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Autore: Alphame    27/10/2015    1 recensioni
*seconda classificata Concorso Letterario Attilio Romanò*
Allora mi convinsi che il problema era stare, sopravvivere.
Un corpo che parla, si muove, pensa e che ripete ciò fino alla morte sopravvive.
Allora come posso sentirmi vivo ?
Non devo più restare.
Via dalla mia città : bella, affollata, calorosa, che affonda le sue radici nella tradizione e nella cultura.
Potrei trovarmi altrove e sentire la stessa voglia di partire, di andare lontano.
Noi esseri umani non siamo fatti per restare.
Genere: Avventura, Introspettivo, Suspence | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: Missing Moments | Avvertimenti: nessuno
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Hei, ne è passato di tempo ...
l'ultima volta che ho pubblicato su efp, si trattava di fanfiction, adesso provo qualcosa di nuovo.
Pubblico questo racconto che mi ha fatto vincere un concorso iportante nella mia città e spero vi piaccia!
Se avete domande o avete bisogno di chiarimenti, recensite! ^_^
Rispondo eh, sia chiaro. Buona lettura
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Ero talmente seccato per quel viaggio inutile che saltai del tutto il pranzo.
Era stato uno spreco di tempo, denaro ed energie. Non mi presi il disturbo di salutare il sole che tramontava né di offrirgli la tradizionale preghiera, intento com’ero a fissare il cofano azzurro del camioncino dritto davanti a me sopra la strada asfaltata.


In realtà non avevo una meta precisa. Mi ero prefissato di andare lontano, oltre i confini della città, senza indugio.

Mi sarei lasciato tutto alle spalle per ricominciare di nuovo.

Magari, non c’era scritto questo nel mio destino.

L’idea del viaggio era stata finemente premeditata nei minimi dettagli.

Ho solo 24 anni e quella che può sembrare solo una bravata nata da una ribellione giovanile, è invece qualcosa di diverso, di rivoluzionario.

Fin da bambino non ho avuto un’infanzia felice.

Riconosco di non essere stato vittima di gravi tragedie, ma non ricordo momenti felici o degni di essere raccontati.

Non mi sono mai sentito parte di niente : di un gruppo, di un’ideologia, di una famiglia, di una città.

Non sento mia nessuna terra ormai, non sento altro che un immondo vuoto dentro.

Certo, sono sempre vissuto nell’agio : una casa, un cellulare, un lavoro, i soliti viaggi all’estero d’estate.

Ebbene, nulla di tutto ciò mi ha mai davvero soddisfatto.

Perché aldilà di tutto ciò che la società può offrirti, ti senti trascinato in un vortice di piaceri, doveri, luci, colori, parole e da quelle che
sembrano emozioni.

Ma lo sono davvero?

Sono forse un concentrato di stimoli confusi pompatoci nelle vene anche quando non ne riconosciamo la natura, l’essenza? 

Ed è proprio a causa di questo vuoto che ora sono qui.

E’ a causa di questa enorme, profonda voragine che sono intento a fissare in modo assente il cofano del mio camioncino.

Fu in una giornata come le altre, di vuoto assoluto, che sperimentai una soluzione al mio problema.

Cominciai a non contattare i miei amici e a rendermi, stavolta, assente anche fisicamente e … me ne andai.

Fu un atto nuovo, imprevisto che per pochi istanti mi fece provare un brio sinistro simile a un getto d’acqua ghiacciata sulla pelle.

Quella sensazione non durò molto, anche perché avevo semplicemente premuto l’acceleratore dell’auto per sfrecciare lontano, ma mi fece riflettere.

E se io non ci fossi più? Se scomparissi?

Cambierebbe qualcosa?

Stetti fuori casa tutto il giorno, senza acqua nè cibo, senza nessuno.

Il rombo del motore a farmi compagnia e un turbine di pensieri vorticosi nella mente.

Pensieri, ancora nessuna emozione.

Il giorno seguente provai a ristabilire l’ordine : mi sentii con i miei amici come se nulla fosse accaduto senza mai raccontare loro delle mie angosce.

E in effetti non notai differenza fra i due giorni appena trascorsi.

Durante il primo avevo provato la velocità, il vento nei capelli, la solitudine. Nel secondo mi ero esercitato a portare la mia maschera di
allegria e complicità per “cacciare” la solitudine.

Allora mi convinsi che il problema era stare, sopravvivere.

Un corpo che parla, si muove, pensa e che ripete ciò fino alla morte sopravvive.

Allora come posso sentirmi vivo ?

Non devo più restare.

Via dalla mia città : bella, affollata, calorosa, che affonda le sue radici nella tradizione e nella cultura.

Potrei trovarmi altrove e sentire la stessa voglia di partire, di andare lontano.

Noi esseri umani non siamo fatti per restare.

E così stamattina, sono partito.

Ho salutato i miei genitori senza troppe cerimonie e mi sono messo alla guida del camioncino.

Non ho detto a nessuno della mia decisione, dubito che qualcuno mi avrebbe dato retta.

E così alle prime ore del mattino ero già in viaggio diretto per chi sa dove.

Il viaggio cominciò in modo tranquillo, la strada era deserta come ci si aspetta all’alba. Dopo poche ore avrei visto scolari incamminarsi

verso la scuola. Quelli studiosi con uno smagliante sorriso e quelli sfaticati col broncio. Poi i genitori premurosi con i loro sorrisi

incoraggianti e gli adorabili nonni con i loro consigli sempre graditi.

Ricordai improvvisamente i tempi della scuola : non avevo certezze, solo un mare di dubbi e di doveri da svolgere, regole da infrangere.
Girai il manubrio.

Di fianco a me scorrevano file di negozi ancora chiusi dalle verande di ferro, le insegne luccicanti.

Svoltavo veloce a destra e poi a sinistra ritrovandomi a rivisitare la mia città nei suoi meandri più nascosti.

La visitai tutta dai quartieri più ricchi ed eleganti a quelli in miseria dove anche l’aria odora di povertà.

Io ero fermo, immobile nel mio mezzo e intorno a me scorrevano flash intermittenti e confusi, a mano a mano che la velocità aumentava.

Le parole e le voci dei passanti che alle prime ore del mattino cominciavano a fare capolino dalle loro abitazioni per ripetere la routine
quotidiana, risultavano distorte e alterate come interferenze alla radio.

I visi, pallidi e stanchi, deformati dal vento, i corpi così piccoli visti dallo specchietto laterale.

Ad un certo punto smisi di pensare, guardare e sentire e mi concentrai sul vento e il sudore sul mio viso, sulla strada dritta e sgombra davanti a me..sulle palpitazioni del mio cuore.

Mi sentivo vivo.

Sentivo di cambiare me stesso e il mondo.

Come se il mondo fosse racchiuso nel mio camioncino e il resto fuori fosse solo uno sfondo colorato e indefinito.

Dov’ero e dove stavo andando erano domande ormai perse nella mia mente.

Eppure una sirena della polizia catturò la mia attenzione, seguita da urla di persone e rumori di colluttazione.

Tutto ciò mi distraeva dal mio vero obbiettivo : scappare.

Schiacciando l’acceleratore, sfrecciai ancora più forte dirigendomi verso un’altra strada lontana dalle case, dalla polizia, dalla gente, dalla città.

La macchina proseguì per tante ore, persi il conto di quante.

Non ricordo nemmeno quante macchine della polizia evitai, quante strade incrociai e quante ne percorsi.

So solo che all’imbrunire mi ritrovai in un vicolo cieco.

Una lunga e stretta strada che portava a un muro, un confine invalicabile.

Intuì che il sole stava tramontando perché nell’auto si dipingevano ombre scure e il mio volto era colorato da una macchia vermiglia.

Faceva freddo, sentivo uno spiffero di vento gelido provenire dai finestrini.

Lontano dalla città, finalmente.

Terra sconosciuta.

Tutto intorno a me si presentava coma una landa deserta interrotta da una sottile striscia di strada asfaltata.

Uscii dal camioncino asciugandomi la fronte sudata e accorgendomi di avere una certa fame avendo saltato il pranzo.

Controllai quindi il portafogli semivuoto, qualche banconota per fare il pieno di benzina e una foto di mia madre custodita in una foderina di plastica.

Che altro?

Guardai le lancette dell’orologio senza capire che ore erano mentre mi dirigevo vicino al cofano del mio fedele mezzo chiedendomi se la
mia vita era finita o appena iniziata.

E così mi assalì una cruda consapevolezza.

Quel viaggio non aveva portato a niente.

Non ero libero e non lo sarei mai stato, ed ecco riapparire il senso di vuoto.

Fissai il muro dinanzi a me.

Invalicabile.

Poi mi voltai a scrutare la strada dietro di me, appena percorsa.

Infinita.

E fu così che si materializzarono due scelte : la città mi avrebbe portato una vita di infinite sorprese e routine tutte finalizzate al

compimento di un’esistenza vuota e uguale ad ogni altro essere umano.

Il muro ad un nuovo inizio, un’incognita, un pacco a sorpresa.

Ero stanco di rimanere.

Così abbandonai il furgone, buttai a terra il portafogli e l’orologio.

Lasciai il cellulare e mi allontanai di alcuni passi verso il muro oltre la campagna.

Non so come ma lo oltrepassai.

Nel momento in cui il mio piede toccò il morbido terreno umido dell’altra metà della città una forte emozione prese il sopravvento.

Mi sentii vivo e libero di fare qualsiasi cosa, lontano dal mondo, dai suoi pregiudizi, dalle sue bugie e dalla sua continuità mortale.

Scrutai l’orizzonte sconosciuto e cominciai a correre.    
   
  
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