Tutte le
famiglie felici si assomigliano fra loro,
ogni famiglia
infelice è infelice a modo suo.
(Lev Tolstoj)
Severus Piton odiava il Natale.
Odiava le decorazioni ovunque, odiava i fantasmi che fischiettavano
canti natalizi e Pix che ne faceva una cattiva imitazione, odiava l’aria felice
che si formava sulle facce degli studenti nell’ultima lezione prima delle
vacanze.
Ricordava di averlo sempre odiato, anche quando era un ragazzo: voleva
rimanere a Hogwarts tutti i Natali e tutti gli anni era costretto dalla sua
detestata famiglia a tornare a casa per le vacanze.
Gli ultimi anni da studente erano stati i peggiori: nella sua
cittadina non c’era più neanche Lily a tenergli compagnia; dopo la loro lite
alla fine del quinto anno, infatti, la ragazza passava gran parte delle vacanze
a Hogwarts.
Decisamente, tornare a casa era la cosa che più odiava del Natale.
Ma, anche se ormai era adulto, anche se ormai non c’era nessuno che lo
costringeva ad andare da nessuna parte, di tanto in tanto sentiva il dovere di
tornare a trovare la famiglia.
Nel tardo pomeriggio del 25 dicembre si Materializzò in una piccola
cittadina del nordovest, talmente coperta di neve da sembrare quasi graziosa.
Con le mani irrigidite dal freddo, sfilò un foglietto, con su scritto
un indirizzo, dalla tasca del completo babbano che aveva indossato per
l’occasione; lesse il foglietto e, rendendosi conto di essere nella strada esatta,
proseguì a piedi fino al numero 27.
Gli aprì un signore con folti capelli brizzolati e un naso grosso e
adunco:
“Sei arrivato. Ti stavo aspettando, Severus”.
Severus tirò un breve sospiro e disse con voce atona:
“Ciao, papà.”
La casa di Tobias Piton era piccola e angusta. I muri erano ricoperti
da una logora carta da parati verdognola di incredibile squallore e nell’unica
stanza, che fungeva da sala da pranzo, da salotto e probabilmente anche da
camera da letto, l’arredamento era costituito solo da un divano cigolante e da
un ingombrante tavolo con due sole sedie.
“Abbiamo lo stesso spiccato senso dell’estetica, vedo” pensò
con cinismo Severus.
Il tavolo ero completamente ricoperto da scatole di cartone simili tra
loro, che emanavano odore di cibo.
Tobias tornò dalla cucina, dove era andato a prendere posate e
coltelli: “La cena l’ho presa tutta dalla rosticceria all’angolo” disse, con
una vena di imbarazzo nella voce, “costa poco e cucinano abbastanza bene.”
Ridacchiò: “Se non avessero aperto, probabilmente sarei morto di fame dopo una
settimana”.
Severus era consapevole che il padre non sapeva tenere una padella in
mano e per un po’ aveva meditato l’idea di farsi preparare qualcosa da portare
dagli elfi domestici di Hogwarts, ma poi aveva deciso che suo padre non era il
tipo da trovare divertente l’idea di inseguire Pudding Saltellanti per tutta
casa. Per la verità, neanche lui la trovava particolarmente spiritosa.
“Allora, il lavoro come va?” chiese Tobias, quando si furono messi a
tavola.
“Piuttosto bene” rispose Severus.
“Lavori sempre nello stesso posto, in quella scuola…?”
“Sì, Hogwarts” scandì, “ma non mi aspetto che tu ne ricordi il nome”.
Seguì un attimo di silenzio, ma poi Severus decise di proseguire:
“Da un paio di anni mi hanno nominato direttore della Casa di
Serpeverde. E’ il dormitorio dove vivevo da studente”.
Era certo che suo padre non fosse realmente interessato al suo lavoro
di insegnante, come non si era mai interessato molto a tanti altri aspetti
della sua vita, ma era la prima volta che lo rivedeva da anni e Tobias sembrava
aver voglia di fare un po’ di conversazione.
“Ah, sembra bello,” fece una pausa per
prendere un boccone e masticarlo con calma, poi chiese: “Di cosa si occupa
esattamente un direttore di dormitorio?”
Severus non aveva gran voglia di spiegare a suo padre ciò che faceva,
ma il lavoro era un argomento decisamente più sicuro di tanti altri.
“E’ una specie di vice-vicepreside. Una sorta di dirigente” tagliò
corto.
Il padre annuì soddisfatto: “Bene, bene”.
Calò il silenzio; per una ventina di minuti nessuno dei due parlò e
l’unico rumore che si sentiva era quello delle forchette che sbattevano contro
i piatti.
Ancora una volta, fu Piton padre a riprendere la conversazione:
“Per il resto, hai…” fece una pausa per prendere un sorso di vino,
“Hai una compagna?”
Consapevole che prima o poi la domanda sarebbe saltata fuori, Severus
abbassò lo sguardo sul piatto, prima rispondere con un secco: “No”.
Tobias fece un suono di disapprovazione: “Hai intenzione di
sistemarti, prima o poi?”
Severus stavolta lo guardò negli occhi: “No, non credo proprio.”
“Giacché l’unica donna che ho mai amato si è sposata con un altro e
poi è stata uccisa per causa mia” pensò, ma preferì non dirlo al padre.
Tobias aggrottò le sopracciglia e con un tono visibilmente preoccupato
chiese: “Non sarai mica…?”
“No, papà”.
Preso dalla necessità di cambiare assolutamente argomento, Severus
chiese: “A te come va, invece?”
“Non mi lamento. Anche se da quando tua madre se n’è andata, non è più
la stessa cosa” disse sospirando Tobias.
“Ipocrita” pensò Severus “Quando vivevate insieme non
facevate altro che litigare”, ma poi si trattenne dal dirlo.
“L’hai sentitita ultimamente?” chiese.
“Mi ha mandato una lettera la scorsa estate. Era in Romania. Dice che non
è mai stata così felice in vita sua” disse Tobias, imitando con un tono
innaturalmente acuto la voce della ex-moglie: “Tanto lo so che lo dice solo per
non darmi soddisfazione.”
Severus annuì pigramente, maledicendosi per aver intrapreso
l’argomento.
Finita la cena in silenzio, suo padre si alzò: “Severus, so che
avevamo detto niente regali, ma ti ho preso una cosa. Tra quindici giorni è il
tuo compleanno e se non sei mai venuto a trovarmi in quattro anni, immagino non
tornerai per farti festeggiare dal tuo vecchio”.
Gli porse una scatola nera stretta e lunga. Severus la avvicinò alla
bocca e ci soffiò sopra, per scrollare il sottile strato di polvere che la
ricopriva.
Suo padre al gesto arrossì un pochino e ammise: “In realtà te l’avevo
preso per il tuo trentesimo compleanno, ma poi non ho mai avuto occasione di
dartelo. Spero che ti piaccia ugualmente”.
“Un regalo di compleanno dato con due anni di ritardo” pensò
Piton, “se non lo conoscessi, me ne stupirei”.
Con una certa cura sfilò la scatola dal nastro in cui era avvolta e
l’aprì: dentro c’era un’orribile cravatta a quadrettoni grigi e marroni, un
vero e proprio monumento alla bruttezza.
Pensò che se l’avesse mai indossata, l’avrebbe fatto con l’unico scopo
di spaventare ulteriormente i Grifondoro del primo anno, in particolare Neville
Paciock, che già sembrava farsela sotto tutte le volte che lo vedeva.
Ringraziò con voce assai poco convinta, ma suo padre non sembrò
accorgersene.
Prima che ricadesse di nuovo un imbarazzante silenzio, Tobias Piton
indicò il divano e propose al figlio di accomodarcisi sopra, mentre lui
scompariva nuovamente nella cucina per prendere un’altra bottiglia di vino.
Tornò nel giro di tempo, la stappò e versò il liquido rosso nel
bicchiere del figlio.
Severus si finse interessato al problema degli operai disoccupati di
una fabbrica locale che tanto affliggeva il padre, convinto che è meglio che
due uomini che non hanno nulla da dirsi parlino di cose insignificanti, piuttosto
che affrontare argomenti più spinosi.
Solo quando la bottiglia di vino finì, si rese conto che suo padre
aveva alzato un po’ troppo il gomito ed era entrato in quello stato di infelice
ubriachezza in cui si parla liberamente e tutti i nodi vengono al pettine.
“Severus…” disse di punto in bianco Tobias “sono stato davvero un
pessimo padre. Mi dispiace”.
Si aggiustò sul divano, che cigolò sotto il suo peso.
“Forse non lo sai, ma c’è stato un tempo in cui io e tua madre ci
amavamo davvero. Quando nascesti, eravamo una famiglia felice, con qualche
problema economico, certo, ma serena”.
Piton guardò il padre come se stesse parlando in aramaico stretto:
mai, da quando riusciva ricordare, la sua famiglia aveva potuto definirsi
serena, tanto meno felice.
“Tua madre non mi ha detto cos’eravate finché non hai compiuto
tre o quattro anni. Succedevano cose strane quando ti arrabbiavi, oggetti
sparivano, altri volavano…”
Severus sospirò. La visita a suo padre stava diventando pesante.
Ma quando stava iniziando a pensare a quale scusa poteva usare per
scappare da quell’ennesimo noiosissimo Natale, ecco che Tobias Piton attirò la
sua attenzione, per la prima volta in tutta la serata:
“Severus, sono un uomo solo. Mi rendo conto solamente ora che se
avessi cercato di comprendervi, di amare tua madre come meritava e di badare a
te come un vero padre avrebbe dovuto fare… se solo avessi… Sono pieno di
rimorsi, Severus! Sono completamente solo ed è unicamente colpa per colpa mia.”
Tobias si infilò la testa tra le mani in un gesto di sincera
afflizione e Severus, per la prima volta, pensò che pur non avendo nulla da
dirsi, pur non avendo più nessun legame, pur avendo vissuto vite distanti anni
luce, entrambi erano accomunati da una esistenza solitaria, vissuta nei rimorsi
per aver lasciato andare la donna della loro vita per errori insensati e scelte
sbagliate.
Provò per suo padre una commistione di pena e solidarietà; si avvicinò
a lui, gli poggiò una mano sul ginocchio e poi disse con una voce quasi
intenerita:
“So di cosa parli, papà”.
Ringraziamenti:
In conclusione, ho bisogno di ringraziare un paio di persone.
Innanzitutto lil eveline, per essere una beta gentile quanto accurata e per
avermi suggerito titolo e finale della storia, e poi a Ale85LeoSign per
il suo incoraggiamento, assai apprezzato.