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Autore: Niagara_R    25/10/2015    0 recensioni
*Halloween tale*
Successe senza preavviso.
Fu come se qualcuno le conficcasse uno spillone da cucito nell’orecchio per farvi passare attraverso un getto d’acqua fortissimo, che si infranse con violenza contro l’interno del cranio.
La vista divenne un arazzo di stelle dorate pulsanti, Kathleen avvertì la pressione colare a picco e il sangue defluire nello stomaco passando per la gola. Il cuore mandò un battito assordante che le fece dolere la cassa toracica, le dita si contrassero, il respirò uscì senza rientrare.
Kathleen stramazzò di lato con veemenza, come se avesse ricevuto un brutale spintone, e la comunità le si strinse intorno, gridando nel panico più totale.
Genere: Fantasy, Horror, Sovrannaturale | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti
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Racconto originariamente scritto per il literary-blog SognandoLeggendo in occasione di Halloween 2014.

Lo ripropongo qui perché trovo carino che più persone abbiano la possibilità di leggerlo.

Spero possa rivelarsi cosa gradita.

 

 

 

 

 

 

 

La notte della strega

 

Kathleen fece una smorfia disgustata nel passare davanti la casa degli Arliss. Avevano tappezzato la veranda con orrendi scheletri di qualunque forma, dimensione, fluorescenza e posizione. Si chiese se fosse l’unica a pensare che quello spettacolo somigliasse a una grottesca orgia di femori e peroni.

Camminava stretta nel cappotto troppo corto che si era comprata a New York in uno slancio di spese folli da tipica turista, e l’aver indossato gli stivaletti col tacco otto la rendeva ancora più impacciata. Stivaletti col tacco otto. Che cretina.

Li aveva infilati con la segreta speranza di fare colpo sull’ingegnere che viveva su Forster Avenue, in fondo alla strada, ma una volta uscita nel gelo ottobrino si era resa conto che in giro non c’erano altri che bambini conciati da mostriciattoli vari e parenti infreddoliti che battevano i piedi a terra.

A Halloween i ruoli si invertivano. Marmocchi alti non più di un metro e quaranta scorrazzavano sotto il cielo stellato pieni di energie, bussando di casa in casa e stabilendo record di suonate di campanello mentre erano i genitori ad annoiarsi e sperare che tutto finisse in fretta.

Anche Kathleen sperava che finisse in fretta, l’aveva sperato da quando sua sorella l’aveva velatamente coartata ad accompagnare Tobey nel giro di Trick or Treat al posto suo e di Paul. Kathleen aveva anche avuto la mezza idea di spendere un centinaio di dollari e comprare una marea di dolciumi da dare al nipote pur di evitarsi quella tortura, ma l’entusiasmo di un ragazzino di dodici anni col suo nuovo completo da barbiere di Fleet Street l’aveva intenerita.

Perciò eccola a incespicare sui marciapiedi scivolosi di foglie e nevischio prematuro nel tentativo di badare a Tobey, non surgelarsi, e fare bella figura coi vicini come giovane e zia perbene. Quando si diceva essere multitasking.

Il suo piccolo assassino in miniatura correva sui selciati delle villette trasportando sulla spalla una sporta nera e arancione che a ogni soglia si gonfiava di qualche barretta o caramella, e che somigliava sempre più al ventre di un grosso ragno sazio. Kathleen aveva rinunciato a chattare al telefono per paura di perdere la sensibilità dei polpastrelli, si era infilata i guanti di maglia e si era rassegnata ad avere la medesima espressione da martire degli adulti che sostavano qua e là.

Aveva maledetto in tutte le lingue sua sorella e suo cognato per averle appioppato Tobey, ma sotto sotto non le stava dispiacendo.

I lampioni a lanterna emanavano luci smorzate che sfumavano l’asfalto bagnato, e le zucche intagliate facevano capolino con le loro candele vivide e tremanti, sghignazzavano all’unisono coi refoli di vento e col movimento delle persone come se le stessero schernendo in una lingua silenziosa e spettrale. Ai rami degli alberi erano state appese mele coperte da fazzoletti e legate a mo’ di spettri fluttuanti; sagome di pipistrelli glitterati svolazzavano da sotto alcuni porticati, e gli Stevenson avevano decorato il giardino con pittoresche scope di saggina e nastri di tulle nero e viola, tra i cui strati avevano nascosto cioccolatini e lecca lecca. Kathleen si era prestata volentieri alla caccia al tesoro, ci aveva guadagnato una pralina al latte, due ripiene al cacao e un lollipop alla Coca Cola.

Era bello vedere il quartiere brulicare di vita. Si chiacchierava, si rideva, si offrivano bicchieri di sidro e vino caldo alla cannella per riscaldarsi, si faceva amicizia con i nuovi arrivati e quel fiorire di colori caldi metteva allegria.

Kathleen abitava lì da pochi mesi, e i sorrisi che le venivano rivolti le facevano piacere. Sapeva che nei paesi di provincia non ci si definiva cittadini bensì comunità, dove tutti conoscevano tutto di tutti, dove ci si spalleggiava e ci si sosteneva, si credeva fermamente nel matrimonio, nel battesimo e nella famiglia tradizionale, e nelle cene del Ringraziamento e della Vigilia di Natale. Era per quello che all’inizio era stata intimorita dall’essere una ventenne single, coi genitori lontani, un lavoro che la teneva occupata dalla mattina fin quasi alla sera e nessun fidanzato all’orizzonte - e nemmeno la voglia di cercarlo sul serio.

Invece era stata accolta a braccia aperte. Le vicine anzianotte le preparavano manicaretti quando tornava tardi per cena, i signori di mezza età le davano una mano nei lavori di carpenteria e idraulica in casa, e le giovani donne la invitavano a uscire con loro e, nonostante non avessero molto in comune Kethleen sentiva di essere nel posto giusto.

Il vederla assieme a un ragazzino con l’argento vivo addosso come Tobey poi aveva mandato in visibilio le comari che la vedevano già ammogliata con Neil, l’ingegnere in fondo alla strada.

Per Kethleen la prospettiva non era sgradevole. Neil non era forse l’uomo con cui si sarebbe ammogliata più volentieri, ma con piacere avrebbe condiviso con lui diverse ore in maniere assai allettanti.

Rabbrividì affondando le mani negli incavi dei gomiti. Una rapida occhiata al campanile della chiesa la informò che la mezzanotte sarebbe giunta tra qualche secondo.

Era il caso di riportare la peste con finto rasoio a letto prima che si buscasse un raffreddore, e prima che Kathleen si buscasse gli improperi della sorella.

I rintocchi dal campanile iniziarono a sferzare il cicaleccio, e padri e madri controllarono orologi e display per essere certi che nessuno gli stesse facendo uno scherzo. Mezzanotte: finalmente si poteva tornare al caldo dei salotti.

Kathleen aumentò il passo per raggiungere Tobey - richiamarlo all’ordine ad alta voce in mezzo ai suoi amichetti sarebbe stata un’umiliazione da cui voleva salvarlo - e le si tapparono le orecchie.

Successe senza preavviso.

Fu come se qualcuno le conficcasse uno spillone da cucito nell’orecchio per farvi passare attraverso un getto d’acqua fortissimo, che si infranse con violenza contro l’interno del cranio.

La vista divenne un arazzo di stelle dorate pulsanti, Kathleen avvertì la pressione colare a picco e il sangue defluire nello stomaco passando per la gola. Il cuore mandò un battito assordante che le fece dolere la cassa toracica, le dita si contrassero, il respirò uscì senza rientrare.

Kathleen stramazzò di lato con veemenza, come se avesse ricevuto un brutale spintone, e la comunità le si strinse intorno, gridando nel panico più totale.

 

Alice Presnell stava stendendo i panni sotto un sole giallo quanto un limone scolorito. I raggi non scaldavano affatto e dubitava che il giacchino di suo figlio si sarebbe asciugato in tempo per la pesca del weekend, ma nel caso l’avrebbe spostato in lavanderia e avrebbe acceso la stufetta elettrica.

Le mani artritiche correvano sul filo con alacrità, e l’umidità fredda della stoffa ormai non si differenziava dal dolore cronico delle sue povere giunture lise. Lanciò un’occhiataccia alla gatta del dirimpettaio che come al solito veniva a fare i propri porci comodi nella sua centralina per il compost.

Stava meditando di correre ad afferrare la scopa quando il rombo di un’auto attirò la sua attenzione e la fece voltare verso la strada.

Al marciapiede era accostata una macchina scura con rifiniture argentate, lucida e imponente, dalla forma di un animale che correva. Alice storse il naso, e gli occhiali da presbite che vi erano appoggiati scivolarono un poco.

Quella era una macchina da gente coi soldi. E la gente coi soldi, nei dintorni, poteva solo cercare di vendere ideologie o religioni, oppure ficcanasare in giro per trovare un terreno da acquistare a buon prezzo e rivenderlo a dieci volte tanto a gonzi di città.

Decise che, se qualora l’autista dell’auto le avesse rivolto la parola, l’avrebbe trattato con sufficienza.

La sufficienza era l’atteggiamento peggiore che la sua educazione potesse tollerare.

Dal posto del guidatore scese un giovanotto di bell’aspetto. Di assoluto bell’aspetto.

Alto, spalle larghe, una giacca scura sopra un completo tre pezzi di eleganza ma non pomposo, un sorriso che parve rischiarare la giornata plumbea. E capelli e sopracciglia rossi quanto le foglie degli aceri che ricoprivano l’erba del parco.

La mente di Alice in automatico associò il giovanotto a Mary Geraldine - sua nipote, una nubile impenitente di ventinove anni - pensando che sarebbe stato il suo tipo. Ma presto ritornò in sé e si ricordò dei propositi nei riguardi del forestiero.

«Salve.» la salutò il giovanotto, avvicinandosi allo steccato ma mantenendo la giusta distanza. Alice fu colpita dalla sua discrezione «La disturbo?»

«No, stavo soltanto stendendo il bucato.» rispose. Sperando di aver sfoderato abbastanza sufficienza.

«Vorrei qualche informazione, non la tratterrò molto.»

Ecco. Alice si sentì fiera delle sue intuizioni. Un agente immobiliare.

«Dica pure.»

«Circa una settimana fa in questo quartiere è accaduto qualcosa di spiacevole.»

Alice lo squadrò con attenzione. I capelli erano rossi, così rossi da poterli macchiare con polpa di zucca e non accorgersene. Gli occhi erano verdi, di un bel verde intenso, autunnale, e i guanti che calzava dovevano essere di pelle, fatti a mano.

Beh, d’altronde per Mary Geraldine perché non poteva andare bene un agente immobiliare?

«La notte tra il trentun ottobre e il primo novembre una ragazza si è sentita male, ha perso i sensi ed è stata ricoverata in ospedale. Vero?»

«Uh, sì, la povera Kathleen!» esclamò Alice «È stato terribile, è successo proprio di fronte alla casa di Magda... Là, la villetta con i cespugli di lavanda!» Allungò il braccio per essere sicura che il giovanotto capisse. Capì, e le rivolse un sorriso cortese.

«Esatto.» annuì «So che abita nella zona, ma purtroppo non conosco il suo indirizzo. Mi potrebbe...»

«Giri a destra e subito a sinistra alla prima stradina, Kathleen abita giusto nella casa che chiude la via. È quella color crema, col tetto alla francese.»

Il giovanotto le scoccò un altro sorriso, e Alice si rammaricò di avere abbastanza anni da poter essere sua nonna.

«Grazie, molto gentile.» Fece per salutarla, ma Alice si addossò allo steccato.

«La informo però che non si è ancora ripresa del tutto.»

Nascose la gioia che le dava conversare di quella brutta faccenda. Col gruppo della domenica si era parlato a lungo del malore della cara Kathleen, Alice e le sue amiche si erano scambiate a vicenda osservazioni e commenti, nonché le notizie fresche portate da chi era andata a trovarla in ospedale, e ora era felice di dimostrarsi esaustiva con lo sconosciuto. Chissà l’invidia delle altre la domenica successiva.

«È stata dimessa giovedì, ma pare che abbia riportato seri problemi alla vista.»

«Alla vista?»

«Già.» Alice annuì cerimoniosa «Il cognato le ha dovuto tenere il braccio e condurla in casa, sembra che un qualche nervo ottico sia stato danneggiato e veda sfocato. Che amarezza. Così giovane.» Scosse la testa con fare fatalista.

«È terribile.» Il giovanotto aveva una spruzzata di lentiggini sul naso che lo facevano apparire meno maturo di quanto fosse, doveva essere sulla trentina o poco più «E non ha nessuno che si occupi di lei?»

«La sorella e la madre hanno cercato di convincerla a trasferirsi da una delle due, il tempo di trovare una cura o una terapia che la faccia migliorare, ma Kathleen non ha voluto saperne.» Sospirò «Le donne sono talmente indipendenti oggigiorno...»

Il giovanotto rise. La sua era una risatina garbata, moderata, come si addiceva a un uomo rispettabile.

«Beh, di nuovo grazie mille per la disponibilità.»

«Si figuri!» si schermì Alice, quasi dispiaciuta di doverlo congedare «Anzi... non conosco i suoi programmi, ma se ha voglia finito il suo giro potrebbe fermarsi. Le offro una tazza di tè.» Che sfacciata, che sfacciata che era. D’altronde una fanciulla di settantuno anni poteva concedersi qualche vezzosità.

«Perché no?» replicò il giovanotto, tornando verso l’auto da soldi. E non pareva neppure sarcastico «Credo che mi fermerò qualche giorno. Tornerò con piacere.»

Salutò Alice con un ultimo gesto della mano e risalì. Alice non stette a osservare ciò che faceva. Si volse e riprese le sue faccende ostentando noncuranza, segretamente soddisfatta di quel che era accaduto. Non era certa che il giovanotto sarebbe tornato sul serio - l’ingenuità l’aveva persa molto tempo prima - ma era bello sapere che la cortesia esisteva ancora, anche se solo di circostanza.

Sollevò la bacinella vuota in cui c’era stato il bucato e udì il motore rombare e partire verso la direzione che Alice aveva indicato. Rientrò rimproverandosi per aver sbagliato la sua congettura. Niente agente immobiliare.

Era un assicuratore.

 

«Grazie, Maddy, davvero troppo buona.» Davvero troppo. Davvero troppo.

«Ma figurati, santo cielo, ci mancherebbe che tu debba metterti ai fornelli!»

La figura di Maddy era imponente. Doveva indossare un abito rosso, un abito rosso che le fasciava un deretano imponente che ondeggiava a ogni passo che muoveva nella sua cucina, avanti e indietro, aprendo e chiudendo sportelli, spadellando e facendo altre cose che Kat non intuì.

«Buone nuove dall’ospedale? Ti hanno già comunicato i risultati degli esami?»

«Non ancora.» Menzogna.

Maddy sbuffò.

«È delirante che si debbano aspettare mesi per un dannato risultato. Un poveraccio fa in tempo a morire prima di capire cos’ha.»

Kat assentì con un cenno della testa.

«Spero che trovino un modo per guarirti, però senza doverti operare. Che brutto, dev’essere terribile essere aperti per vedere cosa non va ai piani alti...»

Kat distolse l’attenzione dalle chiacchiere che la stavano stordendo da giorni. Da quando l’avevano riportata a casa le vicine si erano avvicendate per non darle tregua, sempre lì a suonare il campanello e a bussare, portandole in dono piatti a base di prodotti che Kat faticava a riconoscere.

Le presenze costanti l’avevano costretta a concentrarsi sulle sciocchezze, sui dettagli, sulla sfera più immediata che aveva circondato la vera Kathleen.

I nomi. Gli oggetti. Le persone. L’utilizzo di questo o quello. Gli usi e i costumi. E indi le abitudini di Kathleen, le sue frasi fatte, il suo atteggiamento, i suoi ricordi. Da quando si era risvegliata nel corpo di una ragazza dai lunghi capelli scuri aveva dovuto assimilare una quantità spaventevole di nozioni e conoscenze per non destare sospetti, aveva dovuto attingere a piene mani in una mente labirintica e incredibilmente piena nonostante le poche primavere di cui portava il peso.

Lei, a quell’età, non aveva avuto tante cose a cui pensare.

Maddy - Madeleine in realtà, ma dopo una stretta di mano quando aveva conosciuto Kathleen le aveva permesso di usare un soprannome, e Kat si adeguava - stava facendo scorrere l’acqua dal lavandino. Acqua corrente. Lavandino. Acciaio. Villetta. Riscaldamento centralizzato. Water.

Correva il ventunesimo secolo.

Kat non aveva idea del secolo in cui avesse vissuto, ma intuiva che da allora il mondo fosse cambiato. Così diverso. Così infinito. Così nuovo, comodo, cromato, complesso. Aveva aperto lo scrigno contenuto nel cerebro di Kathleen e l’enormità del tutto l’aveva frastornata. Ci si era buttata a capofitto davanti a quello che poi aveva realizzato essere un medico, aveva biascicato frasi sconnesse per guadagnare tempo e raccogliere informazioni, raschiare la superficie, capire quel tanto che bastava per non sembrare la fuggiasca che era.

Per fortuna in ospedale nessuno aveva fatto caso al suo disorientamento, l’avevano attribuito allo shock, all’attacco ischemico transitorio, come l’avevano chiamato. Le avevano detto di non preoccuparsi, che malgrado l’età poteva purtroppo accadere, e le avevano chiesto se avesse parenti che soffrissero di disturbi simili. Kat aveva cercato quei termini chiave nella memoria di Kathleen ma non aveva trovato alcun riscontro.

Aveva comunque annuito, e il medico e l’infermiera erano parsi soddisfatti.

«... e lo sai chi mi ha chiesto notizie di te? Neil! Che birbante, io gli ho risposto...»

Il giorno prima sua sorella - la sorella di Kathleen - le aveva portato i risultati degli esami che le avevano fatto. Si erano sedute l’una accanto all’altra sul divano e Sunny aveva letto con un tono di voce tremolante che il suo fisico era in perfette condizioni, che la semi-cecità era da attribuirsi alla TIA, e che nell’arco di una settimana si sarebbe risolto da sé. Se così non fosse stato si richiedeva di recarsi di nuovo in ospedale per accertamenti.

Aveva sentito Sunny commuoversi. Probabile che fosse terrorizzata dall’ipotesi che quegli accertamenti avrebbero avuto luogo.

Kat non aveva ancora deciso se quegli accertamenti avrebbero avuto luogo.

Kat sapeva che la sua semi-cecità non c’entrava nulla con una TIA, con un collasso o con una qualunque altra patologia. Sapeva che non era il cervello ad avere problemi, ma l’anima.

La sua sporca anima consumata fino all’essenza dalle fiamme nere di Cernunnos.

«... e quindi per il Ringraziamento sono indecisa tra le pannocchie dolci e la torta di noci Pecan...»

Kat sbatté le palpebre.

Aveva scoperto essere fastidiosa l’impossibilità di mettere a fuoco. Vedeva appannato, annebbiato, come se di fronte al suo viso vi fosse una lastra di vetro su cui scorreva in continuazione un velo d’acqua instabile, e l’illuminazione peggiorava ogni sua percezione.

Lì, sulla Terra, c’era sempre luce. Che fossero i raggi del grande sole, le spire della luna piena, o bagliori artificiali che allontanavano la notte e la relegavano in uno sfondo di cui si faceva finta di dimenticarsi.

Nell’oltretomba la vista era un senso superfluo. Il regno delle ombre, del freddo eterno, di vampate turchesi che trafiggevano come spade e detonavano, ferivano gli occhi con la loro folgore accecante e improvvisa, eone dopo eone, tortura dopo tortura, avviluppando e ardendo fino allo spirito maligno.

Kat aveva perso anche la cognizione del tempo assieme alle sue spoglie materiali. Poteva essere successo decenni prima così come millenni, non aveva tracce né riferimenti per verificarlo, ma a conti fatti non le interessava.

Frugando negli scomparti psichici di Kathleen aveva scovato strali di storia. Déi. Erano successe talmente tante cose. Si parlava di popoli, di scoperte, di invenzioni, di guerre, di armi, di rivoluzioni, di immagini virtuali che Kat per il momento non riusciva a padroneggiare ma le facevano capire che ora il mondo era un’immensa - più di quanto avesse potuto credere - mappa, e nessun punto di essa era irraggiungibile.

Purtroppo, ciò che era rimasto di Kathleen non aveva tutte le risposte. C’erano lacune, contraddizioni su cui non doveva aver mai riflettuto, e la sua mappa personale era comunque limitata a uno spazio sì grande, ma non imponente come Kat aveva temuto all’inizio. Una città. Poco meno di centomila abitanti. La provincia allargata, divisa in paesi ameni, tranquilli, trasposizioni moderne dei villaggi che Kat conosceva, dove le usanze si erano evolute ma i concetti erano rimasti i medesimi.

Era un buon terreno dove ricominciare.

Era il terreno ideale per impiantarsi e riconquistare la libertà.

«Tesoro, ma sono già le otto!» strillò Maddy, facendo trasalire Kat «Martin sarà alla canna del gas, non sa usare il microonde!»

La rotondeggiante amica di Kathleen raccolse giacca e borsetta senza cessare il suo - inconsapevole - monologo, e prima di uscire si chinò su Kat seduta al tavolo della cucina e le scoccò un bacio sulla guancia. Di quelli un po’ irruenti, che si stampavano sull’osso dello zigomo, ma affettuosi. Maddy doveva aver voluto bene a Kathleen.

Kathleen aveva avuto molti amici.

«Te la caverai?» Domanda retorica «Per qualunque cosa basta uno squillo e mi precipito.» promise, la formula standard con cui Maddy soleva congedarsi «Ciao tesoro, ci sentiamo!»

I suoi passi percorsero il breve tratto che la separava dall’ingresso, poi la porta le si chiuse alle spalle.

Kat si trovò sola. Sola in una nuova casetta accogliente. Sola in una cittadina che non la guardava con sospetto. Sola in un nuovo mondo. Sola.

Con nessuna intenzione di tornare indietro.

Si alzò. Allungò le dita per assicurarsi di non inciampare in un arredo e prese a girovagare con lentezza. Silenzio. Beato silenzio. Tra i dettagli che più avevano colpito Kat una volta risvegliatasi, era stato il rumore. Una confusione ininterrotta di sottofondo, che derivava da uno qualunque degli aggeggi elettronici così come dal vociferare delle persone che pur di non tacere si ostinavano a riempire l’aria di futilità.

Kat non aveva capito perché. Cos’avevano da raccontare, le persone di oggi? Eppure, stando alle rimembranze residue di Kathleen, ora le comunicazioni erano immediate. Grazie a computer, telefoni portatili, televisioni, radio, chiunque era perennemente in contatto con chiunque, ogni minuto libero era buono per aggiornare i conoscenti di cosa stesse accadendo, delle impressioni ricavate, e di come avrebbero agito di conseguenza. Quindi perché sprecavano tante parole per ripetere il già noto?

O, più spesso, perché sprecavano parole per esprimere il niente?

Era differente rispetto a quando Kat era in vita. Allora i mezzi di comunicazione efficaci non esistevano. Ci si affidava a lettere scritte - sovente da mani traballanti, nodose, quelle dei druidi della foresta, gli unici che avessero il dono di comprendere il simbolo vergato - e poi ai falchi, oppure ai cavalli, e ad accompagnatori umani che però rischiavano notte dopo notte di non risvegliarsi per via di un numero infinito di variabili che attentavano alla loro incolumità.

Quando Kat era in vita le chiacchiere erano motivate dal fatto che ci si rincontrava dopo molto, molto tempo. Mercanti che partivano sul fare della bella stagione per vendere i prodotti, guerrieri che si avviavano a testa alta verso la guerra, giovani che si trasferivano in altri villaggi per contrarre matrimonio e creare nuove famiglie, asceti che cercavano di dialogare con gli Déi ritirandosi in eremi spogli. Nessuno, né chi andava né chi restava, sapeva se sarebbero tornati. Le speranze per l’avvenire si scaglionavano di periodo in periodo, la vittoria era sopravvivere, e mentre i semi si gettavano lungo il cammino le radici venivano messe da parte, lasciate in colline lontane che solo il fato avrebbe deciso se un giorno si sarebbero riavvicinate abbastanza da salutarle.

Quando ciò accadeva, ecco che le chiacchiere avevano luogo. Si narravano le peripezie, le difficoltà, le conoscenze e gli scontri. Si narravano le ingiustizie, gli aiuti divini, genti sconosciute divenute amiche o nemiche. Si narrava di fatica, di lacrime, sangue e sudore, di gocce salvifiche e di conquiste, si narrava il percorso tortuoso e scosceso che un uomo o una donna avevano compiuto e da cui erano riemersi rinnovati, mutati, cresciuti, e i segni della trasformazione erano visibili sia all’occhio che al cuore.

Ma ora? Come funzionava ora, che le trasformazioni avvenivano così gradualmente, sotto la lente d’un ingrandimento generico e incessante? Cos’altro c’era da dire, se tutto ormai veniva detto?

Kat scivolò sul divano, godendosi la stoffa morbida che cedeva sotto le membra di Kathleen.

Era in soggiorno. La foschia nel suo sguardo non poteva cogliere nulla se non macchie di colori sbiaditi e bulbosi, ma un generoso scomparto della mente di Kathleen era una raccolta di riproduzioni fedeli. Quel soggiorno era pieno di oggetti che a Kat non servivano. Una televisione - ridicolo arnese davanti cui sostare per cincischiare e sognare di fare invece di fare - uno stereo - spaventoso, corredato di dischi che contenevano musica forte, aggressiva, penetrante, identica alle grida dei disperati che venivano ingoiati dagli inferi - uno scaffale di libri - inutili per Kat, che pur affidandosi all’intelletto di Kathleen non avrebbe saputo leggerli.

La villetta era spaziosa, con stanze ampie e cunicoli in cui stipare carabattole. Porte e finestre si potevano chiudere dimodoché nessuno potesse entrare senza il suo permesso, e la distanza da una casetta all’altra era abbastanza da garantire la privacy.

Kat sorrise con le labbra di Kathleen. Si accomodò contro lo schienale, certa che ancora servisse qualche ora prima di sgattaiolare dal retro e agire.

La magnificenza di quel nuovo mondo la mandava in estasi.

Dopo un’eternità aveva avuto la sua occasione e non l’aveva sprecata.

La notte di Samhain. L’anniversario della notte in cui era stata trucidata. Proprio la notte in cui, chissà quanti anni prima, i suoi compaesani avevano intonato peane alle orecchie degli Déi per maledirla, per assicurarsi che i numi incatenassero la sua anima di polvere e la conducessero nell’Annwn assieme ai mostri e ai fantasmi, lontana dal Tír na nÓg dove le sue piccole vittime avevano raggiunto la pace.

Gli Déi dovevano averli ascoltati.

Kat era stata imprigionata, legata con corde di cuoio e arsa al centro del falò più grande del villaggio. Tutti, tutti l’avevano vista bruciare tra le fiamme sacre della Fleadh nan Mairbh, la Festa dei Morti. I bambini - quelli che erano sfuggiti alle sue mire - si erano divertiti a tirarle le ossa dei bovini macellati e dare un punteggio in base alle parti del corpo che avevano colpito. Intorno a sé Kat aveva percepito le presenze degli spettri trapelati nella dimensione dei mortali, udendo i loro canti. Canti di scherno.

Gli spettri sapevano cosa sarebbe accaduto. Gli spettri avevano sbirciato oltre lo specchio per guardare dabbasso e avevano spiato le conversazioni degli Déi, avevano visto il male che Kat aveva sparso nel villaggio come una peste virulenta, e avevano riso, perché gli spiriti maligni avevano un’unica dimora, e Kat stava per raggiungerla. Per sempre.

Kat era morta nell’agonia. Come se Belisma, la dea del fuoco, avesse convertito le lingue di fuoco in fauci rabbiose per dilaniarla poco a poco, era stata divorata con lentezza. Il suo sangue corvino si era sparso lungo le assi e i ciocchi, che avevano guaito ed emanato scintille nel purificarlo. Le sue membra si erano arrese, disfatte, sfilacciate, e quel che di immateriale era rimasto di Kat fu scortato fino alle sponde oscure dell’aldilà.

E lì era cominciata la sua punizione imperitura.

Circondata da altre anime silenti, le cui urla potevano rimbombare solamente al proprio interno, Kat aveva cominciato a provare le pene lancinanti inflitte da Cernunnos, il signore dei morti. Era per lui che gli spiriti maligni divenivano ciechi. Lui, immerso nel suo fulgore abbacinante, nella sua grandiosa gloria, accompagnato da lampi di luce che trapassavano e torturavano tanto insostenibile era il loro splendore violento. Appariva, scompariva, sottoforma di fuochi d’ossidiana e incendi dei colori dell’ambra. Catturava, ghermiva, instillava nelle anime la sofferenza primordiale, il terrore, la schiacciante consapevolezza che il dolore assoluto si sarebbe reiterato, rinnovato, profuso, ancora, ancora e ancora. Fino a che il caos avrebbe estinto fino all’ultima spera.

Kat, al pari di chi l’aveva preceduta e di chi era giunto in seguito, aveva sputato quel poco di umano che le era rimasto. D’altronde, le aveva sussurrato Cernunnos - sarcastico e compassionevole all’unisono - di umanità Kat ne aveva posseduta a briciole anche quando ancora respirava.

Qualcosa tubò intorno a Kat, facendole drizzare la spina dorsale dalla sorpresa. Ma si rilassò nell’immediato, quando rammentò che si trattava di un orologio a cucù. Invenzione insulsa.

Il verso del cuculo le ricordava le colline morbide macchiate di tenebra, il vento che sibilava tra le fronde canterine, le soglie delle foreste intricate, i bramiti dei cervi. Ognuno dei quali avrebbe potuto essere Cernunnos nella sua forma forastica.

Lanciò un’occhiata alla finestra, velata dalla tenda color melagrana. Scrollò la testa. Inutile farsi prendere dal panico.

Era riuscita a fuggire dall’Annwn, un’impresa ritenuta incredibile, impossibile, inconcepibile. Quella era la sua rivalsa nei confronti degli Déi, della dimensione caduca, di chi l’aveva maledetta, di Cernunnos stesso. Aveva sfidato la sorte, e la sorte l’aveva fatta uscire vincitrice.

Halloween, lo chiamavano adesso, in quel posto. Halloween, il Samhain, la congiunzione astrale in cui lo scudo di Skathach si sollevava, e la membrana che divideva il terreno dall’ultraterreno si dissolveva, per permettere agli spiriti - quelli buoni - di tornare a far visita ai loro cari.

Kat aveva colto l’attimo.

L’attimo in cui le divinità erano distratte dai falò in loro onore, l’attimo in cui la natura cadeva nel sonno dell’inverno, l’attimo in cui Kat aveva racimolato le schegge di odio e ne aveva tratto energia sufficiente per infilarsi in uno squarcio grande quando il decimo di uno spillo. Era stato un azzardo, un azzardo che avrebbe potuto costarle castighi atavici ben peggiori di quelli a cui già era condannata.

Ma c’era riuscita. Il miracolo era avvenuto, e la sua anima aveva schizzato nella fredda aria della notte alla ricerca di un ospite che potesse proteggerla dal passato. Kathleen era stata sfortunata. Kat aveva strisciato rasoterra come una saetta, un refolo di vento gelido dall’odore di zolfo e ozono, e la cecità quasi totale l’aveva fatta scontrare col primo corpo presente sulla sua traiettoria, rendendolo l’astuccio adatto per nasconderla, accoglierla, rigenerarla.

Non aveva idea di dove fosse finita l’anima di Kathleen dopo che l’aveva scalzata dal suo castone originale. I minuti che avevano seguito la sua installazione erano divenuti frenetici, una miriade di presenze assiepate intorno l’avevano confusa e spaventata, lo stridore, i rumori, le sensazioni che credeva dimenticate, e un surplus di informazioni intellettive automatiche che le si erano riversate all’interno l’avevano rintronata. E subito dopo era arrivato lo svenimento.

E dunque, qui.

Il suo ritorno.

La bocca di Kathleen riprodusse un sorriso compiaciuto.

Se quel pomposo arrogante di Cernunnos avesse saputo. Se i suoi antichi concittadini avessero saputo. Se coloro che avevano levato il suo nome in un anatema nello stolido tentativo di appassire la sua indole avessero saputo.

Chissà quale sapore avevano, i bambini del duemila.

Buoni, sperò. Certo non peggio degli insondabili pasticci di carni frolle con cui le vicine le avevano riempito il frigorifero. Più difficili da attirare rispetto ai suoi giorni, ma le nozioni ereditate da Kathleen le avevano regalato una minuziosa panoramica del paese e dei dintorni, e Kat aveva già pianificato il suo primo vero pasto.

Si alzò, si accostò alla finestra e sbirciò - ci provò - fuori.

Buio. Un buio fasullo. Un buio contaminato da eccessive luminarie che tinteggiavano l’orizzonte di una sfumatura grottesca, insana, simile alla marcescenza dei funghi. Ma non importava. Kat sarebbe sgusciata dal retro, attraversando il giardinetto secondario, e avrebbe costeggiato il sentiero pedonale fino ad allontanarsi a sufficienza dal centro abitato. Poi Kat avrebbe corso.

Si augurò che le facoltà che l’avevano contraddistinta in vita non fossero evaporate con le sue ultime lacrime.

Risistemò la tenda e andò in cucina. Tastò i ripiani di granito satinato - Maddy si era dimenticata di asciugare diverse goccioline qua e là - e incontrò il legno del portacoltelli. Afferrò l’impugnatura più grande, quella in alto a destra. Quando la estrasse, la lama emise un tintinnio rapido, malizioso, che prometteva di entrare nelle carni con facilità estrema come se penetrasse burro.

Posò il coltello sul bancone a isola e si chinò alla ricerca di ciò che le serviva, frugando tra le ante. La cucina non aveva segreti. Il contenuto della testa di Kathleen conduceva le sue mani che fungevano da occhi, e il tatto - il tatto, che senso meraviglioso da riassaporare - correva in suo aiuto.

Recuperò uno straccio di stoffa in cui avvolse il coltello, e cinque sacchetti neri della spazzatura. Plastica. Plastica che Kathleen aveva disprezzato e che cercava di usare il meno possibile perché inquinante, superflua e derivante dal petrolio. Kat non andava per il sottile.

Dubitava che qualcuno la maledicesse al nuovo idolo chiamato Dio perché non usava materiali biodegradabili.

Si sollevò e andò ad aprire la credenza. Le fette di torta potevano essere una buona tentazione, ma erano pasta bagnata di creme o meringa, sarebbe stato difficile gestirle senza sporcarsi, o sporcare il sito in cui sarebbe andata. Perciò optò per il sacchetto di velluto fucsia, regalo di Tobey di quando era andato a farle compagnia in ospedale. Conteneva confetti colorati al latte e cacao, bonbon e una barretta di cioccolato al caramello, e bastava allentare il laccio nero perché arrivasse alle narici l’aguzzo profumo di zucchero.

Molto bene.

Mise il tutto in un altro sacchettone di plastica nera, sicura che fosse abbastanza grande. Era la sua prima sortita nel mondo moderno e i rischi di per sé erano alti, avrebbe proceduto con estrema cautela in qualunque mossa.

Portò il sacco vicino alla porta che dava sul retro e tornò in soggiorno per spegnere le due lampade a stelo. In corridoio coi polpastrelli cercò il terzo interruttore vicino all’attaccapanni, e lo premette. Sapeva che il lampioncino accanto all’ingresso si era acceso, tacito segnale che l’occupante della casa si era ritirata a dormire. Era così che si faceva, nel quartiere. Chissà perché.

Cosa indicava, nel linguaggio che legava gli abitanti di quella zona? Era un decoroso invito a non disturbare? Era informare il resto del branco che si aveva abbassato la guardia? Era una modesta manovra per tenere lontani innominati pericoli provenienti dall’oscurità? Sciocchi.

Gli umani ancora non avevano compreso che più era forte il bagliore, più era densa l’ombra che vi si assiepava dietro.

S’infilò una giacca a vento consumata - così la rammentava Kathleen - e sacco in spalla uscì nella notte.

La neve si era sciolta e formava qua e là chiazze macchiate di fango e cicche di sigaretta, l’erba era folta e corta, catramosa sotto il riverbero incostante del lampione attiguo al percorso pedonale. Il vento di quel novembre odorava di fumo. Non il fumo buono, saporito dei ciocchi di legna che ardevano nei camini di pietra, ma fumo sporco, caustico, puzzolente. Kat pensò che sarebbe stato terribilmente facile trovare carne fresca.

Scavalcò lo steccato lucido, cominciando a testare la coordinazione tra i muscoli della scomparsa Kathleen e l’agilità della sua anima che penetrava fino ai tendini. Qualche dolorino, un cigolare di ossa, ma a Kat sembrò che le premesse fossero ottime.

Scivolò lungo il lieve pendio oltre il percorso pedonale, asfaltato e illuminato da una serie di lanterne dai grotteschi bagliori aranciati, e si allontanò quel tanto che bastò per rendersi invisibile nello sfondo della terra bruna. Era tardi per i suoi vicini, ed era certa che lì, durante le notti di quella che loro definivano settimana lavorativa, nessuno si affacciasse alla finestra, né tantomeno sarebbe stato in grado di distinguere la sua figura sfuggire rapida come una biscia d’acqua.

Ma non voleva incappare in inutili rischi.

Tanto sapeva che prima o poi di sospetti ne avrebbe sollevati anche troppi.

Prese a correre. Dapprima con un passo sostenuto, verificando la pesantezza del proprio passo, il rumore che produceva calpestando brullo terreno sopito, le foglie secche che si libravano grazie allo spostamento d’aria derivato dai suoi movimenti. Poco a poco aumentò la velocità, per gradi, per essere certa che il fisico umano di Kathleen non cedesse d’improvviso.

Quanto sarebbe passato prima che gli amici e le amiche, i familiari, i conoscenti di Kathleen si accorgessero che il suo volto stesse subendo una trasfigurazione?

Kat aveva una chiara istantanea di come era stata la Kathleen precedente lo scambio. Capelli castani, lisci e lunghi fino alle scapole, con qualche fastidiosa doppia punta che la tormentava nei cambi di stagione. Un viso ovale, guance morbide, piene ma non rotonde, che convogliavano su una bocca piccola, dalle labbra di una graziosa tonalità corallo, dall’identica carnosità. Un naso ordinario e carino, delle proporzioni e della forma giuste perché non lo si considerasse ma lo si trovasse piacevole nel caso vi si focalizzasse l’attenzione. Occhi scuri, un po’ bovini, languidi, marrone sul genere del cioccolato fondente, ciglia corte e rade - motivo per cui Kathleen acquistava in continuazione prodotti che garantivano di proteggerle e stimolarne la crescita - e sopracciglia ad arco dolce.

Il suo volto era l’emblema della normalità. Della gentilezza, della femminilità, del cuore buono.

L’anima di Kat presto o tardi avrebbe modificato quei tratti fino a far emergere la malignità da sotto ogni poro.

Gli zigomi avrebbero assunto un impercettibile aspetto affilato. La fronte sarebbe diventata tesa, traslucida, sinistra. Le pupille avrebbero perso la lucentezza satinata, sostituita da un lucore dai riflessi paglierini, verdastri. Il sorriso si sarebbe trasformato in un taglio da cui sarebbe colata fiele. Sarebbe stato, probabilmente, un mutamento graduale, implicito, intrinseco. Nulla nei connotati di Kathleen sarebbe cambiato davvero, ma ciò che gli altri avrebbero notato sarebbe stato il male. Cattiveria untuosa, crudeltà celata, freddezza, ipocrisia. Un mostro.

Si sarebbero accorti che Kathleen non esisteva più. Non avrebbero compreso le dinamiche, le cause, come e quando fosse successo di preciso, ma avrebbero capito.

E Kat avrebbe dovuto sloggiare in fretta, sparire e divenire una nomade, sostare di città in città il tempo necessario per cibarsi a sufficienza prima che chi le stava intorno scoprisse la sua essenza.

Ma quello sarebbe venuto dopo. Adesso Kat aveva la situazione sotto controllo. E stava per mangiare.

Filava, sfrecciava, era uscita dai confini urbani e si era immersa in una sorta di abbozzo di campagna che più che vedere riconosceva: oltre la patina opaca intuiva sconfinati campi che si dilatavano spogli, solcati da sentieri di ghiaia e terra battuta che conducevano in recessi di cui solo i proprietari conoscevano l’utilizzo. I lampioni erano terminati.

Kat aveva tirato dritto ove il percorso pedonale curvava per ripercorrere la circonferenza del paese, procedeva a lato di una strada larga quanto le due corsie non segnalate da alcuna riga; alberi storti ad alto fusto spuntavano da fossi e canali, le erbacce le frustravano le caviglie quasi volessero fermarla.

Le case erano rade, isolate ed enormi, e la maggior parte di esse erano rischiarate a giorno da faretti puntati sulle facciate che le facevano somigliare a imponenti idoli pagani dalle larghe bocche di vetro.

Kat calcolò che doveva aver percorso venti, trenta miglia, secondo l’unità di misura in uso. Era abbastanza lontana da dove risiedeva per non dare adito a dubbi.

Rallentò, allentando la presa sul sacco che aveva tenuto saldo contro la spalla perché non sbatacchiasse il contenuto. Annusò i refoli e le correnti. Colse l’odore.

L’odore peculiare dei bambini non era definito da un vocabolo specifico nella lingua dei mortali. In quella degli spiriti ne aveva tre.

Uno identificava un neonato respirante da non più di due stagioni, e il termine serviva a esaltare la sofficità, il candore, la mollezza, la purezza incontaminata, candida ed essenziale, e la scioglievolezza dell’anima delicata come neve.

Un altro era generico, si riferiva al fanciullo, a una sfera dai confini imprecisati in cui rientravano le creature il cui organismo non aveva ancora virato all’età adulta né aveva avviato il processo, pertanto la sua aura era incontaminata, energia incandescente, plasmabile.

Il terzo rievocava un piccolo selvaggio, un infante che manteneva le sue caratteristiche eteree, incorrotte, sacre, ma al tempo stesso vi associava una comunione col selvatico, col primitivo e animale, quasi si trattasse di un cucciolo di cinghiale trasformato in pargolo.

Era di quel terzo, che Kat aveva colto l’odore.

Era flebile, mascherato dall’acidità del sapone, ma non si sbagliava.

Camminò all’erta, seguendo la scia olfattiva e pronta a qualsiasi imprevisto. Non c’erano presenze, nei dintorni, solo la desolazione di una morte apparente, un silenzio atterrito - più atterrito di quanto non lo fosse stato all’epoca in cui Kat aveva vissuto - e nemmeno le stelle a testimoniare il suo crimine.

Giunse nei pressi di quella che somigliava a una fattoria dismessa. Il grande caseggiato principale era circondato ai lati da maestosi cespugli di rovi cresciuti all’inverosimile, ricoperti a loro volta da dita di vite selvatica che aveva raggiunto il tetto. Le finestre avevano perduto i vetri, sostituiti da plastica, forse cartone. Kat avanzò muta, senza dimenticare l’obiettivo.

Kathleen non aveva registrate informazioni sull’area, perciò Kat dovette ragionare alla sua maniera. Il podere doveva essere ufficialmente disabitato, oppure i proprietari erano in rovina e stavano retrocedendo sulla scala della aleatoria civiltà di cui facevano parte. Avanzò tra toporagni e rospi che si lamentarono al suo passaggio, e scoprì un altro casolare, minuto, dietro quello centrale. Era una scatola a due piani, di mattoni, stuccata di rosso ed edera velenosa che la ricopriva come una pelliccia che si arricciava agli aliti del vento.

Veniva da lì.

Non c’erano cani. Mano a mano che si appropinquava distingueva un russare forte, discontinuo, e una serie di differenti fonti di calore. Fece il giro della rimessa, spiando all’interno, assottigliando le palpebre per aguzzare quel poco di vista che le necessitava. Il russare proveniva da sopra. Al pianterreno c’erano alcune stanze arredate alla meglio con plausibili scarti e recuperi di discarica.

Il confronto tra quel tugurio e il soggiorno di Kathleen fu spontaneo.

Su un divano scorse delle figure rannicchiate tra i cuscini, sotto coperte simili a tende. Una era del bambino che le stava facendo venire l’acquolina in bocca.

Meditò il da farsi.

Non avrebbe fatto fatica a entrare, fusa con le ombre, scivolare accanto al divano ed eliminare il secondo incomodo, che doveva essere un adolescente. Un adolescente che puzzava di sigaretta dolciastra, sudore muschiato e seme umano. Elementi che facevano di lui un considerevole parassita.

Ma non era il caso. Voleva provocare la minor eco possibile in modo che la comunità continuasse a credere per qualche altra settimana che la dannazione non fosse tornata a spalancare le sue grandi ali telate.

Posò le nocche contro il battente di legno scrostato di una finestra e l’aprì. Se fosse esistito un gancio di chiusura non ve n’era traccia. Distingueva solo sagome, ma bastavano.

Recuperò il sacchetto di velluto di Halloween e allentò il laccio, per disperdere l’aroma mieloso, e bussò contro il legno. Colpi leggeri, persistenti, una sorta di linguaggio morse indirizzato a un’unica persona che poteva captarlo.

Il bambino si rigirò sotto la coperta. L’adolescente stiracchiò le gambe nel sonno.

Kat fissava il bambino, muovendo le labbra senza emettere suono. Non sapeva se gli incantesimi funzionassero, dopo l’aldilà. Non sapeva quanta magia attiva fosse rimasta incollata alla sua anima, pertanto rifletté su come raggiungere il bambino adoperando maniere assai più concrete.

Giusto allora il bambino sollevò la testa.

Kat sorrise col sorriso di Kathleen.

«Ciao piccolo.» sussurrò.

Il bambino era confuso, ma non spaventato. Si sfregò gli occhi per essere certo di non stare sognando. Kat posò sul davanzale macchiato di polvere e scheletri di scarafaggi il sacchetto con i dolciumi.

«Vuoi una caramella?»

Il bambino parve indeciso.

Ondeggiò a destra e a sinistra, e per un istante Kat pensò che si stesse per riaddormentare. Ma infine smontò dal divano, muovendo passi circospetti verso di lei.

Kat prese una caramella, la scartò, s’infilò la carta in tasca e gli porse il confetto ai frutti rossi tenendolo tra indice e pollice. Dita bianche, affusolate, diritte. Dita da fata rassicurante.

Il bambino doveva avere dieci primavere, e per quanto il sopore gli si leggesse in faccia era cauto. Si rendeva conto che la situazione era insolita, potenzialmente pericolosa, e la nenia mormorante che l’aveva svegliato aveva un che di disturbante.

I bambini di oggi erano più furbi che in passato, Kat lo ammise a se stessa.

«Non ti mangio, sai?»

Che frottola clamorosa.

Il bambino le rubò la caramella con un gesto sgraziato e se la infilò in bocca, scappando presso il sofà. Kat lasciò scorrere un minuto per consentirgli di succhiarla e romperla coi denti, arrivando al cuore fluido di succo di amarena. Il sorriso di Kat si allargò in un ghigno che secoli addietro aveva terrorizzato decine di villaggi.

«È buona, vero?» Kat riconobbe un’affermazione inconfessata «Qui ho anche del cioccolato.» Ripeté l’operazione di scarto con un cioccolatino al gianduia.

Il bambino non si fece pregare. Avveduto avanzò squadrando il mezzobusto di Kat che emergeva dalla maschera della finestra, e si appropriò del cioccolatino, stavolta però senza fuggire di scatto.

«Ne ho altri.» cinguettò, dondolando il sacchetto frusciante «Tanti altri.»

Il bambino la fissò con un paio di iridi rotonde, castane, liquide e attente.

«Se vieni fuori te le darò tutte.»

Il bambino storse il naso in un dissenso istintivo. Dovevano avergli detto di non fidarsi. Dovevano avergli detto di non ascoltare gli sconosciuti, di non accettare caramelle da loro, di non assecondarli e correre da un adulto non appena diventavano insistenti.

Ma Kat aveva dalla sua il maleficio. Un sottile filo rosso resistente come una ragnatela, invisibile e tagliente, che per quanto fosse indebolito dall’inattività era in grado di sedurre una vittima e inocularglisi nel cervello. Li attirava fuori dalle loro case intorbidendo la concezione del reale, slacciando le briglie dei sogni in maniera da impedire loro di captare il sentore del pericolo.

Era così che le streghe soggiogavano.

Il bambino tentennò, inclinandosi verso la soglia, mordicchiandosi le unghie perché incerto tra i pro e i contro. Infine, si dileguò nella macchia di tenebra dell’uscio.

Kat sorrise trionfante.

Qualche secondo dopo udì l’erba gelata venire calpestata da minuti passetti insicuri, e il bambino apparve nel lucore rorido della mezzanotte. Indossava una felpa sgualcita, consumata sulle braccia, e troppo grande per il suo corpo, malgrado questo fosse paffuto, sferico, flaccido. I capelli erano una zazzera dal colore incomprensibile, e le mani erano chiuse a pugno. Dovevano anche avergli insegnato come difendersi, in caso di sconosciuti insistenti.

«Ciao.» ripeté Kat, soave. Gli porse l’ennesima caramella nuda, e il bambino non rifiutò. A conti fatti fu facile.

L’adolescente seguitava a dormire sul logoro divano, il russare al piano superiore non aveva subito battute d’arresto, il bambino si era lasciato irretire con un cioccolatino dopo l’altro, mai sazio di quel burro di cacao e olio di palma che Kathleen aveva pensato facessero male a lei e al pianeta.

Certo che di cose che facevano male al pianeta, nell’archivio mentale di Kathleen, ce n’erano moltissime.

Il bambino era caduto in una sorta di trance. Kat gli aveva elargito una manciata di dolci e il piccolo si era chinato privo di remore, ormai convinto da una generosità improba e da una malia impalpabile quanto subdola che aveva dissolto le sue riluttanze da buonsenso trasmesso da terzi.

Kat intanto aveva afferrato il coltello, massiccio e devoto. La lama emanò una scheggia di luce rapita da chissà dove, e Kat lo strinse, portandolo in posizione verticale.

La vita era rifiorita. Il futuro era un orizzonte di aspettative. Aveva sconfitto la morte, il tempo, gli Déi.

Kat era tornata.

Il polso scattò in un affondo inesorabile.

L’impugnatura colpì il bambino sotto la nuca, sul cervelletto.

Le cadde in grembo col tonfo di un pallone pieno d’aria che sfiatava schiacciato da un’incudine.

 

Sangue. Linfa vitale, saporosa e rinvigorente. Fluido fatato capace di rafforzare pozioni e sanare ferite, di aprire varchi per altri universi e richiamare i numi. Sangue denso come il respiro degli amanti, succedaneo terreno dell’anima intangibile, che conteneva fin nell’ultima goccia il potere indescrivibile dei segreti del creato. Sangue portatore di messaggi, catalizzatore dell’essere, rivelatore di incubi e illusioni.

Kat non trovò nulla di più degno per contenerlo di una serie di vistose bottiglie di cristallo.

Le rimembranze di Kathleen le facevano risalire a una vacanza in Italia, a Venezia, dove lei e Sunny le avevano acquistate perché attratte dai riflessi iridati, dai colori splendidamente disomogenei, dalle forme irregolari e uniche nelle imprecisioni. Erano più adatte per contenere liquori semitrasparenti, o meglio, per punteggiare una vetrina ed essere godute nella loro inutile bellezza.

Ma erano preferibili alle desolanti bottiglie con tappo a vite.

Kat sciacquò il vetro multicolore sotto il getto d’acqua e posò l’ultima bottiglia nella cassetta di plastica rossa dov’era l’altra dozzina che aveva riempito, pronta per essere portata nello scantinato fresco, in un angolo buio e nascosto dove nessuno aveva interesse di controllare.

Fu il turno del coltello a seghetto di essere ripulito, e le pareti smaltate della grande vasca in lavanderia si macchiarono di goccioline rosa e blu. Con una spugna si premurò di nettare le scanalature delle scaglie, disinfettando con una punta di detersivo per piatti. E intanto sorrideva.

Sorrideva perché il ventunesimo secolo le stava piacendo.

La società benpensante, volta al positivo, la sua ottusa certezza dell’intoccabilità dell’essere umano, la rendeva un bersaglio facile e ilare. Nessuno si rendeva conto di essere nulla di più di una preda. Le persone erano convinte di appartenere a un ordine superiore, dominante, non solo capace ma eticamente autorizzato a voler comandare le forze che riteneva ai suoi ordini. Erano così presuntuosi, vanagloriosi, ingenui.

Quanta ingenuità c’era nell’infantile credenza di essere sacri.

Come avrebbero reagito gli abitanti del quartiere, come avrebbe reagito la stessa Kathleen se assieme ai suoi amici si fosse accorta d’un tratto che esistevano forze, flussi, identità per i quali uomini e donne erano niente se non una massa indistinta di fragili insetti senza qualità? Come avrebbero reagito all’arrivo di circostanze che li avrebbero costretti a rivalutare le loro insulse vite e a combattere per esse gli uni contro gli altri? Avrebbero combattuto?

Oh, Kat era certa di sì. Era certa che gli umani fossero più bestie ora che allora. Si nascondevano dietro religioni in cui veneravano feticci nati dai propri pretesti, avevano inventato griglie al cui interno intrappolare sentimenti per poterli scegliere con comoda opportunità. Si vestivano di una civiltà apparente, instabile, e quando l’ideale di equilibrio fittizio veniva rotto ecco che governava la paura.

Non erano capaci di affrontare la responsabilità del vivere. Della simbiosi, dell’imprevedibile, dell’effimero, nel corso dei secoli avevano rifuggito l’idea di essere transeunti, provvisori, passeggeri. E di scarso valore.

Credevano di essere speciali, prescelti, inviolabili.

Ma erano soltanto miseri mortali.

Kat asciugò la lama e riportò coltelli e utensili utilizzati nei cassetti in cucina. Nettò con generoso sapone le spugne adoperate e con l’ultimo straccio ripassò ogni superficie - aiutandosi con l’olfatto per scovare la minima traccia di sangue - per poi gettarlo all’interno di quel mostro ondeggiante della lavatrice. Le vicine che si davano il cambio in casa sua erano lavoratrici e casalinghe attente, dittatoriali, implacabili, ponevano domande pari al numero di granelli di polvere trovati sotto il letto o di capelli sul fondo del lavandino, figurarsi il coro di nenie che si sarebbe levato se fossero incappate in un fluido corporeo.

Seguendo le indicazioni cerebrali di Kathleen, Kat caricò e accese l’elettrodomestico che avrebbe cancellato le tracce visibili del suo delitto. E fu soddisfatta del risultato della spedizione.

Il freezer - quello grande in cantina - aveva accolto le membra spezzettate dello zingarello. Aveva ricoperto il fondo ghiacciato coi sacchetti trasparenti che contenevano accurati brandelli dei polpacci e delle cosce, la carne molle del ventre e del busto era servita per confezionare diversi pacchetti, le due file di costole erano riposte in un vassoio di plastica dura. Mani e piedi erano stati riposti insieme, spogliati ovviamente delle unghie, che erano state infilate in un sacchettino e unite ai visceri interni, alla lingua e ai bulbi oculari, di cui Kat doveva ancora decidere cosa farne.

A suo tempo il ruolo che rivestivano era quello di ingredienti necessari per miscele, filtri oppure evocazioni, sacrifici o richieste di oracoli, ma non era sicura della fattibilità di simili manovre, oggi.

Li aveva comunque conservati al freddo, e dunque aveva coperto i sacchetti con quelli recuperati dal congelatore in cucina, contenenti polli, tocchi di manzo, bistecche e verdure tagliuzzate.

Tante precauzioni forse superflue - secondo Kathleen era l’unica a sapere dove fosse la chiave per la cantina, ma Kat per sicurezza aveva scovato una nicchia invisibile al piano superiore dove l’avrebbe depositata - ma l’ordine e la prevenzione erano stati alla base della sua longevità, prima che i bifolchi avessero scongiurato le forze divine per fermarla.

Portò la cassetta delle bottiglie nello scantinato, incastrandola tra la parete e un vecchio armadio dalle ante tarlate. Risalì e chiuse l’uscio, infilandosi la chiave in tasca. Abbandonò la lavanderia, con le fusa confortanti della lavatrice che diventava sua complice.

Tornò in cucina. Aveva acceso una delle lampade a stelo e aveva mantenuto bassa l’intensità della luce, perché si adattasse alla sua vista spossata.

Ora si voleva concedere il piacere della sua caccia. Il raccolto dolce di una resilienza insperata, un gesto benaugurante per propiziarsi un futuro fecondo, fortunato e ricco.

Si accostò al lavello, dove lì accanto aveva posato una ciotola con l’unico organo troppo prezioso per non essere subito gustato.

Strinse le dita intorno ai tessuti muscolari ancora viscidi, percependo le nervature, il setto che divideva le due cavità, i rilievi e le grinze. Il cuore era morbido. Proporzionato al proprietario, abbastanza piccolo da stare nella culla del palmo, di consistenza soffice ma resistente, turgido. Il fulcro, l’essenza tangibile, il vettore che pompava il sangue e lo bilanciava, ubbidendo a regole ancestrali, assiomatiche, e sopportava l’inevitabile consumarsi organico con scrupoloso stoicismo.

Fragile e straordinario al tempo stesso.

Vita e morte racchiuse in una mano.

Kat abbassò le palpebre e inspirò. Addentò il cuore con voracità.

Era friabile, cedevole, carnoso e rorido. Sulla lingua si trasformava in zucchero filato - era la sensazione che il corpo di Kathleen evidenziò - sotto i denti la compattezza diventò un nettare viscoso, una pasta di carta velina commestibile che aveva il sapore della fanciullezza, macchiato da una vena di giovane cattiveria che lo rendeva amarognolo e sapido.

Stille scarlatte gocciarono sull’acciaio nel lavandino, colando prima di condensarsi in lunghe lacrime nere. Kat si godette il pasto, indugiò su ogni morso deliziandosi nella vastità dei suoi gusti, schiudendo poco a poco lo scrigno che custodiva la sintesi massima dell’essere che era stato. Sentimenti allo stato puro. Sentimenti grezzi, insiti, schietti, i sentimenti di chi era sprovvisto dell’adulta corazza del conformismo e del criterio ma che si orientava condotto dall’istinto mero e corrosivo, scintillante e autentico. Sentimenti pigri, volitivi, travolgenti, sfrenati, viziati, esplosivi, petulanti, esaltanti, bellissimi, feroci, amorevoli, possessivi, sentimenti che avevano trovato dimora tra un ventricolo e l’altro e avrebbero pulsato nelle vene fino a che queste non si fossero deteriorate.

Se Kat non avesse stabilito di essere la sacerdotessa di quella gemma.

Lo mangiò onorata ed emozionata. Il sapore di quel bambino sarebbe stato per sempre associato alla sua rinnovata libertà.

 

Prima dell’alba veniva la tenebra. Tenebra densa, catrame dai riflessi lignei e argentati, che era palpabile, rarefatta, quasi viva. Era tenebra viva.

Pochi uomini se ne accorgevano.

Si compattava intorno alle fonti di luce quando scomparivano gli astri e le opprimevano, le strozzavano riducendole sino a renderle lumi foschi che aumentavano le distanze a dismisura. Era la dimensione alternativa, il non-luogo che generava i mostri che uscivano da sotto i letti, da dentro gli armadi, da oltre gli specchi.

Nessuno, per inciso, che potesse competere con Kat.

Ma l’eco che Kat udì non era causato dai mostri.

Si sollevò dal divano su cui si era assopita e allertò i quattro sensi attivi. Il sesto era sfasato, ancora disorientato per funzionare a dovere in quel mondo.

Kathleen avrebbe osservato che fosse insolito che qualcuno fosse in giro tanto presto. I giornali venivano consegnati abbondantemente passata l’alba, troppo presto per qualsiasi studente, troppo tardi per un ladro. E i lattai erano fuori moda da decenni.

L’orologio a cucù cinguettò quattro volte, gelando il respiro di Kat.

Zoccoli.

Si alzò circospetta, sfidando l’udito a percepire anche il più insignificante suono. Non era facile. Non era facile col ticchettio di un’eccedenza di orologi, col ronzio di tanti elettrodomestici, col gorgogliare stramazzante dei tubi dell’acqua. L’era moderna era così caotica.

Avanzò a piedi nudi nel soggiorno, approssimandosi alla finestra di lato, nel tentativo di sentire qualcosa che trapassasse gli infissi. Quello era un momento in cui la vista le sarebbe stata utile.

Rimase in immobile attesa per una manciata di minuti, domando il battito del cuore di Kathleen che era salito in gola. Forse era stata la sua immaginazione, o forse - più plausibile - era stato un residuo onirico di Kathleen ad averla colta di sorpresa.

Perché proprio zoccoli?

Era assurdo.

«Che gradevoli sembianze ti sei scelta per fuggire.»

Kat si appiattì contro lo stucco del muro, incredula.

Dal corridoio apparve un uomo, alto, elegante, dai corti capelli fulvi.

«Cernunnos.» sibilò. Avrebbe sputato se solo le fosse rimasta saliva in bocca.

«È una grande emozione essere ricordato.» sorrise. Kat non lo vide, ma sapeva.

L’odio che le squarciò il fegato avrebbe potuto avvelenare interi popoli.

«Che sei venuto a fare?» ringhiò. E intanto accumulava, accumulava le energie che il sangue e il cuoricino del bambino le avevano donato, accumulava la forza necessaria per rinvigorire i suoi poteri e strapparsi finalmente dal giogo dell’aldilà. Le serviva tempo.

«Il permesso è revocato, Kat.» rispose Cernunnos, con quella voce che era una cantilena, irridente, seducente e profonda «I tuoi sodali sentono la tua mancanza.»

«Di’ loro che possono venire a trovarmi quando li aggrada.»

Cernunnos rise. Perlomeno coglieva l’umorismo, al contrario della maggior parte degli Déi.

«Immagino tu non sia propensa a ritornare con le buone.»

«Nemmeno con le cattive.» Credeva di averla fatta franca. Credeva che la sua fuga fosse stata invisibile, impeccabile, credeva che Cernunnos non sarebbe riuscito a ritrovarla, nascosta nelle carni di una ragazza qualunque.

Ma non gli avrebbe elargito la soddisfazione di ammetterlo.

Cernunnos si mosse senza fretta. Avanzò pacifico, accomodante, come se fosse in visita, come se fosse venuto per osservare la libreria. La rabbia di Kat moltiplicò, montò cavallone su cavallone, vergandosi di ira e disprezzo.

Il Dio si comportava come se Kat non fosse una minaccia, ma nient’altro che un esserino da tenere a bada. La sottovalutava considerandola una facezia, innocua e inerme di fronte alla sua maestosità. Kat fremette di furia.

Non c’erano i sudici villici a incatenare le sue magie con ripetuti riti antichi, non c’erano pire sacre su cui immolarla, e lei non era ridotta alla fame. Lei era sazia, nelle vene di Kathleen scorreva l’ingrediente miracoloso che aveva reso immortali generazioni di streghe e spettri. Cernunnon non poteva batterla.

Non poteva fermarla.

«Immagino tu non abbia preso bene la mia evasione.» gli fece il verso. Un velato insulto.

Cernunnos non disse nulla per qualche secondo. Kat pensò di averlo punto nell’orgoglio.

«Una scocciatura che avrei preferito evitare.»

Kat incassò l’essere definita una scocciatura con freddezza.

«Constato che la tua boria non ha subito modifiche.»

Cernunnos ripeté la risata.

«Di solito mi precede.»

L’oscurità del salotto si dissipò grazie a un lampo aranciato, cui seguì un’esplosione in cucina che fracassò tutto ciò che era visibile dalla soglia. Cernunnos l’aveva schivato.

Il Dio guardò prima il locale devastato, le stoviglie cadute dalle ante distrutte e la lavastoviglie sfondata, poi Kat.

«Costerà una cifra immonda riparare questo disastro.»

Kat scagliò l’ennesimo dardo, che provocò una spaccatura al muro portante, e si gettò in avanti per attaccare Cernunnos a mani nude. Gli incantesimi avevano un effetto dirompente se lanciati a contatto con la vittima, e Kat sarebbe stata disposta a baciarlo pur di trasformargli i visceri in pietra e lo spirito in melma. Cernunnos indietreggiò verso l’interno della casa.

«Il dio dei morti che scappa dinnanzi a una disgraziata fattucchiera? Quale onta per la sua grandezza!» urlò Kat.

Si sentiva invincibile. Si sentiva la Kat di un tempo. Il cambiamento, la mutazione che aveva ipotizzato sarebbe avvenuta nel corso di mesi oppure anni stava sopraggiungendo. Avvertiva le scie di potere solcare la pelle, i muscoli e le ossa, aghi di spillo la trapassavano, formavano impercettibili, innumerevoli strade per arrivare all’anima e congiungere due parti nate divise, e un filo stregato stava cucendo una persona nuova che Maddy e le amiche di Kathleen non avrebbero identificato.

Poco importava.

«Affrontami se ne hai il coraggio!» strillò in direzione di bordi sfocati «Dopo tante belle parole non hai l’ardire dello scontro? Sei apparso per dileguarti con i palchi di corna abbattuti?»

Avrebbe abbattuto lui, il dio dei morti, per dare una lezione magistrale a quelle ridicole divinità buone solo a sghignazzare, accoppiarsi e farsi riverire da miserabili umani. Avrebbe fatto germogliare le spore del male nel nuovo mondo e avrebbe fatto capire a quegli sciocchi mortali che la loro esistenza aveva la medesima rilevanza di quella di una formica. Avrebbe rapito e ingoiato i loro fanciulli e gli avrebbe fatto capire che la giustizia, terrena o divina che fosse, era di pietra, ed era sorda, cieca, muta.

«Avanza e combatti!» Le corde vocali, non abituate a sostenere il tono di voce gracchiante e corrosivo di Kat, vibrarono tanto da dolere «Cernunnos

«Povera, sciocca, creatura.»

Alle spalle.

Kat si voltò di scatto, decisa a troncargli la testa.

Ma Cernunnos le strinse una mano intorno al collo, appose pressione e la issò fino a che solo le punte dei piedi restarono a contatto col pavimento.

Kat ansò presa alla sprovvista, ma reagì presto. Gli afferrò il polso, il braccio, piantò le unghie convogliando l’essenza mera dell’energia, la sentì fluire rapida, traboccante, inesorabile, bruciante e letale. Augurò a Cernunnos una morte lenta, agonica e interminabile.

Peccato che fosse a lei che il fiato mancava.

E Cernunnos, malgrado la magia bestiale da cui era investito, non mostrava alcun cedimento.

Kat serrò i denti, concentrandosi e resistendo. Dov’era finita la libertà?

«Povera Kat.» Il Dio emise un sospiro, di scherno, caritatevole. Allentò la presa per restituirle un briciolo di ossigeno «Quanta innocenza deve possedere il corpo che hai rubato. Ne sei stata contaminata.»

Kat ci riprovò. Convogliò gli influssi e percepì una massa compatta scaturire dalla propria anima. Ma non funzionava. S’infrangeva come un’onda contro una scogliera di pietra, cozzava con veemenza ma il risultato altro non era che spuma scintillante e polvere argentea.

«Una lode per la riuscita del tuo proposito, te lo concedo.» I contorni del viso di Cernunnos si fecero via via distinti, precisi, chiari. La vista si acuiva. E Kat poté osservare il suo sorriso, le efelidi da eterno fauno, i capelli ramati e sfavillanti come il manto di un cerbiatto.

Gli graffiò il polso, lo scorticò, si agitò scalciando e grugnendo. In trappola.

La verità emerse dai recessi di Kat come un cadavere vomitato dai flutti.

«La vacanza è finita, Kat.» disse Cernunnos, con la sua bella voce nitida, elegante, padrona «La tua punizione no.»

Kat boccheggiò. Terrorizzata.

Era un terrore avito, archetipico, esiziale, un terrore sbocciato da un seme che Kat aveva tentato di strapparsi di dosso da sempre, con esito negativo. Un terrore che le rammentò i risolini degli spiriti la notte di Samhain di un’eternità precedente, le risate dei contadinotti e dei pastori oltre il cerchio del falò, il dolore lacerante e insostenibile che la spaccava dall’interno.

Il terrore di sapere che non c’era scampo.

Il suo grido incrinò ogni singolo vetro presente nella dimora di Kathleen, mentre dalla sua epidermide prendeva a levarsi un lieve fumo nero, nero come pece, nero e acre come l’ardere del metallo.

Kat notò che le iridi di Cernunnos erano della tonalità delle foglie a tarda primavera. Prima che i bulbi oculari le si sciogliessero, e le fiamme entrassero.

 

«Giusto cielo, è stato terribile!»

Alice Presnell si sedette sul sofà a motivi floreali del suo salotto, abbracciando la tazzina con le dita e scuotendo la testa.

«La casa ha bruciato per un giorno. È mai possibile? Ventiquattro ore perché i Vigili del Fuoco riuscissero a spegnere quell’orribile incendio!»

Bevve un sorso di tè giallo - raro, costoso, raffinato e di spiccata morbidezza al palato, riservato per ospiti importanti - e sfoderò la sua migliore espressione addolorata.

«La piccola Kathleen... È una tale tragedia...»

«Un vero dramma.» convenne l’ospite in questione, contrito ma non pietoso. Un cordoglio opportuno e moderato. Alice si ripromise di parlargli della nipote «Si sono almeno scoperte le cause dell’incendio?»

«Oh, no, pare sia impossibile stabilirlo con certezza.» Come le piaceva usare quella frase. Così professionale e intrigante, da telegiornale delle sette «È bruciato tutto, non è rimasto nulla di riconoscibile. Le pareti, i mobili, la cantina... il corpo della povera Kathleen... persino le fondamenta!» Scosse la testa di nuovo, bevve un sorso di nuovo «Cose da non credersi.»

L’ospite, il bel giovanotto dai corti capelli bronzei, annuì con discrezione sorbendo il tè.

«È triste come a volte la sventura si accanisca su una persona.»

«Ha ragione. Pensi che qualcuno - sicuramente un sempliciotto con poca voglia di lavorare - aveva addirittura ipotizzato che fosse stata Kathleen a dar fuoco a tutto, disperata dalla perdita della vista!» Fissò il giovanotto con aria scandalizzata. Lui le sorrise di rimando. Un delicato cenno per farle intendere che ascoltava «Ma questo non è possibile, Kathleen non l’avrebbe mai fatto! Per fortuna i Pompieri hanno detto che con molta probabilità si è trattato di un guasto elettrico che ha interessato l’intero impianto. Partito dalla lavatrice, sembra.»

Quella spiegazione gliel’aveva fornita Neil, l’ingegnere, e Alice l’aveva imparata a memoria. Non aveva voluto farsi cogliere impreparata.

Il giovanotto assentì con aria greve, seduto composto e con le gambe accavallate.

«E lei?» continuò Alice, celando il sorrisino dietro la fine porcellana «Si fermerà per molto?»

Il giovanotto le fece un altro sorriso.

«Purtroppo no, signora Presnell...»

«Alice, la prego.»

«Purtroppo no, Alice.» Un altro cenno d’intesa «Il mio lavoro è terminato proprio qualche giorno fa, ed è ora che torni a casa. Non posso lasciare i miei doveri sulle spalle di altri.»

«È ovvio. Però che peccato.» Alice era affranta da non avere la possibilità di organizzare nulla con Mary Geraldine. O di non essersi mostrata alle amiche del gruppo della domenica in compagnia dell’aitante giovanotto.

«Non si preoccupi, può darsi che forse ci rivedremo l’anno prossimo, nello stesso periodo.» L’ospite terminò il suo tè e posò la tazzina sul piattino, pronto ad andare.

«Crede che lavorerà ancora in questa zona, l’anno prossimo?» chiese Alice speranzosa.

«Chi lo sa.» Il giovanotto trasse un orologio da taschino di foggia classica, dove sul dorso v’era incisa la sagoma di un cervo, per controllare l’ora «Ogni anno è un’avventura.»

 

 

 

 

 

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Grazie per essere arrivati alla fine e per aver letto questo mio scritto. u.u

Un commentino mi rende sempre felice.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

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