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Autore: Crilu_98    26/10/2015    6 recensioni
Roma, 410 d.C.: il re Alarico ha invaso la Città Eterna. Isibéal, giovane schiava di origine britanna, promette alla madre in punto di morte che raggiungerà la terra d'origine che non ha mai visto; attaccata da un gruppo di barbari, si salva grazie ad un misterioso legionario. Diversi anni dopo, la ragazza ha ormai rinunciato a raggiungere la propria patria, ma l'incontro con il suo salvatore, ora inseguito da un manipolo di feroci Vandali, la porterà a stringere un patto inaspettato...
Dagli Appennini alle scogliere britanniche, passando attraverso città in rovina e nuovi centri di speranza, Isibéal sarà divisa tra due eredità lontane nel tempo e nello spazio: cosa, tra il richiamo delle sue origini e la leggenda di un mondo ormai in cenere, stabilirà il suo destino?
Genere: Avventura, Romantico, Storico | Stato: completa
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Antichità, Antichità greco/romana, Medioevo
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La cosa che ricordo in maniera più nitida di quella notte è il suono dei miei calzari sul selciato. Correvo come se avessi alle spalle gli spiriti dell'Oltretomba, e in un certo senso era così.
Nessuno, fino ad un mese prima, avrebbe mai creduto possibile che Roma, la grande, l'eterna Roma, potesse essere espugnata: sì, i visigoti di Alarico marciavano verso di noi, ma non potevano davvero pensare di prendere la Città Eterna. Anche mentre correvo tra gli edifici in fiamme per salvarmi la vita mi sembrava tutto troppo irreale: i barbari che sciamavano come mosche nelle strade, uccidendo e distruggendo, i nostri padroni riversi sul loro sangue nel cortile della domus, il sacrificio di mio padre, la morte di mia madre...
Forse è meglio che io ordini i miei pensieri, prima di affidarli alla memoria di questa pergamena, altrimenti si intrecceranno come i fili della vita sul telaio delle Norne* e sarà impossibile districarli.
Chi sono io? E' difficile a dirsi, o per lo meno, era difficile dire chi ero quella notte dell'anno del signore 410.
Fino ad allora, infatti, le Norme avevano teso per me un filo doppio: di giorno ero Fulvia, la rossa, schiava figlia di schiavi, quella taciturna che seguiva con zelo i propri padroni ad ogni funzione religiosa; di notte tornavo ad essere Isibéal, discendente di guerrieri britanni ed ascoltavo con attenzione mia madre che mi raccontava della nostra gente, della patria lontana che lei e mio padre non vedevano da quando erano bambini.
Eravamo una famiglia fortunata, in fin dei conti: il nostro dominus aveva concesso loro di sposarsi (secondo rito cristiano, però) e di tenermi con loro e non era eccessivamente severo nei nostri confronti.
Io ero addetta alla cura della secondogenita dei Cecilii, Octavia, fin da quando avevo dieci anni. Octavia aveva un anno in più di me, lunghi boccoli scuri ed un corpo formoso che dimostrava più dei suoi sedici anni: era arrogante, capricciosa, a volte anche aggressiva, ma non cattiva. Sentiva attorno a sé l'aura di superiorità che il suo antico retaggio romano le conferiva e credeva che ciò l'autorizzasse a trattarmi come un oggetto: fui picchiata varie volte perché, al diavolo la pazienza cristiana, avevo deciso di ripagare gli schiaffi della mia padroncina alla stessa maniera. Avevo sangue celtico, per la miseria! Cosa si aspettavano, che chinassi il capo e mi lasciassi umiliare senza colpo ferire?
Quella sera, dopo essermi congedata da lei, ero tornata a dormire nella stanza che dividevo con mia madre ed altre ancelle, ma non riuscivo a dormire. Restai ad occhi aperti nel buio, come in attesa di qualcosa... Ed infine lo sentii: lontano, come un richiamo, un flebile segnale di pericolo.
Svegliai mia madre, che si tirò a sedere sul giaciglio stropicciandosi gli occhi e spostandosi i riccioli rossi da davanti al viso.
-Cosa c'è, Isibéal?- mormorò assonnata.
-Non lo sentite madre? Questo rumore di zoccoli?-
Mia madre tese le orecchie nello stesso modo in cui mi aveva insegnato: era una tecnica dei nostri antenati, diceva, allenare l'udito per la caccia e la guerra. Vidi la sua espressione corrucciarsi e il suo viso sbiancare:
-Presto!- esclamò, balzando in piedi e svegliando le altre donne. -Presto, non c'è tempo da perdere, svegliate i padroni!-
Non fece in tempo a spiegarsi, perché fu allora che dalle periferie della città si levò un boato di grida e di corni che svegliò tutta Roma. Ci bastò affacciarci dal tetto per capire: i visigoti erano arrivati ed in qualche modo erano riusciti ad entrare. Il Senato aveva fallito, Roma era caduta: io, mia madre e le altre serve ci guardammo sgomente, alcune addirittura scoppiarono a piangere nel sapere che la più grande civiltà del mondo stava cadendo a pezzi.
Mia madre scosse la chioma fulva per riprendersi ed affermò con voce autoritaria:
-Se rimanete qui a piangere e a lamentarvi i barbari vi troveranno, vi faranno violenza e vi uccideranno. Forza alzatevi: prendete le vostre cose, i bambini, trovate i vostri mariti e fuggite, via, via da Roma!-
-E come faremo?- obiettò una -Noi non siamo barbare come te, Eileen, noi non siamo state educate a comportarci come gli uomini!-
Mia madre la squadrò severamente con le sue iridi verde foglia che avrei desiderato ereditare:
-Vero, vi hanno insegnato a stare zitte, ad obbedire, a chinare il capo. Ma chi è che aiuta ogni uomo a venire al mondo? Noi. Chi prepara un uomo al suo ultimo viaggio, chi lo lava, lo profuma, lo veste, chi si lamenta sul suo corpo? Noi. E se siamo le uniche in grado di presiedere ai passaggi tra i mondi, come lo sono la nascita e la morte, allora possiamo anche osservare una città morire. Non per perire con essa, ma per raccoglierne le ceneri e farne nascere una nuova! Dovete salvarvi, e salvare la memoria della vostra gente, come io e Ulf abbiamo fatto con Is... Fulvia. Solo così salverete Roma!-
Persuase dal suo discorso le nostre compagne sparirono alla ricerca delle proprie famiglie, dopo averci lanciato un ultimo saluto e un affettuoso cenno di buon augurio.
Solo una rimase a sedere, impassibile, a guardare Roma bruciare, né io o mia madre provammo a distoglierla: Silvia, una vecchi serva dalla pelle incartapecorita e gli occhi quasi bianchi, non aveva la forza né il desiderio di lasciare la domus.
-Voglio solo morire in pace!- sbottò infastidita, quando le poggiai una mano sulla spalla per dirle addio. Mi voltai con le lacrime agli occhi: era stata come una nonna per me e sapere che di lì a poco sarebbe morta, probabilmente uccisa, mi spezzava il cuore.
Ma non ebbi quasi tempo di rammaricarmi per lei: al centro del cortile il dominus e sua moglie erano stati assaliti da un gruppo di barbari distaccato dal grosso dell'esercito ed ora agonizzavano sotto i loro colpi crudeli. Solo la mano di mia madre sulla bocca mi impedì di gridare quando vidi chi era la terza figura che era appena caduta in ginocchio ed aspettava il fatale colpo d'ascia di una di quelle bestie. Mio padre alzò comunque gli occhi e mentre l'arma calava sul suo collo ci lanciò un'ultima occhiata d'affetto.
Sentii qualcosa di caldo bagnarmi la nuca mentre scivolavo fuori dalla domus, nell'ombra: mi voltai, e capii che erano le lacrime di mia madre. Non le dissi nulla, il suo orgoglio non lo avrebbe apprezzato: è stata lei ad insegnarmi a controllare le mie emozioni, a mantenere la calma esteriore.
Iniziammo ad attraversare la città e solo quando fummo nei pressi del Foro mi ricordai di Octavia: non l'avevo vista in giardino, così pregai per lei, affinché si salvasse e riuscisse, con un po' di fortuna, a raggiungere i suoi parenti a Napoli. Non so bene a chi mi rivolsi: tutti gli dei, compreso il Signore cristiano, quella notte mi sembravano vuote entità.
Inizialmente non capivo perché mia madre si dirigesse con tanta fretta a nord, poi compresi: voleva raggiungere la parte opposta di Roma per poi proseguire verso la Gallia e la Britannia. Quel pensiero mi fece girare la testa e per un attimo persi l'equilibrio. Tanto bastò: mia madre si voltò e una freccia, arrivata da chissà dove, scoccata da un nemico o forse da un amico, le si piantò nel ventre.
-Madre!- gridai, piena di terrore. Lei abbassò incredula lo sguardo sulla ferita e sulla macchia di sangue che si allargava sempre di più. Scivolò a terra aggrappandosi al mio braccio e trascinandomi con sé:
-I-Isibéal...- balbettò -Il... Cerchio di Pietre. Raggiungi il Cerchio di Pietre... Oltre il vallo, nelle montagne. Lì... Lì capirai.-
-Madre, no, per favore...-
Si portò le mani tremanti al collo e con un sospiro staccò il ciondolo di selce che portava al collo. Da quanto avevo memoria non se ne era mai separata e quel gesto mi preparò all'inevitabile.
-Bambina mia...- mormorò ancora, accarezzandomi la guancia prima di spirare.
 
Avevo quindici anni, la mia città era sotto assedio e i miei genitori, gli unici a conoscere la strada per la Britannia, erano morti. Non sapevo cosa fare e vagavo come impazzita. All'improvviso tre barbari a cavallo mi si pararono davanti: vestiti di pelle e con i lunghi capelli intrecciati non erano molto dissimili dalle bestie che cavalcavano. Risero davanti alla mia espressione impaurita e smontarono, continuando a blaterare qualcosa nella loro lingua incomprensibile. Cercai di scappare ma loro erano più alti e robusti e mi furono addosso in un attimo. Uno mi sollevò di peso per la vita e mi mise una mano in bocca. Mossa sbagliata: strinsi così forte da ferirlo e costringerlo a mollarmi di botto. Ringraziai lo spirito di mio padre per aver insistito tanto a limarmi i canini come voleva la tradizione della sua tribù.
I tre barbari erano però ancora più arrabbiati:
-Piccola cagna!- sbottò il primo, tenendosi la mano. Parlava un latino stentato e dal pesante accento. Ero terrorizzata, ma non chiusi gli occhi: se proprio la mia vita doveva finire così, l'avrei vissuta fino in fondo.
Fu allora che le mie orecchie allenate percepirono un'altra presenza nel vicolo in cui i miei assalitori mi avevano spinta. Prima ancora di vederlo, sentii il pugnale trapassare da parte a parte il torace del barbaro più a destra; gli altri due si voltarono sorpresi ed intimoriti verso il nuovo arrivato. Era un legionario dalla lorica** insanguinata, che stringeva tra le mani una spada ed un pugnale. Alto e robusto, quando venne avanti potei vedere, grazie alla luce delle fiamme sempre più alte, che era stato ferito alla fronte, sopra l'occhio sinistro, e che aveva perso l'elmo. Aveva capelli corti e neri come le piume dei corvi e alcune ciocche erano bagnate di sangue. Si fece avanti lentamente e la sua ombra si stagliò minacciosa di fronte ai guerriglieri. Uno di loro, il più coraggioso o forse il più pazzo, gli si slanciò contro urlando. Il legionario evitò l'affondo con un fluido scatto di lato e con una spallata lo fece cadere a terra, affondando poi la spada nel su ventre. L'ultimo barbaro rimasto pensò bene di dileguarsi prima di subire la stessa sorte dei compagni.
L'uomo si voltò verso di me ed io istintivamente rabbrividii: i suoi occhi castani erano cupi e celavano un aggressività e un'ira a stento repressa. Tutto l'atteggiamento del legionario ricordava quello di una belva pronta ad attaccare: si era rivolto contro i barbari, ma ora che c'ero solo io?
"Forse è un disertore!" pensai con una punta d'apprensione.
L'uomo si avvicinò ed io ero talmente affascinata dai suoi movimenti da predatore che non mi mossi né tentai di scappare. Si inginocchiò finché i suoi occhi non furono all'altezza dei miei: aveva un'espressione ferita e corrucciata.
-Perché sei ancora qui?- ringhiò, tagliente. Io non risposi, paralizzata dalla paura. Le mie narici avvertirono l'odore pungente del sangue e del sudore maschile.
-Allora?- ripeté lui.
-Io... Io... Non lo so... Devo andare...- pigolai stupidamente.
-Ecco esatto. Scappa.- borbottò l'uomo rialzandosi, laconico ed infastidito. Mi alzai anche io in piedi, con un po' di fatica, e ripresi la mia corsa. Quando giunsi in fondo al vicolo mi voltai per chiedergli il suo nome, ma vidi solo la sua figura scartare nella strada principale e perdersi nel caos dell'assedio.
 
Non ricordo bene come giunsi fuori città. Un misto di astuzia, prudenza e fortuna, presumo. So solo che mi accasciai sulle rive del Tevere, in un punto riparato e lontano dall'accampamento dei Visigoti, e caddi in un sonno senza sogni. Quando il mattino dopo mi svegliai, i barbari stavano ancora razziando Roma e sul momento non seppi cosa fare: sola al mondo, circondata da guerre e popoli ostili e con una fame terribile che mi attanagliava lo stomaco.
Vagai per i campi deserti e bruciati alla ricerca di cibo, ma trovai ben altro: una ragazza scarmigliata, con i vestiti stracciati e coperta di graffi e sangue. Lì per lì non la riconobbi, poi...
-Octavia!-
-Fulvia!- singhiozzò lei piangendo. Era distesa ad un lato della strada, rannicchiata su sé stessa e piangeva in modo incontrollabile: i barbari che l'avevano picchiata e violentata l'avevano abbandonata lì convinti che fosse morta.
Non sapendo cosa dire, la strinsi tra le braccia in silenzio, con il cuore pieno d'angoscia per l'indomani..
 
 
* Le Norne sono divinità nordiche assimilabili alle Parche romane e alle Moire greche: risiedevano sotto l'albero della Vita e si chiamavano Uror, Veroandi e Skuld.
** La lorica era la cotta di ferro tipica dell'armatura dei legionari.
 
Angolo autrice:
Ancora non riesco a credere di aver iniziato un racconto di genere storico dotato di senso compiuto!
La trama ce l'avevo in testa già da un po', ma ho iniziato a metterla per iscritto dopo aver letto "L'ultima legione" di Valerio Massimo Manfredi, che mi ha dato alcune dritte per rendere la storia più credibile: sebbene alcuni elementi possano ricondurre a quel libro, i personaggi e le ambientazioni sono di mia invenzione.
Alcune precisazioni: Isibéal e la sua famiglia fanno parte di quelle popolazioni chiamate Pitti o Caledoni che abitavano più o meno tutta la Britannia oltre i Valli di Adriano ed Antonino e che rimasero ostili ai Romani per molto tempo dopo la parziale conquista dell'isola. Avendo pochissime informazioni sui culti e sui costumi di questi popoli, prenderò in parte spunto dalle tradizioni nordiche (come, in questo capitolo, le Norne) e celtiche.
Visto che è la mia prima storia di questo genere, mi farebbe piacere ricevere delle recensioni, positive o negative che siano, per capire se ho fatto un pasticcio totale o se può andare XD! Allora, vi starete chiedendo cosa sia successo ai 41 capitoli di questa storia e la spiegazione è... 

HEREDITAS VERRA' PUBBLICATA! :D.D.D.D

In versione ebook da Dario Abate Editore ed è per questo che l'ho rimossa sia da efp che da Wattpad. Però volevo ringraziare tutti i lettori che hanno portato Hereditas dov'è ora; è passato più di un anno da quando ho iniziato a scrivere il primo capitolo e sono cresciuta con Isibéal, Fabio e tutti gli altri, non solo come scrittrice ma anche come persona. E gran parte del merito è vostro che con le recensioni, le critiche, gli incoraggiamenti o anche solo con una lettura silenziosa mi avete spronata a migliorare ogni giorno. 
Grazie di tutto. 

Crilu 

 
   
 
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