccia per trovare Raissa risiede inaspettatamente in un incontro che Draco, incalzato da Adamar durante la sua prova, aveva fatto nell’aldilà: una donna di nome Tatia Krasova gli aveva chiesto di riferire ad Hermione il suo nome in modo che si ricordasse di lei. Hermione, però, non la conosce. Cinque anni dopo, tuttavia, Hermione, Dean, Pansy e Seth scoprono che Tatia Krasova era una profetessa, il cui nome era stato celato e nascosto da Raissa, strappando la pagina di un libro, testimoniando quindi un probabile contatto tra le due. Tatia non voleva che Hermione si ricordasse di lei cinque anni prima, ma in quel momento, alla scoperta del gesto di Raissa. Hermione riesce a scoprire dell’ultima dimora di Tatia Krasova: era in Finlandia dove era sposata con un uomo di nome Ilai Radcenko. A casa di Tatia, Hermione trova una lettera destinata a lei dalla ragazza e scritta ben dieci anni prima e dove lei le dice tutto quello che le è accaduto, rivelandole anche che Raissa sente ancora Ilai di cui è innamorata. Tatia era un’amica d’infanzia di Dimitri e Raissa, sebbene fosse più piccola di loro, i tre erano cresciuti assieme come fratelli. Tatia da sempre dotata di un fortissimo potenziale magico, aveva da sempre attratto l’indole scientificamente curiosa dei fratelli Karkaroff, specialmente di Dimitri, che ne era ossessionato molto più che innamorato. Quando però Tatia ed Ilai si erano innamorati, Raissa aveva finito per uccidere casualmente Tatia e Dimitri le aveva fatto promettere di aiutarlo a fare sua una donna che suscitasse in lui lo stesso interesse che gli aveva provocato Tatia, altrimenti avrebbe rivelato ad Ilai il nome dell’omicida della moglie. Hermione quindi, conosciuta la verità, ritorna in Inghilterra con Ilai, Dean, Seth e Pansy, ma giunta a casa di Draco, scopre una cosa straziante: Serenity chiama Raissa mamma. Interrogando con il Veritaserum la bambina, scopre che Draco sta addirittura per sposare Raissa stessa; distrutta, Hermione decide di andarsene senza incontrare Draco e di partire per la Finlandia con Ilai, a cui la lega una complicità sempre più stretta. Ma, alla festa di paese dove è andata con suo figlio e i suoi amici prima di partire, qualcuno dal palco chiama il vincitore del secondo premio di una lotteria. Viene annunciato a gran voce il nome di Serenity, facendo presagire che la bambina non sia ovviamente da sola. Ma l’attesa di Hermione si rivela vana: Serenity non è con Draco, ma con Raissa che, pazza di gelosia nell’aver intuito un legame tra Ilai ed Hermione, usa un Incantesimo per far comparire Dimitri, mai morto e sempre più ossessionato da Hermione. Le ordina di uccidere Draco ed Ilai e lega Alex a sé stesso, di modo che qualsiasi cosa gli succeda, accada al bambino: Hermione ha solo tre giorni per impedire che l’assimilazione diventi definitiva e che Dimitri non si suicidi, trascinandosi dietro anche il figlio. Tornata a casa di Draco, Hermione distrutta ricambia il bacio di Ilai, poco prima che Draco ricompaia nella sua vita. L’incontro tra i due non è idilliaco. Entrambi si sentono traditi l’uno dall’altra, in virtù dei legami intanto sorti tra Hermione ed Ilai, e tra Draco e Raissa. Le cose peggiorano, quando in modo rocambolesco e a causa dell’intervento dei Karkaroff, Draco scopre prima che Hermione gliene possa fare parola, che Alex è anche suo figlio. La scoperta lo distrugge emotivamente e psicologicamente, minando forse per sempre la fiducia nei confronti di Hermione. Il clima diventa ancora più complicato e ingestibile, quando Draco ed Hermione apprendono dall’Empatica Helder di essere finiti nell’occhio del ciclone di una guerra millenaria tra il demone Adamar e gli Empatici. Non potranno sconfiggere i Karkaroff e riprendersi il loro figlio, se non supereranno una prova imposta dal demone che testerà il sentimento che li unisce. Il loro amore, difatti, cinque anni prima, assieme alla creazione e distruzione dello Zahir e al ritiro dalla prova di Adamar a cui si era sottoposto Draco, ha scatenato una serie di eventi che li designa come unici possibili vincitori nei confronti del demone: solo loro possono invocare la Solutio damnationis, lo scioglimento della dannazione, ossia la distruzione di ogni potere concesso da Adamar nonché della sua stessa esistenza. La prova è però complicata, difficile, dura, e Draco ed Hermione disperano di potercela fare, visto come si è deteriorato il loro rapporto. La Solutio damnationis è però l’unico modo per sconfiggere Adamar, e liberarsi del potere dell’onniscienza dei Karkaroff, in modo da eliminarli. Nel piano di Helder, trovano posto tutti i loro amici, riuniti per salvare il piccolo Alex Malfoy. La prova potrebbe avere conseguenze mortali per il pianeta, oltre che per loro due e per Ilai Radcenko, che deve fingersi morto con un complicato meccanismo biologico ed empatico, per ingannare i Karkaroff. Nonostante tutto, sebbene siano certi di non potercela fare e rassicurati sul destino dei loro figli qualora la prova vada male, Draco ed Hermione accettano di sottoporsi alla Solutio damnationis. Dopo essersi chiarita con Ron, Hermione parla con Serenity, raccontandole di suo “fratello” Alex. Ma proprio durante la conversazione con la bambina, mentre mostra a Draco le fotografie del loro figlio, dal suo album di foto ne compare una di lei con Draco, scattata e conservata di nascosto da cinque anni prima. È allora che Draco mostra ad Hermione un libro di favole disegnato da lui, per Serenity. Ogni principessa del libro ha il volto di Hermione. È la molla per la peggiore delle rivelazioni possibili. Sebbene entrambi sono consci di essere ancora profondamente legati l’uno all’altra, Draco ed Hermione affrontandosi si rendono conto di essere innamorati del loro passato, più che di loro stessi al momento. Troppo dolore e rancore è intercorso tra loro, e purtroppo ormai non sanno se potranno recuperare loro stessi vista l’imminente prova con il demone. Disperando di poter tornare vivi, in un clima di tregua indotto dalle circostanze, restano assieme per la loro ultima notte. Al mattino, a causa degli effetti del legame empatico tra lei ed Ilai Radcenko, Hermione scopre non solo i sentimenti dell’uomo verso di lei, ma anche di quanto questi inaspettatamente non siano a senso unico, cosa che la dilania. È in tale sentimento confuso che Draco ed Hermione incontrano il demone Adamar e la sua compagna di vita, Eva Dubois. La prova del demone è semplice: cancellati i tradimenti che hanno condizionato il futuro di Draco ed Hermione, il loro destino sarebbe stato completamente diverso e, secondo Adamar, avrebbero avuto quello che davvero desideravano. Adamar li blocca quindi in un altro mondo ed un’altra vita con una sola minuscola scappatoia per fuggire, un fantomatico “giungere palma a palma”: senza memoria del mondo reale, Hermione e Draco vivono due vite parallele assolutamente ignari che sia un inganno del demone. Più tempo passa, però, e meno avranno possibilità di tornare indietro.

 

 

Capitolo 46 – Disturbia, step one : about happenstance.  

 

28 novembre

 

E’ tutto bianco, come se avesse nevicato. Ma la neve è bella, pulita, fresca, pura… ed invece quel bianco è malato, ansiogeno. Si mangia i colori, si mangia le voci, è vorace di luci e suoni. Dà l’impressione di essere diventati ciechi o di essere diventati sordi, anzi peggio… di essere morti e di non essersene accorti.

Già… morti.

Trapassati nell’inesistenza in un soffio di fiato più forte degli altri.

Morti come le foglie secche schiacciate dai piedi frettolosi di un passante. Un fruscio sinistro e poi più niente.

Lei però qualcosa sente. Qualcosa sente. Una sola singola e tonante frase che le rimbomba nel petto come una campana a morto. Una voce maschile che preme contro le sue orecchie. È strascicata, eppure roca, profonda. Le dà i brividi. Sussurra contro le sue guance, come se fosse ad un alito da lei.

Però è come se il bianco avesse una voce che sa di vento, furore, tempesta. Di occhi dorati e malati di demone.

E si porta via quelle parole. Non le distingue. O le sente ma le dimentica assieme nello stesso istante. Ricorda solo la fine di una frase che sembra non avere senso.

“… il motivo che cerchi…”. 

Fa male.

Il bianco la strattona dal fianco destro, come se si divertisse a tenderla come un elastico per vedere quanto resiste. E lei puntualmente si spezza.

La chiamano, la chiama: e lei non può rispondere. La voce se l’inghiotte il bianco.

Poi si inghiotte anche lei, intera, in un solo morso.

 

Al mattino Hermione Granger, 36 anni appena compiuti, ha sempre una lacrima sotto l’occhio sinistro che non capisce. La sfiora con un dito, l’assaggia, fa una buffa smorfia cercando di dare spessore ad una serie indefinita di lampi dorati nel bianco. Da tre mesi non ricorda più i suoi sogni al risveglio. Ma devono essere incubi visto che alla mattina sembra che abbia pianto.

“Grazie memoria selettiva, allora…” sussurra allora a sé stessa con un sorriso stanco.

Indugia nel letto qualche secondo, pigra. L’aria del primo mattino è fredda, le coperte sono calde invece. Poi si alza con un sospiro ed indossa la vestaglia da camera sul pigiama rosa di flanella.

La lacrima dalle sue dita cade sulla fronte di suo marito, mentre lo accarezza con distratto affetto, sussurrandogli di svegliarsi.

La goccia di sale evapora ancora prima che Ronald Weasley si sia svegliato.

 

 

Le rughe mi hanno sempre affascinato.

Quando in un impeto di sincerità l’ho raccontato a Ginny, lei mi ha guardato storto e ha borbottato roteando inquieta gli occhi: “Cioè, già sei immune alla maggior parte delle preoccupazioni femminili… ma anche le rughe adesso ti piacciono? Non avrai qualche seria turba psichica di cui non sei ancora completamente a conoscenza?”.

Dopo allora, credo di non averlo più propriamente esternato a qualcuno di diverso da me stessa, mentre mi guardavo allo specchio.

Intendiamoci: ovvio che sono perfettamente consapevole che ogni singola ruga sul viso di una donna, somiglia ad un passo verso la strada della decadenza della bellezza.

E già questo dovrebbe indurre a comprendere quanto potrebbe fregarmene di meno.

Diamo però per scontato che io non sia Hermione Granger, 36 anni, la regina della razionalità incarnata e la principessa dal motto “La sostanza vale tutto, la forma non vale niente”.

Supponiamo per un momento, invece, che sia una modestamente più interessata all’estetica: probabilmente avrei ugualmente fascino delle rughe, di quelle linee scolpite nella pelle di una donna o di un uomo, a contarne gli anni come i cerchi degli alberi.

Le rughe mi ricordano il viso di Silente: quella pace scolpita, quella dolcezza addormentata, quel reticolo di pensieri che, da bambina, mi davano l’impressione di essere così potenti e forti da non restare confinati nel tracciato dei neuroni, ma che avevano necessità di uscire fuori, scoppiare all’esterno, chiazzare l’epidermide.

E io mi auguravo una folla di pensieri così.

Le rughe mi ricordano anche il viso di mia madre quando sorride: e mi spingono a cercare in una di esse, in quella più profonda, in quella più scavata vicino alle labbra, la presenza di mio padre che, da cinque anni, non può più baciare quell’angolo della bocca.

Le rughe mi sembrano, insomma, una specie di mappa del cuore di una persona.

Come se tu potessi ricostruirne la trama dei ricordi, soltanto guardando un viso: sono pochi ragionevolmente sul volto glabro di un bambino. Diventano tracce del sangue, quando si diventa adulti e vecchi.

Per questo, il mio esercizio al mattino è studiarmi il volto alla ricerca di quei segni: saranno più o meno di ieri? Un sogno della notte avrà lasciato un marchio tangibile nella pelle accaldata?

Osservo il mio riflesso allo specchio, una ruga piccola ed irregolare taglia a metà lo spazio tra gli occhi: è il carico di ghiaccio che mi congelò il cervello quando vidi il corpo di Harry apparentemente morto penzolare tra le braccia di Hagrid il giorno della battaglia di Hogwarts. Un’altra, dritta e profonda, solca lo zigomo destro e scende lungo le fossette del sorriso: è l’ultima spinta quando misi al mondo Hugo, gemendo sudata dopo un travaglio di dodici ore. Un’altra ancora appena accennata segue la linea del collo, ricordandomi del giorno in cui persi di vista Rose e lei si ruppe un braccio cascando dal trampolino della piscina.

Poi ce n’è una che non mi crea tutta quella serenità che provo alla vista delle altre.

Una recente, ma profonda. E soprattutto particolarmente fastidiosa da guardare stavolta, come se fosse… diversa.

Non mi ricorda nulla, assolutamente nulla.

È un segno evidentemente scolpito, come se fossi fatta di marmo e fossi stata scavata nella pelle con una mano dotata di scalpello. Corre come la goccia che fende la roccia, partendo dall’angolo interno dell’occhio destro e segue gli itinerari delle lacrime, scivolando sullo zigomo e sulla guancia.

L’ho notata per la prima volta quando sono tornata a casa il 1° settembre, dopo aver lasciato Rose alla stazione di King’s Cross. Certo, avevo pianto un pochino sulla spalla di Ron mentre riprendevamo l’auto, ma non così tanto da addirittura ritenere che ciò lasciasse un segno. Ero contenta che mia figlia fosse ad Hogwarts, lo sono ancora, le scrivo ogni giorno cercando notizie e elemosinando aneddoti dalla sua penna da ragazzina, dolendomi se mi scrive troppo, avrà amici con cui occupare il tempo in cui dovrebbe scrivere a sua madre? e lamentandomi se mi scrive poco, nemmeno tre mesi sono passati e già si è dimenticata della sua mamma!

Un iter largamente normale che mi vede compagna di centinaia di mamme con cui condivido discorsi stereotipati, conditi da troppi sospiri e singulti di rassegnazione.

Ma quella ruga, quel segno come se avessi pianto fino a scorticarmi il cuore, come se mi avessero strappato qualcuno da dentro facendomi sanguinare e scoppiare le vene…

… io non me lo sono mai riuscito a spiegare dal 1° settembre di qualche mese fa.

 

 

"Finisci la tua colazione! Devi andare a scuola... e non credo che abbiamo ancora animali domestici da sacrificare per giustificare i tuoi ritardi! Questo mese sono morti tre canarini, un pesce rosso ed sette criceti. La casa della morte la chiameranno!".

Nessuno dei miei due figli ha preso da me: hanno qualcosa come un calco confuso, ma nessuna reale somiglianza. Ron spesso sostiene che Rose abbia ereditato la mia intelligenza, ma mi sono schermita spesso di fronte al complimento. Questo perché mio marito non ha mai riconosciuto di avere una sua forma specifica di intelligenza, ben diversa dalla mia.

Accorgendosene invece, si sarebbe reso conto di quanto in questo Rose sia diversa da me.

La mia è un’intelligenza nervosa, sudata, isterica, forgiata dalla carta e dell’inchiostro.

L’intelligenza di Rose è più istintiva, naturale, rapida come il fuoco che incendia le frasche. Le piace leggere, ma non divora libri come facevo io alla sua età. Conosce parecchie nozioni sparse, apprese per forza di cose dai dialoghi infiniti che ha sempre avuto con me, ma non ne fa sfoggio od uso eccessivo, se non nei momenti in cui sia vitalmente necessario. Intuitivamente è il mio opposto, dato che invece ho sempre brandito la conoscenza come la spada affilata a scudo delle mie insicurezze ed incertezze. Se prende un voto basso a scuola, sbuffa un pochino, poi scoppia a ridere dicendo che non le interessa.

Io, al suo posto, mi sarei fatta venire una caterva di precoci rughe.

Difficilmente riesce a stare ferma per più di dieci secondi cronometrati: le piace correre, sporcarsi d’erba, giocare a Quidditch.

È una Weasley, inutile girarci attorno.

Ricorda così tanto il fantasma di Fred e George come entità indivisibile e mai separata nei ricordi, da fare male al fiato e allo stomaco.

Il suo aspetto ne è un ulteriore conferma. Lunghi capelli lucidi e lisci, solo un po’ arricciati sulle punte come residuo del mio patrimonio genetico. Occhi grandi e puliti che di mio hanno solo il colore: io non ho mai avuto occhi così tersi neanche alla nascita, avevo sempre troppe domande a cui rispondere e che mi affannavano lo sguardo. A completare il tutto, Rose sfoggia un corpo acerbo e dinoccolato da ragazzina: magra come un chiodo, con le ginocchia spigolose e il viso tondo dell’infanzia. In tutto, ricorda maggiormente la zia Ginevra che la madre Hermione.

Il discorso non è neanche molto differente con Hugo: anzi probabilmente, visto il suo sesso diverso dal mio, mio figlio sembra aver preso solo il sangue di suo padre.

È coraggioso ma insicuro, sempre timoroso e convinto di non essere capace di fare determinate cose, finché non apprende che non solo le sa fare, ma sa anche migliorarsi continuamente. Anche a lui piace stare all’aperto, vivere nell’erba e nel vento e, contrariamente a Rose, non ha alcuna pazienza né di ascoltare storie, né tantomeno di leggere.

Non mi lamento: adoro i miei figli, amo mio marito. Vederlo riflesso in loro è sempre stato come mettere in parentesi l’amore per lui e moltiplicarlo all’ennesima potenza.

Spesso ho pensato a come sarebbe stato avere un figlio, o una figlia, che avesse invece ereditato il mio amore sviscerale per i libri, le mie labbra, il mio taglio degli occhi, persino la mia espressione da pesce palla. Ci ho pensato spesso ed è un pensiero che mi ha sempre causato un senso strano di mancanza.

Come di amputazione di metà del mio corpo, quella più vitale e necessaria. Quindi l’ho ricacciato indietro, perché è un sentimento ingiusto.

Così brucia l’amore del genitore. Un moccioso urlante tra le braccia, ancora sporco di placenta e sangue. Una fotografia stupida tra le dita, saporosa di passato e rimpianto. E non sei più uguale a prima: tessi tele e ricami che siano i vessilli del sangue che vi lega. Se ci somiglia, è la migliore versione di noi stessi. Ma se non ci somiglia, in fondo, è il migliore rimpiazzo a noi stessi.

E io non potevo desiderare rimpiazzi migliori a me stessa di Rose ed Hugo.

Sorrido non vista, mentre dando le spalle al tavolo della colazione continuo a lavare i piatti. Passo la spugna insaponata sulle tazze sporche e, con uno strano senso di nausea, osservo il contenuto avanzato della mia. Un fondo di caffè nero ed amaro, una volta bollente, mi informa che stamattina non ho bevuto come al solito il mio succo di ananas. Io ingurgito sempre caffè solo quando sono terribilmente nervosa. Sospiro a lungo, anche quella è una novità degli ultimi tre mesi. Da quando è partita Rose, non c’è stato verso di riprendere con le mie solite abitudini alimentari della colazione. Eppure, non potrei dirmi nervosa o agitata, o in pensiero per mia figlia. Diamine, è a scuola, non è stata rapita da un pazzo omicida. Il mio corpo, però, non è dello stesso avviso. Chiudo gli occhi per un paio di secondi, fermando il conato di vomito che mi raggiunge le labbra, e meccanicamente ingiungo ad Hugo di muoversi con la sua colazione.

In risposta mi giunge un gorgheggio lamentoso ed acuto di mio figlio, assieme al tintinnio secco del cucchiaio che gira ancora nella tazza di cereali. Quando sto già per voltarmi e rincarare la dose, Ron pensa bene di intervenire, redarguendomi con voce flemmatica: “Mione dai... devi essere un po' più elastica!". 

La tazza che stavo risciacquando annoiata mi scivola dalle dita bagnate di sapone di marsiglia, cascando con un tonfo sordo nel lavandino. Trattengo un respiro più forte che rilascio all’improvviso come se fossi un palloncino che viene sgonfiato di schianto. Freno con un impeto di coraggio e calma il rigurgito acido di parole che sta già solcando le mie labbra; esso però si accompagna con un ulteriore e ben più reale attacco di nausea che mi fa barcollare. È quello che non trattiene in gola, alla fine, il mio commento piccato: "Ti regalerò il dizionario dei sinonimi e contrari per evitare che pronunci otto volte al giorno quel simpatico aggettivo...". 

Ron Weasley ha sempre il modo giusto e pronto in tasca per farmi arrabbiare: in momenti di lucidità o di estrema pace, penso semplicemente che non lo faccia apposta, che sia soltanto un uomo distratto e superficiale come ce ne sono tanti. Non è peggiore di tanti altri, le donne devono da sempre imparare ad avere pazienza con l’atteggiamento da elefanti in una cristalleria dei loro compagni. Altre volte penso in modo automatico che Ron Weasley non sia venuto al mondo provvisto del manuale d’istruzioni di Hermione Granger. E non a caso, in un modo che spero sempre che sia inconsapevole perché a metterci impegno si sfiorerebbe la crudeltà, Ron mi punzecchia ancora con l’aggettivo poco elastica che sa perfettamente che detesto. Credo persino di averglielo detto in una decina di occasioni, sforzandomi di essere seria, chiara e concisa. Ed invece, per l’ennesima volta, ci risiamo.

Odio essere definita così perché mi sembra quasi un retaggio delle chiacchiere adolescenziali che berciavano alle mie spalle: sì, ero tanto intelligente e capace, ma ero anche una bacchettona snob ed antipatica che sveniva sul colpo a non rispettare le regole, ad accorciare una gonna, a bere un bicchiere di Acquaviola, a concedersi ad un ragazzo. Certo, magari mi può importare poco di quelle che sono solo paranoie da ragazzina ormai dimenticate, ma l’adolescenza si attacca alle ossa anche quando si cresce. Ci si crede sempre in debito di dimostrazione con essa: e io credo davvero di essermi ammorbidita negli anni.

La guerra, quella dannata guerra che abbiamo vinto, avrei potuto superarla solo se flessibile come giunco, e non rigida come quercia.

D’altronde, Ron è quello che ha vissuto tutte quelle esperienze con me. Dovrebbe avermi vista maturare ed aprirmi come un bocciolo di loto e per primo dovrebbe riconoscere che non sono più la stessa ragazzina tutta acqua e sapone ed inchiostro e libri: quindi che si ostini a chiamarmi ancora in nome di una vecchia pecca del mio carattere, è quantomeno irritante.

Non lo fa apposta, mi dico daccapo nella mente, accompagnando la frase con uno sospiro profondo, specie quando intuisco che Ron se l’è presa per il mio commento piccato, avendo ulteriore conferma della mia scarsa propensione al gioco, all’ironia ed allo scherzo. Mi sforzo quindi di voltarmi con espressione più neutra, mentre Hugo sbraita di nuovo con vocetta acuta: "E poi, mamma, a me non piacciono le ciambelline di avena! Volevo le stelle di cioccolato con lo zucchero!".

Una nuova vertigine mi colpisce infida alle tempie, accompagnandosi all’ennesimo conato. Rispondo quindi acidamente, senza ascoltare nemmeno che cosa stia dicendo: "Bè certo effettivamente non erano abbastanza colme di glucosio! La prossima volta a colazione, direttamente il saccarosio! Te ne preparerò una ciotola piena, va bene, Alex?". 

Alle mie parole, sento seguire uno silenzio strano da parte di mio marito e di mio figlio, cosa che mi costringe a voltarmi su me stessa, chiedendomi se non siano improvvisamente evaporati liberandomi dal fracasso mattutino.

Ron mi guarda inarcando un sopracciglio, le labbra che descrivono una piccola “o” di sorpresa, mentre Hugo sporge il labbro inferiore, ancora vagamente infastidito: "Mamma io sono Hugo".

L’ovvietà dell’affermazione di mio figlio, pronunciata con voce tra il saccente e lo scontato, mi spinge a ricapitolare mentalmente le mie parole precedenti che non trovo assolutamente sbagliate. Dopo qualche secondo, arresami, poggiando la tazza pulita nella credenza, chiedo con uno schiocco di lingua nervoso: "Perché, che ho detto?".
"Alex" risponde Hugo, quasi offeso, guardandomi storto come se lo avessi tradito personalmente.

"Hai detto proprio Alex, Mione" rincara Ron la dose con espressione scettica, piegando il collo per dedicarmi uno sguardo indagatore, come se fossi un foglio di carta da guardare in controluce. Gli restituisco uno sguardo fosco, nebuloso, mentre chiedo ancora: "Alex?". 
"Alex, sì, non sono sordo" ribadisce Ron sfiancato, riprendendo a sorseggiare il suo caffè con sufficienza. Resto per un attimo assorta nei miei pensieri, la testa bassa e gli occhi fissi sulle piastrelle di ceramica del pavimento della cucina. Alex. I miei occhi si impuntano su una crepa di una mattonella, sembra una lunga ferita nel marmo, ne seguo il profilo con la punta del piede.

Sebbene abbia studiato qualche anno fa psicologia, non capisco che collegamento incomprensibile può aver fatto la mia mente per suggerirmi un nome che non mi dice assolutamente niente. Certo, Alexander è il nome di mio padre, ma non è entrato in alcuna associazione mentale, adesso, mentre rimproveravo Hugo. E certo non mi sono mai riferita mentalmente a mio padre con il nome “Alex”: ovvio che lo chiami ancora “papà”, sebbene sia morto da cinque anni. Del resto, non conosco quell’abbreviazione nemmeno per intercalare altrui: mia mamma ha sempre chiamato papà con il suo nome di battesimo completo, cosa che mi dava sempre un tono solenne e mi spingeva sempre a concludere, quando ero bambina, che Alexander fosse un nome da imperatore, da zar, da sovrano, ed andasse quindi pronunciato per intero.

Quando rimasi incinta di Rose, il nome Alexander era tra i papabili se avessi avuto un maschietto. Mi sarebbe piaciuto davvero come nome, anche seguito dall’Arthur del padre di Ron.

Sarebbe stato davvero un nome da re se coniugato in quella maniera.

Ma arrivò una bambina, la mia meravigliosa piccola Rose, e scelsi io il nome per lei. Mi era sempre piaciuto come nome assieme a Charlotte.

Come d’accordi, poi, lasciai che qualora avessimo avuto un altro figlio, fosse Ron a scegliere il nome del neonato. Ma allora non arrivò alcuna Charlotte, nome che lui stranamente aveva persino approvato.

Arrivò un maschietto a cui appioppò il nome Hugo che io detesto. E tanti saluti ad Alexander Arthur Weasley. Mio figlio, invece di portare il nome di un re, porta il nome del portiere dei Cannoni di Chudley di una decina di anni fa. Me lo faccio piacere solo perché, nel mio intimo, continuo a dirmi che si chiama Hugo in onore dello scrittore francese Victor Hugo. E tecnicamente è anche la versione che do in giro, quando mio marito non è a portata d’orecchio. È una cosa però superata da anni, mi ci sono anche rassegnata su, perciò commento in modo scherzoso verso Ron: "Sarà una vendetta del mio inconscio per averti concesso di scegliere il nome di nostro figlio. Alex... da dove diamine mi è uscito?". Le mie labbra, mentre do le spalle all’ulteriore siparietto tra Ron ed Hugo, continuano a masticare il nome Alex per qualche secondo, fino a quando ho l’impressione che questo faccia, se possibile, aumentare ancora di più la mia nausea e vorticare il mio cervello come se fossi in una morsa.

Quando mi sembra di averne abbastanza di questi giramenti di testa, mi siedo con attenzione e premo a lungo la mano sulle labbra, attirando l’attenzione preoccupata di Ron.

“Mione, che c’è?” mi chiede con apprensione, sfiorandomi la guancia con due dita, mentre si inginocchia di fronte a me. Rassicura Hugo con un’occhiata, ingiungendogli severo di andarsi a preparare, cosicché nostro figlio esca dalla cucina sbuffando e battendo i piedi, senza accorgersi però del mio malessere. Cerco di rassicurarlo con un sorriso stanco, mentre lui mi porge con solerzia un bicchiere di acqua fredda. Lo ingurgito in due sorsi e, finalmente, la nausea sembra passare, lasciandomi solo una sopportabile sensazione di stretta allo stomaco.

Sollevo lo sguardo finalmente verso Ron, carezzandogli lo zigomo con dolcezza, prima di soffiare fuori: “Nulla di che. Solo un po’ di nausea… e vertigini. Credo che sia un po’ di pressione bassa…”.

Ron non dismette l’espressione agitata e, porgendomi la mano affinché mi alzi in piedi con cautela, mormora severo: “Non dovresti andare al lavoro se non ti senti bene, Mione. E dovresti chiamare un Medimago… non è la prima volta che ti succede…”.

Aggrottando le sopracciglia, mentre mi sollevo malferma sulle ginocchia e mi appoggio al suo braccio teso, chiedo confusa: “Quando altro mi sarebbe successo?”.

Ron chiude con la sua la mano che io tengo poggiata sul suo avambraccio, mentre mi guida al piano di sopra. Il sole filtra dalle finestre del salone, soffiandogli riflessi di vetro oltremare nello sguardo azzurro. Poi, dopo una pausa di qualche secondo, sussurra quieto: “Probabilmente ti è accaduto anche successivamente… ma me ne ricordo distintamente il giorno in cui accompagnammo Rose al binario 9 e ¾ … ti lamentasti del caldo e mi dicesti che avevi avuto una vertigine…”. È vero, constato sommariamente mentre mi siedo sul letto in camera nostra. Me ne ero completamente dimenticata. Avevo lamentato anche allora un malessere simile e ne diedi la colpa alla temperatura alta di quella giornata di settembre. In realtà, sapevo perfettamente a che cosa quel capogiro era stato dovuto: all’improvviso vuoto della partenza di mia figlia. Ma non volevo confessarlo a Ron che mi avrebbe preso in giro fino alla morte per quell’eccesso di nostalgia da mamma chioccia, quindi imbastii quella scusa sul caldo.

È bello però che se ne ricordi e preoccupi ancora.

Quindi sorrido in modo più caloroso, mentre lui si veste e mi dà le spalle e lo rassicuro dicendo che cercherò di non stancarmi troppo e di vedere quanto prima un medico. Intanto, Ron si offre di portare lui a scuola Hugo, dato che per lui le ferie natalizie sono iniziate molto prima di me, e non deve recarsi all’Ufficio degli Auror se non in tarda mattinata. Lo ringrazio sommariamente e socchiudo leggermente gli occhi, quando mi bacia con dolcezza sulle labbra, prima di uscire ingiungendomi di tornare a casa dall’ufficio ad un orario decente.

Resto qualche secondo seduta sul letto della stanza, accarezzando il copriletto cremisi con distrazione, mentre sento le voci di Hugo e Ron rincorrersi al piano di sotto. Quando odo distintamente la porta d’ingresso, mi concedo il lusso di rilasciare un sospiro nervoso e stanco. Poi, mi alzo con decisione, mi fermo davanti allo specchio e lego i capelli in una coda alta da cui sfuggono ciocche distratte.

Non mi affanno a cercare orecchini, collane o anelli da abbinare: stamattina ho l’incontro con il capo della Divisione Elfi Domestici del Sussex meridionale, e non sarà decisamente una passeggiata di salute da risolvere con qualche moina femminile. Sto già per uscire afferrando la cartella piena di documenti, quando torno indietro come se fossi stata punta da uno spillo. Apro l’armadio, scavo tra pile di vestiti ed indumenti, fino a trovare quello che sto cercando. Una sciarpa di lana che ho comprato il 1° settembre, quando il vuoto per Rose mi era sembrato per un attimo insopportabile da accettare.

Era in una vetrina, appoggiata mollemente al collo di plastica di un manichino denutrito. Non era vistosa, non era elegante: era semplice, ordinaria, persino un pochino fuori moda. Ginny mi avrebbe presa in giro per quell’acquisto sciocco, quando poteva portarmi da Madama Seraphine a Diagon Alley e farmi realizzare una stola che cambiava colore e pesantezza, a seconda della giornata.

Persino la commessa, una donna alta dai capelli biondo ramati che portava al collo il cameo di una rosa bianca, lucido come un pezzo di ghiaccio, mi aveva guardata un po’ meravigliata per la scelta estetica dubbia, indicandomi piuttosto un meraviglioso foulard rosso fiammante con la stampa di delicate margherite.

Ma inaspettatamente, ero stata irremovibile. Non so spiegarmi il motivo, specie perché effettivamente il foulard rosso era più adatto alla stagione, nonché declinato nel mio colore preferito. Mi ero ritrovata invece ad insistere caparbia e testarda, io che di solito assecondo le commesse in tutto e per tutto per pigrizia e noia.

“No, voglio quella che c’è in vetrina. La sciarpa di lana… quella grigia…” avevo ripetuto cocciuta.

Addosso, stretta attorno al mio collo, sapeva di casa. Non è che facesse tutto questo caldo, ma mi faceva sentire serena, riposata, incardinata in un punto preciso del mondo senza che sbandassi altrove.

Quel grigio negli occhi sapeva di tempesta, lampo, mare di dicembre, nube acquosa, strada maestra, spuma di onda, carta e libro, pietra carsica, caverna di roccia, capelli di vecchio, argento vivo, luna e stella, pioggia dalla finestra, cenere e fondo di fiume, lacrima sporca.

Ed il vuoto della mancanza di Rose mi aveva fatto meno paura.

Me la drappeggio attorno con un collo con un sorriso statico, affidandomi di nuovo a quel ritaglio di stoffa.

Sebbene mi aspetti solo una normale giornata da Hermione Granger in Weasley.

Come tante altre prima di questa.

 

Suo marito aveva ragione. La nausea durava da molto più di quanto lei stessa ricordasse: era una sensazione tipica, spavalda, infida come un calcio nello stomaco. E la colpiva senza preavviso alcuno. Ma Hermione Granger, 36 anni compiuti, era una donna che non faceva la cronaca dei propri malesseri quando erano assolutamente trascurabili. Passava così come era venuta, e tanto bastava per dedicarsi nuovamente al lavoro, alle lettere alla figlia, alla cura per il figlio, ai rimproveri scherzosi al marito, agli impegni con amici e famiglia. Ci poteva mettere più attenzione, sicuramente, ma lei non era così.

Era la pressione bassa. Era il caldo. Era lo stress. Era quel intruglio di carne e rape che aveva preparato sua suocera per cena.

Aveva un carnet di spiegazioni ineccepibili.

La nausea, poi, non aveva alcuno schema preciso: veniva e passava, somigliando alla sosta di una barca in mezzo al mare, in preda ai flutti.

Pochi secondi, occhi chiusi, respiro più forte… e passava.

Era solo un patema distratto del corpo che reagiva a cose assolutamente scollegate tra loro.

Il binario 9 e ¾ e i commenti su un vecchio compagno di scuola.

Una passeggiata in centro, e Hugo che propone di comprare del gelato fritto.

L’ondata di pigrizia quando Ginny le aveva proposto di portare i bimbi in un parco di divertimenti di nome Wonderland.

Il maglione turchese che aveva ricevuto in regalo per il suo compleanno.

L’odore di rose di una passante.

Il succo d’ananas praticamente ogni mattina… e la sua sostituzione con caffè amaro, nero, bollente, come se fosse sempre nervosa e nemmeno se ne rendesse conto.

Anche a voler unire tutti gli indizi, nessun disegno sarebbe venuto fuori. Ed Hermione Granger non era una che cadeva nelle trappole dell’intuizione spicce.

Era ovvio pensare che fosse solo un po’ stanca a causa del lavoro.

Glielo disse anche un’adorabile vecchietta dallo sguardo vispo che era venuta a chiederle udienza e consiglio per il caso di un Elfo domestico che non voleva smettere di picchiarsi.

“Signora Weasley! Si riposi ogni tanto! Sembra così deperita…” le ingiunse severamente, accarezzandosi il suo cameo di una rosa bianca.

Hermione Granger, 36 anni, annuì sorridendo, respingendo al mittente la nausea che le aveva colpito di nuovo lo stomaco, mentre riordinava le novecento tredici schede dell’archivio.

La nausea non aveva alcuno schema preciso.

Era solo un patema distratto del corpo, che reagiva a cose assolutamente scollegate tra loro.

 

 

Diventare i vicini di casa di Harry e Ginny quando mi ero sposata, mi era sembrato un segno meraviglioso del destino: nessuna volizione, nessun desiderio specifico. Solo una serie di fortunate coincidenze, che io avevo liquidato con solerzia sotto l’etichetta di indizi superiori di una volontà più forte di farci vivere la nostra vita quanto più vicini possibili.

Harry e Ginny si erano sposati da qualche mese, aspettavano James, ed io e Ron eravamo ancora alla ricerca della casa perfetta per un matrimonio che avrebbe seguito il loro di meno di un anno. Ciondolavamo di appartamento in appartamento, di cottage in cottage, di villa in villa, liquidando tutte le costruzioni come ben poco confacenti al concetto di casa. A questo, si aggiungevano tutte le variabili del caso: serviva una casa che fosse sufficientemente vicina alla Tana per quando fossimo diventati genitori, e Molly ed Arthur avessero voluto fare avanti ed indietro per vedere i loro nipotini. Ne volevamo anche una che fosse vicina alla Passaporta internazionale situata alla Torre di Londra, così da raggiungere velocemente i miei genitori per lo stesso motivo, dato che avevano deciso di stabilirsi a Favignana, in Sicilia, nella vecchia casa di mia nonna. Eravamo entrambi d’accordo di non vivere in campagna aperta ma di essere almeno nella periferia di Londra, così da facilitare gli spostamenti lavorativi. C’erano poi alcuni quartieri che non ci andavano eccessivamente a genio, come Notting Hill che ci era sempre parso troppo caotico, cosa che ogni volta contribuiva a procurarmi un’emicrania perforante ed una nausea pazzesca. O come Belgravia, che a Ron era sempre sembrato come “il recinto di quelli con la puzza sotto il naso”. Ci eravamo ormai rassegnati ad andare a vivere con i suoi per un po’ appena dopo il matrimonio, dato che il contratto di affitto dell’appartamento di 40 metri quadrati dove convivevamo scadeva un mese prima delle nozze e non aveva senso rinnovarlo, visto che non ci avremmo potuto vivere se la nostra famiglia si allargava. Senza contare che era un buco dall’affitto decisamente sproporzionato… insomma fu in quel momento che Ginny venne praticamente di corsa ad avvisarmi che era stata messa in vendita la casa accanto alla loro, a Earls Court, un quartiere che io avevo sempre adorato.

Tranquillo, ben collegato, con esterni ben curati.

L’appartamento di Ginny ed Harry mi era sempre piaciuto perché piccolo, luminoso, su due piani e con una sfiziosa porta laccata in azzurro. Aveva un minuscolo giardino, dove Ginny aveva fatto piantare delle piante aromatiche che usava per le zuppe invernali. Quella che sarebbe diventata casa mia, aveva una struttura parallela e gemella a quella: salone, cucina ed un piccolo corridoio al piano terra; due camere da letto ed un bagno al piano superiore. Era quasi incassata in casa di Harry, al punto che affacciandomi alla finestra, potevo spesso passare a Ginny il sale o lo zucchero o le uova, se le aveva dimenticate al supermercato. I primi tempi in quella casa furono un autentico sogno: Earls Court era vicinissima a Holland Park, un posto che avevo sempre adorato di Londra. Holland Park è considerato uno dei più tranquilli e romantici parchi di Londra, e io amavo passarci il tempo quando ero a casa da Hogwarts per le vacanze estive. Ci tornavo spesso quando ero incinta di Rose: mi sedevo vicino alla famosa Orangery, circondata da enormi siepi di rose, e respiravo felice. Forse, persino da quei pomeriggi pigri, ricavai l’intuizione per il nome di mia figlia. Mi destava anche enorme curiosità il fatto che ci fosse un set di scacchi giganti con cui si può effettivamente giocare: da bambina, specie nell’estate del mio primo anno ad Hogwarts dopo la vittoria su Voldemort/Raptor proprio per una partita a scacchi, costringevo i miei a portarmi lì e a cominciare lunghissime partite che sapevo di vincere sempre. È forse uno dei posti più cari della mia infanzia e della prima adolescenza, per questo casa mia mi parve subito così speciale essendoci così a quel parco. Ci sono tornata sempre meno poi negli anni e forse di riflesso, anche casa mia ha perso le sue meravigliose attrattive per questo.

L’ultima volta che sono stata ad Holland Park, tra l’altro, ne ho un pessimo ricordo: sarà stato circa un mese fa, avevo una mezza giornata libera e un libro meraviglioso da finire. Avevo cercato la mia panchina preferita di quando ero piccola, proprio vicino ad un roseto di boccioli bianchi. Non ero riuscita a leggere nemmeno una riga, lo stomaco mi pungeva, la schiena mi si era inzuppata di sudore freddo come se fossi rimasta per ore sotto la pioggia, e le gambe mi formicolavano come se volessi solo scappare via a e chiudermi in casa. Quando avevo provato a cambiare posto, avvicinandomi alla scacchiera, era stato peggio: guardavo i pezzi ed avevo sempre la sensazione di aver dimenticato qualcosa. Qualcosa che dovevo tenere a mente a tutti i costi: ma più ci pensavo e più mi veniva in mente solo la parola “palma”.

E di interesse botanico per una pianta tropicale, non credo di averne mai nutrito in vita mia.

Una serie di comportamenti mentali fastidiosi, al limite dell’idiozia e della paranoia, insomma. Però alla fine avevano confermato quello che già pensavo e credevo: odiavo, ormai, vivere lì. E ciò si era ripercosso anche nell’adorato parco dei miei ricordi, ormai ridotto ad un posto che mi comunicava solo nervosismo. Dopo la partenza di Rose, con meno impegni a gravarmi il cervello, la cosa appariva molto più chiara. Ormai tutto di casa mia contribuiva ad innervosirmi: la poca luce la mattina nelle stanze, e quella decisamente eccessiva nel pomeriggio. La camera da letto troppo piccola. Il disimpegno davanti alla porta d’ingresso inutilizzato. Le dimensioni esagerate della camera di Hugo. Insomma: qualsiasi cosa mi dava fastidio, persino il colore laccato verde della porta che, all’inizio, mi aveva tanto colpito.

Queste cose, in fondo però, erano aspetti risolvibili o comunque trascurabili. Non è che uno cambia casa perché non gli piace il colore della porta. C’era, invece, qualcosa che da essere la cosa più bella di quell’abitazione, improvvisamente era diventato l’aspetto peggiore. E a ciò non c’era rimedio.

La vicinanza con Harry e Ginny.

È ovvio che essere così vicini con i miei cognati sia una comodità ed un sostegno notevole, specie nelle faccende che riguardano i bambini. Ed è anche indiscusso che avere la mia migliore amica a così stretta portata di mano, significa anche poter contare su di lei in qualsiasi momento, fosse anche per farci del semplice popcorn e vederci un film strappalacrime assieme. Stessa cosa, ovviamente, è per Ron con Harry: e questo, nei primi anni del matrimonio, aveva fatto sì che mi sentissi sempre in vacanza, con i miei migliori amici sempre vicini in una sorta di grande famiglia allargata.

Ma di anni intanto ne erano passati dodici dalle mie nozze ed ora lentamente, avevo capito che una coppia sposata, nonché i propri figli, ha un estremo bisogno di una vita che sia quanto più separata possibile: relazioni forti ed intense con famiglia ed amici, ma anche un perimetro di vita solo propria. E io questo perimetro non l’avevo mai avuto.

Bastava un semplice litigio mio e di Ron, normalissimo nella vita da sposati, e Ginny ne poteva avere tutta una telecronaca visto che le pareti erano di compensato e cartone. E ciò naturalmente finiva spesso per sedare i miei malumori in modo artificioso, dato che ero a conoscenza del fatto di voler lasciare la cosa personale, quindi ad un certo punto della discussione, sebbene insoddisfatta, mi imponevo di tacere per paura di essere ascoltata. O lanciavo Incantesimi Insonorizzanti che, nei culmini di nervosismo, potevano anche spaccare i vasi dell’ingresso e non raggiungere il loro bersaglio reale.

Un mio semplice malessere e voglia di stare da sola a casa mia, poteva mettere su un caso nazionale, non da ultimo riferito anche a mia suocera, specie se si traduceva nel mio rifiuto di vedere Harry e Ginny piombati nel mio salotto per un’improvvisata. I miei figli risentivano molto della vicinanza continua con i cugini, assimilandone comportamenti da me non approvati o non graditi: e a questo si aggiunge il fatto che Hugo e Lily non vadano affatto d’accordo, cosa che aumenta enormemente le mie emicranie.

In questo, si spiega perché proprio stamattina che sono vittima di questo malessere cretino ed avrei solamente voglia di passeggiare per arrivare al Ministero, usando magari i mezzi babbani che mi danno meno nausea della Smaterializzazione, sentire le voci di mio marito e dei miei cognati in giardino, cosa che mi costringerà a passare loro davanti, dovendomi intrattenere in una qualche forma di conversazione civile, mi fa ribollire il sangue nelle vene.

Con fastidio, resto qualche minuto nell’anticamera del salone, l’orecchio contro la porta, sperando che ci mettano poco a terminare le chiacchiere così che io possa sgusciare fuori, non vista. Ma naturalmente i discorsi si protraggono oltre il tempo concessomi dal fatto di essere l’unica, ancora, che deve andare al lavoro e che già beneficerà di qualche minuto di permesso a causa del mio malore.

Aggiungiamoci pure che l’Ufficio Auror è parco di attività prima di Natale e, se Ron deve recarsi alla sede centrale per delle scartoffie dopo le undici, Harry non ha nemmeno quell’occupazione, avendo sistemato tutto prima delle tanto agognate ferie per dedicarsi completamente alla motocicletta di Sirius, che necessita dell’ennesimo check up. Ginny, ovviamente, scrive per la Gazzetta del Profeta: può decidere autonomamente i suoi tempi di lavoro, anche se questo implica iniziare a scrivere la telecronaca dell’incontro delle Holyhead Harpies dopo una corroborante chiacchierata con marito e fratello. Nondimeno posso sperare che ad Hugo, improvvisamente, sia venuta voglia di andare a scuola: lo sento urlare acidulo qualcosa all’indirizzo di Lily, che strilla ugualmente irritata qualche serie di improperi al suo indirizzo.

Per un attimo penso di Smaterializzarmi, fregandomene della nausea e di tutto: ma la pila di depliant delle agenzie immobiliari che accatasto da tre mesi in cucina affinché Ron dia loro un’occhiata, magari approvando il cambiamento di casa, mi fa desistere. L’acido nervoso che sento in gola, constatando come ogni giorno che non sono stati minimamente toccati probabilmente al grido di “Stiamo così bene qui!”, si traduce nell’ennesima torsione olimpionica del mio stomaco. Alla fine, quando comprendo che la cosa andrà per le lunghe, respiro profondamente nella mia sciarpa grigia e mi preparo ad uscire, malgrado il fuoco incrociato che mi aspetta. Chiudo gli occhi per qualche secondo, la mano sulla maniglia, mentre mi riprometto di imbottirmi di un digestivo per farmi passare l’acidità che inevitabilmente sta per peggiorare.

Quando però esco in giardino, il sole dolcemente tiepido che filtra tra le nuvole e mi soffia in viso uno stralcio di buonumore destinato a soccombere presto, comprendo che avrò bisogno di un’autobotte di digestivo, non di una semplice bustina. La quantità di decibel prodotti dalla conversazione pacata che si sta tenendo all’esterno, infatti, mi fa convenientemente supporre che ben presto sarà infranto il muro del suono, cosa che produrrà un’onda d’urto terrificante, in grado di schiantare al suolo tutte le persone nel raggio di quattordici miglia. La strada è ancora tranquilla, poche persone camminano pigramente per raggiungere il posto di lavoro, sferzate da un venticello gelido che preannuncia la prima neve dell’anno. Darei di tutto per respirare questa pace prima di arrivare in ufficio, ma la mia caotica famiglia non è del medesimo avviso. Ron ha completamente perso di interesse in Hugo per dedicare tutta la sua attenzione ad Harry, che a sua volta è intento a controllare una perdita d’olio della motocicletta di Sirius, cosa che fa gocciare un liquido nerastro di pessimo odore nel nostro vialetto d’ingresso, dato che al mio intelligente marito è venuta la straordinaria idea di concedere al suo cognato preferito di eseguire le piccole riparazioni del veicolo da noi, visto che Ginny sostiene che i fumi di scarico facciano male alle sue piante aromatiche. Non al mio equilibrio psicofisico fanno male, ma alle sue piante.

Già questo basterebbe per farmi urlare come un’isterica pazza, ma la ciliegina sulla torta è mio figlio che continua a gridare come un ossesso contro Lily, che risponde con una serie di pacati e calibrati calci negli stinchi di Hugo. Ad ogni calcio ben assestato, il volume delle urla di Hugo aumenta sensibilmente ed, in tutto questo, naturalmente Ginny è assolutamente calma ed indifferente. Si limita ad una serie di stanchi rimproveri all’indirizzo della figlia che non sovrastano nemmeno gli strilli dei due bambini. La comprendo in fondo, Lily è decisamente una bambina impossibile, ci sta che la mia amica sia già stravolta alle otto di mattina. Lily non ha mai legato granché con nessuno né all’asilo, né tantomeno alla scuola elementare. Nemmeno con i suoi fratelli ha un rapporto così idilliaco. È prepotente, violenta, testarda, decisamente difficile da gestire. In questo assomiglia abbastanza a Ginny, credo che abbia risentito anche lei, come sua madre, di essere cresciuta con due maschietti più grandi ed intraprendenti. Ma se questo in Ginny provocò dapprima una fortissima timidezza, e successivamente in pubertà una grande carica e forza emotiva, Lily invece ha appreso in modo inconscio che l’unico modo che aveva per farsi rispettare era urlare, gridare, calciare, picchiare, anche se fosse solo per ottenere un gelato. Spesso, abbiamo cercato di farla legare con i suoi coetanei, ma è sempre stato un completo disastro. Non ha mai trovato nessuno che le tenesse testa, in modo deciso ma comunque non violento: o finiva per trovare altre attaccabrighe con cui ingaggiava lotte senza quartiere, o bimbe delicate come fiori che strillavano come matte al primo accenno di prepotenza. Questo ha finito per irrigidire Lily sempre di più, rendendola sempre peggiore nei modi e nel comportamento, facendo arrendere anche Harry e Ginny che ormai tendono ad ignorare il problema, sperando che, una volta ad Hogwarts, la situazione si risolvi da sola. Io, onestamente, non ci giurerei. Ricordo ancora il destino della sua ultima amichetta, Kara Scamander, la figlia di Luna Lovegood, una dolcissima piccola bimba dalla pelle bianca e le trecce biondo platino. Al termine di un solo pomeriggio con Lily, Kara non aveva più soffici capelli da sfoggiare: in un impeto di furia ed in un attimo di distrazione di Ginny, Lily glieli tagliò tutti con le forbici. Per fortuna era la figlia di una donna abbastanza svagata come Luna che non aveva dato peso eccessivo all’episodio.

Ma in ogni caso, Kara non si era fatta più vedere.

Esteriormente Lily è un amore di bambina: capelli rossi e lisci come quelli della mamma, occhi verdi lucenti come quelli del papà, viso tondo e roseo. Ma basta che apra bocca, e ti fa pentire di questa tua considerazione ingenua.

Saluto con un cenno del capo Harry e Ron, i quali, ancora presi nella loro conversazione sullo spinterogeno, si limitano ad un gutturale cenno di gola che vorrebbe significare per Harry un “Buongiorno Hermione, mia cara cognata!” e per Ron un “Stai tranquilla amore, tra poco porto Hugo a scuola, sai che te l’ho promesso!”. Sospiro a lungo prima di avvicinarmi a Ginny, sperando di non ritrovarmi ben presto a massaggiarmi le tempie come sta facendo lei, in preda all’emicrania. Abbozzo un saluto, prima di fiondarmi a dividere le piccole bestioline, rimproverando Hugo con finta solerzia, tanto per non dare l’impressione di credere che sia sempre colpa di sua cugina, come invece in realtà ritengo. Hugo, ovviamente, mi mette il broncio, incrocia le braccia per l’accusa ingiusta e si va a sedere sui gradini dell’ingresso sotto il portico, guardandomi in cagnesco. In tutto questo, Lily per un po’ continua a provocarlo da lontano, poi, quando Harry si decide finalmente a erompere in un rimprovero vagamente più autoritario, scoppia in un pianto isterico e rientra correndo in casa, convinta di essere immediatamente seguita da sua madre, pronta a consolarla.

Ginny, invece, decide saggiamente di lasciarla a macerare un po’ nella sua rabbia stizzita, restando fuori in giardino. Si appoggia stancamente alla ringhiera che divide le nostre due abitazioni con un forte sospiro, ha i bei occhi azzurri cerchiati dal sonno e sembra abbastanza stanca. Anche il suo corpo si è appesantito nel corso degli anni, rendendola più simile a sua madre di quanto era da ragazzina. Ma resta una donna forte, energica, attiva. Troppo, forse. Credo che la vita domestica le stia stretta, sebbene scriva per la Gazzetta del Profeta, lo fa da casa e questo ha contribuito che si lasciasse molto andare con il tempo. Della scattante giocatrice di Quidditch di qualche anno fa, è rimasto poco. Non è una, però, che si lascia andare, che si dichiara sconfitta, che subisce la vita. Forse, per questo le voglio così bene ed è ormai una sorella per me. Ha sempre quello scatto di coraggio che a me manca, sopito nel conformismo. Ha deciso di frequentare un corso per diventare volontaria al San Mungo, non lo avrei mai detto, ma le piace la medicina. Le ho chiesto una volta, perché non ha mai provato a diventare Medimago. Lei si è chiusa nelle spalle, ha fatto un sorriso storto e ha borbottato dicendo che le Holyhead Harpies, ai tempi, le avevano garantito un buono stipendio e, con Ron che frequentava il Corso per diventare Auror, non voleva gravare troppo sui suoi genitori che già pagavano le spese di suo fratello.

Non so perché, ma sono convinta che sarebbe stata un buon Medimago. Glielo dico spesso, ma lei si schermisce innervosita. Solo alcune volte, accetta di buon grado il complimento e questo tendenzialmente avviene quando parliamo della mia ferita magica sulla schiena: quella che mi sono procurata un anno dopo la fine della guerra, in un covo di Voldemort dove aveva lasciato delle vecchie carte muffite riportanti i nomi dei suoi Mangiamorte. Gli Auror avevano chiesto l’intervento del Dipartimento della Cura delle Creature Magiche dove allora lavoravo, perché a guardia della grotta vi era una statua che si trasformava in una sorta di Basilisco. Avevo sottovalutato il pericolo di quella creatura, finendo per essere colpita dal suo veleno e procurandomi una ferita maledetta che riprende a sanguinare nelle notti di novilunio e per cui sono sempre costretta ad assumere una pozione una volta al mese. Ebbene, è su quella che Ginny ciancia spesso. Sostiene che, secondo lei, potrebbe sparire del tutto con una sorta di pozione potenziata del veleno del Basilisco stesso, che mi immunizzerebbe dalle tossine in modo permanente. La lascio parlare e sorrido calorosa solo per incoraggiarla.

Dovrebbero mandarmi in coma per provare una Pozione del genere.

“Lo sai che la colpa era di Lily, vero?” esordisce Ginny a mo’ di saluto, guardandomi in tralice. Punta sul vivo, replico affannata ed imbarazzata: “Certo perché Hugo invece era calmo e serafico? Ho sentito le sue urla dal primo piano…!”, getto un’occhiata colpevole al mio bambino, ancora seduto scornato sui gradini, promettendomi di ricompensarlo per questo rimprovero ingiustificatamente subito.

Mia cognata sorride dolcemente, limitandosi a staccare una foglia secca dalle parete di ibisco rosso che divide i nostri giardini, prima di soffiare fuori: “A volte penso che se fossi stata meno a casa e l’avessi asfissiata di meno con le mie cure da “sei la sola femminuccia!”, sarebbe venuta su molto meglio…”.

“Non dire sciocchezze, Gin… ogni bambino è diverso dall’altro…” commento fiocamente, sollevando il capo per respirare a pieni polmoni l’aria mattutina “Non sarebbe cambiato nulla… e poi…”, cerco di aggiungere con tono di voce allegro, rassicurandola: “Credo che stiano migliorando le cose, no? Ultimamente la vedo più… tranquilla, ecco…”. Alludo effettivamente al fatto che Lily non abbia preso a morsi il polpaccio di Hugo, non mollando la presa nemmeno al rimprovero di Harry e ad un tentativo di esorcismo: per i suoi standard, è un comportamento decisamente tranquillo.

“A dire cazzate, fai pena…” commenta con una risata Ginny, scuotendo il capo “Quasi quanto quei due come meccanici…” e con un’alzata di spalle, indica i nostri adorabili mariti, intendi a riempirsi di grasso ed olio del motore. Sospiro lungamente, anche Hugo ha lasciato perdere il suo contegno offeso per osservare con occhio clinico la vettura. Cerco di comunicare telepaticamente a Ron di stare perlomeno attento a nostro figlio e al fatto che non si imbratti come un operaio su una piattaforma petrolifera, ma ottengo solo che Ron risponda a qualche affermazione di Harry con un sentito: “Miseriaccia!”.

“Siamo circondati da mocciosi…” sorride Ginny con rassegnazione, a cui rispondo con un sentito verso gutturale di assenso. Una folata ghiacciata di vento mi soffia sul viso, costringendomi a chiudermi meglio nella mia sciarpa che, a quel refolo, rilascia un buon odore di pulito. Ginny si informa sui miei programmi mattutini, dolendosi del fatto che il Dipartimento della Regolazione della Legge Magica non abbia ancora dichiarato la sosta natalizia, e io rispondo accorata sebbene meno sentitamente di lei. In realtà, andare al lavoro non mi disturba affatto, ho ancora una decina di cause da sistemare prima delle festività e spero di riportarmi in pari entro oggi.

“E tu, invece?” chiedo cortese a Ginny che, con un’efficace movimento rotatorio degli occhi a testimoniare la sua irritazione, mi racconta di avere l’ennesimo incontro con le insegnanti di Lily dato che la bambina ha versato un barattolo di vernice gialla addosso ad un altro bambino, per giunta autistico, che adesso si rifiuta di recarsi a scuola.

“Forse ti ricordi di chi si tratta…” commenta Ginny con calma, enumerando sulle dita “Ricordi Natalie McDonald? Grifondoro, occhi verdi, carina?”.

“Vagamente…”.

“Insomma, è suo figlio il bambino, Elias si chiama… già ha mille problemi relazionali, ci mancava anche incrociare la strada con quel Anticristo che mi trovo per figlia…”.

Rido sommessamente nonostante tutto, prima di rendermi conto che è già abbastanza tardi e che devo correre in ufficio, specie se ho intenzione di camminare un po’ ed usare i mezzi pubblici. Ginny, per fortuna, viene richiamata in casa da uno squillo del telefono, utensile che si è rivelato necessario visto che viviamo in una strada babbana e il passaggio di gufi, alla lunga, sarebbe stato notato. Il fatto, poi, che il telefono squilli per due volte e poi si interrompa per poi ricominciare con questa sequenza una decina di volte, ci fa intuire agevolmente che si tratta di una chiamata di Molly: nonostante tutte le spiegazioni del caso, non ha mai imparato bene l’uso di questo “infernale aggeggio!”.

Lieta di poter sgusciare via prima che, per qualche minuto, la chiamata di mia suocera coinvolga inaspettatamente anche me, saluto velocemente Ginny ed Harry ed ingiungo a Ron di muoversi a portare Hugo a scuola, prima di incamminarmi verso la stazione della metro.

Che viva da un po’ troppo tempo come strega, mi si rende evidente subito: sono sempre stata convinta di essere una di quelle donne che, sebbene abbiano dei poteri magici, non dimentichino mai la propria origine mezzosangue e preservino quindi il senso dei piccoli riti delle persone assolutamente normali. Per questo casa mia è piena di elettrodomestici, ho obbligato Ron a prendere la patente di guida e ho erudito i miei figli sugli aspetti essenziali della vita babbana. Nonostante questo, la maggior parte della mia esistenza quotidiana prevede l’uso di una bacchetta e il fatto che, invece, stamattina mi sia obbligata a prendere la metro come una normale donna londinese che va al lavoro, mi avvisa di quanto in realtà sia rimasta indietro senza accorgermene.

Per prima cosa, superato il complesso di case residenziali dove vivo con la mia famiglia, mi accorgo della presenza di molta più gente per strada di quanto sia abituata o di quanto mi ricordi: negli anni ho dimenticato la regola basilare di stare sempre sul lato più interno del marciapiede, se non vuoi rischiare di essere travolto da chi cammina a velocità molto più sostenuta di te. E quindi subisco una serie di spintoni, pestoni e collisioni tra i miei talloni e le ruote di diversi passeggini. Se quindi pensavo di poter fare una tranquilla passeggiata che mi facesse passare nausea ed emicrania, mi sbaglio notevolmente.

Arrivo alla stazione della metro di Earls Court ben più nervosa di quanto fossi all’uscita di casa, anche perché nel frattempo ha iniziato a scendere una pioggerella irritante come solo a Londra può esistere, e io naturalmente ho dimenticato di portarmi l’ombrello, regola basilare della vita in questa parte d’Inghilterra.

Tra le altre cose che ho rimosso, abituata a Polvere Volante e Smaterializzazione, c’è la precauzione necessaria di vestirsi a cipolla quando si ha intenzione di prendere la metro, visto che, se all’esterno la temperatura può essere di -10 gradi, dentro invariabilmente si toccheranno i massimi della regione di Calcutta quando l’asfalto si scioglie. Questo significa inevitabilmente che, all’acqua che mi sono presa fuori, si aggiunge il sudore dentro, oltre ad una sequela di bestemmie quando capisco che il costo del biglietto giornaliero è aumentato di una sterlina.

Tutto farcito da un’altra serie di interessanti iterazioni umane, consistenti in spallate e calci accidentali vari, mentre controllo che linea devo prendere, visto che ce ne sono un paio che non conosco.

Ovviamente sarebbe semplice adesso rinunciare al mio esperimento pseudo-sociologico ed afferrare la bacchetta che mi preme nella tasca e raggiungere l’ufficio in tre secondi, visto che l’emicrania che volevo scacciare si è triplicata ed adesso assomiglia ad un martello pneumatico che perfora un muro.

Ma ovviamente faccio di nome Hermione Granger, con sottotitoli onorari a testimoniare la caparbietà, l’ostinazione, la tenacia, assieme ad una buona dose di puntiglio. Quindi, insisto mentalmente per arrivare al lavoro in metro come mi ero prefissa. Presa dal mio delirio di onnipotenza, dimentico un’altra regola fondamentale.

Non ascoltare musica in metro se sei seduta, ma circondata da persone in piedi che ti impediscono di capire a quante fermate sei dalla tua.

Mentre infatti sono ancora intenta a skippare a piè pari tutte le canzoni d’amore che sono residuate sul mio i-pod e che mi causano un’orticaria fulminante a braccia e gambe, non mi rendo conto di aver abbondantemente superato la mia fermata. Quando capisco che dovrei essere già arrivata e mi alzo alla successiva apertura delle porte, leggo con fatica sul cartellone la beffarda scritta Notting Hill”, intuendo che, non solo sono scesa in ritardo e mi sono distratta, ma ho preso anche la metro che va in direzione esattamente opposta alla mia. 

Borbotto a denti stretti catapultandomi fuori dal vagone già in ripartenza, prima di allontanarmi ancora di più dalla mia meta. Il caldo nella stazione è asfissiante e la gente mi urta senza ritegno, mentre cerco di arrivare al pannello delle linee, così da capire quale mi conviene prendere per tornare indietro. Davanti agli occhi, le semirette colorate danzano pericolosamente e si attorcigliano in modo confuso, mentre il nome “Notting Hill” continua a riecheggiarmi in testa come se fosse il suono di una campana rintoccante, risvegliando alla rievocazione della mia stupidità la celeberrima nausea.

Solo che questa volta, al lampeggiare sinistro del nome di quella stazione della metro, il mio malessere sembra persino più forte del solito: arrivo persino a piegarmi in due su me stessa, come se stessi per rimettere anche l’anima, una mano premuta sulla bocca a far sì che non filtri alle mie narici alcun odore molesto. E lì che mi preoccupo davvero ed impensierisco: che diamine è questa nausea?

Sperando che l’aria fresca mi arrechi sollievo, ignorando che siano ormai quasi le nove, salgo velocemente le scale, la mano sempre a premere sulle labbra, ed esco velocemente all’esterno, ritrovandomi nel traffico del colorato quartiere di Londra che, solitamente, frequento meno. L’aria fredda mi sferza il viso accompagnandosi all’odore dell’erba bagnata: finalmente ricomincio a respirare e la nausea si acquatta in un angolo del mio stomaco.

Non è una cosa però su cui stare sereni e tranquilli: mi appunto mentalmente di vedere quanto prima un medico. Da un po’, accade molto più di frequente. Posso anche darmi adesso la giustificazione del caldo della metro, ma stamattina a colazione, quando mi è saltato in testa di chiamare mio figlio Alex, stavo benissimo. Solo a ripensarci, la testa riprende a girare come una trottola impazzita.

La cosa migliore da fare è fermarmi da qualche parte per prendermi qualcosa da bere, magari una limonata. Mia mamma diceva sempre che è un rimedio ideale contro il mal di stomaco. Magari sedendomi per qualche secondo potrò anche recuperare le energie e non rischiare di collassare prima di arrivare al lavoro. Per fortuna, ha anche smesso di piovere quindi posso fare quattro passi come era nelle mie intenzioni iniziali. Apro la borsa e ne estraggo il mio cellulare, lo uso di rado e solo per comunicare con Leda, la mia segretaria. Essendo abbastanza più rapida a comprendere come funziona un sms rispetto alle sue coetanee purosangue, le mando velocemente un messaggio per avvisarla che arriverò più tardi del previsto. Il quartiere, nonostante le mie premesse e i rifiuti, non è affatto male: è pittoresco, vivace, attivo. Cammino un po’ guardandomi avidamente attorno, la folla colorata e multietnica che scorre vicina a me. I negozi sono pieni di merce particolare, soppesata con occhio critico dalla clientela, e per un po’ gironzolo beatamente senza pensieri, pentendomi di non esserci mai venuta prima con più calma.

Del resto, constato con una punta di acidità mentale, non sarebbe nemmeno stata la stessa cosa se ci fossi venuta con Ron, che avrebbe sbuffato ogni due per tre se mi fossi fermata davanti a qualche vetrina, oppure peggio con i miei figli, che mi avrebbero reso materialmente impossibile prestare attenzione a qualsiasi cosa diversa da loro. Mi riprometto mentalmente di prendermi più tempo per me stessa, come tecnicamente faccio sempre, riuscendoci molto poco: infatti, se non fosse stata per questa nausea maledetta, non penso che mi starei nemmeno parzialmente godendo questo momento.

Con un sorriso quasi colpevole sul volto, un raggio di sole che mi colpisce di oro gli occhi, percorro un vialetto alla mia sinistra, quasi spinta dall’istinto di scoprire al meglio questo quartiere dimenticato. Nella mia testa, per dimenticare che sono sempre in ritardo per il lavoro, mi dico che sto sempre cercando un pub o qualcosa del genere, così da prendermi qualcosa che combatta il mio malessere.

Il viale che percorro è dominato da una serie di imponenti alberi di magnolia e da una sfilza di bancarelle all’aperto che vendono cibi di ogni sorta. Incuriosita da una bancarella ricolma di trecce d’aglio e spezie odorose, gestita da un francese dal naso rosso, intravedo all’angolo del palazzo un negozio di fiori.

Ammiro il contrasto cromatico tra una serie di vasi di latta azzurra e delle meravigliose peonie bianche.

Al ritorno di una nuova vertigine, temendo di schiantarmi al suolo, decido di accelerare la ricerca almeno di una caffetteria, imboccando una stradina alla mia sinistra. Dopo un negozio di musica celtica ed una cartoleria piena di mocciosetti che comprano le penne colorate al sapore di frutta, vengo attirata da un’insegna luminosa che assomiglia vagamente a quella di un pub o qualcosa del genere. Mi avvicino cautamente e mi rendo conto che la mia supposizione sembra essere corretta, i caratteri recano la scritta “Sharon’s place”.

A meno che non mi sono imbattuta in una casa chiusa gestita da questa Sharon, questo dovrebbe significare che sono di fronte ad una specie di pub.

Non che sia del tutto convinta di non essere caduta in un errore grossolano, visto che la prima cosa che noto del posto è che sciaguratamente monocolore nella peggiore delle maniere.

Le pareti interne, la saracinesca, il bancone che a malapena intravedo, sono tutti di uno squillante e lezioso lilla che contribuisce a farmi venire il mal di testa.

Chi ha avuto quest’idea geniale deve essere davvero passabile della pena di morte.

Spio all’interno, notando comunque che è un locale abbastanza frequentato da gente tutto sommato normale.

Ripetendomi mentalmente che comunque non è che io debba recensirlo su Tripadvisor, ma solo prendere una stramaledetta limonata, mi decido ad entrare. 

L’interno mi restituisce una sensazione tutto sommato positiva: si tratta di un ambiente abbastanza grande e luminoso, frequentato da parecchia gente. Mi dà l’impressione di essere molto più grande di quello che sembra, e mi chiedo se non sia sprecato come semplice pub. Intravedo nell’angolo una scala a chiocciola che porta al piano superiore, cosa che mi fa suppore che probabilmente ci vivano anche qui. Tutto è avvolto in un odore vezzoso di vaniglia e cannella che, se possibile, contribuisce a farmi pulsare il cervello di nervosismo. In fondo, intravedo un bancone sempre dello stesso maledetto colore lilla, verso cui mi dirigo cercando di non inspirare eccessivamente la mistura caramellosa. Mi siedo con lentezza, quasi timorosa di innescare una nuova vertigine, attirando con la mia manovra l’attenzione di una giovane mamma con bambino. Le sorrido rassicurante, lei mi risponde con educazione, provvedendo a nascondere dall’impeto del figlio il cameo di una rosa bianca che porta al collo.

Ci sono due cameriere: una dall’aria truce, mora con lunghissimi capelli neri legati in una sola ed unica treccia, che mi squadra con i sottili e allungati occhi neri mentre pulisce il bancone con aria annoiata. All’aspetto poco rassicurante che fa abbastanza a cazzotti con il color caramella della divisa che indossa, si aggiunge un orribile, a mio dire, anello al naso ed un tatuaggio d’aquila con le ali spiegate che copre entrambe le clavicole e che è perfettamente evidente a causa della maglia scollata. La seconda invece, è una ragazza dai corti capelli biondo cenere con delle ciocche rosso acceso. Mi sorride e mi sta immediatamente più simpatica, nonostante anche lei sembri strana forte. Oltre ai capelli bicolori, la cui frangetta copre quasi integralmente i suoi occhi celesti, porta anche lei un brillantino al naso, ma la cosa strana è che da esso pende una catenina d’argento che conduce all’orecchio e alla piccola gemma rossa che splende sul lobo. E comunque, alla catenina, è appeso un ciondolino a forma di croce anch’essa rossa. Lei, almeno, sembra lievemente più compatibile cromaticamente con la divisa.

Chiedo a quest’ultima una limonata, fidandomi maggiormente della sua aria svagata che di quella da omicida seriale della sua collega, poi, in un impeto di espansività, mormoro: “Non ero mai venuta qui… sembra un posto…”, così maledettamente fru-fru che persino Lavanda Brown sarebbe potuta sembrare una donna di concetto al confronto “… carino…”, commento diplomatica, prima di chiedere con un sorriso educato: “Siete aperti da molto?”.

“Da troppo siamo aperti…” schiocca la lingua scocciata la tizia truce guardandomi storto, come se fossi una di quelle vecchiette che vogliono per forza intavolare una discussione annoiando il prossimo. Roteo gli occhi rinunciando al mio eccesso di confidenza, non prima però che la bionda decida invece di rispondermi al suo posto: “Siamo aperti da circa cinque anni, signora”. Una vena del collo, all’appellativo, mi si gonfia paurosamente mentre la mia bacchetta freme nella mia tasca, sprizzando qualche immaginaria scintilla al pensiero di quante maledizioni potrei lanciarle, visto che non ritengo di meritare l’epiteto essendo lei quasi mia coetanea. Mi guardo nel riflesso dello specchio alle spalle del bancone ed analizzo distaccata il mio trench beige, il mio maglione a collo alto, le mie occhiaie scure, il mio pallore e i miei capelli legati in una crocchia distratta. Per la prima volta comprendo che effettivamente dimostro più anni di quelli che ho, specie quando sono stanca. Ricaccio indietro l’accesso di ira alle parole della svampita cameriera e sorseggio pensosamente la mia bibita.

“Va tutto bene?” si informa a quel punto una voce comparsa alle mie spalle, con un accento dolce eppure petulante. Mi volto su me stessa e, nella stessa irritante divisa lilla, c’è una donna dai capelli rosso-ramati, il viso paffuto e gli occhi verde sporco. Una targhetta appuntata sulla camicia recita compita “Sharon Tingle”, quindi suppongo che sia la proprietaria, probabilmente incuriosita dalla presenza di una cliente nuova da dover a tutti i costi ammaliare così da renderla una presenza abituale. Sorrido annuendo, prima di chiedere ragione della mia congettura. D’altronde, il pub ha praticamente il suo stesso nome.

Mi pento del mio slancio di gentilezza circa cinque secondi dopo la suddetta domanda. Sharon è infatti una donna prolissa e dalla chiacchiera facile e, come se non bastasse, il nome del pub racchiude praticamente tutta la sua storia d’amore con suo marito. Assolutamente non richiesto, mi giunge quindi tutto il racconto del momento in cui ha rincontrato suo marito a Londra dopo anni in cui non si vedevano, dato che avevano frequentato la scuola assieme, e di come allora fosse scoppiata tra di loro la scintilla, sebbene ai tempi del liceo non si fossero mai granché filati di striscio. Conosco quindi tutti i particolari del loro sogno di aprire un pub a Notting Hill, di come questo era stato più complesso del previsto e di come, quando alla fine ci erano riusciti, lui fosse stato così sollevato dalla cosa da decidere istintivamente di chiamare il posto come la sua adorabile mogliettina. Così che tu possa sentirti sempre a casa, aggiunge con tono di voce sognante, congiungendo le mani e poggiandole drammaticamente sulle guance, mentre mi sono slogata la mascella a furia di finti sorrisi e di cenni del capo entusiasti. In compenso, essendo alla mia quinta limonata, posso dire la mia nausea completamente dissolta.

Avendo quindi la bevanda svolto il ruolo che ancestralmente mia madre le attribuiva, mi chino per recuperare la borsa ed andare via, ma ovviamente la verbosa Sharon ormai mi tratta da amica del cuore ed insiste per presentarmi il formidabile marito campione di romanticismo. Erompe quindi in una specie di richiamo, probabilmente utilizzato anche dalle femmine di pipistrello per attirare l’attenzione dei compagni, e da una porta laterale compare l’uomo intento a pulirsi le mani bagnate su un canovaccio. Dall’espressione vacua, comprendo che probabilmente era dedito a qualche attività che il gracchiare della moglie ha bruscamente interrotto. Lo studio per qualche secondo, uno strano allarme nel cervello: non mi sembra di averlo mai visto, ma ha qualcosa di vagamente familiare. Non dimostra più di trent’anni, in tutto e per tutto è un normale ragazzo dai ricci capelli scuri e dagli occhi verde acqua. Mi squadra torvo per un po’, mi studia attentamente guardandomi in tutta la mia figura per un paio di volte. Indugia sui miei capelli raccolti alla bell’e meglio, mentre io mi serro nelle spalle. Sbuffa con il naso un paio di volte esibendo una specie di broncio infantile, prima di borbottare qualcosa all’indirizzo di Sharon.

Non so perché continuo a squadrarlo senza ritegno, come se ci fosse qualcosa che stona in lui. Sembra il più normale dei ragazzi, solo un po’ trasandato e stanco. Probabilmente la giovane moglie lo sta rintronando, appesa com’è al suo braccio ed intenta all’ennesima rievocazione della loro saga romantica, ma è un’espressione che non mi ricorda la superficialità maschile che ha spesso anche Ron quando straparlo. Piuttosto… sembra davvero e sinceramente spazientito. Nulla di lui richiama l’eroe romantico che stava descrivendo sua moglie… e forse è questo che mi sembra così sbagliato nel suo aspetto.

Del resto non ha nulla che sembri strano alla vista: indossa dei jeans un po’ strappati sulle ginocchia, una maglia rossa da calcio lievemente stinta sui bordi, delle scarpe di tela sporche di polvere bianca e gialla.

Sembra solo lievemente più scuro di pelle del consueto, cosa che mi fa intuire che non sia inglese al 100%.

Eppure la sensazione che ci sia qualcosa che non va, non mi fa dismettere lo sguardo indagatore.

Non sorride nemmeno per sbaglio. Neanche per educazione: sembra che faccia fatica persino a restare fermo qui.

Come faccia sua moglie a non rendersene conto, è un autentico mistero.

“Devo tornare al lavoro, Sharon…” ingiunge dopo un po’ con voce atona “Devo riparare il rubinetto del bagno di servizio prima che ci allaghiamo…”.

“Certo, tesoro! Vai pure… credo di aver tediato fin troppo la nostra gentile cliente…” ridacchia scioccamente Sharon, ancora bellamente ignara dell’evidente espressione insoddisfatta del marito, persa com’è nella sua nuvola rosa. Ed è da lì che si rende conto di non sapere nemmeno come mi chiamo.

“Hermione Jane Granger” sorrido educatamente, porgendo la mano ad entrambi. Il ragazzo la afferra in modo distratto in una presa umida e un po’ lenta, sussurrando in un sospiro lieve: “Il mio nome è Seth Green…”. Nelle sue dita che, immediatamente, senza alcuna partecipazione emotiva, lasciano le mie, avverto di nuovo quello strano senso di estraneità che non riesco a spiegarmi.

È qualcosa che mi spinge a voler trattenere la malinconia di questo ragazzo come se temessi che, lasciato da solo in questo pub che sa di frivolo e sciocco, possa commettere qualche pazzia. Della sua tristezza, si ammanta ogni cosa circostante, eppure nessuno sembra rendersene conto.

Presa da questa strana angoscia vedendolo darmi già le spalle, dico frettolosamente: “E’ molto bello amare così tanto una persona dopo tanti anni…”, riferendomi ovviamente alla moglie che continua a vomitare melensaggini. Seth si volta verso di me, per un attimo con un singulto negli occhi verdi da farmi temere che si metta a piangere così, di schianto. Mi agghiaccia il cuore e d’istinto, mi guardo attorno come a cercare un appoggio, un sostegno, sotto quell’insopportabile sguardo. Non ne trovo nessuno e mi sento soffocare.

“Certo, è bellissimo, Hermione… glielo posso assicurare…” ribatte caustico, come se stesse pensando tutto il contrario di quello che sta dicendo e si divertisse a farlo fluire nelle parole che la moglie non comprenderà, sciocca com’è “L’amore dovrebbe farti cambiare e renderti migliore. Spingerti ad essere te stesso. Fortunatamente io ho una persona che mi ama esattamente così come se fossimo ancora al liceo…”.

Ogni sua parola oscilla tra la stanchezza ed il veleno, come se fosse semplicemente troppo annoiato per ribellarsi davvero, ma al contempo non abbia ancora rinunciato ad un tono dismesso e crudele. È evidente e palese che non ami questa donna dalla voce trillante e dal comportamento appiccicoso: perché sia evidente a me che lo conosco da cinque secondi ma non a lei, resta un mistero. Non so come mi sia trovata io, qui, una perfetta estranea, a comprendere tutto questo, ma penso che sia semplicemente perché questo ragazzo è circondato da idioti. Cammina con un enorme segnale in testa di infelicità, ma nessuno pare accorgersene, e ciò stranamente mi fa sentire responsabile della sua serenità come se lo dovessi abbandonare in mezzo al mare.

Mi riprometto di tornare qui come se dovessi tipo tenerlo sotto controllo, e non posso fare a meno di provare un senso inconsueto di abbandono quando sparisce nel retrobottega, mentre io pago le mie consumazioni. Afferro la mia borsa lasciata su una sedia ed esco fuori respirando di nuovo, come se un po’ di quell’aria interna mi avesse viziato il fiato.

“Mi scusi, signora?”.

E con questa fanno due appellativi da sessantenne in una giornata, borbotto tra me e me, voltandomi in direzione della voce che mi ha richiamato indietro appena fuori dal “Sharon’s place”.

Mi ricompongo un po’ quando mi rendo conto che si tratta di un agente di polizia: assumo subito un contegno rispettoso, mentre l’uomo, non molto più grande di me, mi chiede numi su un auto parcheggiata nella strada nonostante un ben evidente divieto di sosta e fermata. Faccio spallucce assicurando che non sia mia, l’agente sospira rumorosamente come se fosse profondamente stanco, cosa che marchia la sua espressione apparentemente arcigna di una ruga di sconforto che me lo rende immediatamente più simpatico.

Mi affretto quindi a dire partecipe, indicando con il capo il pub da cui sono uscita: “Molto probabilmente è di qualcuno che prende un caffè…”, aguzzo la vista per leggere la targhetta del nome che porta appuntato sulla divisa linda e pulita, Kevin Stevenson, prima di concludere con un riverente: “… agente Stevenson…”.

L’agente mi restituisce un sorriso slavato che non gli arriva agli occhi oltremare, prima di concludere annoiato che molto probabilmente ho ragione.

Lo seguo per un po’ con lo sguardo mentre entra nel locale, mi pare persino di sentire la voce di Sharon che squittisce qualcosa e chiama di nuovo a gran voce suo marito Seth per risolvere la grana.

Accarezzo la mia sciarpa grigia, affondandoci il naso dentro per ripararmi da un improvvido vento ghiacciato.

Mi restituisce un accenno dell’odore di pioggia che soffia il vento sul mio viso, cosa che mi ricorda per associazione di idee l’erba bagnata nel mese di settembre, quando pochi giorni prima del mio compleanno l’estate dismette i suoi panni e il mondo sembra più dolce, più tiepido. Non hai paura della tempesta, sebbene si addensi all’orizzonte. La terra ha aspettato tanto la pioggia, arsa dal sole. E, quando finalmente sta per erompere dal cielo, pensa a mettere a riparo i suoi figli, temendo che si facciano del male. È forte abbastanza da sopportare il suo impeto? Non lo sa.

Rabbrividisce per i tuoni, geme per i fulmini, impallidisce per i lampi.

Ma sa che accetterà la pioggia, perché la pioggia è il suo destino.

Sorrido un po’ adesso, senza motivo, solo con quel profumo nelle narici.

Improvvisamente certa, sicura, che per ognuno ci sia un destino in attesa.

Persino per il ragazzo dall’aria sconfitta di nome Seth.

 

 

Andare al lavoro per me è diventato da anni uno slalom continuo nella stupidità umana. Uno pensa che magari io esageri perché, oggettivamente, non ho molta tolleranza nei confronti della comune mancanza di buon senso. Non sarei appellata ogni due per tre da mio marito come poco elastica, se non fosse così. In realtà, a sfidare anche la logica e la statistica, nel Dipartimento della Regolazione della Legge Magica si sono concentrati le menti meno eccelse della Storia del Mondo della Magia a partire da Mago Merlino e dagli incantatori di serpenti saraceni. Non so per quale ancestrale motivo ciò sia accaduto.

D’altronde siamo una delle branche più importanti del Ministero: quella che, a rigor di logica, garantisce integrità e tranquillità nel nostro mondo e nel rapporto con quello babbano. E sicuramente non mancano elementi validi, senza falsa modestia, come la sottoscritta.

Ma, tralasciando qualche altro infaticabile dipendente, c’è stata in questo dipartimento una concentrazione tale di idiozia da vanificare ogni mente vagamente illuminata che potesse averci messo piede.

Io non dovevo lavorare qui, ovvio: la vita spesso, però, si attorciglia e annoda attorno ad eventi che uno non potrebbe mai preconizzare. E quindi ti ritrovi in un ufficio a quasi quarant’anni, senza che niente, prima, ti abbia avvisato che saresti finita qui. Ero tornata ad Hogwarts alla fine della guerra, avevo completato la mia istruzione magica come a quei due asini di Harry e Ron non era assolutamente saltato in mente. Avevo ovviamente messo il muso, il broncio, ma non era servito a nulla: a loro due era sembrato assolutamente normale non terminare gli studi.

Avevamo diciotto anni, un’età in cui pochi soldi in tasca fanno già una differenza abissale tra sentirsi bambini e sentirsi adulti.

Harry, il ricco orfano di guerra ora anche eroe, aveva saggiamente deciso di investire le sue risorse economiche, lievitate dopo la guerra con i suoi encomi ed onori, per frequentare il Corso per Auror. Sembrava una strada quasi obbligata per lui, e non aveva deluso nessuno. Si trattava di studi impegnativi, gravosi, pesanti anche dal punto di vista strettamente monetario, ma Harry non si era fatto dissuadere.

In pochi anni, era riuscito a raggiungere l’agognato titolo, aveva cominciato ad uscire in missione, si era inserito perfettamente nella vita criminale del mondo magico come uno spauracchio letale.

C’era stato un periodo in cui era stato tentato dalla carriera politica, aveva pensato persino di concorrere come Ministro della Magia, ma poi aveva deciso di restare nel Corpo degli Auror.

Il motivo era semplice: ci era entrato anche Ron.

Questo, in effetti, era molto meno scontato: finita la guerra, dopo la morte di Fred, era stato per lui naturale restare nel negozio a Diagon Alley per aiutare suo fratello George. Faceva qualche soldo, poteva permettersi persino di offrirmi delle cene eleganti in occasioni di anniversari e compleanni e questo, per il ragazzo che aveva avuto sempre poco o niente se non di seconda mano, faceva tutta la differenza e l’entusiasmo del mondo. Poi, terminato il primo periodo di euforia, Ron comprese che quella non era la sua strada, ma era una modellata su quella del defunto fratello. Non era giusto per nessuno giocare a sostituirlo se lui aveva altri sogni e desideri: del resto, poi, George aveva sposato da poco Angelina e, naturalmente, il negozio di scherzi era diventato la fonte di sostentamento della neonata famiglia. Ron era velatamente, ma naturalmente, diventato di troppo.

Fu un periodo complicato e nebuloso. Ron sembrava avere tante ambizioni, tanti sogni, tanti progetti, ma erano sempre stelle di fumo, miraggi di nebbia. Era sempre troppo insicuro per provare davvero a fare qualcosa, aveva sempre troppo timore di fallire e si rifugiava sempre nella sua famiglia, ora meditando di tornare a lavorare con George chiedendo magari una paga ridotta, ora pensando di andare in Romania con Charlie, ora paventando la possibilità di assistere Percy nel suo lavoro. Io, da parte mia, avevo da poco finito Hogwarts, ero sempre la strega più brillante della mia generazione, ero presa dall’ansia di dimostrare al mondo quanto valessi. Fu difficile starci accanto. Era come se Ron temesse sempre che volessi eclissarlo, oscurarlo, sotto la mia luce. Io mi muovevo sempre in punta di piedi, spaventata di fare troppo rumore, o di essere troppo brava, o troppo valente per lui e per quello che stava passando. Finsi quindi un’insopportabile incertezza su che cosa volevo fare della mia vita, esibendo una specie di dubbiosità insita nel fatto che mi ero sempre interessata a troppe cose in modo da mostrarmi a mia volta fallace, umana, corruttibile.

Ron si sollevava d’animo alle mie difficoltà, comprendeva che magari non era così assurdo che anche lui fosse incerto se addirittura lo ero anche io: sorridevo, lo rassicuravo, ed intanto facevo colloqui segreti e spedivo curriculum di notte. Non mi sono mai pentita di questo, mai: ebbi qualche scricchiolio solo quando Ron si fece coraggio e fece un provino per una squadra di Quidditch, finendo per essere rifiutato.

Lì, toccammo il fondo. Sul serio. Ron divenne ombroso, scontroso, chiuso in sé stesso. Passava il tempo seduto sul divano con un bicchiere di Acquaviola, lo sguardo annacquato nel vuoto.

Iniziammo a litigare sempre più spesso. Per cose sceme, per cose importanti, per cose sceme per lui ed importanti per me, e viceversa.

Io dicevo che era troppo immaturo, che doveva reagire, che era solo un fallimento venale e che ci stava nella scala di cose che accadono in una vita.

Lui ribadiva che ero troppo rigida, troppo poco elastica, che non potevo sapere com’era la vita per lui, abituata ad essere sempre perfetta.

Proprio come accadeva ad Hogwarts. Ma peggio.

Stavolta non c’era Harry a fare da paciere. Stavolta eravamo anche fidanzati.

Le cose, se possibile, peggiorarono quando andammo a vivere assieme, convinti che così le cose si sarebbero sistemati, potendoci prendere cura l’uno dell’altra. Ma prendemmo ad evitarci nelle stesse mura di quella casa. Lui usciva e tornava a casa tardissimo, ubriacandosi con gli amici. Io mi addormentavo a braccia incrociate sul tavolo, aspettandolo. Eravamo sempre stanchi e nervosi, pronti a rimbeccarci in qualsivoglia occasione. Guardavamo un po’ di tv in silenzio e poi a letto. Ovviamente a dormire.

Ma, nemmeno per un attimo, ho mai smesso di credere a me e a lui assieme.

Era il mio destino stare con lui. Eravamo sopravvissuti a Voldemort, non potevano spaventarci le liste della spesa, le fatture da pagare e l’affitto.

Lui era il mio principe azzurro da tutta la vita, stare con lui era ogni giorno una fiaba.

Questa caparbietà fece così che le cose, piano, iniziassero ad andare meglio. Sostanzialmente per molto dovetti trainare da sola la mia relazione, sperando sempre che ne valesse la pena. Misi alle strette Ron, cercai di capire che cosa voleva fare della sua vita, dissi che non potevamo andare avanti così, nessuno dei due. Mentii e feci ragionevolmente finta di riferirmi anche a me stessa, che dovevo decidere a mia volta la mia strada, sebbene dopo mesi l’avevo capito anche io che cosa volessi fare. Peccato che quella risposta si schiantò come vetro quando scoprii che era la stessa di Ron.

L’Auror. Entrambi volevamo fare l’Auror.

Confessarlo a Ron lo avrebbe distrutto. Ora che aveva faticosamente capito che cosa voleva fare della sua vita, se avesse saputo che c’ero io di nuovo a fargli da contraltare e da luminoso paragone, sarebbe crollato. Non avrebbe retto. Lo avrei perso sul serio. E io, davvero, pensavo onestamente che potessi fare qualsiasi cosa.

Quindi lo lodai, lo aiutai a studiare, convinsi i suoi ad aiutarlo economicamente per la scuola, lo abbracciai e baciai quando mi disse, con gli occhi lucidi, che ce l’aveva fatta.

Stirai la sua camicia il primo giorno di lavoro e gli dissi di stare attento, mentre usciva di casa per andare in missione la prima volta.

Chiusi la porta, mi accasciai contro di essa e piansi, a lungo. La luce che cambiava nel corridoio per ore, con il mio sacrificio che premeva nel petto, le mani che mi soffocavano le lacrime in gola per il mio piccolo sogno infranto. Era odioso capire di volere una cosa nello stesso momento in cui la si perde. Avevo voluto essere un’Auror per tante cose: per la scarica di adrenalina che mi avevano dato le mie infinite battaglie, per il mio desiderio mai arso di giustizia, per la volontà di rendere il mondo un posto migliore, per la convinzione profonda che sarei potuta essere grande, per la consapevolezza che volevo dimostrare a tutti quanto elastica fossi.

Tutto, al confronto, sembrava avere il sapore farinoso e insipido della segatura.

Fu così che finii al Ministero prima al Dipartimento per la Cura delle Creature Magiche, cercando di riannodare i fili della mia me stessa che voleva giustizia per chi fosse più debole di lei. Ma avevo un incarico sottopagato che non mi portava da nessuna parte. Scartoffie, burocrazia, controlli di routine di bestie poco mansuete. Poi, la ferita magica, una convalescenza di otto mesi e mezzo, Ron che tornava a casa e mi raccontava del suo lavoro… e io desideravo solo che sparisse.

Fummo vicini ad implodere anche allora, forse ci fummo più vicini che in qualsiasi altro momento. Forse però, le coppie che restano assieme nonostante tutto, malgrado persino sé stessi, sono quelle che alla fine l’hanno vinta. Ron mi vedeva deperire, mi sentiva depressa. Lottò perché fossi trasferita al Dipartimento per la Regolazione della Legge Magica, e le cose migliorarono abbastanza. Sempre lavoro di ufficio era, sempre poco a che fare con l’Auror aveva, ma avevo almeno l’impercettibile sensazione che fossi una parte di quella linea sottile tra ordine e caos.

Le ultime resistenze verso Ron, mi sparirono dal cuore quando mi chiese di sposarlo.

Accettai, ovviamente.

Il resto, poi, è storia ormai delle mie ossa e della mia carne.

Non per questo amo il mio lavoro. Sono ben pagata, negli anni ho fatto carriera giungendo ad essere una dei dirigenti e, ben presto, dovrei poter entrare nel Wizengamot come uditore giudiziario prima, e come giudice poi. Ci dovrebbe essere molto lavoro in futuro, dicono che stanno aprendo molte indagini su alcuni crimini commessi proprio dagli Auror nel periodo della guerra.

E io potrei davvero fare qualcosa.

Solo questo ha sepolto, dopo decenni, la voce dell’Auror dentro di me, soppiantandola con la consapevolezza che non fossero così puri ed innocenti come sempre ho pensato. Io non sarei sicuramente diventata un’Auror anche se avessi potuto, qualora avessi saputo una cosa del genere. In questo sono decisamente meno elastica di Ron ed Harry, che hanno sempre pensato che io sola potessi creare problemi. Mi hanno sempre apostrofato in modo sarcastico, quando ne parliamo, dicendomi che sono troppo pronta a credere che il mondo sia bianco e nero e che un minimo dubbio mi avrebbe fatto uscire dai giochi.

Ho dato loro persino ragione, hanno decisamente più pelo sullo stomaco di me.

Ma ci sono voluti più di quindici anni a darmi la pace. E, spesso, il prezzo del sacrificio che ho fatto per Ron mi è sempre sembrato troppo caro.

Lo è di più specie quando comprendo che lavoro in un ufficio di idioti.

E, stamattina, nervosa come sono, non ho granché picchi di positività per ricacciare indietro i pensieri negativi, né tantomeno riflessioni eziologiche su me stessa che mi facciano sentire contenta di essere dove sono. Stamattina, stancamente mi limito a respirare piano nella mia sciarpa grigia, illudendomi di calmarmi.

La stoffa spessa mi restituisce, ancora, quel quieto odore di pioggia. È quello che mi rende fredda anche quando vedo stazionare nel corridoio che porta al mio ufficio i due peggiori esponenti della razza di incapaci che sono costretta a frequentare in questo Dipartimento: mi si imperla già la fronte di sudore freddo, considerando che non ho vie di fuga e che sarò costretta a passargli davanti, intrattenendo persino qualche amabile chiacchiera che mi costerà una mutilazione di intelligenza ed autocontrollo. Uno dei due avventori è una ragazza piuttosto giovane, alta, decisamente carina: pelle bianca, un sorriso accattivante e seducente, occhi azzurri dal particolare taglio allungato, una cascata di fluenti capelli ondulati biondo platino, abbigliamento da turista in vacanza estiva, visto che indossa una camicia azzurra senza maniche abbondantemente aperta sul seno, e un paio di shorts molto corti. Sospiro, ha una spalla mollemente poggiata sullo stipite di una porta e sussurra suadente nei confronti dell’uomo che ha di fronte, mentre porta alle labbra un bicchiere di carta.

Uno direbbe che, come minimo, per tale atteggiamento rilassato, si debba trattare quantomeno di una dirigente o di un impiegata capace e di lungo corso.

Sbaglierebbe in entrambi i casi: la procace ragazzetta altri non è che la mia pessima segretaria, Leda Pole, alle mie strette dipendenze da un infernale anno.

Non l’ho assunta, né cercata personalmente: non potrei riunire tanta sconsideratezza in una sola discutibile scelta nemmeno mettendomi d’impegno, dato che Leda incarna praticamente tutto ciò che detesto nelle donne. Partiamo dal suo abbigliamento e dal fatto che sia tremendamente frivola, oscena, oca, sempre impegnata a fare colpo su qualche componente della razza maschile, specie se costui possa esibire un portafoglio gonfio, poco importa se sia celibe o sposato, single o vedovo, padre o nonno. Leda puntualmente strizzerà il seno in un bustier minuscolo, esibirà un sorriso vorace da mangiatrice di uomini, sbatterà le ciglia gravate dal mascara e si darà al flirt selvaggio. Sembra sempre vivere sotto il dogma de “il mare è pieno di pesci”, nel dubbio cala quanti più ami possibili, indifferente a chi abbocchi.

Questo, però, in fondo è un fatto solamente suo. Del resto non è mai sembrata interessata a mio marito, anzi quando lo incrocia ne sembra persino infastidita, cosa che non può far altro che allietarmi.

E certo, caratterialmente, è abbastanza permalosa, vanesia, viziata ed umorale, ma, ancora, ci devo lavorare assieme, non diventare amica del cuore.

Il problema è, appunto, lavorare assieme a Leda. Perché è un’incapace, superficiale, smemorata, e non dico eresie se ammetto candidamente che il mio lavoro è triplicato da quando c’è lei. Devo sempre correre ai ripari per le sue dimenticanze, perché può darsi che non mi riferisca di importanti incontri ed appuntamenti. In compenso, tiene a mente benissimo fatti intimi e personali come se fosse Pico della Mirandola: è capace persino di tenere nota mentale di ogni mio litigio con Ron, di ogni mia sfuriata con Ginny, di ogni incomprensione con i miei figli e finanche del mio ciclo mestruale. Quindi, insomma, se ci mettesse impegno, potrebbe anche tenere in testa due nomi in croce, seguiti da qualche orario. E, se a ciò ci aggiungiamo che è abbastanza inaffidabile, quindi può sparire senza nessun margine di preavviso per giorni e senza che nessuno sappia dove sia e quando tornerà, abbiamo raggiunto l’apoteosi.

Ora è naturale che uno si chieda perché lavori con me. Semplicemente, è un altro di quegli enormi compromessi che devo fare con me stessa ogni giorno lavorando qui.

A furia di gettare ami, circa due anni fa, Leda ottenne davvero un buon partito: non so chi sia, ma chiacchiere di corridoio parlano di un uomo molto ricco, con una posizione ammirevole, di buona famiglia, naturalmente sposato con figli. Leda si innamorò istantaneamente del suddetto personaggio, perché sembra anche che, caso più unico che raro, il facoltoso tipo fosse anche giovane e decisamente affascinante. Questa combinazione fece sì che la mia futura segretaria cadesse ai piedi dell’uomo come una pera cotta, sperando persino di essere impalmata un giorno. Ma il fedifrago non la pensava affatto così e, dopo qualche intenso mese di frequentazione, la scaricò. La delusione cocente della ragazza fu tale che minacciò di mettere a soqquadro l’intero mondo magico e la reputazione della famiglia dell’uomo spiattellando tutta la storia, a meno che non avesse ricevuto una contropartita soddisfacente per la sua delusione amorosa.

Le fu dato credito perché i Pole fanno parte comunque di un ramo cadetto della famiglia Nott, quindi poteva essere ragionevolmente creduta ed alzare anche il tiro delle sue pretese, paventando persino la possibilità fasulla che fosse incinta.

Il suo devastante mal d’amore fu risarcito con una somma di denaro che onestamente non rammento e nemmeno mi interessa, e nel diritto di poter trattenere una serie di ninnoli e regali dei tempi del corteggiamento, tra cui un vistoso anello di opale da cui lei non si separa mai. In aggiunta, ottenne di poter essere sistemata professionalmente al Ministero, dopo il fallimento delle sue velleità da cantante.

Il caso vuole che, in quel momento, io stessi appunto cercando un collaboratore. Sfortuna vuole che tutti sapessero quanto io sia discreta e disponibile, pronta anche a crocifiggermi per adempiere il mio lavoro. Se poi lei, furbescamente, mi fu di primo acchito dipinta come una povera vittima delle circostanze, sedotta ed abbandonata da un becero maschilista che si era approfittato della sua ingenuità da ragazzina innamorata… potete capire come l’accolsi a braccia aperte. Accettai di buon grado la sua lunaticità il primo mese, perdonai le sue sfuriate e le sue distrazioni, fui accondiscendente con le sue assenze e moine. Avevo persino in programma di salvarla e riabilitarla dalla lettera scarlatta che il Mondo magico le aveva dipinto in fronte, convinta che non fosse colpa sua.

Ci misi due mesi, però, a comprendere che quel ruolo le piaceva parecchio, che se l’era scelto, che non c’era alcun errore di considerazione e nessuna malevola chiacchiera infondata alle sue spalle. E che, soprattutto, sarebbe stata un peso nel mio lavoro. Ormai, però, me la dovevo piangere nel mio ufficio, dato che era virtualmente insostituibile e ragionevolmente irremovibile, senza che rischiassi io stessa il posto. All’inizio non me ne interessava, tornavo a casa così nervosa ed arrabbiata da sfogarmi ripetutamente con Ron mentre cucinavo la cena. Arrivai al punto di scrivere una lunga lettera di dimissioni, minacciando di andarmene se non me la toglievano dalle scatole. Ma poi Ron mi fece ragionare, parlò di quanto ci era utile il mio stipendio, di come Rose fosse vicina ad andare ad Hogwarts con tutte le sue spese e di quanto necessitassimo di stabilità. E quindi quel “porta pazienza per un mese o due”, alla fine è diventato “sopportala e basta. Fai il suo lavoro. E mastica amaro mattina e sera, allevandoti un tumore che ti ucciderà a cinquant’anni scarsi…”.

Leda, presa singolarmente, è relativamente innocua: fastidiosa come una puntura di zanzara, ma alla fine basta che non ci pensi. Diventa una specie di ulcera perforante, unita ad un ustione di quinto grado e ad una collisione del mignolo del piede contro uno spigolo, quando è in compagnia di un uomo. E non di un uomo qualunque… ma del mio odioso dirimpettaio lavorativo, Dean Thomas.

È infatti lui che, adesso, sta “parlando” con Leda, sebbene non credo che il verbo parlare sia adatto al loro palese flirtare e lanciarsi occhiatine provocanti. Non a caso, al momento, Leda continua a passarsi languida la lingua sulle labbra, ignara della mia presenza, come se fosse maniacalmente attenta alla pulizia della sua bocca dopo aver bevuto il caffè, e Dean praticamente pende da esse come se fosse la Sibilla Cumana. Sospiro con nervosismo, è come aspettare di essere travolti da un disastro ferroviario, misto ad un incidente aereo e ad un terremoto di 9 gradi sulla scala Richter.

Sono il quadretto più classico che esista al mondo di pateticità e perversione: ho già abbondantemente chiarito di che razza sia fatta Leda Pole, una che si innamora dei codici IBAN degli uomini. Se però il conto corrente della persona in questione rasenta lo zero assoluto, dobbiamo per forza parlare di un altro personaggio sui generis.

Dean Thomas è infatti un idiota. Senza mezze misure.

Ne avevo pallidi sospetti ad Hogwarts, ma sono sempre stata fiduciosa sulla ripresa neurale delle sue sinapsi. Era un ragazzo immaturo e superficiale, con una pericolosa attitudine alla menzogna gratuita, ma in fondo buono, onesto, innocente. Se avesse trovato compagnie giuste, nonché una donna che gli insegnasse che poteva anche non essere spaccone per essere scelto, sarebbe diventato sicuramente il migliore degli uomini. Aveva bisogno di una sorta di sfida vinta alla lotteria del destino, di ingranare il colpo di coda del gioco di carte della vita, perché poi tutto filasse da sé.

Invece se il teorema insegna che, nella vita degli uomini, saranno fondamentali le donne che andrà incontrando ed amando, si comprende che, essendo capitata a Dean Thomas invece Lavanda Brown, la conquista più facile ed oca della storia del mondo, inevitabilmente tutto sarebbe andato a scatafascio. Iniziarono una relazione per caso all’indomani della mia con Ron che spezzò il cuore di quella vanesia gallina. Dean era libero, carino, disponibile: non sono cieca, persino adesso è un bel vedere. Non era nemmeno esageratamente impegnativo, e Lavanda dovette pensare che fosse un bel ripiego.

Fecero tira e molla per parecchi anni ripagandosi i tradimenti con gli interessi, finché si arresero alla fine di quel gioco quando Lavanda scoprì di essere incinta e dovettero sposarsi in fretta e furia.

Ebbero un figlio, Gabriel, e per alcuni anni furono il ritratto dell’insipida vita coniugale, tutti concentrati sul loro piccolo tesoro che intanto cresceva in arroganza e presunzione.

Poi, appena Gabriel fu sbolognato al nido, ripresero le loro antiche abitudini, peggiorate dalla convivenza forzata e dall’esistenza del unigenito che comunque li costringeva a restare assieme. Hanno preso stranamente ad assomigliarsi anche nell’aspetto: sono sempre abbronzantissimi anche a dicembre, con la manicure fatta, i capelli ossigenati e le rughe che spiccano sulla pelle scura attorno agli occhi. Credo che Dean abbia anche adottato lo stesso tono di voce della moglie, acuto e stridulo.

Sono una specie di barzelletta triste del nostro mondo: ci sono giri di scommesse su quanto dureranno, su quando il loro figlio li ammazzerà nel sonno, su chi sarà la prossima preda del loro continuo tradirsi a vicenda. Quest’ultimo giro scommesse, però, è fermo da mesi riguardo a Dean. Perché lui è ormai il giocattolo sessuale ufficiale di Leda Pole.

È stata lei a confessarmelo candidamente un pomeriggio d’estate. Ovviamente non lo ama, ed ovviamente non pensa che ci possa essere un futuro qualunque tra loro, visto che Dean ha una semplice paga da impiegato, un figlio a carico ed un destino bloccato in questo Dipartimento, dopo che anni fa rifiutò una promozione del suo vecchio Dipartimento alla Cooperazione internazionale che lo avrebbe però portato a Parigi, lontano dalla moglie gravida. Chiaro che questo scenario non possa far fremere nulla di Leda. Ma è un bell’uomo, “scopa da Dio! Ha questo vizio di non smettere di guardarmi negli occhi quando viene dentro di me! E a me viene da ridere! Lui sorride un po’, pare pure triste, volta il capo e se ne va…”, mi ha riferito zelante e non richiesta Leda.

È stata quella confidenza non voluta, a cui ho risposto con un commento acido che mi ha tolto Leda di torno per una settimana, a farmi stringere il cuore.

Non ho mai provato pena o compassione per Dean Thomas, figuriamoci. Non ne proverei mai per uno che volontariamente non solo si sposa con Lavanda, ma se la fa con Leda.

Però quel particolare, quel suo modo di guardare negli occhi questa sciocca ragazzina qualunque, come se cercasse qualcosa ma lei fosse troppo sorda e cieca per capirlo… mi ha illuminato su quanto debba sentirsi perso e perduto dietro quell’aspetto solare da playboy impenitente. Suo figlio non è una consolazione: è un quindicenne maleducato e distante, che lo appella nelle maniere peggiori possibili tra cui vince decisamente la parola “coglione”. Dean, però, più sta male e più sorride. Magari in modo più stanco, ma questo fa.

E dice solo: “Sarebbe stato meglio avere anche tre figlie femmine, io con le femmine ci so fare decisamente meglio!”. Leda a quelle parole scoppia a ridere civetta, sporgendosi in avanti con il busto a sottolineare che con lei, effettivamente, ci sa fare. Dean ancora sorride, ma ha uno spasmo all’angolo della bocca che somiglia ad un rantolo trattenuto.

E io penso davvero che qualsiasi vita sarebbe stata migliore di questa.

Una volta qualche mese fa, il 21 giugno, lo beccai che piangeva. Mi disse che era il compleanno di Gabriel, che era commosso dal tempo che passava, che suo figlio era diventato un uomo e che per questo non voleva passare la festività con lui, andando a pescare. Finsi di credergli, feci una battuta su Rose che ormai non voleva più la babysitter.

Dentro di me, pensai al dramma di un uomo per cui il compleanno del figlio è il giorno peggiore della sua vita.

Quello dove ha legato il suo destino a questo pagliaccio da gossip che interpreta, e non è stato in grado di liberarsene più.

Giunta in prossimità del triangolo delle Bermuda (ed anche di qualche altro pezzo di intimo) tra la squinzia e il toy boy, accenno ad un cenno del capo che funga da saluto ma non mi risucchi nelle loro chiacchiere porno soft. Sono convinta di essere sgusciata indenne, quando Leda con voce zuccherosa mi richiama indietro: “Capo! Ho un messaggio da consegnarle!”.

Mi volto sorpresa dalla sua efficienza, dato che sarà tipo il secondo messaggio che riesce a riferirmi in un anno. Ed il primo è giunto a destinazione solo perché era di Blaise Zabini, un altro dei suoi target annunciati. Con un sorriso svenevole che causa un altro rantolo in Dean, mi porge un biglietto dalla tasca del top che porta, quindi praticamente in corrispondenza del seno sinistro.

Disgustata e comprendendo che se n’è ricordata solo in virtù del suo utilizzo come rituale di accoppiamento, afferro il biglietto con due dita ringraziandola a denti stretti, mentre dico caustica: “Leda, sei sempre la mia salvezza in ogni circostanza. Un toccasana per il mio sistema nervoso…”. L’imbecille ovviamente non capisce l’antifona e sorride ancora zuccherosa, mentre Dean annuisce entusiasta, lo sguardo ancora sul punto da cui la mia solerte segretaria ha estratto il messaggio.

“Dean sei cianotico…” commento piccata, guardandolo storto mentre rientro nel mio ufficio “Forse è meglio che chiami Lavanda e ti faccia venire a prendere…”. Punto sul vivo, si affretta anche lui a rientrare nel suo ufficio, lasciando Leda da sola che mette su un broncio da bambina scontenta.

Cara…” rimarco al suo indirizzo, sapendo quanto detesti l’appellativo perché ritiene che la invecchi “Potresti portarmi la pratica del caso Latimore? Dovrebbe essere all’Archivio N4…”, quindi dall’altra parte del Ministero e dove tendenzialmente c’è una coda di un’ora e mezzo, così possa dimenticarmi che esisti.

Contrariata, Leda è costretta ad accettare e si incammina a grandi passi sui tacchi traballanti.

Finalmente posso entrare in ufficio e chiudermi la porta alle spalle con un enorme sospiro. Guardo con un sorriso l’albero di Natale spelacchiato che Hugo ha insistito perché facessi in ufficio, agitando la bacchetta perché si accenda di oro e rosso. Mi siedo alla scrivania spostando una serie di scartoffie che Leda avrebbe dovuto sistemare nello schedario, cosa che mi costringe ad un nuovo sbuffo di fastidio, e finalmente apro il messaggio. È di Ginny e recita solo poche parole: “Riunione Weasley stasera alla Tana. Dramma in arrivo. Non mancare. G.”.

Rassicurante al punto giusto, devo dire.

Così che io abbia davvero voglia di tornare a casa, bramando di trovarmi di nuovo nel mezzo di una crisi dai capelli rossi.

Guardo le pratiche sulla mia scrivania, decidendo che proprio oggi avrò misteriosamente un carico di lavoro tale da trattenermi qui fino alle 21 passate.

 

 

Ginny ha usato l’espressione “riunione Weasley”, perché in fondo è questo quello che siamo. Tutti.

Weasley.

Persino Harry, che ha il cognome più importante del mondo magico. Persino lui che è un uomo e, in una logica prettamente maschilista ed antiquata, dovrebbe trasmettere il proprio cognome a sua moglie.

È un Weasley anche lui e stiamo sempre parlando dell’unico genero che Molly ed Arthur Weasley avranno mai. Una specie di razza in via d’estinzione.

Figuriamoci se non lo siamo, a maggior ragione, io, Fleur, Angelina, Audrey e persino Cora, l’eterna fidanzata mai del tutto ufficiale di Charlie.

Abbiamo dismesso cognomi ed identità, nel momento in cui abbiamo messo le fedi al dito.

Esagero, lo so.

In parte influenza il fatto che sono le otto di sera e, dopo un gufo particolarmente minaccioso di Ron, ho dovuto mollare l’ufficio perché lo raggiungessi immediatamente a casa dei suoi genitori. Un po’ influisce che io abbia al momento le caviglie gonfie e i piedi doloranti dopo che sono stata in piedi per un’ora, intrattenuta nei convenevoli con l’ambasciatore neozelandese, e che quindi il mio solo desiderio sarebbe tornare a casa, farmi un bagno ed andare a letto. Sicuramente, il disagio è aumentato dalla nausea, risorta improvvida dopo il mio pranzo, quando mi è saltato in mente di prendere un pezzo di torta alle carote e mandorle. Quindi ammetto che, al momento, potrei non essere molto razionale.

Questo in condizioni normali dovrebbe spingermi automaticamente ad allontanarmi da qualsiasi forma di iterazione umana per paura di far danni, ma naturalmente non sono stata messa nelle condizioni di rintanarmi nel mio buco di solitudine e misantropia.

Sollevo lo sguardo annebbiato dalla stanchezza verso le finestre della casa, che si staglia come una grande ombra scura nel centro esatto della valle silente: giunge dall’interno il tramestio comune di più di venti paia di passi, accompagnato da un’accozzaglia di voci tra le più diverse, condito dall’odore di arrosto alle cipolle selvatiche di Molly che costringe il mio stomaco ad un ulteriore capriola di fastidio. Sospiro lungamente cercando di ricacciare indietro la nausea, preoccupata di dover anche subire un terzo grado da chioccia da parte di qualcuno all’interno, poi, illuminata, decido di sedermi qualche secondo sui gradini dell’ingresso, nascosta dalla siepe di buganvillea, godendo del freddo pungente della sera. La mia innocua giustificazione mentale è che, spero, l’aria fresca possa restituirmi il benessere e un po’ di energia. La mia vera reale preoccupazione è di ritardare quanto più possibile l’incontro con il dramma in corso, che realisticamente si rivelerà essere solo una divergenze di vedute sul menù di Natale tra le solite ventinove portate e il tentativo di Molly di aggiungere anche il pasticcio di rognone, ostracizzato come da tradizione.

Appoggio la testa contro la siepe ritrovandomi ad occhi chiusi, le labbra strette.

Ho sempre adorato i Weasley, tutti, dal primo all’ultimo. Ho sempre adorato il caos che si respira a casa loro, ho sempre adorato di non sentirsi mai davvero soli. Mi sono innamorata, prima che di Ron, di quel rumore di fondo delle stanze che erano voci e sedie accostate, bicchieri che si toccano e mani che si sfiorano, e che non somigliava affatto al silenzio bianco della mia casa da bambina.

Sono figlia unica, sono unigenita figlia di due unigeniti genitori: esclusi loro, escluse qualche sporadica amichetta del corso di pianoforte, sono sempre stata una bimba solitaria e strana, con il naso sempre affossato nei libri, gli occhi sempre incuriositi dai movimenti infantili degli altri e dai loro giochi, ma con la posa ritta e severa di un’adulta che già si escludeva e faceva ombra a sé stessa.

Fino ad Hogwarts.

Fino ai Weasley, appunto.

Sono diventata una figlia ed una sorella con una velocità che mi ha sempre sorpreso e che non poteva essere imputata a me, sempre chiusa e bacchettona. Ma a loro, alla loro franchezza, al loro calore, alla loro gioia di accogliere qualcuno nel loro tiepido guscio. Io ed Harry ci siamo trovati seduti ad un tavolo, circondati da teste rosse, dall’oggi al domani: mangiavamo porridge caldo su una tovaglia a scacchi e ci sentivamo a casa, l’orfano e l’unigenita. Avevamo regali da scartare che, pure se di fattura scadente, erano di enorme cuore e sostanza di amore. E tutto sembrava solo una meraviglia dolce di affetto, piombataci addosso come risarcimento di due infanzie solitarie. Certo, la mia non è minimamente paragonabile a quella di Harry con quegli zii infernali che aveva, ma insomma… ci siamo capiti.

È un segreto ostile come un serpente, ma fino a non molto tempo fa, a mio modo, li consideravo quasi come la mia vera famiglia. Lo ammetto. Influiva decisamente che il mio albero genealogico contava pochi e sparuti membri che conoscevo poco e che erano tutti babbani fino al midollo: mi avevano sempre fatto sentire diversa, strana, anormale. Ne avevano ragione, ma ovvio che ora che ne avessi una giustificazione mentale e fisica, avessi ancora meno interesse a frequentarli se all’antica umiliazione ed inadeguatezza si aggiungeva anche un corposo senso di rivalsa.

Il mio posto era un altro, la mia vita era un’altra: loro manco sapevano che c’era stata una guerra e quanta gente era morta, per salvare anche loro. Avevo persino avuto una sorta di blocco emotivo per un paio di settimane al termine del conflitto quando avevo recuperato i miei genitori dall’Australia, per lo stesso motivo. Mi seccava dover spiegare che cosa era accaduto, in fondo ritenevo che non avrebbero capito, specie nella mora ancora fresca della perdita di Fred e in quel miasma di dolore che sembrava unire tutti i Weasley, me ed Harry, ed escludere automaticamente tutto il resto del mondo.

Quando tutto tornò alla normalità, per molto le cose non cambiarono: anzi, il mio nuovo status di fidanzata di Ron mi rese ancora più parte integrante del clan, ora senza più alcun genere di scusa. I miei stessi genitori furono trascinati nel vortice della vita alla Tana, perché era ovvio che la legge dei numeri prevedesse automaticamente che due individui potessero spostarsi tranquillamente, meno venti e passa.

Ogni Natale, ogni festa qualunque, l’ho sempre festeggiata qui dai tempi del fidanzamento fino a quelli del matrimonio. A maggior ragione, quando sono nati Rose ed Hugo.

Ed andava bene, sul serio. Sono sempre stata felice. Contenta. In pace.

A godermi confusione e chiasso, a bearmi delle chiacchiere e dei piccoli motteggi di mia suocera, a preoccuparmi bonariamente di mio suocero, a controllare che i miei figli non si mettessero nei guai con i loro cugini. Mi sono sempre sentita benedetta e rassicurata che non vivessi in una fittizia vita di plastilina dalla pecca, tutto sommato normale e trascurabile che, escludendo Ginny, non ho mai avuto grandi rapporti con le mie cognate. Fleur di fondo non mi è mai piaciuta, troppo vanitosa e bella per non mettermi a disagio con i miei capelli sempre in disordine e le unghie mangiucchiate. Angelina, la moglie di George, è un’autoritaria allenatrice di Quidditch a suo modo anche simpatica, ma con cui ho ben pochi argomenti di conversazione in comune. Audrey, la moglie di Percy, è abbastanza nevrastenica e perfezionista, non penso di averla mia beccata da sola in un momento che non fosse la preoccupazione per lo stato dei vestiti delle sue figlie, o per la presenza o meno di grassi insaturi nelle salsicce di fegato.

Cora, invece, è un caso a parte.

Ha tipo quarant’anni, ma ne dimostra la metà: bellissima, con un corpo da favola e lunghi capelli corvini. Una modella, praticamente, ma che ha anche il pregio di essere colta e simpatica. Ma è una meteora. Lei e Charlie girano il mondo curando i draghi, non si fermano mai troppo a lungo nello stesso posto, non pensano minimamente né di sposarsi e nemmeno di avere figli.

Mi piace molto forse proprio perché è il mio opposto… ma la vedo troppo poco per legare con lei.

Però, tutto questo non è mai stato un problema: vado d’accordo con Molly, con Ginny. Ho mia madre. Insomma, non ambisco alla perfezione.

Poi qualcosa è cambiato. Dalla morte di mio padre.

Arrivò Natale, mia madre ormai viveva da sola a Favignana in Sicilia. Volevo passare le feste da lei, non volevo costringerla a spostarsi, non volevo nemmeno che affrontasse l’Inghilterra e tutti i suoi ricordi. Volevo anche che i miei figli conoscessero quel lato di me, quella casa che sapeva di arancia e limone, quella lontana origine che avevo solo finto di dimenticare e che ora mi richiamava a sé come il mare di una conchiglia. Solo un anno, dissi convinta a Ron quasi supplicando, dammi solo un anno. Sapevo di chiedere molto, lui adora il Natale a casa, sua madre non ci avrebbe perdonati facilmente. Ma pensavo davvero che capissero.

Ebbene, non capirono. Per nulla.

Ron mise un broncio da bambino di cinque anni che gli durò settimane: preparava i bagagli con malagrazia, accatastando cose con malavoglia e guardando con desiderio Harry mentre rientrava a casa carico di pacchetti. Formalmente diceva: “Andiamo, tranquilla, non ti preoccupare… che saranno due settimane da babbano?” ed intanto nell’appunto finale, ci metteva abbastanza sarcasmo da darmi il voltastomaco. Non parliamo nemmeno poi del vero ed autentico ostruzionismo che mi fecero Rose ed Hugo: naturalmente alla prospettiva del più normale dei Natali, senza i tiri vispi Weasley ad inventarsi corolle di luce porpora, senza alcun cuginetto con cui giocare e senza nemmeno il caos tipico delle nostre feste, montarono beghe e noie assurde. Favignana, del resto, non aveva grandi attrattive d’inverno con cui poterli allettare. Riuscii a resistere abbastanza bene al fuoco incrociato di mio marito e dei miei figli, ignorando il primo e mollando ceffoni ai secondi quando si permisero insolenti di dire anche che “ci rifiutiamo di andare da nonna Eleanor perché è pizzosa!”.

Capitolai, però, durante il pranzo domenicale del quindici dicembre, due giorni prima di partire. Tra i miei cognati che organizzavano le festività, spingendo all’invidia Ron e i bambini che continuavano a guardarmi storto, e i miei suoceri che oscillavano tra “non sarà la stessa cosa senza di voi” e “d’altronde avrebbe avuto più senso che si fosse spostata solo Eleanor! Sarebbe stata anche in compagnia! Si divertirebbe di più”, conditi da sguardi lacrimevoli e stucchevoli complimenti alla “la famiglia è sempre la famiglia!”… semplicemente non ce la feci più e dichiarai bandiera bianca su tutta la linea, stremata.

Restammo a Londra, i miei figli si divertirono come pazzi, Ron poté vedere la finale di Quidditch con i suoi fratelli, mia madre prenotò un volo economico all’ultimo minuto, ed io…

… spaccai una decina di piatti in preda all’isteria da sola nella cucina di casa mia, prima di raggiungere gli altri alla Tana.

È una delle cose più irrazionali che abbia mai fatto: scientemente ho passato un’ora d’orologio a spaccare piatti, rimetterli assieme con la bacchetta e poi a frantumarli daccapo in modo sempre più fantasioso.

Non è una bacchetta, però, che ripara le crepe che ti si aprono dentro. Mai. Al massimo ci metti gesso e stucco, ma il difetto è nell’intelaiatura, sta sempre lì. Mettici una pietanza più calda e si venerà daccapo.

In Italia ci siamo andati poi a Pasqua, i miei figli si sono divertiti un mondo giocando a mare sulla spiaggia, mia madre ha mostrato le ristrutturazioni fatte alla casa di mia nonna, Ron ha mangiato chili di pasticcini con la marmellata d’arance… tutto bellissimo. Certo.

In realtà, non è andato più niente a posto da allora per me nella famiglia di mio marito. Improvvisamente piccole cose che mi erano sempre passate innocue sotto il naso, sono diventati elefanti da salotto che nascondevano la luce del sole. Esattamente come la prossimità di Harry e Ginny come vicini di casa.

Il senso profondo della condivisione, ora, mi infastidiva: c’erano cose che avevano il dovere di restare mie e di mio marito, e non essere lavate nel caldaio Weasley magari anche con sufficienza. La continua mancanza di privacy adesso mi irritava perché scoprivo di nuovo la mia dimensione più introversa che necessitava e bramava come ossigeno domeniche a casa, festività solitarie o semplici pomeriggi dove assentarmi senza alcuna spiegazione. L’appartenenza che, improvvisamente, faceva scomparire famiglie d’origine o conoscenze esterne, delineandoti a pieno un membro del clan, dava sì supporto e sostegno, ma schiacciava anche senza respiro. E, se per me non era eccessivamente fastidioso, non potevo tollerare che i miei figli considerassero amici solo quelli che, a conti fatti, erano sempre i loro cugini.

C’era altro là fuori.

Dopo quello, ovviamente, tutti i piccoli e grandi difetti sono sorti come funghi, infastidendomi come non mai. L’eccessiva premura da mamma apprensiva di Molly, l’inconsistenza vaga dei pensieri di Arthur, l’iper-precisione pedante di Percy e Audrey, la sfrontata spacconaggine di George e Angelina, la superficialità vanesia di Fleur.

Intendiamoci: li adoro. Li amo sempre. Sono la mia famiglia.

Ma necessito di pace, calma, tregua. Più spesso di quanto riesca ad ottenerla.

Ciò mi fa sentire ingiusta e sbagliata al punto che, solo perché pianifico di andare da sola in Italia per l’Epifania a trovare mia madre, mi risale la nausea. Solo pensare alla veranda della sua villetta, con la luce afosa dell’estate e l’odore di limoni mentre sono intenta a scrivere qualcosa, mi fa sentire male. E non dovrei sentirmi così. Dovrebbe essere un pensiero bello prendermi del tempo solo per me, come donna, da sola. Ed invece, ormai, sono un punto indistinto in una trama color rosso ed oro.

Probabilmente la stanchezza esacerba tutto un po’, penso con calma respirando il vento che sa di muschio e fresia, e probabilmente il dramma annunciato sarà solo una sciocchezza da un paio di ore massimo.

Un paio di ore lontana dal mio copriletto caldo, dal mio libro rimasto alle ultime trenta pagine, dalla mia camomilla con miele e limone.

Sospiro languidamente, prima mi do una mossa e meglio è. Mi alzo sferzata da un’ondata di coraggio, ergendomi dritta in tutta la mia modesta altezza, inarcando in avanti la schiena e spingendo in fuori il busto. Salgo a due a due i gradini del portico, per poi fermarmi davanti alla porta a vetri da cui giunge un bagliore aranciato e voci soffuse ma concitate. Incasso di riflesso il collo nelle spalle, nascondendo la bocca nella mia sciarpa grigia che ormai si è impregnata dell’odore di pioggia, sembra che ci sia nata apposta con questo odore addosso, poi, rapida, sfruttando l’ultimo anelito di masochismo rimasto, abbasso la maniglia con decisione entrando.

Le voci, che all’esterno sembravano tutto sommato sopportabili, mi rintronano una volta all’interno per il contraccolpo rispetto al silenzio, assieme all’ondata di calore data dalla differenza di temperatura. Con nervosismo, quindi, mi levo velocemente il cappotto mollandolo su una poltrona assieme al cappello.

La sciarpa, no. Quella non riesco a togliermela di dosso. Mi dà la rassicurante sensazione di potermici nascondere dentro.

Seguo la direzione delle voci, giungendo infine in salotto. Le voci cessano all’improvviso, anche se sarebbe più corretto dire che sono le urla a smettere di colpo non appena tutti avvertono la mia presenza. Guardo tutti interrogativamente, la posa già alla Granger scolpita nella mia espressione e nelle movenze del mio corpo: ho già inarcato inavvertitamente un sopracciglio, ho già messo le mani sui fianchi e ho già gonfiato le guance in un moto da pesce palla in posizione da combattimento. Tutti, d’altro canto, mi guardano con un frammisto senso di terrore, di calma e di immediata remissione di ogni problema sulle mie fiacche spalle. Ed è questo che aggiunge alla mia postura un tic nervoso al piede sinistro che prende a tamburellare sul pavimento, in attesa.

Dato che nessuno si ostina a parlare, getto uno sguardo nervoso alla stanza intera mettendo a fuoco nella vista tremolante di stanchezza tutti i presenti. In piedi, poggiato al davanzale della finestra, c’è Harry che si pulisce gli occhiali con un lembo del maglione rosso che indossa: lui mi sembra quello più calmo, più pacifico. E ciò mi rassicura sul fatto che, in fondo, non sia successo niente di così grave. Mi restituisce uno sguardo appannato a cui rispondo con un fremito dell’angolo destro della bocca a dimostrazione di quanto mi consideri ben più esausta di lui, almeno tu sei già in ferie.

Poco più in là Ginny è seduta scompostamente su una poltrona, le gambe piegate su un bracciolo, mentre mangiucchia dei cubetti di formaggio con estrema nonchalance, come se fosse perfettamente a suo agio e non ci fosse nulla di cui preoccuparsi. Si limita semplicemente ad un cenno frettoloso del capo in mia direzione per poi riprendere a mangiare con tutta calma, un piede che dondola.

Comprendendo agevolmente che il problema non siano i coniugi Potter, cerco naturalmente Ron nella stanza, sperando che allora il problema non sia nostro: lo trovo in piedi a poca distanza da me, visibilmente più agitato di Harry e Ginny, ma ben più calmo di quanto sarebbe se ci fosse un qualcosa di grave su me, lui o i bambini. Ha solo le orecchie un po’ più rosse del solito, i capelli più scompigliati e credo che non si sia accorto di aver messo il pullover al contrario, dato che intravedo l’etichetta. In cinque passi copre la distanza tra me e lui, mi guarda lievemente imbronciato forse per il mio ritardo e si limita a toccarmi l’interno del polso nel vago tentativo di rassicurarmi.

Il solo effetto che riesce ad ottenere è che le mie spalle si affloscino come se fossi un mollusco privo di sostegno: continuo ostinatamente a non capire che cosa stia succedendo e soprattutto l’urgenza della convocazione. Guardo quindi Ron in attesa sperando che si spieghi, ma lui si limita ad un sospiro e ad un cenno meccanico del caso come se mi indicasse  in silenzio la fonte dell’enorme dramma in corso. Seguo la direzione del suo cenno fino al divano, dove probabilmente ci sono i primi attori della tragedia in atto. Sul sofà rosa stinto al centro del salotto, sono seduti i miei suoceri in atteggiamento ben poco rassicurante: se Molly è infatti cianotica, con i capelli grigio polvere scomposti e spettinati, abbandonata mollemente all’indietro con la nuca poggiata sullo schienale, Arthur non mi pare in stato migliore. Pallido, emaciato, con una tragicomica “o” a spalancargli la bocca mentre guarda nel vuoto, completamente ignorato dalla seppur amorevole moglie che è intenta a sventagliarsi con un fazzoletto scozzese, mentre borbotta frasi sconnesse. È guardando in giro per la stanza alla ricerca di spiegazioni che, finalmente, intravedo un capannello di persone che non ho notato per stanchezza, o perché più realisticamente erano quasi seppelliti e nascosti nell’intercapedine tra il tavolo e la credenza. Non sono naturalmente sconosciuti, ma era difficile riconoscerli in questi panni dimessi e… spaventati.

Insomma non credo che esista nemmeno una parola corretta per definire questi esserini informi, accartocciati su sé stessi come vermetti contorcenti e che solitamente hanno risposto al nome dei miei cognati Bill, Fleur, George e Angelina. Sono tutti abbastanza verdi in viso e, dalle loro facce e dal modo che hanno di saettare lo sguardo in direzione del divano, riconosco abilmente che la loro espressione è quella tipica da scontro con Molly Weasley: una battaglia già persa in partenza. Dietro di loro, finalmente, mi accorgo di due presenze familiari ma assolutamente inconsuete, tanto che devo strizzare gli occhi un paio di volte per distinguerli bene. I miei nipoti, Victorie e Teddy.

Li guardo senza ben capire, Victorie dovrebbe essere a scuola e Teddy non lo vedo da qualche mese, dato che ha iniziato a frequentare una scuola nel nord della Francia. E, a meno che non abbia capito male, i corsi finivano il venti dicembre, non adesso.

Oltre però alla loro tangibile presenza, è anche il loro aspetto che mi meraviglia un po’, facendomi infine capire che devono essere loro nell’occhio del ciclone Weasley.

Si tengono per mano, ma ciò naturalmente non mi sorprende: sappiamo tutti che stanno assieme. Teddy del resto, sin da bambino, è sempre stato una sorta di Weasley acquisito. Ha praticamente vissuto a casa di Harry da quando era in fasce, diventando praticamente un fratello per James, Albus e Lily. E naturalmente un grande amico per i miei figli e i loro cugini. Con Victorie c’era sempre stato un rapporto “speciale” ed alla fine sono diventati una coppia. Gioia e giubilo in casa: era come avere una sorta di timbro ancora più reale dell’appartenenza del piccolo Lupin alla famiglia.

Alle loro spalle c’erano state tutte le più ampie congetture su come e quando si sarebbero sposati, cosa spesso interrotta da Fleur che diceva che Vic doveva finire la scuola e poi pensare al resto. Fu la sola volta che, stizzita dal comportamento vergognoso degli altri, le diedi ragione su tutta la linea. Del resto, Teddy ha deciso di andare appunto a vivere per quattro anni a Brest, in Bretagna, dove si trova una scuola molto prestigiosa specializzata nel disegno di scope da corsa. È una scuola molto costosa che Teddy si è potuto permettere solo perché, sciaguratamente un anno fa, è venuta a mancare sua nonna Andromeda, la stessa che lo ha cresciuto e che gli ha lasciato una discreta rendita. Probabilmente al termine del percorso accademico, rimarrà anche lì in Francia a lavorare. A Brest c’è infatti la fabbrica delle Firebolt.

I fiori d’arancio e i confetti bianchi quindi sono stati abbondantemente accantonati in attesa di tempi più maturi.

D’altronde parliamo di due ragazzini, cavolo: tra un anno Teddy potrebbe stare con una dolce e piccola francesina, mentre Victorie decide di trasferirsi in Nuova Papuasia per studiare le vongole. È il bello della giovinezza non essere mai davvero legati. Ovviamente tengo per me questi pensieri, Ron mi darebbe delle sfasciafamiglie e della libertina: del resto è abbastanza strano che io non mi faccia intenerire facilmente da niente specie da due ragazzini innamorati che si tengono per mano con dolcezza, suggerendoti in modo erroneo che non facciano altro.

Lui mi definisce cinica, io credo solo di essere realista: non è il destino di tutti gli amori sopravvivere alla vita stessa.

Ora, però, paradossalmente, penso in modo più convinto che potrebbero farcela a restare assieme persino per sempre. Hanno un modo di aggrapparsi l’uno all’altra, sebbene appaiano sbattuti e nervosi, prossimi forse anche alle lacrime, che mi sorprende. Non mi dà di due ragazzini, insomma.

Victorie è livida in viso, ha i capelli biondissimi spettinati e legati malamente in una treccia scomposta che pende inerme su una spalla. Tiene stretta la maglia con una manoe con l’altra quella di Teddy alle sue spalle. Ha gli occhi lucidi, il labbro che trema, e sta a testa bassa. Teddy, invece, è saldo, forte, sembra un uomo. Le sta dietro come un cavaliere ad un passo da una principessa. Mi saluta con un quieto sorriso, mentre indossa il più comune degli aspetti: capelli castani ed occhi azzurro polvere. Quando voglio sentirmi solo me stesso, zia. Sembra ricordarmi solo con lo sguardo quella confidenza.

Decido d’improvviso slancio che, qualsiasi cosa sia accaduta, sarò sempre dalla sua parte.

Gli voglio bene come un figlio, qualsiasi cosa abbia fatto o sia successa. Non cambierà mai, questo.

Improvvisamente una vertigine sembra colpire sleale Victorie e farle fare un passo indietro. Fleur si muove in modo automatico verso la figlia, preoccupata, ma il suo piccolo mancamento viene subito assorbito ovviamente da Teddy alle sue spalle. La ragazza si volta leggermente con il viso, fino ad incontrare gli occhi chiari del fidanzato. Si guardano nella distanza quasi nulla che esiste tra loro al momento. Ed è quasi naturale per lei, come l’onda del mare al richiamo della marea, abbandonarsi piano con la schiena contro di lui, stanca, esausta come dopo una lunga camminata che le ha succhiato via ogni energia. E credo che sia naturale anche per lui, semplicemente lasciarla lì, a sentire contro le sue spalle il suo respiro che accelera sempre di più ad ogni secondo.

Ovvio. Naturale.

È solo un secondo in cui entrambi distolgono lo sguardo da tutti noi, e trovano gli occhi dell’altro. È solo un attimo, ma vale come mille anni.

Non so perché non sono riuscita a smettere di guardarli. So che penso che non permetterò che gli facciano del male e che rovescino la loro vita, piccola ed ingenua come ancora è. So che sono sempre più arsa dalla curiosità di sapere che cosa dannazione sia successo.

Ma so che, per un attimo, non riesco a pensare a nulla di qualsiasi cosa perché ogni parte del mio essere è impegnata a frenare il conato di nausea che mi ha preso lo stomaco in un modo così forte da farmi temere di morire. Come se la mia testa si spaccasse in due, come se d’un tratto vedessi solo bianco e sentissi solo voci che mi chiamano nella testa.

Passa in un secondo scarso, respiro nella sciarpa grigia e mi sembra di sentirmi meglio.

E, sollevata, mi rendo conto che nessuno si è accorto del mio mancamento, nemmeno Ron a cui per fortuna davo le spalle. Vedo le sue dita ancora chiuse sul mio polso e mi stacco come se fossero di troppo in questo momento. Lui mi lascia fare, ovviamente preso dai suoi pensieri. E io torno a guardare i ragazzi, sollevata dalla fine di quel contatto che pure prima, mi aveva tanto tranquillizzato.

Non capisco perché ora mi turba tanto vederli assieme: forse è solo l’invidia rancida di una quasi quarantenne che, dopo aver visto Teddy e Victorie, rammenta che di quello sguardo così schietto ed ingenuo, di amore vero, non ha più memoria. Non è il destino di tutti gli amori sopravvivere alla vita: ma non è il destino dell’amore restare intonso di sguardi e puro di cuore, così da non sporcarsi giorno per giorno con la vita stessa. Un amore lucido e perfetto di cristallo, non si salva mai. Si rompe e frantuma il cuore. Se vuole salvarsi, si fa roccia: sporca, venata, comune.

Si fa duro come cemento armato.

Non più così bello a vedersi, pieno di schegge di compromessi, di crepe di rammarichi, di imperfezioni di rimpianti.

Ma si salva, resiste, vive. Ancora. Di giorno in giorno, fino al “per sempre”.

Credere che l’amore possa restare sempre una bellissima fiaba, è una puttanata grossa come una casa.

Quei pensieri, acidi come limone, mi spingono a reagire nervosamente chiedendo stizzita e rompendo il silenzio della stanza: “Si può sapere che cosa è successo?!”.

È come fare scoppiare un petardo nella stanza e tutti mi guardano nel modo scioccato con cui guarderebbero un bambino recalcitrante che si diverte a fare scherzi rumorosi.

Con imbarazzo e fastidio.

Si sta davvero bene in una stasi addormentata in fondo, e magari vogliono anche smettere di pensare a che cosa è accaduto. Andrebbe bene anche a me, se mi facessero tornare alla mia casa e alle mie quattro mura.

Restano tutti immobili, chi a mangiarsi le unghie, chi ad aprire la bocca e a chiuderla subito dopo, chi a guardare interessato le tende o il soffitto… ed io inizio ad innervosirmi.

Sempre di più, come se fossi posseduta. Perché nei loro sguardi, in quelli della mia famiglia, leggo quel sentimento di quieto e riottoso incomodo che hanno per la mia persona. Per quella che razionalizzerà tutto, minimizzerà tutto, si prodigherà in rimproveri e critiche e darà a tutti l’impressione di essere stupidi per aver chiamato dramma un’autentica sciocchezza.

Però, intanto, aspettano sempre quel mio movimento di ramazza mentale che metterà tutto a posto. Imprecano, borbottano, giudicano: ma lo aspettano come una salvezza piombata dal cielo. Perché in fondo a me non costa niente, in fondo mi rende felice. Perché per loro io adoro passare la vita a risolvere le grane altrui. Anche se non lo do a vedere.

Stasera, però, sono troppo stanca per questo. Stasera, forse, mille lampadine di egoismo mi baluginano negli occhi a farmi sentire esausta.

Stasera, lo ammetto, vedo solo Victorie che guarda Teddy e si affida ciecamente, e mi chiedo se io mi sono mai sentita così nella vita.

Pronta a mettere tutto di me nelle mani di un altro.

E so già la risposta: no.

Io non me lo sono mai potuta permettere, nemmeno con Ron, di affidare me stessa a qualcuno nella speranza di riposarmi un po’.

Va bene, sono forte abbastanza per tutti: ma non stasera. Stasera voglio solo le mura della mia stanza a contenermi i pensieri, a lasciarli galleggiare fuori e a tenerli circoscritti perché facciano male solo a me.

Stasera, non so perché, ho la sensazione che potrei persino far male a qualcuno, pur di salvarmi io.

Mi sembra che ci sia il destino in agguato, mi sembra che sto mettendo punti a frasi di anni e che non potrò mai più tornare indietro.

Nervosa per il silenzio che continua, decido quindi di andarmene e tornare a casa.

Sono già di spalle nello sguardo di Ron che mi guarda sconvolta, quando mi raggiunge la voce di Teddy.

Un bambino cresciuto in fretta, un uomo che non è mai stato un neonato. Solo nel mondo, sebbene pensiamo sempre che sia un membro del clan.

Per questo, per lui, è facile fare il lupo solitario.

Perché lo è. Il branco è solo la pallida giustificazione che diamo ad un’infanzia sfortunata che vogliamo destinata ad essere invece perfetta.

È solo. E da oggi lo sarà anche di più.

“Victorie è incinta, zia. E non sono io il padre”.

 

 

Il mio primo immediato istinto, stranamente, è avvicinarmi ai ragazzi in modo automatico e meccanico come se mi richiamasse un anelito selvatico di consapevolezza e dolcezza profonda. Nel silenzio fondo di quella che, ora, mi sembra un puritano vessillo di borghesia, tendo le braccia e le stringo attorno alle spalle di Victorie e Teddy. La loro reazione, il loro non indugiare nemmeno per un secondo per stringermi a mia volta cingendomi per la vita, mi fanno rapidamente capire che nessuno ha pensato prima di me a fargli sentire semplicemente vicinanza e calore, affetto e comprensione, prima di giudizi scomodi e facili e di sensi di colpa stantii e fumosi. Persino Victorie, la mia prima nipote bellissima ed algida come un fiore di ghiaccio, si aggrappa a me con una disperazione così forte da farmela sentire più bambina di quanto sia mai stata. Ha solo diciassette anni, e già la sua vita da oggi cambierà per sempre. Non so se lo meritasse, nemmeno me lo chiedo, picchietto la sua schiena con piccole carezze regolari, mentre lei rilascia un respiro un po’ più forte che sa di mora, spezia. Come se fosse ormai così adulta e lontana da essere persino oltre me, la zia anaffettiva e razionale che, sola, adesso ha avuto la decenza di abbracciarla. Teddy, dal canto suo, ha il solito odore buono di muschio e sandalo che mi ricorda sempre il bosco, i lupi, l’origine remota del sangue di suo padre. Respira un po’ nel mio collo come se si nascondesse, come se per un secondo dismettesse vergognoso i panni del capobranco ed indossasse quelli più miti del cucciolo spaventato e timoroso. Tra i miei capelli, tra la chioma di una che non ha mai avuto la presunzione di considerarsi sua madre ma ha sempre agito intimamente come tale, si concede una tregua, una pausa, un riposo.

Quando mi stacco di loro, sono tornati ad essere due fortezze di tendini ed ossa dagli occhi scavati. Hanno la schiena dritta come se fossero al patibolo da innocenti. Tornando a guardare gli altri, distinguo uno sguardo ceruleo su di me che mi spinge a cercarne l’origine. È naturalmente Fleur, mi guarda con una meraviglia stemperata dalla gratitudine. Sussurra qualcosa che non capisco, gli occhi come due specchi in fondo al mare, annuisco come se non ci fosse bisogno di alcuna altra parola.

La tregua dura poco ovviamente: al mio gesto, che forse in fondo ha svergognato la freddezza da calcolo degli altri, è come se prendesse fuoco una steppa di sterpaglia secca.

Tutti cominciano a parlare nello stesso momento, raccontandomi la loro versione con tono di voce tra la malcelata isteria e la voglia di essere ragionevoli. Naturalmente è la voce di Molly quella che sovrasta tutte le altre, specie perché accompagna le grida da soprano con una presa ferrea sul mio gomito che mi costringe a mettermi seduta per ascoltarla. A restare in silenzio, ovviamente, sono solo gli stremati ragazzi e Fleur che passa il tempo a lisciare assente i capelli della figlia, mentre Bill si agita come un avvocato difensore.

In breve apprendo che cosa è successo. Due mesi fa Teddy e Victorie si erano lasciati per un periodo. Cose da ragazzi naturalmente che non intendo e non mi interessano, sebbene Molly sia prodiga di dettagli. In questo breve periodo Victorie ha frequentato un altro ragazzo, di cui si ostina a non dire il nome neanche sotto minaccia e sotto costrizione. Replica solo che è stato un ripiego, una sua stupida vendetta dolorosa e rancorosa per la separazione dalla persona di cui era veramente innamorata. Non importa chi diamine sia. Naturalmente, come ogni ragazzina confusa, Victorie finisce a letto con il tipo, si vedono qualche sera per un’uscita a Hogsmeade, si ingozzano di brownies e poi comprendono di essere solo amici e nulla più. Victorie torna da sola, è sempre più distrutta dalla separazione da Teddy, poi comincia a stare male anche fisicamente e pensa solo allo stress. Nausea, vomito, vertigini: in una piccola farmacia babbana fuori Londra dove è scappata un weekend con la scusa di andare a trovare una parente malata, scopre che sta per diventare mamma.

I conti, purtroppo, sono inequivocabili: il bambino può essere solo del “chiodo scaccia chiodo che ha clamorosamente fallito nell’intento di farle scordare Teddy”. 

È disperata naturalmente, distrutta, devastata. Nasconde la cosa per settimane, ne parla con il padre del bambino che, a quanto pare, è un ragazzo almeno responsabile e in gamba. Dice che non è pronto per impegnarsi, dice naturalmente che non è innamorato di lei, dice che è stato un errore, dice che lei sarà libera di scegliere che cosa vuole farne e che, in ogni caso, lui la aiuterà, fosse anche solo come padre del piccolo o piccola. Victorie si lascia solo sfuggire che è un ottimo amico ed una bellissima persona, e sottolinea quasi a mo’ di giustificazione che la sua famiglia sta molto bene economicamente, quindi suo figlio avrebbe comunque un futuro sereno.

La complicazione, naturalmente, giunge quando Teddy si pente di averla lasciata e torna alla carica, professando scuse e implorando perdono. È in fondo solo un diciannovenne confuso da una vita lontana dalla terra natia e dalle cose e persone a cui è abituato. Ecco cosa fa il branco, il clan: ti fa crescere con le radici incardinate al suolo e non ti fa schiodare più. Nemmeno i pensieri sfiorano il cielo, ma restano sepolti nella terra. Se ne esci, se voli e scappi, diventi polvere nel turbinio della tempesta. In poco tempo Teddy torna alla ragione, si pente di averla lasciata, scrive lettere, manda fiori, contatta amici comuni.

Ma Victorie, adolescente sfiorita troppo presto, esibisce maturità e grazia: ed è questo che mi colpisce di tutta la storia, più che i risvolti pratici di ciò che accadrà adesso.

Questa biondina dal volto ancora paffuto e dagli occhi teneri di azzurro, che porta sempre orecchini coordinati alle scarpe e di mercoledì si veste sempre di rosa, reagisce come una donna di ferro: taglia i ponti, brucia lettere e fiori, stoica dice a Teddy che non c’è storia, simula una relazione con un altro, chiama anche l’amico/padre a testimoniare. Protegge il ragazzo che ama dalla vergogna del tradimento forse, ma in fondo lo vuole salvare da una responsabilità che non è sua, che non lo sarà mai, che plasmerà destino e carne, che non potrà mai più a rimangiare. Lo vuole salvare, ecco, da qualsiasi peso possa portare.

Rinnega amore e cuore da ragazzina, per il sangue e la placenta della madre.

Dovrebbero essere fieri di lei, altro che additarla come un’irresponsabile che si è fatta mettere incinta.

Sarà più mamma lei con questo alito da aquila che protegge i suoi cari, che qualsiasi nevrastenica quarantenne imbevuta di manuali di puericultura con le braccia piene di tutine firmate.

Teddy, però, non se la beve. Per niente. Torna all’improvviso, va a trovarla ad Hogsmeade, la ferma in un pub, pretende la verità. Lei tace, piange cocciuta, implora che la lasci in pace. Si sente male, rimette, sviene. La portano da un Medimago che parla con Teddy, mentre lei è incosciente. Gli dice la verità, presupponendo che lui sia il padre del piccolo.

Teddy capisce tutto. Subito, come un fulmine. Ed è stoico, implacabile: “Se la sola cosa che ci tiene lontani è la gravidanza, io sarò chiunque tu vuoi che io sia. Per te e per il bambino. Chiedimi quello che vuoi… e io lo farò… sparirò, se sarà necessario. Sarà quello che tu vuoi, non avere paura. Farò tutto ciò che desideri. Ma se per un solo istante, tu chiedi a me che cosa io voglia, se per un solo attimo sia la mia volontà in gioco… se deve essere quello che io voglio… sia che, da oggi in poi, io sia tuo marito e il padre di tuo figlio”.

Eccolo qui, il dramma.

Perché Victorie piange e lo bacia, lo abbraccia, si mette al dito un anello trovato nelle patatine ed accetta. E ci mancherebbe con una dedica così, persino a Molly è rimasta impressa e mi cita parola per parola. E non finisce qui. Teddy sa tutto ciò da dieci giorni, se ne va in giro con un fardello di risposte e discorsi da preparare ma tace con tutti. Arriva qui solo quando ha trovato una specie di lavoro, quando ha delle fotografie di una casa in affitto vicino Salisbury, minuscola come una stanza singola. Ne parla solo quando ha già deciso che lascerà la scuola per qualche anno, per poi riprendere dopo. Ne parla solo quando anche Victorie dice tranquilla che prenderà il diploma e poi resterà a casa con il piccolo, fino a quando sarà svezzato.

Il dramma nasce perché sembrano due bambini, e si comportano da adulti. Perché in un mondo di bambocci, noi abbiamo due miracoli di maturità ed intelligenza e restiamo basiti.

Ognuno, naturalmente, nella stanza ha un’opinione diversa sulla questione e su come si dovrebbero comportare i diretti interessati.

Molly non ha una vera e propria idea, in realtà è semplicemente fossilizzata sulla vergogna e su ciò che dirà la gente quando saprà la cosa. Erompe rossa ogni due per tre che non è possibile che sia accaduta una cosa del genere nella loro famiglia, che Bill è sempre stato troppo permissivo con la figlia, che adesso ci manchi che gli diamo la mano e ci congratuliamo con loro per il pasticcio che hanno combinato.

Forse solo adesso mi rendo conto di quanto sia invecchiata: i suoi processi mentali sono meno permissivi e più sclerotici, e forse è anche giusto che sia così. Quest’anno compirà settant’anni, ormai ha rinunciato a tingersi i capelli, lunghe striature di argento solcano il rame dei riccioli scomposti. È sempre più stanca, si siede spesso, ha le mani deformate dall’artrite. Non si può pretendere da lei molto di più.

Nemmeno ovviamente si può pretendere molto da Arthur. E’ un anno più piccolo di Molly, ma non ha nulla dell’energia della consorte. E’ vistosamente dimagrito. Lotta da anni con il diabete, è sempre più perso nel suo mondo di invenzioni. Tendenzialmente ora passa molto tempo in silenzio, a rimuginare o a bofonchiare da solo. Cosa che sta facendo anche adesso, non esprimendosi anche lui appieno. La sola cosa che fa, è accarezzare ad occhi spalancati ed ancora lievemente scioccati il dorso del suo cane, Birillo, un botolo di ormai quindici anni che passa il tempo seduto sotto i suoi piedi a sputare palle di pelo rognoso.

Se la senilità consente di ignorare le reazioni dei miei suoceri o quantomeno di giustificarle, non posso dire lo stesso per quelle dei miei coetanei o quasi.

Bill, naturalmente, è impegnato a difendere tardivamente l’onore della figlia, cosa che lo rende dello stesso colore dei suoi capelli lunghi e lisci, legati in un codino. Le cicatrici spiccano bianche come tagli nel sangue, dando persino l’impressione di contorcersi mentre lui continua a perorare la causa di Victorie e di una sua non meglio identificata purezza ed ingenuità. Non è naturalmente un argomento convincente e nemmeno molto veritiero se, con un candore ben diverso, Victorie ha confessato che non era vergine al rapporto con il padre di suo figlio. E che, per pura casualità dell’imprevedibile, il bambino era di costui, e non di Teddy. Non che ciò importi… ma da padre, Bill ovviamente si aggrappa all’idea ben più accettabile di una figlia stupidamente manovrabile, piuttosto che di una giovane donna che ha fatto delle scelte consapevoli che è disposta persino ad affrontare. Per Bill, è naturalmente più semplice quindi scagliarsi contro Teddy, reo nell’ordine di averla lasciata, di aver consentito che subisse questo, di essere troppo freddo e calmo in questa situazione, di aver suggerito soluzioni francamente inaccettabili per la sua perfettissima figlia.

A trattenere l’impeto di Bill, non può intervenire nemmeno la solita carismatica pacatezza bionda di Fleur, la sola rimasta immutata negli anni come il quadro fulvo e fosco di una dea greca. Il solo segnale del tempo trascorso è un taglio di capelli più corto, sbarazzino, maschile, ma che ha l’effetto di farla sembrare per contrasto ancora più femminile. Fleur di solito è il ritratto della flemma e della calma, posata ed educata come pochi: ora, non smettendo un secondo di accarezzare i capelli di Victorie, parla fitta in francese all’indirizzo dei ragazzi che rispondono in modo meccanico ed apatico. Non ho idea naturalmente di che cosa stiano dicendo, di primo acchito mi sorprende stupidamente solo che Teddy parli perfettamente francese. Ma il viso di Fleur, quelle incomprensibili macchie violacee sul suo viso marmoreo, quel luccichio malato degli occhi acquamarina, quella presa di acciaio sul gomito della figlia e quella voce cantilenante e ripetitiva, mi fanno capire agevolmente che sta premendo per qualcosa. La secchezza delle risposte dei ragazzi, la loro stanchezza, il loro sguardo a tratti slavato e a tratti infuriato, mi fa dedurre che non siano d’accordo.

In una pausa dei discorsi degli altri, mi arriva quella parola: avortement, come una frustata secca e fragorosa. Non devo essere certamente una madrelingua d’oltre Manica per intuire che cosa significhi e per sbiancare un po’, reggendomi all’angolo del divano come se stessi per cadere. Victorie guarda ad occhi sbarrati la madre, come se fosse una specie di strega con lunghe unghie affilate piazzate sul suo ventre a strapparle quel germe di vita bionda, poi si lascia trascinare via da Teddy fino ad una nicchia tra credenza e poltrona in fondo alla stanza. Restano lì, immobili, ad occhi chiusi come due cuccioli spauriti.

Non parleranno più, nel caos che li circonda.

Attorno, ovviamente, nessuno se ne rende propriamente conto. Sono tutti impegnati nelle loro diatribe dialettiche, tutti profondamente sicuri della loro verità e della loro assoluta residenza dalla parte della ragione. George, con piglio spavaldo, sostenuto dalla moglie Angelina, ribadisce netto che ci può anche stare che il bambino nasca e che se ne prendano cura, ma che il matrimonio è una cosa da escludere per due ragazzini. Non sapranno nemmeno che cosa vorranno l’inverno successivo e, comunque, il piccolo è una responsabilità del padre, non di Teddy. Può amare e curare sua madre, ma anche in una forma più leggera e meno impegnativa, così da non avere più pesanti ricadute in futuro se dovessero lasciarsi. E con tutti loro ad aiutarli, non ci saranno eccessivi problemi.

Dall’altro lato della barricata, invece, si piazzano Harry e Ron: se il primo ha una fiducia smisurata in Teddy e nelle sue decisioni, al punto da lodare continuamente la sua maturità ed assennatezza, il secondo invece fa del mantra dell’inviolabilità degli impegni presi la sua bandiera e vessillo. La gradazione degli impegni, secondo mio marito, va da quello con Victorie, che era comunque la sua ragazza sebbene non nel frangente storico della relazione che ha generato la gravidanza, a quello verso il bambino, ad uno più generale verso l’idea di una famiglia che probabilmente ci sarebbe stata lo stesso.

La giovinezza dei ragazzi è uno specchio a doppio fondo: se per Angelina e George è il discrimine di un’immaturità a prescindere, per Harry e Ron è invece qualcosa che non corrisponde ad un’acerba imprevedibilità. Se per i primi tutto è volatile come aria, per i secondi tutto è scolpito come roccia.

Solo dopo qualche minuto, mi rendo conto che Ginny è comparsa al mio fianco come una nebbia rossa di silenzio. Non ha mai parlato da quando sono entrata.

Mi fa un sorriso stanco e flessuoso di pensieri tutti suoi, sussurrando nel chiasso: “Sono alquanto sorpresa, Hermione Granger. Non hai ancora detto una sola parola. Possibile che tu non abbia un’opinione a riguardo? Ce l’hanno tutti, persino Birillo il cane, e tu no?”. Sorrido a mia volta, stendendomi meglio con la schiena sul divano e chiudendo gli occhi per un attimo: “Nemmeno tu hai detto nulla”.

“Le mie opinioni sarebbero state mere bestemmie di fronte all’impossibilità di questa famiglia di non interloquire con un tono di voce da Concorde in fase di decollo…” commenta piccata Ginny, strappandomi un altro sorriso mentre la guardo di lato “Ma fa parte del mio personaggio: sono la stronza sarcastica. Tu sei la pedante risolutrice…”.

Mi sposto di tre quarti per guardarla in viso e, contemporaneamente, togliere dalla traiettoria del mio orecchio le onde sonore prodotte da Molly che sta ancora urlando con Bill.

Con il sapore del fiele in bocca, qualcosa persino di più pesante della solita nausea mai del tutto scomparsa, ammetto con calma: “Non credo di avere una vera opinione, Gin…”, scuoto il capo ignorando lo sguardo di Ron che cerca da me sostegno in un alterco con George che non sto nemmeno ascoltando, poi proseguo con voce flebile: “Sarà anche strano, ma è così. Davvero non so che cosa sia la cosa giusta da fare…”.

“E ti fa impazzire come cosa, vero?” completa per me Ginny, dedicandomi un nuovo sorriso tra il sarcastico e il comprensivo. Un acuto di Angelina copre la sua voce nel finale, distorcendola.

Faccio una tenue smorfia annuendo lievemente con il capo come a non darle troppa soddisfazione, cosa che la fa scoppiare in una genuina risata. Ron guarda male entrambe, ma poi torna alla sua discussione, le orecchie come due tizzoni ardenti, evidentemente offeso da non essere sostenuto né dalla moglie, né dalla sorella.

Mi lascio quindi andare ad una veloce riflessione mordendomi l’unghia del pollice.

Effettivamente, constato con una punta di frustrazione analizzando mentalmente la pianura dei miei pensieri, non riesco ad avere una chiara opinione. Tutto mi sembra sfuggente e viscido come anguille di fiume sporco. Chiamo ancora in causa la stanchezza, ma in verità non penso che sia questo. Sono perfettamente in grado di ragionare anche con il cervello congestionato, è sempre stata una mia precipua e meravigliosa caratteristica. Ora, ogni pensiero ha la consistenza stopposa della segatura.

Riesco a capire ogni punto di vista… ma nessuno mi appartiene davvero.

Ammiro la maturità di Teddy e Victorie, ma mi chiedo se non stiano agendo secondo uno schema prestabilito dai loro stessi doveri confusi. Spio il loro amore come una rinsecchita zitella, ma temo sempre che sia una cotta da adolescenti sopravvalutata. Aborrisco all’idea di un’interruzione di gravidanza, ma mi chiedo se non sia il caso comunque di tenerla in considerazione. Vedo il matrimonio come una cosa da adulti, eppure al pensiero di una mamma che cresce un figlio da sola, ho la nausea.

È così tangibile quel pensiero che, con risoluzione, sento solo di escludere a priori che Victorie resti da sola ad affrontare questa cosa, a costo persino di stare assieme al padre del bambino per semplice dovere. Aggrappandosi a lui. Se non si è madri non lo si può capire… quanto a volte diventa necessario anche aggrapparsi con le unghie e con i denti a chi c’è in quel momento, pur di far stare bene il proprio figlio.

A me non è successo, ho cresciuto i miei figli con il loro padre accanto, ma c’è qualcosa di sorprendentemente morbido e sanguigno dentro a farmi intuire cosa debba essere una cosa così, anche se non lo so per esperienza.

Una sola persona che si improvvisa per sempre madre e padre, innamorata e sconfitta, salvatrice e salvezza, vittima e carnefice, tradita e traditrice.

La testa mi vortica come se fossi nel pieno di una tempesta di vento, la tengo a freno chiudendo gli occhi e toccandomi una tempia.

Resta che, escluso questo particolare aspetto, non ho nessuna opinione a riguardo. O meglio, sono contro qualsiasi punto di vista sto sentendo.

Le voci scemano, si smorzano, si avvitano tutte attorno a me come le spire di un serpente, perché ora tutti, persi nel loro cortocircuito dialettico, si rendono conto che io non ho ancora espresso un’opinione. E naturalmente si chiedono perché. E naturalmente sanno che sarà quella l’opinione da battere, o da smontare, o viceversa da appoggiare con tutte le forze.

E io resto come un pesce all’amo, incapace di parlare, ma solo di aprire e chiudere la bocca come un stupido luccio. Le iridi di Ron saettano ferite nella mia direzione.

A salvarmi, per fortuna, è il lungo suono un po’ tirato del campanello.

“Finalmente è arrivato Percy…!” commenta rapida Molly, fiondandosi nel corridoio per aprire la porta, certa di avere uno smisurato appoggio dal figlio più intransigente della nidiata.

Sospiro per l’inaspettata tregua, ma evidentemente troppo presto, dato che Ron pensa bene di guardarmi direttamente e chiedermi: “Mione… che cosa ne pensi tu?”. Lo fulmino con lo sguardo per avermi di nuovo posta al centro dell’attenzione e medito con un improvvisa risoluzione di spellarlo vivo non appena torniamo a casa. Penso naturalmente se optare su una soluzione diplomatica, oppure su un ben più sentito urlo generalizzato alla ripresa della calma, mentre Teddy mi sorpassa affannato e si ferma a poca distanza da me davanti alla porta del salone, berciando un veloce e caloroso: “Ciao zio”.

“Ci mancava anche Percy”, borbotto tra me e me mentre mi tormento le mani in grembo sotto lo sguardo indagatore di Ron, che indubbiamente vuole avere ragione su tutta la linea. Cosa che potrei anche concedergli: però davvero una delle mie poche certezze è che non penso, come lui, che Teddy e Victorie abbiano un impegno tale da spingerli automaticamente al matrimonio. Una considerazione simile mi spinge solo ad arricciare il naso e a trattenere il vomito di piccate contraddizioni. Ma potrei insomma concedergli di avere ragione per una volta e sostenerlo, tanto per spirito di pace e conciliazione.

Tutti gli sguardi sono ancora puntati su di me e sulla mia assoluta incapacità di parlare, mentre Teddy continua bellamente ad intrattenere l’ignorato Percy: “Come sta zia? Tutto a posto? Riesce ad alzarsi dal letto?”. Arriccio il naso aggrottando le sopracciglia sotto la sequela di sguardi perforanti. Perché non pensano ad Audrey che ha la febbre, o che so o, e non riesce ad alzarsi dal letto… invece di pensare a me?

“Sta bene, Edward… ma non così tanto da liberarmi dal tedio abbastanza paralizzante di essere stato costretto ad entrare in questa elegante magione. Ti ringrazio davvero ragazzo dell’invito, la tua solerte premura ha alleviato quella quarantina di contrazioni intestinali che ho avvertito nel tragitto fin qui… e dire che alla precipitosa chiamata della mia cara genitrice preconizzavo un blocco renale. Quindi possiamo concludere che sia una meravigliosa giornata di insperate fortune… ”.

Avverto immediatamente qualcosa di strano nella voce di Percy, che mi fa chiudere le labbra quando stavo già tentando di rispondere a Ron. Lui mi guarda in attesa con espressione nervosa, aspettando delle rade parole che io invece ho già dimenticato. Non intendo subito che cosa ha detto Percy, ma solo il tono di voce profondamente diverso con cui le ha dette. La voce di Percy la so a memoria: è strillante, acuta, pedante e profondamente troncata sugli accenti. Questa, invece, è diversa. Lenta, roca, strascicata sulle finali come se fosse sempre convinto che non stai mai capendo che cosa sta dicendo e ciò lo irritasse enormemente. È una voce dal timbro chiaro, preciso, come una campana ridondante che impone attenzione e riverenza. Dall’accento inesistente, plasmato da una imposta dizione aristocratica e nobile.

Un accenno di nausea mi risale senza motivo dallo stomaco, corrodendo l’esofago come se fosse acido: mi chiudo le labbra con una mano come a frenare il conato che, invece, si intensifica e mi dà l’impressione che mi stiano rivoltando come un calzino. E forse a quel punto che noto istantaneamente che la stanza è calata nel più profondo silenzio, una bella differenza abissale rispetto al caos di poco fa.

Mi sporgo oltre la sagoma di Teddy che mi bloccava la visuale della porta, e la prima cosa che riesco a fare è chiedermi se non ho appena avuto un ictus celebrale asintomatico.

Penso che sia una cosa abbastanza normale temere della mia salute, visto chi ho davanti agli occhi.

La mia voce si blocca in gola, mentre riconosco la figura davanti a me.

Ecco perché riconoscevo la voce, ma al contempo mi sembrava diversa da quella di Percy Weasley.

Accanto ad un’atterrita Molly, intenta a ridurre ad una palla informe il grembiule sporco di sugo che ancora indossa, è comparso misteriosamente ed inaspettatamente Draco Malfoy.

Continuo a guardarlo senza ritegno come se pensassi che fosse una specie di visione, d’altronde si inserisce nel panorama del salotto dei miei suoceri come si inserirebbe un eschimese nel cuore della foresta pluviale. È ovviamente fuori posto, come se fosse sbagliato tutto accanto a lui. Persino io. Ogni cosa di me stona accanto a lui. Donna, babbana, mezzosangue, povera, castana... Lui è il contrario di tutto questo. Trattengo ancora il conato di nausea, rendendomi conto che non può essere un mio cortocircuito mentale da stanchezza o un improvviso aneurisma, visto che anche gli altri sono ammutoliti e lo stanno guardando nella mia stessa identica maniera.

Del resto mi sembra ovvio: che diamine c’entra lui qui, adesso?

Spiandolo sotto le ciglia, seminascosta da Teddy ancora in piedi davanti a me, mi do pena di osservarlo meglio mentre lui è ancora intento con lo sguardo a soppesare Teddy stesso, non degnando il resto della stanza della benché minima attenzione. Forse è la prima volta da anni che lo rivedo da così vicino, credo di averlo incrociato spesso, ma sempre a distanza per fortuna.

Al binario 9 e 3/4 quando avevo accompagnato Rose per la partenza per Hogwarts, non ci avevo prestato molta attenzione. Era avvolto dalla nebbia del fumo del treno, era distante… solo Ron con il solito astio lo aveva guardato bene dandomene un ritratto completo appena tornati a casa, accentuando che stava cominciando a stempiarsi anche lui.

Tutti i soldi che ha non possono comprare dei nuovi capelli! Esiste una giustizia divina!

Noto, invece, che non credo esattamente che stesse perdendo capelli, ma che forse abbia deciso volontariamente di tagliarli molto corti, quasi rasati, magari in un impeto di giovinezza tardiva. Cosa che decisamente ha funzionato, sembra esattamente lo stesso dei tempi della scuola. La fronte spaziosa che è sempre corrugata, le labbra sottili arricciate in una smorfia di fastidio, e poi quell’indiscusso talento di riempire le stanze. Non so come definirlo, è una sensazione particolare, mi ricordo che l’aveva anche Viktor… come se ti schiacciasse contro le pareti per fare posto alla sua persona. Porta con eleganza un cappotto nero di panno pesante, che probabilmente, vista la fattura, costa quanto il mio intero appartamento. Il collo alto enfatizza i tratti appuntiti del suo viso facendomi notare che sembra dimagrito.

Risalgo la linea degli zigomi fino agli occhi. Con uno scoppio dentro lo stomaco che mi spinge di nuovo a chiudere le palpebre, mi accorgo per la prima volta forse in decenni che non ha gli occhi di uno slavato azzurro sbiadito come ho sempre pensato. Sono occhi… grigi. Come il colore della mia sciarpa. Sembrano perennemente in tempesta.

Un paio di occhi tempesta.

Questa piccola constatazione innocente mi mette a soqquadro le viscere come non mai. Resto ad occhi chiusi come se cercassi di ancorare me stessa ad un qualsiasi punto che mi renda ferma, salda, immobile. Ma tutto sembra vorticare senza sosta. Draco Malfoy ha gli occhi grigi. Occhi grigi. Non ho mai conosciuto qualcuno con gli occhi grigi. Come se piovesse ad aprile. Come una notte di pioggia in aprile.

Quell’associazione banale di idee è peggio di tutto il resto, ho l’impressione che rimetterò a breve. Confusa, cerco a tentoni la bacchetta in tasca, pronta a pronunciare un Incantesimo che ho appreso da una mia collega a pranzo, quando di nuovo la nausea mi faceva impazzire. Non trovo subito la bacchetta e ricordo di averla lasciata in borsa, nell’ingresso. Imprecando mentalmente, riapro gli occhi perché con le palpebre chiuse la nausea mi fa davvero sentire come se fossi in una barchetta in mezzo al mare, e cerco di nuovo di acclimatarmi al clima circostante, respirando con la bocca per fermare i conati. Non passano, ma almeno migliorano, attorno a me per fortuna nessuno si è accorto di niente. Sono ancora tutti intenti nell’esame di Malfoy, ed anche io fingo di non aver mai smesso di guardarlo.

Anche se adesso, per una buffa precauzione sciocca, evito di guardarlo negli occhi per una seconda volta, come se fosse un maledetto serpente che potrebbe ipnotizzarmi.

Malfoy esamina tutta la stanza a grandi occhiate nervose come se stesse esaminando e comparando i mobili per un acquisto scadente, per poi tornare inquieto ed innervosito a Teddy, sbuffando con sussiego. Poi, come se qualcosa lo avesse punto alla schiena, si sporge lievemente a sinistra del ragazzino, come se solamente adesso mi avesse notato seduta sul divano. Mi guarda per qualche secondo con espressione indecifrabile, sento il grigio di quelle lame contro il mio viso e, per qualche strano motivo, adesso non distolgo prima il viso. Penso per sfida.

So solo che, quando si stacca con lo sguardo da me, mi accorgo di tornare a respirare. La nausea per un attimo mi acceca, medito persino una fuga in bagno.

Poi, restituendo uno sguardo rassicurante a Ron che si è reso conto della mia manovra, finalmente passa.

Quando torno a guardare Malfoy come tutti gli altri, lui ha di nuovo la sua espressione consueta, quell’aristocratica che pare infastidita per l’esistenza stessa del mondo circostante. Lascia cadere lungo il fianco un braccio, dopo che la mano destra aveva stretto in modo febbrile la stoffa del cappotto all’altezza dell’addome, forse per uno spasmo di nervosismo. Suppongo, del resto, che non deve essere facile per lui stare qui. Figuriamoci, ci considera ancora la feccia della razza umana. Ciò mi rende ancora più curiosa sul motivo per cui è piombato qui.

Ripercorro mentalmente ciò che ha detto appena entrato, in cerca di una risposta, cercando di distrarre il mio corpo dal malessere sempre in sottofondo.

E constato una cosa ovvia che mi lascia abbastanza sconcertata: sembra che sia stato Teddy a chiamarlo. Malfoy infatti si è rivolto solo a lui, ha parlato di un invito, ha risposto a convenevoli sullo stato di una zia. Chi sia, naturalmente, mi sfugge… specie perché Teddy ha appellato Malfoy in modo abbastanza affettuoso.

Lo ha chiamato zio.

Come chiama Harry, Ron, Percy, George, Bill e Charlie. La sua famiglia.

Con una punta di rammarico, mi rendo conto che tecnicamente è più Malfoy la sua famiglia che noi. Sono mezzi imparentati, sua nonna Andromeda era la sorella di Narcissa Black. Con noi, non ha nessun legame di sangue. Quel sangue stesso, però, è un sangue sporco, impuro, lercio. O perlomeno Malfoy dovrebbe pensarla così, stiamo sempre parlando di un ragazzino con sangue di lupo mannaro nelle vene, mutaforma, figlio di mezzosangue ed amico di nati babbani e Weasley. Malfoy, invece, inaspettatamente si è rivolto nella più classica delle maniere al ragazzo: è stato sarcastico, pungolante, ma non in modo perfido. Lo ha anche confidenzialmente chiamato… Edward.

Ma certo… concludo con ovvietà, appannata dalla stanchezza Il suo nome completo. Figuriamoci se Malfoy può chiamare qualcuno con un nomignolo o un’abbreviazione.

Secondo me appella anche suo figlio in quel modo ridicolo, ma completo. Scorpius.

Sicuro che chiama tutta la gente senza alcuna abbreviazione. Specie… quelli a cui tiene, come se gli desse maggiore peso così.

A rompere il silenzio che è calato a grandi maglie su di noi è naturalmente Ron, punto sul vivo dalla presenza del vecchio nemico proprio nella sua casa. Vedo distintamente come segue lo sguardo grigio dell’uomo che saetta su tutti i particolari più infidi dell’abitazione: dal copridivano rammendato alle tende color bianco stinto, fino ai capelli privi di messa in piega di Molly.

“Che diamine ci fai qui, Malfoy?” borbotta Ron al suo indirizzo, le orecchie già in direzione del violetto “Ci contavo a rivederti a giugno…”. Teddy contrae le spalle, probabilmente messo in allarme dal tono di voce di mio marito, che preannuncia fulmini e tempesta. Fa per aprire la bocca, ma la richiude subito come sotto uno spasmo involontario. Si limita a guardare Victorie, come a comunicarle un solitario pensiero interiore, comprensibile solo da loro due. Quando mi volto a guardarla, però, la ragazzina bionda mi pare impassibile. Resta a testa bassa, persa nei suoi pensieri.

Malfoy ha fatto un solo singolo passo come se volesse palesare maggiormente la sua presenza: ha la stessa andatura lunga ed autoritaria che ricordavo ai tempi di scuola. Si massaggia distrattamente la porzione di fronte sopra il sopracciglio sinistro, appare stanchissimo e nervoso, freme lievemente la pelle del suo collo come se ansimasse in preda all’irritazione. Poi respira a lungo cercando di calmarsi ed ingiunge in modo meccanico, ignorando palesemente Ron: “Edward, mi faresti la cortesia di spiegare la questione ai nostri gentili padroni di casa? Non serve conoscere la mia biografia per sapere quanto sia alquanto improbabile che ci intratteniamo piacevolmente chiacchierando della temperatura eccessivamente rigida di questi giorni o dei nostri programmi natalizi…”, fa una pausa studiata come ad aspettarsi una reazione che naturalmente non arriva. Continua con voce più bassa, quasi vellutata: “Mi faciliteresti davvero le cose, ragazzo…”.

Teddy d’improvviso si accende come una candela, emana una luce tenue di speranza che non so davvero che motivazione abbia: persino i capelli, come vittima di un’eccitazione improvvisa, trovano riflessi di oro giallo trasformandosi. Malfoy li guarda senza battere ciglio, confermandomi che non è la prima volta che vede Teddy cambiare il suo aspetto. Ha ereditato questo aspetto da Dora, da sua madre, ma non la propensione alla trasformazione ad ogni piè sospinto che aveva lei. Sin da ragazzino Teddy lo fa di rado, quasi sempre involontariamente, tipo quando si emoziona per qualcosa.

Per il resto lascia le trasformazioni solo ai momenti di gioco con amici e cuginetti. È una cosa che non gli è mai piaciuto fare, sembro un pagliaccio zia!

Teddy è sempre stato un ragazzo pensoso, un po’ malinconico in alcuni frangenti. Somiglia molto di più a suo padre che a sua madre.

Malfoy chiude gli occhi come se sapesse anche questo, e notasse quindi la trasformazione come un evidente segnale di nervosismo o agitazione in Teddy. Scatta quindi un nervo sottopelle vicino alle labbra che contrae, mentre sembra prepararsi a rispondere ad una domanda che nessuno ha sentito, ma che sembra che Teddy gli abbia fatto capire distintamente.

Infatti Malfoy dopo pochi secondi riprende a parlare con voce scandita e decisa, come se fosse rimasto da solo con Teddy e noi non esistessimo più: “Mia madre ha una sua opinione. Che non ha mancato di farmi conoscere, sviscerandone ogni particolare e riflesso…”, prende fiato prima di proseguire, fissando Teddy direttamente negli occhi mentre il ragazzino trattiene il fiato. Malfoy fa un sorriso sbilenco, storto, inseguendo un pensiero tutto suo prima di aggiungere lapidario: “Non te la farò conoscere la sua opinione. Non te ne devi sentire rincuorato o scoraggiato. Penso che tu sappia o immagini che, visto come stanno le cose, dovrai decidere le cose da solo d’ora in poi. E se non l’hai ancora capito, credo che siamo di fronte ad un enorme problema ben più grave di tutto il resto…”, Malfoy studia per un attimo il volto di Teddy come a sincerarsi della sua attenzione devota. Il ragazzino trattiene il fiato, poi annuisce in modo grave con il capo. Malfoy ancora si lascia andare ad una piega delle labbra che somiglia ad un sorriso statico, continuando monocorde: “Puoi quindi ragionevolmente dedurre che non saprai nemmeno che cosa ne penso io, ragazzo. Sarò qui solo ad accettarmi che, qualsiasi cosa tu decida, l’onore della famiglia ne venga tutelato… è quello che in fondo vuole mia madre. Ed è quello che in fondo ci avrebbe chiesto di fare Andromeda…”, nel silenzio che regna sovrano nella stanza, come se le parole di Malfoy avessero lo stesso potere della sua persona e cioè di schiacciare tutte le altre contro le pareti non lasciandole respirare, riconosco agevolmente il nome della nonna di Teddy. Una spia ulteriore di curiosità si accende nel fondo del mio cervello ricordando che Cissy e sua sorella non erano in buoni rapporti. Assolutamente.

Ora, Malfoy la nomina con nonchalance e calma, persino con il suo nome di battesimo.

I miei occhi confusi incontrano casualmente quelli di Harry che, a sua volta, fa spallucce e mi testimonia che anche lui, come me, non ne sa assolutamente niente. Ha una piega strana degli occhi, Harry, somiglia a cenere rappresa. Forse somiglia ai miei di occhi. Perché entrambi, che pure così tanto amiamo questo ragazzino, comprendiamo che ha tutto un mondo dietro che non conosciamo affatto. Un mondo cucito pezzo per pezzo su di lui attraverso un’appartenenza di sangue che mai avrei giurato.

Mi sento in fondo tradita per non aver mai conosciuto tutto questo.

Mi chiedo perché Teddy abbia sempre taciuto questo legame, da quanto duri, come si svolga. Mi chiedo spaventata se Malfoy non lo abbia trattato male e, un secondo dopo, mi rendo conto che è quello il motivo per cui non ne sappiamo nulla.

Il sapore di segatura in bocca che è il pensiero che Malfoy possa fare del male a Teddy.

Gli sguardi di questa stanza che non lo lasciano in pace. Il silenzio alle sue parole. La ricerca malata di qualcosa che non vada.

Non avremmo mai accettato che Teddy riagganciasse con la sua famiglia d’origine. Lo avremmo protetto e la sola protezione davvero efficace sarebbe stata impedire ogni contatto.

Teddy, invece, ne aveva bisogno. E ha tradito noi tenendo fede a sé stesso. Con una punta di fierezza per la sua forza e coraggio, per la sua contrapposizione al clan che nemmeno a me riesce così bene, osservo superficialmente che d’altronde Malfoy lo tratta con enorme rispetto e cura. È evidente.

Non lo guarda come guarda noi: ha gli occhi più calmi, l’atteggiamento pacato, un’ironia spuntata di leggerezza e confidenza.

Si fa chiamare zio con la massima naturalezza possibile.

Forse, e mi sembra una contraddizione pensarlo, Malfoy vuole persino bene a Teddy. Mi sembra così strano da darmi le vertigini. Ed è allora che un’altra domanda fastidiosa mi tiene la mente ancora occupata, impedendole di staccarsi dalle sue riflessioni.

Ma a me, in fondo, chi me l’ha mai detto che Malfoy non ha voluto bene a nessuno?

Sbatto le palpebre un paio di volte a quel pensiero come a scrollarlo e a cacciarlo fuori dalla mia testa: è un pensiero fondo, viscoso come petrolio. Mi ingolfa la mente come se volesse bloccarne gli ingranaggi, rendendo tutto straordinariamente bianco. È assurda come sensazione e, di nuovo, la nausea risorge come un pericoloso vento malato nel mio basso ventre. Mi massaggio la tempia con calma cercando di escludere quella sensazione e, con flemma, faccio passare quel gesto per stanchezza in modo che non se ne accorga nessuno. Ron per fortuna mi dà le spalle ed è troppo impegnato a guardare in cagnesco Malfoy per accorgersene. Sollevo lo sguardo quando credo che sia tornato limpido, concentrandomi di nuovo sulla scena di fronte a me.

Sussulto con un lieve balzo dello stomaco, gli occhi di Malfoy sono puntati nei miei con una ferocia spavalda che non comprendo, ma che mi incenerisce la pelle. È questione di pochi secondi, ma ho l’impressione chiara di essere in apnea. Segue la linea delle mie dita che lasciano la tempia, chiude gli occhi e sbuffa un po’ con il naso, prima di soffiare fuori con voce bassa: “… così saremo definitivamente pari, Edward…”. La voce di Malfoy, di solito così strascicata e lenta da darmi i nervi, è stavolta frettolosa e distratta come se volesse far sfuggire quelle parole lontano, veloci, quasi senza accorgersene. Mi chiedo ancora perché, prima di dirmi che in fondo non è che me ne interessa granché e che forse vedo in Malfoy più di quanto pensi. Il motivo, penso con un’improvvisa illuminazione, è la deformazione professionale delle indagini di Hogwarts quando lo credevamo capace di qualsiasi azione malvagia, a cui si aggiunge un innato istinto di protezione verso Teddy.

Evidentemente, però, nonostante la mia attenzione, qualcosa ha comunque ferito Teddy nel sottotesto della loro conversazione. Mio nipote affloscia le spalle, prima di soffiare fuori con una vena di delusione infantile che diventa quasi un broncio: “E’ solo questo, allora, zio? Parliamo ancora di quella vecchia storia?”.

Naturalmente non ci capisco nulla e me ne rammarico molto: non intendo del resto restare ancora molto in questa ignoranza. Appena Malfoy schioda, Teddy mi sente. Così impara a fidarsi di personaggi del genere. Gli racconterò un bel paio di episodi da far accapponare la pelle, così capisce con chi ha a che fare. I piedi mi formicolano nella loro immobilità, mentre mi innervosisco al silenzio di Malfoy e allo sguardo corrucciato di Teddy, cieca del resto della stanza ma solo vogliosa di mollare un ceffone in viso a quella serpe.

Non è una sensazione nuova. L’ho provata per anni, è solo andarmene di dejà vu. Mi mancava, oserei persino dire.

Dovevo mantenere i rapporti solo per trattarlo come palletta antistress.

Mentre lo fisso come se lo volessi impalare all’istante, mi accorgo che le labbra di Malfoy si sono piegate in una specie di sorriso che forse, anche a chiamarlo così, si sbaglierebbe. È solo una piega sfuggita della bocca mentre lui chiude gli occhi grigi. Si sistema meglio il colletto del cappotto, rivelando un pesante anello di oro bianco con una gemma nera all’anulare. Si avvicina a Teddy, gli poggia una mano sulla spalla chiudendo forte le dita, vedo persino i polpastrelli affondare nel suo maglione azzurro mentre lui lo fissa negli occhi con una punta di timore. Malfoy, non lasciando un attimo gli occhi di Teddy, dice piano con voce autoritaria rivolgendosi a Bill che è immediatamente alla sua destra: “Weasley-quasi-accettabile-socialmente-se non fosse per quelle-orrende-cicatrici-da-competizione-con-Potter, passami una sigaretta… o mi faccio di nicotina, o non resisto fino alla fine di questa deliziosa serata…”.

Bill, troppo intontito per rispondere in modo diverso da un semplice assenso, estrae dalla tasca una sigaretta che porge a Malfoy che l’accetta ancora senza guardarlo, prima di lasciare la spalla di Teddy che finalmente sorride scuotendo il capo quasi incredulo. Malfoy con la massima flemma di questa terra come se fosse a casa sua, si riabbottona il cappotto fino al mento ed esce sulla terrazza, chiudendola poi alle sue spalle. Prima di sparire alla mia vista, lo sento mormorare un saluto cortese all’indirizzo di Fleur, sempre ferma davanti alla portafinestra: “Buonasera Delacour”.

Sciao Dracò” risponde lei distrattamente ma assolutamente normale nel tono, cosa che causa anche in Bill una torsione innaturale del busto per guardare in viso la moglie, che indifferente fa spallucce.

Il rumore della finestra accostata che chiude fuori Malfoy assieme ad una folata gelida di vento di dicembre, ci risveglia da quella specie di torpore che ha portato la sua presenza. Sono successe circa duemila cose che non abbiamo capito appieno e che sembrano uscite da un film di fantascienza.

Credo di aver anche rimosso la questione della gravidanza di Victorie. Malfoy me l’ha tolta completamente dalla testa.

Penso che sia successo un po’ a tutti nella stanza considerando che appena lui esce, esplodono domande e scoppiettano imprecazioni.

Capitano del tumulto è naturalmente mio marito che interroga Teddy per sapere che diamine ci faccia Draco Malfoy, 36 anni, Purosangue ed uno dei più grandi stronzi della nostra generazione, a fumare tranquillamente sulla terrazza della Tana come se fosse un gentile ospite invitato a prendere il tè del pomeriggio.

Anche Bill sottopone sua moglie ad una veloce interrogatorio sul saluto riservatole da Malfoy e sulla sua risposta assolutamente non scandalizzata ma anzi quasi calorosa. Fleur non si scompone nemmeno per un secondo, replicando stanca ed annoiata dall’accesso di gelosia del marito: “Dracò frequentava mia cugina Denise prima di sposare Astoria. Mi pare normale che lo conoscessi anche io… non essere ridicule avec cette jalousie … ”. Mi scappa un sorriso nonostante tutto alla nonchalance di Fleur e all’espressione di Bill, punto decisamente sul vivo.

Posso persino arrivare a comprendere l’irritazione di Bill: contrariamente a quanto può pensare Ron e continuare a ripetere tra le sue invettive, Malfoy è ancora decisamente un bell’uomo. Non sono cieca, anzi mi vanto di essere decisamente obiettiva. Quindi sì, Malfoy è il diavolo incarnato… o quasi. Ma è decisamente un bell’uomo. Pochi fili grigi sono spuntati tra i corti capelli biondi e stranamente sembrano averne trovato dimora in modo armonioso. Ha ancora lo sguardo tagliente dei tempi della scuola, cosa che conferisce vivacità alla sua espressione facendolo sembrare più giovane. Non ha sicuramente l’aspetto appannato ed offuscato che ho invece io, ecco. Ha mantenuto un fisico asciutto forse perché probabilmente è ancora dedito a qualche specie di sport, d’altronde era un buon Cercatore per quanto ne possa aver capito io ai tempi. La maturità, giunta in ritardo, ha sopperito alla scarsa altezza che aveva fino ai diciassette anni, adesso torreggia molto di più sulle persone di quanto comicamente potesse fare prima. Veste sempre in modo impeccabile, non credo di averlo mai incrociato vestito in modo meno che inappuntabile. È ancora ricchissimo, dato che ha sommato al suo discreto patrimonio i proventi legati al fatto che, negli anni, è diventato uno Pozionista di chiara fama.

Per la serie: piove sempre sul bagnato. Leda ci si fionderebbe sopra come una mosca sul miele. Dubito che non ci abbia già provato. 

Difficile non accorgersene però di quanto la guerra abbia lasciato delle impercettibili tracce anche su di lui. Penso che sia una cosa ampiamente assodata che la mia generazione abbia ricevuto un’eredità di tic nervosi, cicatrici nascoste, incubi ricorrenti o lievi zoppie. Sono imperfezioni persino accolte con grazia e gratitudine, se sono tangibili segni di sopravvivenza a merito ed onore di chi invece non ce l’ha fatta.

Malfoy, sicuramente più di molti, deve avere un intero armadio pieno di scheletri bellici, sebbene la postura autoritaria, l’aria strafottente e i modi aristocratici facciano supporre il contrario. Esteriormente, forse ora che mi sono data più pena di osservarlo vista la stranezza della sua presenza qui, ho notato subito una caterva di piccoli segni bianchi sulla mano destra, come delle piccole escoriazioni rimarginatesi male e un’impercettibile indecisione dello stesso braccio quando si muove. Sembra stranamente essersi più acclimatato all’uso del braccio sinistro.

Mi stupisco della quantità di dettagli che ho notato in pochi istanti, ma concludo con una punta di isterico infantilismo che, sebbene i tempi siano cambiati, sono una sorta di sua nemica naturale. Alla fine credo che i nemici siano quelli che ti conoscono meglio. Un nemico ti studia a fondo per scorgere ogni tua debolezza; invece un amico è intimamente terrorizzato dall’idea di trovarne una in te, tale da farlo desistere dallo starti vicino. Quindi, credo di conoscerlo bene Malfoy, le sue espressioni, i suoi gesti e i suoi sguardi.

Non che lo vedi spesso, mi capita sempre di sfuggita nel campo visivo della mia vita, però in quel modo solenne che ti si imprime negli occhi. Vuoi per la sua persona svettante, vuoi perché mi annoto con riflessi tardoadolescenziali se si stia comportando bene, vuoi perché dalla fine della guerra ha assunto l’abitudine a riservarmi almeno un cenno di saluto a cui, mio malgrado, per educazione rispondo… vuoi per tante cose, ma sicuramente è una persona che, osservandola, conduce a molteplici riflessioni, fosse pure sul tempo che passa o sulle persone che cambiano.

Draco Malfoy tutto sommato è cambiato appunto, assumendo una nuova rispettabilità borghese che non ha nulla da invidiare a nessuno: si è impegnato e sforzato, ha ingoiato rospi amari come case, ma alla fine ha scollato la sua immagine da quella del Mangiamorte che quasi assassinò Silente. È ancora oggetto di pregiudizi e dubbi intendiamoci, e giurerei che sia rimasto una persona odiosa.  Ma al momento credo che sia solo uno stronzo snob, non un razzista bigotto: sono soddisfazioni, dato che frequenta Teddy a quanto pare.

Credo che, a pensarla come me, siamo sia io che Harry. Forse Harry ha qualche riflesso persino di una maggiore positività quando si tratta di Malfoy, forse per il contraccolpo della bugia di sua madre quando mentì a Voldemort sulla sua morte, cosa che a conti fatti ha davvero deciso le sorti della guerra e della sua stessa vita. Naturalmente questo si ripercuote anche su Ginny, grata della salvezza del marito.

Caso diverso è invece Ron che, per motivi tutto sommato comprensibili, non ha mai smesso di detestare Malfoy. In fondo parliamo del bulletto idiota che per tutti gli anni della scuola lo ha sempre trattato come uno straccione, assieme alla sua famiglia. Ron era un Purosangue, ma forse ha avuto il peggiore trattamento tra noi tre perché Malfoy premeva su aspetti che per Ron sono sempre stati delicati, riguardando la sua famiglia nella logica da clan su cui riflettevo poco fa. E naturalmente in poche disgustate espressioni facciali, Malfoy ha mostrato chiaramente di non aver assolutamente rinnegato quel lato. Può anche aver formalmente abiurato alla superiorità dei maghi Purosangue, anche se ci scommetto che continua a fare enormi distinguo tra i maghi stessi, ma non per questo non considera i Weasley una massa di abominevoli teste rosse che disonorano il buon nome della comunità magica con la loro ridicola insulsaggine, la loro chiassosa povertà e la loro scanzonata modestia.

Comprendo quindi perché Ron, da quando Malfoy è uscito, ha misurato la stanza a grandi passi borbottando a denti stretti e calciando sedie e tavoli. Molly cerca in modo tattico di offrirgli una tazza di tè al gelsomino, bevanda assunta sempre da mio marito per calmarsi, ma Ron la ignora continuando a camminare e a gesticolare spazientito, le orecchie in fiamme. Harry motteggia al suo indirizzo poche parole di rassicurazione che però non hanno presa e gli altri sono bellamente presi dai loro affari e dal ritorno pressante della conversazione su Victorie e Teddy. Dal canto mio, credo di lasciarlo sfogare per istinto di conservazione del nostro matrimonio. Quando si tratta di Malfoy, Ron diventa abbastanza odioso e cocciuto, ben più del biondo che almeno solitamente non sento parlare.

Alla fine, sgonfiato come un soufflé andato a male, Ron decide di dirigere la sua invettiva contro il colpevole dell’intrusione di Malfoy nella sua casa. Si siede pigramente su una poltrona, punta un dito contro Teddy con espressione stralunata e chiede con una punta di feroce isterismo: “Perché Malfoy al momento è in casa mia a fumarsi una sigaretta in terrazza?! Potrei avere una decente spiegazione?”.

Il fatto che tutti tacciano all’improvviso mi ingiunge naturalmente a pensare che il punto era oggetto di curiosità di tutta la stanza, persino più di cosa dovrebbero fare i ragazzi. Noto però con una punta di rammarico il colorito grigiastro di Teddy, che evidentemente si aspettava questa domanda ma quanto più tardi possibile. Se consideriamo l’argomento delle conversazioni fino ad ora, comprendo quanto la cosa lo metta in difficoltà se fino a poco fa è rimasto calmo e flemmatico. Persino Victorie, che fino ad ora è stata un fantasma di assente raccoglimento interiore, chiude la mano piccola sul polso del fidanzato, rendendo visibile alla luce del lampadario l’anello di plastica rossa che porta come simbolo del loro fidanzamento.

Mi fanno una tenerezza tale che, in notevole ritardo, mi alzo in piedi e chioso severa verso mio marito: “Ron datti una calmata. Siamo tutti stanchi e provati dagli eventi della serata… mi pare che la presenza di Malfoy sia proprio l’ultimo dei problemi… se Teddy lo ha voluto qui, avrà le sue buone ragioni…”. Completo la mia tiritera sollevando il mento fiera e sorridendo con dolcezza a Teddy che mi guarda con gratitudine. Tutto ciò, però, si ripercuote sullo stato emotivo di Ron che mi dedica un’occhiataccia raggelante tra le migliori del suo repertorio, quella insomma da umiliazione di fronte alla sua famiglia e da conseguente scorno per un’intera settimana. Sospiro lungamente ancora più stremata, preparandomi al fiume di parole sconnesse che adesso mi dedicherà in preda alla rabbia, nonché all’inevitabile tentativo di Molly di fare da paciere e a quello di Ginny di sdrammatizzare, entrambe cose che rintuzzeranno di più sia me che lui.

L’ultima cosa che mi impongo di fare in un ultimo singulto di buonsenso è insonorizzare con un incantesimo pigro la portafinestra così che almeno Malfoy non abbia pure la soddisfazione di sentirsi questo litigio in diretta. È un incantesimo che mi tocca fare almeno una volta al mese, quando a Ron salta in mente di urlare come uno straccivendolo per qualcosa e io temo che Ginny ed Harry sentano tutto.

Ron ha già spalancato la bocca per prendere fiato che miracolosamente viene interrotto da Teddy che, in modo deciso, si dà pena di intervenire e spiegare. La sua voce è calma, pacata, monocorde, eppure ho l’impressione che sia contemporaneamente molto coinvolto da ciò che sta dicendo. Le poche pause mi fanno dedurre che è un discorso preparato da tempo, forse da prima della gravidanza di Victorie. I balbettii sommessi mi informano di quanto abbia temuto fino ad ora di parlare di questa storia, forse con la paura di essere giudicato e non capito, come del resto sta in parte accadendo.

Eppure, il tono stentoreo che usa per iniziare impone un silenzio di tomba attorno a lui, ben più di quello che è accaduto quando ha confessato della gravidanza.

Specie perché con una semplicità disarmante ha proferito solenne: “Draco Malfoy aveva tutti i diritti di essere qui. È mio zio. Esattamente come tutti voi”.

A quelle parole persino un po’ crudeli, che impongono una somiglianza di cuore ed affetto a cui nessuno mai aveva lontanamente pensato, ricado seduta sul divano in modo fiacco, aspettando come tutti che Teddy continui a parlare. La sagoma di Malfoy, nel velluto nero della notte, è appena percettibile. Sembra un’ombra che si mangia la luce. La guardo per tutto il tempo dello scarno discorso di Teddy, come a cercare di far collimare le parole del ragazzo con quella schiena dritta, altezzosa.

“Mi dispiace non avervene parlato prima. Era una cosa che mi… terrorizzava. Se aveste pensato che io non vi fossi grato o peggio che non vi volessi bene… voi… tutti… siete la mia famiglia. Nella sfortuna di non avere genitori, siete stati tutto per me. La mia casa, quando pensavo di non averla. Non mi sono mai sentito mai solo una volta in tutta la vita… grazie a voi. Però… come spiegare… c’era sempre un buco dentro, ogni giorno. Tutti avevano delle radici ben piantate, io nessuna: ero un seme felice nel vento, ma se quello si fosse fatto più intenso e pericoloso, sarei stato spazzato via. Voi… avete sempre avuto delle risposte per ogni mia domanda. Ma c’erano alcune a cui non potevate rispondere. E paradossalmente quelle sono diventate pressanti e pesanti nel mio cervello. Mia nonna… lei… capiva. Ha sempre capito. Mi ha detto una volta: “farò di tutto per farti capire, per piantarti un’ancora nel cuore così che tu non ti senta perso nel mondo, bambino mio”. Avevo tredici anni quando cominciò con quella ricerca. Lei era già… debole, stanca. Malata. Ma recuperava coraggio, forza, sempre. Per me. Se sarà una bambina… se mia figlia lo sarà… sarà Andromeda Lupin. Non potrebbe avere nessun altro nome.

“I Tonks superstiti erano pochi. Omuncoli e donnicciole sparse in poche case rade nel nord della Scozia, non sapevano nemmeno che esistevo. Ci offrirono un tè freddo in una casa umida, parlarono brevemente di mio nonno come di un parente lontano e distante. Erano tutti babbani, raccontai loro della morte eroica di mio nonno Ted, piansero molto assieme a mia nonna. Mi ringraziarono di quel pezzettino di storia che non sapevano. Andò peggio con i Lupin. Non vollero vedermi, sembravano ancora terrorizzati dalla fama da licantropo di mio padre. Non me ne curai. Andammo via, me ne dimenticai. Chi ricordava ancora mio padre come un semplice licantropo, non meritava la mia attenzione. Incontrai anche qualche parente di mia nonna paterna Hope, dalle parti di Cardiff. Terminammo quel mese di viaggio con un senso di vuoto che ancora non se ne andava. Per me pensavo che fosse normale, da orfano stavo sempre così o quasi. Ci sapevo convivere bene. Per mia nonna, era una novità. Era tutto collegato ad un nome che, come nell’idea del suo significato, era nero di risposte. I Black.

“Sapevo da voi la storia di Sirius. Avevo saputo da mia nonna delle sue sorelle Narcissa e Bellatrix, di ciò che le aveva divise, del disonore che lei aveva causato con le sue nozze alla sua famiglia, delle simpatie per Voldemort, del matrimonio di Cissy con Malfoy e di quello di Bella con Lestrange, della morte di Bella in guerra e della bugia al Signore Oscuro di Narcissa. Ma erano solo racconti, parole rade di vergogna e di ribrezzo che non mi davano soddisfazione, anzi mi incuriosivano di più come in una sorta di attrazione fatale per una specie di oscurità latente anche in me. Mia nonna… lei mi confessò di aver spesso ripensato a sua sorella minore.  Di aver sperato che le ultime fasi della guerra e quella bugia fossero segnali di un ravvedimento anche nei suoi confronti. Si sbagliò di grosso. Narcissa non fece mai nulla per riavvicinarsi a lei, e mia nonna si macerava nella nostalgia e nell’assenza, incapace tuttavia di fare una cosa qualunque per rompere il ghiaccio, certa che sua sorella non avrebbe mai voluto vederla. Io, nel mio piccolo presi a masticare libri su libri sui Black, ad impararne tradizioni ed usanze, a conoscerne membri ed abitudini, aiutato per come poteva da mia nonna. Non ero mai sazio, mai soddisfatto, come se in quella mancanza avessi riversato tutto il resto. So adesso che fu solo un ripiego, mi mancavano in realtà mia madre e mio padre come sempre era stato. Solo che quella mancanza così aveva assunto una forma più accettabile. Persino rimediabile. Persi parecchio tempo così, studiai di nascosto, terrorizzato che lo sapeste. E poi arrivò il mio quattordicesimo compleanno, il 9 aprile di cinque anni fa. Facemmo una festa qui. Ricordo dei palloncini blu cobalto. E poi quel gufo… andammo via prima io e la nonna con mille richieste di scuse e profusi ringraziamenti. “Una lontana parente reclama Teddy per un regalo!”. Era la prima volta che sentivo una bugia uscire fuori dalle labbra di mia nonna. Negli anni, poi, ho sempre pensato che in realtà non mentì. Ebbi davvero un regalo quel giorno.

“Nella nostra completa ed ovvia ignoranza, nonché nella storica riservatezza di quella famiglia, non avevamo saputo naturalmente che, nel mese di febbraio, Narcissa Black era stata colpita improvvisamente da un ictus celebrale. Restò in coma un paio di settimane, le diedero l’estrema unzione perché convinti che non sarebbe sopravvissuta. Ed invece lei, ostica come sempre era stata, si riprese. Da allora, è rimasta paralizzata dalla vita in giù: ma è viva, combattiva, fiera. Come sempre è stata. Quando si svegliò, raccontò a suo figlio e a suo marito che non aveva fatto altro che sognare una persona, per tutto il tempo. Mia madre. Sua nipote Ninfadora. Non ha mai detto granché di che cosa sognava, di come lei fosse, di che cosa avesse detto… ma da allora, continuò ad insistere in modo pressante per incontrare me e mia nonna. Non devo morire un secondo prima di questo momento. Passò del tempo naturalmente, doveva tornare a casa prima e quella lettera arrivò solo il giorno del mio compleanno, come un regalo. Mi sono sempre chiesto se l’abbia fatto apposta. Lei… non mi ha mai risposto, per questo penso sempre che sia così.

“Mia nonna e sua sorella parlarono per cinque ore, prima che fossi ammesso nella stanza di Lady Malfoy. Era adagiata in un letto rosso, spiccava come un fiore dorato. Accanto a lei, come due guardie silenziose pronte a realizzare ogni suo minimo ordine e comando, c’erano Lucius e Draco. Mi intimorivano, sembravano solo accondiscendere a quella pazzia di Narcissa sebbene non l’approvassero. Lei mi fece segno di avvicinarmi, studiò il mio volto con un attenzione maniacale, chiese sgarbatamente se fossi anche io un mannaro. Mi incespicai con le parole e per tutta risposta i miei capelli cambiarono colore, diventando celeste acquamarina. Scorpius, il nipote di Narcissa, che era seminascosto dietro le gambe del padre, mi venne incontro ridendo, smaniando per toccarmi i capelli. Cissy sorrise e fu come se un respiro fu rilasciato tutt’assieme nello stesso momento. Mia nonna non fece altro che piangere tutto il tempo, parlava e piangeva, rideva e piangeva, giocava con Scorpius e piangeva. Io feci quello che potevo, intontito come mi sentivo. E poi mi portarono il mio regalo: l’arazzo dei Black. C’era il mio nome adesso. Non c’erano più bruciature adesso. C’era mia mamma, mio papà, mia nonna, io. Sentii finalmente quelle radici attraccarmi alla terra, come mai nella vita.

“All’inizio, con Draco e Lucius, fu difficile. Narcissa era algida, caparbia, fiera. Ma ebbe subito una dolcezza tenace nei miei confronti, figlia del perdono che aveva destinato alla sorella. Suo marito e suo figlio, invece, sembravano considerarmi solo un intralcio nella loro casa. Ci misi un anno intero a farmi accettare da loro, mentre andavo in segreto a casa loro per visitare Narcissa e farle compagnia assieme a mia nonna. Accadde per caso per me in un primo momento… ma oggi penso che lo fecero apposta per vedere la mia reazione. Mi fecero assistere alla scrittura del testamento di Cissy, cosa che mi fece diventare triste in un modo fin troppo evidente, anche se fingevo di no. Non potevo immaginare di perdere già adesso mia zia. Fu quello il segnale per loro, per Draco e Lucius. Capirono che ero davvero affezionato a lei, che non mi importava del denaro: non mi ero mostrato minimamente incuriosito da quanto sicuramente avrei potuto ereditare, per me era peggiore la prospettiva di veder morire Cissy. Solo allora, davvero mi accolsero in casa loro come un pari, evitandomi e proteggendomi anche dalla vista della moglie di Draco, Astoria, che invece aveva sottolineato spesso di considerarmi inferiore. A Draco, però, non importava. Per nulla. Prima per scherzo e poi seriamente si è fatto chiamare zio, insistendo però per usare il mio nome sempre al completo. Non sei un orsacchiotto, Edward. Ha preteso in modo imperioso che gli presentassi Victorie. Ha insistito alla sua maniera che firmassi per diventare il tutore di Scorpius. Mi ha imposto di accettare la somma che mi aveva lasciato Lucius quando morì due anni fa. Tecnicamente… è lui che paga la scuola. Non mia nonna, non i suoi risparmi… non ce l’avrei mai fatta, altrimenti. Draco è stata la prima persona che ho chiamato quando è morta la nonna. So che magari per voi suona incomprensibile, ed orribile, ed ingrato… specie perché ve l’ho nascosto. Specie perché mai ne ho parlato. Draco avrebbe sempre voluto che lo facessi, Weasley ci rimane sul colpo, diceva sarcastico, ma per me è sempre stato impossibile. Impossibile, perché… temevo che non capiste, temevo che mi giudicaste. So chi è. So chi sono. So chi è stata mia zia Narcissa, so tutto del passato di Draco Malfoy. Ma sono la mia famiglia, esattamente come voi. E se non potessi credere alla capacità di cambiare cuore e vita, vuol dire che mia madre e mio padre non mi hanno trasmesso nulla. Non sarebbero morti se avessero pensato che, dopo di loro, io continuassi a credere nei pregiudizi e non cercassi di cucire una nuova vita con tutto il mio impegno e sforzo, seguendo il loro esempio.

“Poco prima che mia nonna morisse fece promettere agli zii non tanto di prendersi cura di me, perché per quello sapevano che c’eravate voi… anche se comunque si affidava anche a loro perché io fossi felice e al sicuro… ma voleva soprattutto che mi facessero sentire davvero l’ultimo dei Black assieme a Scorpius. Che mi considerassero parte integrante della storia di una famiglia che dura da secoli, e che mia madre non aveva invece potuto vivere appieno anche nei suoi aspetti positivi. Loro… hanno accettato, insomma. Alludevo a questo, a questa storia, prima, quando ho parlato con lo zio… quando lui mi ha detto che così saremmo stati pari. Narcissa considera la sua redenzione per il comportamento che ha avuto con mia mamma, vincolata a stretto filo a quanto invece farà per me. Come se io fossi una specie di risarcimento danni: certe volte mi scoccia, lo dico sempre che sono storie passate e che ormai non hanno più importanza. Ma la zia è molto seria in questo… e per il resto… so, insomma, che non è solo una riparazione dei torti. A loro modo, in questo modo sarcastico e velenoso, loro… zia Cissy e zio Draco… mi vogliono bene. Ed ecco che arriviamo a perché lo zio è qui… ieri gli ho parlato e gli ho raccontato di me e Victorie. Se l’ho fatto prima di parlarne con voi, è perché un Black deve ottenere una specie di approvazione dal membro più anziano della sua famiglia per contrarre matrimonio. Ed appunto, come vi ho detto, mi considerano tale adesso. Per fortuna conoscevo tutte le tradizioni dei Black prima ancora di conoscerli… insomma il membro più anziano della famiglia è il solo che può concedere un permesso per sposarsi. Altrimenti, certo uno si può comunque sposare… ma non sarebbe un matrimonio considerato onorevole. È quello che accadde alla nonna, o a mamma. Ed il primo segnale per me che le cose sono cambiate era avere questo permesso… la zia era come sempre a letto, non mi ha potuto rispondere bene perché adesso ha anche difficoltà respiratorie, e non riesce a parlare. Quindi sostanzialmente ha abdicato al suo ruolo in favore dello zio. E lui… a modo suo mi ha detto poco fa di fare come credo che sia giusto. A patto che l’onore della famiglia sia rispettato… su questo vigilerà lui. Penso quindi che vorrà partecipare ai preparativi o a tutte le altre faccende, se non altro per rassicurare zia Cissy che ci tiene molto a queste cose. Hanno conosciuto Victorie, a loro piace… credo davvero che sia solo una cosa formale che lo zio verrà qui. Sento che… è giusto così, in fondo. Così come, adesso che sapete tutto questo ed adesso che sapete che anche loro ci potranno aiutare, dovreste essere certi che io e Vic non finiremo in mezzo ad una strada. Siamo in grado di crescere un bambino, siamo in grado di sposarci… ho già parlato con lo zio, so che lui si sforzerà di non trasformare questa occasione in un tiro alla fattura. Me lo ha promesso. Voi… potete fare lo stesso? Per me? Qualsiasi sia il modo in cui la pensiate… non voglio essere costretto a scegliere da che parte stare. Non costringetemi a doverlo farlo. Loro… non lo hanno fatto. Voi lo farete? Io… io non sono in grado di poter scegliere. Non posso farlo. Per favore”.

Teddy finisce di parlare in un suono di gola che somiglia ad un singhiozzo trattenuto, mentre Victorie lo accarezza ritmicamente sulla spalla destra guardandoci con espressione torva ed arcigna. Per un attimo non studio colpevolmente la testa bassa del ragazzino e le spalle tremanti che vistosamente celano un pianto che non vuole lasciar sfuggire, ma mi fisso sugli occhi di Victorie, su quel ceruleo trasparente che diventa oltremare torbido. Penso di nuovo istantaneamente che sarà una moglie e madre con un istinto alla protezione così spiccato da trasfigurare la dolcezza dello sguardo e l’immaturità dell’età in modo prodigioso. Guarda tutti, compresi i suoi genitori e nonni, con una punta di feroce orgoglio solo perché abbiamo toccato di striscio Teddy facendolo soffrire. Figuriamoci quando ci sarà di mezzo un figlio.

Una madre si cava il sangue delle vene per un figlio. Lei forse farà persino di più.

Dovrebbe davvero avere l’occasione di essere madre di questo bambino, anche se nato sotto un tempo acerbo. Lo penso davvero ed improvvisamente.

Ed è la prima opinione che riesco finalmente a formarmi.

La seconda invece prende sostanza nel momento in cui mi rendo conto del silenzio che, dopo le parole di Teddy, non ha smesso di gravare nella stanza. Nessuno vuole aprire bocca per primo, e ciò d’improvviso mi pare così ingiusto verso questo ragazzino che ha appena aperto il suo cuore davanti a noi, che sono presa per converso dall’impulso di dire una cosa qualunque pur di rassicurarlo sul fatto che gli vogliamo bene comunque, che lo capiamo, che in fondo non è successo nulla, che non sarà certo la sua vicinanza con Malfoy a farcelo alienare come figlio, nipote, amico, qualsiasi cosa sia stato in questi anni. Per amore di Teddy, però, cerco prima di analizzare a fondo tutte le parole che Malfoy ha detto appena entrato, la sua espressione ed il sottotesto, specie ora che conosco la verità, come a volermi purificare i pensieri, come a voler cercare di eliminare ogni onta di sospetto verso il vecchio nemico. Non lo faccio per il biondo, sia chiaro, ma per Teddy.

È come se mi chiedessi se, in fondo, posso fidarmi di Teddy al punto da affidarlo a Malfoy.

Una sola cosa mi è rimasta impressa e mi sovviene subito appena richiamo alla mente tutto il breve incontro: l’occhiata che Malfoy ha riservato a Teddy quando gli ha chiesto se faceva tutto questo solo “per quella vecchia storia” e che ora so essere la promessa fatta ad Andromeda. Malfoy ha scosso il capo, sembrava incredulo, sembrava sbigottito… era sorpreso che Teddy ancora si chiedesse una cosa del genere.

Come se fosse ovvio, scontato, naturale che lui lo facesse anche per altro… perché si è affezionato sinceramente a lui.

Gli ha poggiato la mano sulla spalla… e non ha risposto direttamente. Teddy però ha capito subito. Come se… sapesse…

La mia mente si lambicca attorno ad un concetto apparentemente semplice, ma che mi sfugge come se fosse fatto di polvere. Sguscia, sfrigola e sguizza, e mi sembra di perderlo sempre. Lo stomaco che mi punge, la nausea che resuscita nella mia gola donandole un sapore acre di vomito, mi fa quasi perdere la presa come se facesse troppo male inseguire quel pensiero, come se mi portasse nel labirinto del Minotauro. Non ho un filo in tasca, però, che mi riporti indietro: la camicia sotto il maglione aderisce alla pelle della schiena sudata, eppure continuo a cercare quel pensiero cascatomi fuori dal cervello. Respiro piano, male, come se fossi sott’acqua e non so perché ho paura di questo paragone… e poi in un rantolo compare l’illuminazione che cercavo.

Una frase sciocca che non capisco perché mi mettesse in un tale soggezione mentale. Tutto ciò che è minuscolo e stupido con altri, con lui invece, diventa grandissimo e sterminato.

E’ questo che Teddy sapeva e capiva, ci ha visto molto più di me in una pacca sulla schiena e in uno sguardo casuale.

Malfoy gli ha dato il motivo che cercava.

Accade allora: non ne prendo subito coscienza e non riesco quindi nemmeno a fingere che vada tutto bene, come ho fatto dall’inizio di questa lunghissima giornata. So solo che, in una frazione di secondo, tutti i colori della stanza sembrano sparire assieme alle voci, come se venissero risucchiati via in un vortice di luce intensa e malata. La nausea, ormai, non è più solo dentro il mio corpo… ma ovunque, in ogni cosa. Fuori, dentro, di me: all’esterno diventa solo una melassa condensata ed ondosa che mi sbatte e ribatte avanti ed indietro.

Tutto diventa bianco, le ombre della gente attorno si allungano e contorcono e qualcuno mi chiama preoccupato, ma io non so più parlare.

Perdo i sensi nella voce di Ron che grida il mio nome.

“… il motivo che cerchi…”.

 

 

Quando Hermione Granger, 36 anni appena compiuti, riprese i sensi, era nel letto di casa sua sotto il suo copriletto caldo, accanto al comodino con il libro da finire in trenta pagine, vicino ad una camomilla con miele e limone. Suo marito sorrideva incoraggiante, dicendo che doveva smettere di lavorare così tanto, che era svenuta a casa di sua suocera come una pera cotta, che erano nel pieno di un dramma famigliare in piena regola ed aveva bisogno che lei stesse in forze. Sorrise suo marito, ironico e sarcastico, ed Hermione lo capì sorridendo a sua volta, scusandosi del malessere che ancora non comprendeva.

Disse che adesso stava bene e che era tutto a posto, non si doveva preoccupare. Ma lui aveva già chiamato un Medimago, non si poteva prendere infarti ogni volta.

Lei protestò, mise il broncio, incrociò le braccia, ma alla fine cedette.

Lasciò entrare la dottoressa, una donna di colore alta e bruna con un sorriso sottile che non le arrivava agli occhi. La visitò meticolosamente, disse che non era nulla di grave, le prescrisse un paio di giorni a letto. E le diede una Pozione Guaritrice, rossa come sangue fluido e mai coagulato.

“Credo che abbia uno stato di debolezza generale, signora Weasley…” aggiunse in tono flautato, sistemandosi i capelli “Niente di preoccupante, ma meglio assumere cautelarmente del ferro per innalzare l’emoglobina del sangue. Beva la fiala… e starà meglio”.  Restò in attesa, cauta, come se si aspettasse che non lo facesse.

Hermione Granger era testarda, detestava gli ordini. Era convinta di essere solo stanca, quella dottoressa imbelle non poteva sapere che razza di vita faceva e che quindi, nell’economia delle cose, uno svenimento ci poteva stare. Rassicurò la dottoressa che avrebbe bevuto la Pozione, che sarebbe stata a riposo, che non si sarebbe agitata e non sarebbe uscita per un paio di giorni.

Il medico sorrise di nuovo con quella piega senza espressione, e lasciò la stanza.

Hermione roteò gli occhi al cielo, sbuffò e poggiò la Pozione sul comodino, prendendo invece la camomilla. Aveva bisogno solo di riposo, non dei rimedi di una che doveva essere una ricca snob con la puzza sotto il naso e che faceva il suo lavoro solo come rimedio alla noia. Le consigliasse una migliore segretaria invece di Leda che triplicava il lavoro oppure una famiglia meno nevrastenica, invece di imbottirla di Pozioni!

Non bevve l’intruglio, al mattino se ne scordò quando Leda chiamò per dirle che non trovava la pratica sul caso Latimore. E, dopo, Hugo pensò bene di versarla sul tappeto.

“Poco male…” si disse Hermione, scrollando le spalle “Una che indossa sul camice gioielli vistosi come il cameo di una rosa bianca, non può essere un buon medico!”.

 

 

Post scriptum a suo modo necessario: questo capitolo, peraltro breve e dove forse nemmeno succede granché, arriva ad un anno quasi di distanza dal precedente. È una cosa che mi provoca un enorme imbarazzo e disagio, perché davvero a questa storia ci tengo molto e credo che ormai, se ci siete ancora, lo sapete bene. Quest’ anno purtroppo è stato davvero sfiancante per molti motivi e la testa spensierata che mi serve per scrivere l’ho avuta per poche settimane, quelle in cui ho scritto. Non vi starò a raccontare che cosa mi è successo, non è nemmeno giusto cercare giustificazioni e parlare quindi della mia vita personale. Posso solo ripetere come sempre faccio che questa storia non sarà mai abbandonata, che la porterò a termine comunque vada ed anche con questi tempi, e posso solo ringraziare chi mi è stato vicino e chi ancora mi legge. Grazie davvero per tutto. Cercherò di rispondere alle recensioni rimastemi e per il resto, se volete, sono sempre su Facebook per qualsiasi domanda. Cassie.

 

   
 
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