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Autore: UA6    26/10/2015    3 recensioni
La storia di Re Ghiaccio, personaggio fondamentale nella serie. La sua storia, a mio parere, è una storia che si potrebbe adattare perfettamente ad un libro "serio" che con la seria animata a poco a che fare. Una storia profonda e toccante, nella cornice di comicità e divertimento del cartone, che viene soffocata da quest'ultima.
Quello che ho voluto provare a fare è la presentazione del personaggio, la sua trasformazione e il suo declino.
Genere: Drammatico, Sovrannaturale | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: Marceline, Simon Petrikov
Note: Missing Moments | Avvertimenti: nessuno
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Ho paura.
Il mutamento del mio corpo non sembra volersi fermare, anzi, credo stia accelerando. Una caduta infinita in un baratro totalmente sconosciuto e impossibile da comprendere. Non ho mai sofferto di alcuna malattia particolare e così, ai primi segni di cianosi, i medici hanno pensato ad un problema al sistema cardiovascolare, ma dopo decine di test, radiografie ed esami, i medici non hanno trovato nulla, o meglio, nulla che comprendessero e i risultati terrorizzavano me e sconvolgevano loro. I livelli di ossigeno nel sangue erano altissimi, mai vista una cosa simile, a dir dei medici. La melanina nei capelli aveva iniziato a scomparire e i pigmenti si schiarivano sempre più, facendo dei miei capelli neri solo un ricordo. Ora il blu e il bianco sono i miei colori… una curiosa combinazione. Ma se la pelle e i capelli preoccupavano, la temperatura corporea fece trasalire i grandi medici: era drasticamente diminuita ben al di sotto dei livelli critici, facendo pensare, in un primo momento, ad una infezione dell’ipotalamo, ma quando teoricamente avrei dovuto cessare di vivere con il termometro che non andava oltre i trenta gradi, tutti avevano capito che c’era ben altro anche se non potevano immaginare cosa. Nei giorni che ho passato in ospedale, da solo, a volte sentivo, tra le altre cose, infermieri e medici che quando parlavano tra loro pensando di non essere ascoltati, mi chiamavano “il cadavere” o “il ghiacciolo”. Non me la presi: il primo era quasi clinicamente corretto e il secondo non mi dispiaceva affatto.
Nessuno capiva cosa mi stesse succedendo. Esperti da tutto il mondo hanno fatto ipotesi, scritto teorie, ma non avrebbero potuto mai indovinare. Se all’inizio non riuscivo neanche a pensare, poi, nella mia mente, i ricordi e i pensieri si sono messi insieme formando un intricato e contorto mosaico e iniziai a capire. Con tutte le mie forze volevo rinnegare quei pensieri, volevo uccidere quell’idea malsana che stava in gestazione nella mia mente, come un tumore maligno. Volevo fermare la mente stessa, così che non potesse più partorire quelle orribili visioni, perché se la trasformazione del corpo era spaventosa, era lei che mi preoccupava oltre ogni misura e il suo mutare mi terrorizzava, ora più che mai.
Vedo cose. Immagini e figure incomprensibili. Sento cose. Suoni e voci agghiaccianti. Spaventose, non perché minacciose o orribili, ma al contrario, voci rassicuranti che mi guidano e mi cullano nella loro soave cantilena. Un vociare continuo, rassicurante e nauseabondo. Non ricordo quando è stata l’ultima notte in cui il sonno si potesse definire tale. Nell’oscurità, quando la mente è libera, vedo le scintille del caos, il fuoco caotico della distruzione e della vita, venire inghiottite dall’ordine assoluto e dal silenzio perfetto di una morte glaciale e ancor più della morte, è il suo accondiscendente, freddo calore nei miei confronti a spaventarmi. La solitudine non è mia compagnia ormai da troppo tempo. Mai avrei pensato che potesse mancarmi.
 
Era davvero un gran giorno. Dopo mesi e mesi di ricerca e studi, avevo trovato la possibile posizione di un antico manufatto che nel folclore scandinavo era descritto come il più prezioso e potente oggetto che gli dei abbiano mai donato ai mortali e pochi giorni dopo ricevetti una telefonata che mi avvertiva che un vecchio pescatore l’aveva trovata all’interno di un blocco di ghiaccio su un isoletta a largo del suo villaggio. Una coincidenza incredibile, quasi un miracolo, pensai,ma in seguito mi resi conto che non era affatto così. Mi chiamo Simon Petrikov e sono… ero un antiquario e collezionavo antichi manufatti magici. Non ho mai creduto ai fenomeni sovrannaturali, ma ero affascinato dalle superstizioni che erano legati a questi oggetti e dalla loro storia. Per ottenere l’oggetto tanto agognato, presi un volo che dall’aeroporto di Saransk mi portò a Mosca, poi ne presi un altro per Oslo. Tutte le ore passate in aereo erano cariche di eccitazione, sia perché stavo per trovare l’oggetto più importante della mia collezione, sia perché, una volta rientrato, avrei potuto riabbracciare Betty che sarebbe stata a casa ad aspettarmi…
 
Non so descrivere quanto mi manchi. Era tutta la mia vita. Avrei fatto qualsiasi cosa per lei, anche sopravvivere ad un’apocalisse…
 
Da Oslo presi il treno, poi cambiai tre volte l’autobus e mi feci accompagnare a Birtavarre, un piccolo villaggio di poco più che trecento anime situato alla fine di un fiordo nella parte settentrionale della Norvegia. Il villaggio sembrava una cartolina, un’illustrazione di qualche fiaba nordica, una visione idilliaca. Poche abitazione, sparse su uno sfondo verdeggiante che, dato il periodo dell’anno, presto si sarebbe trasformato in una tavola di colori delle tonalità del rosso e del marrone, cambiando completamente faccia al paesaggio. Mi era stato detto di recarmi davanti alla chiesa, una piccola cappella di legno bianca. Mi ero rimproverato per non essermi portato una macchina fotografica. Non vidi nessuno ad attendermi e dopo aver aspettato mezz’ora, mi avvicinai ad un pescatore che passava di li per chiedere di indicarmi l’abitazione di Knut Olsen, il pescatore che aveva ritrovato il manufatto. Non parlavo il bokmal e sperai che bastasse il nome di un suo concittadino per far scattare la molla a farmi aiutare. Mi ricordai che “casa” si diceva “hjem”. Alzai la mano per salutarlo e lui ricambiò il saluto con un sorriso, poi mi lanciai nel tentativo:
-Knut Olsen? Hjem?- Il sorriso contagioso dell’uomo svanì all’improvviso e pensai che forse “hjem” non volesse dire “casa”, ma che fosse una parolaccia o qualcosa di offensivo. Il pescatore mi squadrò dalla testa ai piedi, poi indicò una casetta distante qualche centinaio di metri dal centro del villaggio. L’abitante di Birtavarre continuava a fissarmi e mi riuscì difficile comprendere il suo sguardo. Incredulità, preoccupazione, paura? Capii solo che era strano, ma non diedi troppo peso alla cosa, per quanto curiosa, e mi incamminai verso la mia destinazione. Nel breve tragitto i polmoni si riempirono di aria pulita come mai prima ne avevano sentita. Tutto intorno era verde, in lontananza si vedeva una spessa nebbia proteggere le cime degli aspri monti che a loro volta proteggiavono il villaggio. La luce tenue del sole mattutino si infrangeva nell’acqua del mare del nord che era la più limpida che avessi mai visto, mentre alcune piccole imbarcazioni lasciavano i moli in cerca di qualcosa da pescare. Quell’acqua così pura mi fece pensare che se mai ci fossi finito dentro non ne sarei più uscito, ma allo stesso tempo quell’acqua ghiacciata mi affascinava. La sua limpidezza dava l’impressione di renderla intangibile e che le barche volassero sopra un velo sottilissimo al di sotto del quale si stagliava un infinito spaventoso e seducente.
 Arrivai davanti alla porta della casa, un piccolo cottage in legno, molto simile alle altre abitazioni, e un brivido mi corse lungo la schiena. Un attimo prima che potessi battere il pugno sulla porta, un vecchio l’aprì facendomi gesto di entrare. Era metà settembre e arrivai al villaggio nel primo mattino. Il termometro del mio orologio segnava i dieci gradi e già mi stavo gustando il dolce tepore dell’abitazione, ma una volta dentro, la temperatura non variò per nulla. Il vecchio aveva addosso una canotta logora e dei calzoni lunghi non certo adatti per quel clima. Mi guardai intorno e quella piccola casa, pur non avendo nulla di strano in apparenza, sembrava nascondere qualcosa di sinistro. L’interno era spartano: in salotto c’era un vecchio divano, che si accostava benissimo ad un altrettanto vecchio televisore, probabilmente con più anni di me. Le credenze erano piene di cianfrusaglie e alcune foto, ricoperte da un bel po’ di polvere, se ne stavano a fissarmi con lo stesso silenzio del proprietario di casa. Oltre una porta si intravedeva una cucina dove sembrava che la lavapiatti e il lavandino fossero esplosi da poco gettando pentole e tegami in tutta la stanza. Non potei vedere altro, se non la grossa fiocina appuntita appoggiata alla parete . Quando i miei occhi tornarono sul vecchio, non trovai il viso amichevole che mi aspettavo da un possibile socio d’affari, ma uno sguardo pieno di ostilità. Forse feci un passo indietro per la paura. Era un vecchio pescatore consumato dal freddo e dall’artrosi portata da anni di lavoro, magro, tanto da far intravedere la sagoma delle costole al di sotto della canottiera, con dei piccoli occhi chiari che richiamavano quelle acque a cui aveva dedicato la sua lunga vita e che mi fissavano con l’intento di inghiottirmi e farmi annegare. Non sono mai stato un tipo atletico e non ho mai combattuto, ma ero convinto che in quelle condizioni il vecchio non avrebbe potuto farmi nulla, ma sentivo che avrebbe voluto mandarmi via, o peggio, non farmi più uscire vivo da li. Ci eravamo messi d’accordo tramite una interprete che mi aveva contattato per suo conto e mi aspettavo di vederla anche quel giorno per favorire lo scambio e invece ero lì, da solo con il vecchio, spaventato e imbarazzato, senza sapere cosa fare.
Il vecchio staccò il suo sguardo dal mio e si avvicinò al muro, prese la fiocina e pensai al peggio, ma la spostò solamente per prendere un baule di legno con le cerniere e i rinforzi di ferro. Lo trascinò in mezzo alla stanza e me lo indicò con lo sguardo per poi girarsi dall’altra parte, come un banchiere che si volta per non vedere il cliente inserire il codice in una cassetta di sicurezza. Restai titubante per un attimo, poi aprii il baule. Conteneva un solo oggetto, un solo splendente, meraviglioso, oscuro e terribile manufatto. Presi la corona che sembrava chiamarmi. La presi e la poggia sul tavolo, poi presi la mia valigetta e inizia ad attirare l’attenzione dell’uomo che ancora mi dava le spalle.
-Penger- dissi in norvegese indicando le mazzette di denaro, -Penger- replicai. L’uomo si voltò, con le guance rigate dalle lacrime. Dai suoi occhi stava per uscire un’onda glaciale che non avrei potuto evitare. Mi aprì la porta facendomi segno di uscire, con un movimento rapido e rabbioso della mano. Rimasi immobile per un paio di secondi senza capire cosa stesse succedendo. Mi convinsi che non fosse del tutto sano di mente e mi rassegnai a dimenticarmi i convenevoli. Infilai la corona in una borsa che avevo portato appositamente, lasciando la valigetta con i soldi sul tavolo. Il vecchio Knut iniziò a gridare, ad urlare frasi a me incomprensibili da cui trapelava solo rabbia e angoscia. Schizzai fuori dall’abitazione e, ancora spaventato e incredulo, mi girai verso la porta solo per vedere la mia valigetta volarmi addosso e colpirmi al petto, facendomi cadere a terra. Una donna con due bambini sui dieci anni accorse per aiutarmi e mi tirai su rassicurandola con un sorriso forzato che nascondeva il dolore che stavo provando. L’ematoma che scoprì in seguito era notevole. Disse qualcosa, ma capii solo “Knut”. I soldi erano ancora tutti all’interno della valigetta e li sentii tutti quando mi colpì. Fissai la porta e presi la decisione di ridare quei soldi a quel pazzo: avevamo fatto un patto e volevo rispettarlo. Bussai alla porta senza ricevere risposta. Guardai attraverso tutte le finestre, ma non riuscii a vedere il pescatore. La donna ancora parlava per poi alzare le braccia in segno di sconfitta e andarsene. Non lo vidi mai più. Andai all’ufficio postale e rispedii i miei soldi a casa. Rividi il signore che mi aveva dato le indicazioni per la casa del signor Olsen parlare con un gruppetto di persone e tutti condividevano lo stesso sguardo nel tenermi d’occhio. Lasciai la Norvegia, un po’ scosso da quello che era successo, ma con un senso di frenesia mai provato prima. Non vedevo l’ora di fare vedere la corona alla mia principessina.
 
-Betty! Sono tornato, ci sei?- Arrivai a casa dopo essere passato a compare un mazzo di ciclamini. Posai la mia valigia e la borsa con la corona a terra e misi il mazzo di fiori sul tavolo del salotto, attendendo una risposta, che non arrivò. Era più di un mese che non la vedevo. Era andata all’estero per alcuni suoi studi. Dev’essere uscita, pensai. Presi la corona, la tolsi dalla sacca e la liberai dal materiale protettivo in cui l’avevo avvolta. Nell’attesa di Betty decisi di iniziare a lucidare il manufatto prima di inserirlo nella teca al centro della stanza in cui tenevo la mia collezione. Inumidii un panno e inizia a strofinare la corona.
“Finalmente insieme”.
-Betty!- Mi voltai sorridendo e aspettando di vedere ricambiato il mio sorriso con quello più bello che Dio avesse mai creato, ma invece non vidi nessuno. -Betty?- La chiamai ancora e la cercai in casa pensando che mi volesse fare uno scherzo, ma in casa non c’era nessuno. Me lo sono immaginato, dev’essere la stanchezza. Trovandomi in camera da letto ne approfittai per mettermi qualcosa di più comodo e mentre mi stavo cambiando sentii la chiave girare nella serratura della porta d’ingresso.
-Simon! Sei tornato?- Scesi di corsa le scale, tralasciando il fatto di essere nudo dalla vita in su e Betty era li, mi dava le spalle, tenendo in mano la corona che lentamente si avvicinava ai suoi dolci capelli.
-Principessina…- Posò la corona sul tavolo e mi corse tra le braccia. Ci stringemmo forte. Affondai il viso tra i suoi lunghi capelli castani, facendomi avvolgere dal loro profumo e cercando di riempirmi i polmoni della sua fragranza. -Mi sei mancata… moltissimo-. Dissi senza allontanarmi e senza allentare la stretta dell’abbraccio, nonostante il dolore.
-Sono stata via solo un mese- La lasciai, fingendo un’espressione offesa.
-Quindi mi vuoi dire che non ti sono mancato neanche un po’?-
-Forse un pochino- Sorrise e poi mi baciò. -Cos’hai fatto al petto?!-
-Non è niente, non è importante… L’hai vista? Finalmente l’ho trovata. Non è bellissima?- Presi la corona e gliela misi davanti agli occhi.
-Non si addice però ad una principessa-.
-No, ma è perfetta per un re- indossai la corona, gonfiando il petto assumendo una postura di trionfo e lei si mise a ridere.
-Quanto sei affascinante mio re!- Disse inchinandosi.
Lì, iniziarono le visioni… Sentii una stretta fortissima e inarrestabile alla testa. Piombai in un pozzo scuro dove la luce non osava entrare e dove sembrava che io non potessi più uscire. Gli occhi danzavano freneticamente alla ricerca di Betty, ma trovando solo immagini infernali. Gridai, come un bambino terrorizzato di fronte a qualcosa di inimmaginabile; è esattamente quello che ero. Un uomo di fronte a qualcosa impossibile da concepire, in lacrime, impotente di fronte a quell’inferno che mi si stagliava negli occhi. Vidi creature, volti e membra muoversi intorno a me. Gridai più forte, un grido che sovrastò l’oscurità di quel luogo, fino a sentire le corde vocali sfilacciarsi come il crine dell’archetto di un violino suonato con troppa energia. Sentii le mie ossa frantumarsi e i muscoli scoppiare. Gli occhi ardevano come se fossero stati dati alle fiamme. Betty dove sei!? Salvami! Betty! Betty! Uccidimi! Caddi in ginocchio e afferrai la corona cercando di strapparla via, ma sembrava essersi fusa con la testa. Tiravo e tiravo e la sensazione era come se qualcuno mi stesse strappando il cranio. Urlavo senza fare rumore. La mia voce venne inghiottita da altre mille che intonavano un coro diabolico per poi tacere e urlare fino a farmi sanguinare le orecchie. Un fuoco glaciale ustionava ogni centimetro quadrato della mia pelle e desiderai che i nervi bruciassero il più in fretta possibile pur di non sentire più quel dolore. Sarebbe stato più facile strapparmi il cuore, ma alla fine la corona si staccò. Tornai a casa mia, nella luce, ma di fronte non avevo più la Betty di qualche secondo, o minuto (impossibile per me da dire) prima.
Guardai la mia principessina e il suo bel sorriso aveva lasciato il posto ad un’espressione terrorizzata. I suoi occhi grondavano lacrime. Il petto fremeva. Le labbra e le gambe erano in preda ad un violento tremito. Era paralizzata dalla paura. Cosa avevo detto? Cosa avevo fatto con la corona in testa? Non lo seppi mai, ma Betty iniziò a piangere e urlare.
-Non ti avvicinare! Stammi lontano!- Io non capivo e non sapevo che fare.
-Betty, ma cosa…- allungai la mano verso di lei.
-Non toccarmi!!! Non dire il mio nome!!!- spalancò la porta, frantumando il piccolo vetro nella finestrella e se ne andò. La inseguii, ma si chiuse in macchina e partì come se la morte le stesse correndo dietro, senza preoccuparsi di chi o cosa potesse trovarsi lungo la sua fuga. Provai a chiamarla per giorni, ma senza risultati. Chiamai tutti i suoi amici: alcuni dicevano di non sapere dove fosse andata, la maggior parte m’insultò, minacciando la mia incolumità, se mai avessi provato a chiamare ancora. Chiamai i suoi genitori che subito chiamarono la polizia. Non potei più chiamare, cercare o sperare. Mi aveva abbandonato per sempre. La mia principessina se ne era andata per colpa mia, per colpa di qualcosa che questa corona mi ha fatto fare o dire. Iniziò a parlarmi. Iniziò a consolarmi. Iniziò il mio declino.
 
La corona mi svelò i segreti, i segreti del ghiaccio e della neve. Con spaventosa insistenza, ripeteva che solo il suo potere poteva salvarmi. Vedevo una pioggia di fuoco devastare le città della terra. Vedevo i suoi abitanti ridotti in polvere venire sparsi in ogni dove dal vento tempestoso. Vedevo il miasma di morte avvolgere ogni cosa. Sentivo le grida di miliardi di persone echeggiare nell’aria per poi scomparire in un assordante silenzio. Vedevo una grotta, in cui regnava una pace terrificante. Non sapevo cosa volessero dire quelle visioni. Continuavo a cambiare e iniziai ad avere degli strani poteri. Seguivo le istruzioni della corona e un giorno feci nevicare, letteralmente. Nevicò fino a quando io non decisi di far tornare il sole. Con la città ricoperta di neve, mi sentivo investito di una forza nuova, di nuova energia e mi ritrovai a canticchiare lungo le strade bianche e impercorribili, mentre tutto intorno le persone erano disperate e alcuni arti ghiacciati spuntavano dal candido manto come spettrali bucaneve. In quella bianca desolazione mi sentivo felice. La mia mente vacillava e vacilla tutt’ora. Non posso controllarla, ma mi rendo conto che a momenti di lucidità come questi, seguono momenti in cui la follia guida le mia azioni e anche se mi duole dirlo, per quanta paura possa provare, non è raro che attenda quei momenti con ansia, così da poter godere di un po’ di sollievo. Mi sono trovato più volte a cantare in mezzo alla gente e a ballare con i loro sguardi sconcertati su di me. Mi sono preso un pugno in faccia perché ho afferrato una ragazza per il braccio trascinandola nel mio folle ballo continuando a chiamarla “Principessa”.
Passavo le giornate a fare ricerche nel tentativo di trovare una soluzione, un’uscita da quell’intricato labirinto che stava diventando la mia mente. Per intere giornate  ascoltavo la corona. Imparai a controllare il clima, a comandare il ghiaccio e a poter usare la neve a mio piacimento.
“Non manca molto, presto tutto finirà, devi sbrigarti” Il ghiaccio e la neve premevano nel farmi diventare il loro maestro, si disperavano quando non riuscivo a seguire i loro comandi e gioivano quando superavo con successo le loro prove.
“Cosa succederà?” domandavo loro e le visioni prorompevano nella mia mente come cavalli con la coda in fiamme lanciati su poveri soldati. Ancora il fuoco, fuoco ovunque. Palazzi spogli con i loro scheletri d’acciaio scoperti, collegavano un cielo nero di nubi che non avevano voglia di diradarsi, ad un suolo nero di cenere e distruzione, con una pausa di rosso infuocato a separarli.
Non avevo mai pensato che quelle visioni fossero qualcosa di diverso se non il frutto della pazzia, ma rinnegare i miei poteri non mi era possibile, quello era reale. Non potevo continuare ad essere sordo e cieco e dopo mesi ricominciai a vedere e sentire, a percepire la realtà. Quella che era una crisi era diventato un conflitto e il conflitto si era tramutato in guerra. I media, giornalmente, mostravano intere città bombardate, migliaia di uomini uccisi, ma quelle immagini, se pur orribili, erano ben lungi da assomigliare alle mie visioni. Poi feci due più due. Presto la guerra sarebbe finita, insieme a tutto il resto… e così accadde. La guerra arrivò alle porte della mia città. Scappai lontano, guidato dalle voci, fino all’altro capo del mondo. “Scappa!!! Fuggì!!! Ascoltaci!!!”
La furia dell’uomo toccò il suo apice e le famigerate bestie di distruzione di massa che da troppo erano rimaste relegate nelle loro tane, erano state liberate in tutto il pianeta. Occhio per occhio e il mondo divenne cieco. Non si salvò nessuna nazione, nessuna metropoli. Pochi uomini disperati vagavano per il mondo. Chi aveva superato l’apocalisse si trovava costretto a combattere ancora la vita. L’inferno si riempì tutto d’un colpo e una volta pieno, in molti furono lasciati fuori, costretti a vagare ancora su quella terra terribilmente sfigurata. Sono sopravvissuto, ma non per fortuna o per volere di qualche dio. Sono andato in quella caverna di cui mi parlarono nelle mie visioni e mi ricoprì di ghiaccio e neve. Mi protessero dalle esplosioni atomiche, dalla prepotente onda d’urto, dall’immediata ricaduta di materiale radioattivo. Non so quanto sono stato nel mio bozzolo glaciale, ma un giorno mi dissero di uscire e così feci.
 
Passarono mesi, forse qualche anno, e finalmente spezzai il bozzolo e iniziai a vagare per questo inferno alla ricerca di qualcuno. Pensavo alla mia casa di cui probabilmente non era rimasta traccia. Pensavo, come ad ogni giorno passato, alla mia Betty e mi convinsi che anche lei non era divenuta che polvere nel vento. Non sapevo dove andare, ma immaginai che nessuno in quel mondo lo sapesse.
Girovagavo per le città in cerca di qualcosa da mangiare come un topo nelle fogne. Come uno spettro mi aggiravo tra quei brandelli di muro. Definirmi solo non credo sia corretto, poiché continuavo a vedere centinaia di sagome camminare intorno a me. Alcune sembravano umane, le ombre di chi c’era prima, altre erano tutt’altro. Mi vedevano così come io li vedevo e dopo qualche secondo di curiosità, mi ignoravano come io ho imparato a fare con loro. Alcune ombre cercavano tra i detriti, altre camminavano solitarie e altre ancora si spostavano in gruppi più o meno numerosi. Forse cercavano i loro corpi, forse i loro cari. La ricerca probabilmente continua ancora, ma difficilmente troveranno uno o l’altro. Ho provato ad interagire con loro, ma invano. Camminando per quelle strade, un tempo trafficata di auto e persone, non vedevo che carcasse metalliche contorte del tutto annerite e cenere. La mia barba era cresciuta e superava il petto e mi era divenuto impossibile tenerla bianca, così come i capelli. Pensai che il suo colore assomigliava alla neve dopo che era stata spazzata dalle strade e iniziava a sciogliersi diventando una poltiglia disgustosa.
I miei poteri erano limitati. Sentivo la disperazione prendere il controllo delle mie azioni e mi veniva a mancare la forza per continuare a combatterla. Non avevo più uno scopo e in quel mondo di distruzione non potevo certo sperare di trovare una soluzione per la mia continua ascesa alla pazzia e mi consolai dicendomi che tanto non sarebbe servito a molto. Solo e in quel mondo, forse era meglio essere folli e finire i propri giorni in una demente serenità, ma non fu cosi.
Vagabondavo per le strade incenerite di una città il cui nome, non che avesse importanza, mi sfuggì, quando sentii qualcosa. Da quando avevo la corona, in ogni momento “sentivo qualcosa” e mi ci volle più di un attimo a capire che quello era reale. Quel pianto lontano si differenziava dalle urla che risiedevano nella mia testa e quando lo capii mi misi a correre verso l’origine di quel triste suono. Riuscii a capire che probabilmente era una bambina a piangere. Corsi per qualche centinaio di metri e ad ogni passo sperai che mi fossi sbagliato, sperai che voltato l’angolo mi sarei trovato davanti una qualche creatura abominevole figlia della corona così da poter proseguire il mio cammino lasciandomela alle spalle, ma non fu così. Affannato, svoltai l’angolo e trovai, a qualche metro, una piccola e dolce bambina, che aveva forse otto anni. Era sporca dalla testa ai piedi di cenere che le lacrime provavano a lavare via. Il rosso della maglietta e il blu del vestitino si distinguevano a fatica. Avevo visto molte cose dopo le grandi esplosioni: avevo visto uomini ucciderne altri per un pezzo di pane, altri ancora usarli così da poterne fare a meno. Mi fermai di colpo, combattuto tra il desiderio di aiutare quella bambina e la paura di cadere in una trappola. Fu una battaglia impari e breve. Mollai lo zaino e tenendo salda la corona legata alla cintura, mi avvicinai alla bambina.
Piangeva e piangeva e quando mi vide avvicinarsi lanciò un grido di paura. Istintivamente mi guardai intorno, sperando e temendo che quella bambina fosse lì abbandonata solo in apparenza. Niente si mosse intorno a noi. Mi inginocchiai verso di lei e le porsi un fazzoletto relativamente pulito per asciugarsi il naso e le lacrime.
-Non temere, non ti farò del male- la bambina dopo un attimo di titubanza prese il fazzoletto. Smise di piangere e sul suo volto la paura lasciò il posto alla curiosità. Senza parlare mi squadrava il viso, il naso, che era cresciuto notevolmente diventando appuntito e stravagante come quello di un pupazzo di neve, guardò i miei capelli e la mia barba. Poi si soffermò sugli occhi. Mi fissava con uno sguardo che mi scongelò il cuore. Sorrisi e i suoi occhi si spalancarono per poi essere seguiti dalla sua bocca che ricambiò il mio sorriso. Con l’indice si toccò i dentini appuntiti e poi allungò la mano per indicare i miei. Altro regalo della mia mutazione erano dei denti appuntiti e aguzzi che avrebbero spaventato chiunque, ma non quella bambina. Quei denti, questi denti, che mai ho avuto cosi bianchi, servirono a rompere il ghiaccio. Mi guardai ancora attorno e vidi un negozio di giocattoli semi distrutto con la vetrina che sembrava stesse rigettando un mucchio di peluche  rovinati.
-Aspetta qui- La bambina mi guardava incuriosita. Andai di corsa a prendere un peluche dal mucchio, erano ridotti piuttosto male, scavai un po’ per cercarne uno che non fosse bruciato o ammuffito. Lo presi, li diedi un paio di colpi per togliere quella patina di polvere e cenere che ricopriva ogni cosa e prima di tornare soffiai forte su quell’orsetto. Pensai che un po’ di aria fresca gli avrebbe fatto bene. Lo riportai alla bambina che come se quel pianto di poco prima fosse un lontano ricordo, sorrise e lo abbracciò forte.
-Come si chiama?- Guardai il pupazzo con ancora l’etichetta della fabbrica attaccata.
-Hambo. Si, si chiama Hambo. Tu come ti chiami?-
-Mi chiamo Marceline- e con lo sguardo beffardo dei bambini continuò -tu sei Babbo Natale?- Scoppiai a ridere a quella domanda così innocente e ingenua e tra le mie risa e la sua perplessità mi domandai se mentirle sarebbe stato conveniente o meno.
-No piccola, non sono Babbo Natale- Marceline si ricoprì di delusione -Mi chiamo Simon e se vuoi posso essere tuo amico- Il sorriso le tornò subito.
-Grazie signor Simon-.
-Grazie di cosa?-
-Per avermi regalato Hambo, mi piace tantissimo. Lo terrò sempre con me-.
-Mi fa piacere- le accarezzai i capelli lunghi e neri, preoccupandomi di trovare un posto dove tenerla al sicuro.-Chiamami solo Simon. Sei sola? Non c’è nessuno con te?-
-Non so dove siano finiti- il sorrise si spense un’altra volta. Non sapevo che fare. Urlare e chiamare qualcuno avrebbe potuto attirare dei pericoli.
-Da quanto tempo sei solo?-
-Da ieri-
-Proprio non sai dove possano essere finiti i tuoi genitori?- Marceline scosse la testolina, stringendo a se il malandato peluche. -Vieni, andiamo a cercarli-. Le afferrai la mano, tornai a prender lo zaino e le diedi qualcosa da mangiare.
Cercammo per tutto il giorno. Arrivammo davanti alle porte di un grande magazzino. Pensai che finalmente avremmo potuto mangiare come si deve e riposare.
-Aspetta un attimo qui-
-Mi lasci da sola? Non te ne andare!- Gli occhi mi si inumidirono di colpo.
-No, non preoccuparti, torno subito. Resta qui con Hambo un minuto-. La feci sedere sul muretto ad un paio di metri dalla vetrina e poi entrai nell’edificio. Camminai per non più di un minuto, nella semi oscurità di quella enorme stanza poi mi bloccai di colpo. Non adesso!
 
Questa stanza è grandissima!!! Hey, c’è nessuno? No? Non c’è poi tanto da mangiare in questo posto, avrebbero potuto lasciarmi la qual cosina. Tu!? Perché non mi hai risposto? Potresti aiutarmi? Alzati, cosa fai li per terra in mezzo a tutto quel sangue? In questo negozio il servizio e i dipendenti non sono certo il massimo. Dai che ti aiuto. Forza! Quanto pesi! Sei stanco, non hai una bella cera. Ti metto a sedere qui. Lasciati almeno togliere questo ferro appuntito dalla pancia, starai più comodo… Ecco fatto. Come ti senti? Ahahahah, va bene, se vuoi stare sdraiato fai come vuoi. Chissà dove sono i gelati? Ci fosse più luce… PERCHè NON C’è PIU LUCE?!?! Uuuu, questo cos’è. Una torcia, che fortuna. Non va… Le pile sono a cadute… Il meno di qua, il più di la… ecco fatto. LUCE!!! Sono troppo bravo. La la la, la la la… Finalmente qualcuno che ha voglia di lavorare. Mi scusi, saprebbe indicarmi il reparto gelati? Ihihihi, sa mi piacciono molto i gelati. Lo sa, lei è scortese a parlarmi in questo modo, come potete pretendere di attirare dei clienti cosi? Mi vuole abbracciare per farsi perdonare? Siiii. Non corra con quello in mano, potrebbe farsi male. Ops.Che le avevo detto? Adesso se ne starà qui a pensare al suo comportamento, e non si muova ahahahah. Questi giovani. Sono delle teste calde, ma bisogna capirli.
 
-Simon! Sei qui?- Tornai a prendere il controllo. Mi ritrovai davanti gli occhi di un uomo infuriato con la morte che brillava al loro interno. Era li, davanti a me, vivo, ribolliva di collera, ricoperto di un sottile e durissimo strato di ghiaccio e illuminato da una torcia che tenevo in mano.
“Bravo Simon”.
-Marceline, non entrare! Aspetta li che sto arrivando- Corsi verso l’uscita, lasciandomi alle spalle quella statua e la speranza di trovare qualcosa di utile li dentro. Quasi inciampai su un cadavere nei pressi di una panchina. Misi la torcia nello zaino, afferrai la piccola in braccio e corsi più lontano che potei, fino a quando il mio corpo resistette. La bambina non capiva cosa stesse succedendo e io non avevo di certo pensato che quel comportamento potesse spaventarla. Mi resi conto solo dopo che Marceline stava piangendo sulla mia spalla. Lo feci scendere e la tranquillizzai.
-Scusa, ma quel posto mi sembrava pericoloso. Non volevo spaventarti. Ti sei fatta male?-
-No- Disse asciugandosi le lacrime con il fazzoletto che le avevo dato poco prima. Decisi che dovevamo andarcene da quel posto. Pensai che probabilmente i genitori o chi era in sua compagnia la stesse cercando, ma era improbabile che l’avessero lasciata sola senza un buon motivo. Era troppo pericoloso per cercarli e dovevo proteggere quella bimba con ogni mezzo possibile.
Uscimmo dalla città. Seguimmo la grande strada senza incontrare nessuno, da soli, costantemente accompagnati dai miei intangibili compagni. Passarono giorni, dove facemmo tappa tra una stazione di servizio e l’altra, superando città troppo vuote e altre troppo affollate. Lungo una strada che tagliava quello che un tempo era un bosco, qualcuno fischiò. Mi girai e vidi una sagoma alta e scura, dagli arti decisamente sproporzionati per la loro lunghezza e al suo fianco un abominio di carne che a stento si muoveva seguendo il compagno e con la sua enorme bocca fischiava ancora. La sagoma mi faceva cenno di raggiungerli. Guardai la bambina che con gli occhi persi nel vuoto fissava la linea infinita della strada che ci aspettava. Non sembrava essersi accorta di niente. Mi tolsi gli occhiali.
-Marceline, io non vedo bene, tu vedi qualcuno laggiù?-
-No, non vedo nessuno. Solo gli alberi-. Tra quei tronchi anneriti, fisicamente non c’era nessuno.
-Andiamo di là- Mi avvicinai alle due figure. Quella dai lunghi arti si lanciò in un inquietante inchino accompagnato con un ritmo orribilmente festoso dal fischiettare del compagno. Mi indicò di entrare in quel cimitero di alberi. Era la prima volta che quelle cose interagivano con me. Per quanto spaventose e orribili sentivo di potermi fidare. La corona lo sentiva e mi rassicurava. Ci portarono in una piccola casetta di pietra, probabilmente usata dai cacciatori.
-Aspetta qui- Entrai e trovai la casa relativamente in ordine anche se infestata da un orribile tanfo. I trofei appesi alle pareti, un paio a terra, fissavano con sguardi vuoti l’uomo che sulla poltrona aveva un buco in testa e parte del cervello sparso sulla parete. Sorrisi pensando che sicuramente non avrebbe mai pensato di finire anche lui su quel muro e subito mi rimproverai per quel pensiero cosi macabro e divertente. Mi guardai intorno e notai le casse di bottiglie d’acqua e il cibo in scatola ordinatamente disposto al di sopra e al di sotto del tavolo. Mi sforzai di aiutare il mio stomaco a non rimettere quel poco che aveva ingerito. Presi il corpo del l’uomo che era decisamente più pesante di me nonostante lo stato di decomposizione e lo trascinai fuori dalla porta sul retro. Lo congelai per evitare che l’odore potesse diffondersi ancora di più. Aprii tutte le finestre e la porta. Andai davanti a Marceline.
-Riparati la testa. Arriverà un po’ di vento, ma tu non spaventarti, ok?-
-Va bene- Sembrava divertita da quello strano consiglio.
-Sei pronta?- Un attimo dopo mi riempii i polmoni di quell’aria così greve per poi espirarla all’interno della casa. Un pesante strato di cenere venne risucchiato all’interno, cosa a cui non avevo pensato e il tanfo uscì infestando quello che prima era un verde bosco, per alcuni minuti per poi finalmente disperdersi.
-Come hai fatto? Sei un mago?- Gli occhi della bambina brillavano di meraviglia, accecando anche il suo naso che non si era minimamente disgustato nel sentire quel fetore.
-Ti è piaciuto?-
-Fallo ancora!- Entrai in casa e mi resi conto che non sarebbe servito a gran che ripetere l’operazione, ma volevo accontentarla. Inspirai ed espirai, scuotendo leggermente quei muri.
-Vieni dentro Marceline. Siediti qui, sul divano-.
-Cos’è questa cosa per terra?-
-Non lo, adesso puliamo-. Uscii fuori e vidi che quelle due figure ci avevano raggiunto.
-Grazie!- Ripeterono l’inchino e la musichetta, poi si misero nello spiazzo davanti alla casa, immobili, sembrando di voler scrutare i dintorni. Rientrai in casa e Marceline stava bisticciando con una bottiglia d’acqua.
-Con chi parlavi?-
-Con nessuno. Passamela che te la apro-
Inizia a pulire quella macchia grumosa e scura sul pavimento e poi quello che rimaneva del possibile padrone rimasto sul muro. Nella mia testa mi gridai di essere stato uno stupido nell’aver lasciato la pistola a terra per tutto quel tempo. Fortunatamente la bambina era troppo distratta a mangiare e a giocare con Hambo. La raccolsi e la infilai nello zaino.
Si fece sera, Marceline dormiva sul divano, le due figure ancora vegliavano all’esterno. Chi erano? Perché mi proteggevano? Forse non lo stavano facendo come pensavo. Utilizzai il fornello a propano per riscaldare della carne e delle verdure in scatola. Quel misero banchetto mi sembrò degno di un re.
“Tu sei un re”
Per la prima volta dopo mesi mi sentivo al sicuro. Congelai le serrature delle porte e mi sdraiai sul letto. Ci volle poco e mi addormentai.
Non so quanto tempo passò, ma mi svegliai che il sole era già alto. Avrei passato quel giorno a capire chi fosse quella bambina. Quel luogo ci avrebbe offerto rifugio e cibo per molti giorni ancora, ma quando andai da Marceline, lei non c’era più. Le porte erano ancora sigillate, ma di lei nessuna traccia.
-Marceline!!! Marceline, dove sei!?- Nessun rumore, nessuno risposta. Sciolsi il ghiaccio e inizia a urlare a gran voce tra quegl’alberi morti. Non c’erano tracce, impronte, nulla di nulla. Anche Hambo era sparito, ma come? Un tepore mi sorprese alle spalle. Mi girai di scatto e mi trovai a pochi centimetri da quella lunga ombra.
-Dov’è la bambina? Chi l’ha portata via?- Il nero della sagoma iniziò a diradarsi e finito il profondo inchino si dissolse del tutto.
-Torna qui! Non andartene! Non lasciarmi di nuovo solo…- Passai ore seduto sulla poltrona, senza badare alle macchie di sangue e materia celebrale, con le lacrime che tintinnavano quando colpivano e rimbalzavano prima sui miei vestiti e poi sul pavimento. Passai ore seduto sulla poltrona a fissare quella pistola, con tutti i colpi nel caricatore tranne uno che probabilmente era conficcato nella parete alle mie spalle.
“Non essere sciocco mio re. E’ tempo di andare. Questo tempo non fa più per noi”
“Cosa devo fare” Me lo disse e lo feci.
Ed oro eccomi qua a scrivere su questo quaderno logoro, all’ingresso di un'altra grotta, a pensare a quello che è stato, a maledire quello che sono e a ignorare quello che mi aspetta.
Vedo cose. Immagini e figure ancora incomprensibili, ma che adesso fanno parte di me e senza mi sentirei perso. Sento cose. Suoni e voci agghiaccianti, per niente spaventose, che continuano a rassicurarmi e guidarmi e cullarmi nella loro soave cantilena. Vedo il fuoco della distruzione e il velo cinereo e soffocante della morte sollevarsi a poco a poco lasciando libero il mondo di respirare aria fresca e pulita. Vedo un mondo tremendamente diverso e simile al precedente. Vedo tutto questo, ma da lontano. Una distanza che va ben oltre una vita. Una distanza eguagliabile a quella di cento vite.
Ricostruirò il bozzolo, come un verme mi ci infilerò dentro, non per quanto e so se ne uscirò. Di sicuro non sarà una farfalla ad uscirne. Poche pagine non bastano certo a descrivere quello che è successo al mondo, ne tanto meno quello che è successo a me.
Sono stanco di scrivere. Ho voglia di ballare e cantare.

Venite anche voi a ballare con me… Tu tu tu, la la la. Dai entrate non fate i timidi. Tu no! Tu resta fuori. E’ inutile che mi guardi con quell’occhio da cerbiatto. Sei disgustoso e mi fai schifo. Vai a piangere da un’altra parte… No, no, ho detto che non puoi entrare! E’ IL TUO RE CHE TE LO ORDINA!!! Mi hai convinto, più siamo e meglio è… Evviva!!!
 
   
 
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