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Autore: weitwegvonhier    26/10/2015    0 recensioni
[...]Tornò in sé all'improvviso e le parve come se una valanga di vita le fosse piombata addosso e si sentiva pesante, come se la stesse portando in braccio, quella vita, in giro per il mondo, e una vita può essere pesante da portare, per una ragazza di vent'anni che non è neanche sicura di volerla.
Genere: Generale, Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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UN GIORNO:

Eccola là, lei, con i suoi capelli biondi e le sue converse consumate, le mani gelate e la maglietta dei Nirvana nascosta sotto strati di felpe, la matita già un po' colata e gli occhi di quell'incredibile color ametista che quando li guardavi credevi di capire l'infinito e ti chiedevi come fosse possibile che esistesse qualcuno, al mondo, con due occhi del genere e pensavi che quando l'hanno inventata, quando la stavano disegnando, due pietre son cadute dal niente su quel foglio e al suo disegnatore son piaciute tanto che le ha lasciate e ce l'ha disegnata intorno, lei, così bella e così tremendamente in ritardo, come sempre, come ogni mattina, di corsa per prendere quel treno verso la città.
«Scusi! Mi scusi... Ops, chiedo scusa. Scusate...permesso» e così, come una pallina del flipper, sballottata a destra e a sinistra, tra uomini in cravatta con la loro ventiquattrore e classi di bambini accompagnati dalle loro maestre, saltò sul treno all'ultimo secondo, come succede sempre in quei film americani in cui l'ultimo secondo gioca il ruolo principale di tutta la trama; e così si sentiva, seduta sul sedile blu di quel treno regionale che la portava in città, come se, anche quella volta, avesse tagliato il filo giusto di quella bomba ad orologeria, che segnava gli 00:01 secondi.

Erano le sette e trenta di un lunedì mattina come tanti e lei stava seduta sul treno, con le sue inseparabili cuffie, mentre Polly risuonava nella sua testa, pronta -anche se mai abbastanza- ad affrontare una nuova giornata di studio, lezioni, professori irritanti e l'orribile pranzo in mensa.
Fuori il cielo era terso e si preparava una bellissima, freddissima giornata.
Chiuse gli occhi e si lasciò andare completamente alla musica, cullata dal treno, e le parve di volare, ad un certo punto; le parve che l'anima le si staccasse dal corpo e che andasse per conto suo, che fosse un'entità indipendente e si sentiva leggera e volava, sentiva come se il peso del mondo, per un momento l'avesse abbandonata, come se fosse libera e credette di percepire la felicità ed era tutto bellissimo...e poi la voce della signora che annunciava l'arrivo alla stazione. Tornò in sé all'improvviso e le parve come se una valanga di vita le fosse piombata addosso e si sentiva pesante, come se la stesse portando in braccio, quella vita, in giro per il mondo, e una vita può essere pesante da portare, per una ragazza di vent'anni che non è neanche sicura di volerla.
Così lei e la sua vita scesero dal treno, insieme ad altre centinaia di persone che si preparavano ad affrontare una nuova giornata: c'erano turisti, studenti, lavoratori, gente che tornava, gente che partiva.
Le stazioni sono il luogo in cui si può trovare la più grande varietà di vite che s'incrociano le une con le altre, per qualche secondo, talvolta per qualche minuto, pronte poi a separarsi per sempre o per un po', dove inconsapevoli destini compiono il loro percorso e dove lacrime e sorrisi s'abbracciano e dove gli addii si mischiano ai per sempre e si viene a creare un gioco di emozioni, un circolo vizioso di vite in continuo cambiamento che seguono percorsi che li porteranno chissà dove.
Così la ragazza dagli occhi viola e la sua vita scesero dal treno e si avviarono verso l'uscita, pronte -anche se mai abbastanza- ad affrontare il solito, vecchio lunedì.

Una valigia cadde sulle sue converse consumate dal tempo. «Scusami!» urlò una voce dall'altra parte dello scalino.
La voce si avvicinò. «Era rimasta incastrata in quella crepa e...scusami.» Il tono dispiaciuto della voce venne accompagnato da un sorriso e poi da un paio di occhi e da un naso e...beh, da tutto il resto.
«Non preoccuparti, in quella crepa prima o poi qualcuno ci si farà male.» Lei sorrise, innocente come sempre, bella come non mai, anche se lei non lo sapeva, anche se lei non ci credeva.
Sorrise, lui: «Ti chiedo ancora scusa e scappo, che sono già in ritardo, buona giornata!»
La voce sparì tra la folla insieme a tutto quello che era con lei.
«Buona giornata.» sussurrò lei fissando quella crepa.
Destini che si incrociano, pronti a separarsi per sempre, o forse per un po'.
Si avviò al dipartimento, in ritardo come sempre, pronta -anche se mai abbastanza- ad affrontare le prime due ore di chimica.



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UN ALTRO GIORNO:



Vuota: era così che si era svegliata quella mattina. Il perché di quella sensazione non le era chiaro, per niente, ma era certa che sarebbe stata una lunga giornata.
Non aveva voglia di fare finta, non aveva voglia di sorridere, avrebbe semplicemente voluto mettersi in un angolo a stare come stava senza che gli altri la guardassero, senza che gli altri chiedessero.
Scese dal letto e tutta la stanza sembrò ruotarle intorno, il bagno sembrava lontano e tutto era grande, intorno a lei: si sentiva come Pollicino, come una piccola personcina in un mondo di giganti.
Corse a prendere il treno, come sempre; corse velocemente, come sempre.
Le porte si chiusero e il treno partì: il mondo le sfrecciava accanto e attraverso e se chiudeva gli occhi sfrecciava dentro di lei e le faceva male, come se tutto la trapassasse. Il cuore batteva più veloce e il respiro si affannava e tutto andava così veloce che si sentì tremendamente lenta, tremendamente fuori luogo, come una tartaruga in una gara di velocità, e sapeva che non ce l'avrebbe fatta ad arrivare in fondo per tempo e, con la paura del traguardo, intanto si perdeva l'alba e i colori del cielo che sembravano dipinti da mani invisibili.
E si perdeva un paio di occhi verdi che le passarono accanto e attraverso, così come il mondo di fuori, troppo veloci per lei o semplicemente troppo.
Si voltarono per un secondo, quegli occhi e la videro, per un secondo, quella ragazzina dai capelli biondi che le ricadevano delicati sul seno, tutta accartocciata sul sedile, come a proteggersi da qualcosa, dal mondo, come a tenersi insieme, che se si fosse lasciata sarebbe caduta a pezzi.
Passarono avanti quegli occhi, insieme al resto del mondo e sparirono dietro una porta, insieme al loro padrone. Credette di averla sentita, lei, la porta che scorreva e si apriva, ma non lo avrebbe giurato e comunque non era importante.

Le persone facevano domande: “come stai?”, “che hai?”. Lei accennò un sorriso e rispose che non aveva niente, che la notte aveva soltanto dormito male.
Poi andò in bagno e vomitò, perché non era vero che non aveva niente ma non aveva voglia di parlarne.
Dopo si sentì come si sente un bicchiere di carta dopo la festa di compleanno di un bambino: vuota, accartocciata, inutile e di merda.
Si guardò allo specchio e si passò le mani tra i capelli: aveva gli occhi rossi e le guance rigate dalle lacrime. Non si ricordava il momento in cui aveva iniziato a piangere e non sapeva perché stava piangendo ma non poteva tornare così dagli altri.
Si sedette sulla tavoletta del water, si portò le gambe sotto il mento, le abbracciò e ci affondò il viso: pianse, pianse tutto quello che poteva in quel momento.
Poi si sciacquò il viso e sorrise alla sua immagine riflessa nello specchio. Si legò i capelli e forte come sempre -anche se mai abbastanza- tornò nel mondo reale.
   
 
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