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Autore: dreamkath    29/10/2015    0 recensioni
Cosa ci può essere dietro una chiave? Una storia? L'amicizia? Un mondo? Un percorso verso un nuovo se stesso? Tutto questo. Lidia, Gaia e Sara sono tre sorelle con caratteri totalmente differenti. Vanno a scuola, hanno degli amici... ma non sarebbe monotono se qualcosa non rompesse questo equilibrio? Grazie a una chiave e a un ragazzo turbolento vivranno la loro vita tra finzione e realtà.
Dal primo capitolo:
Lidia non riusciva a smettere: era letteralmente piegata in due dalle risate. Roberto, dato che Lidia era leggera e piccola di statura, riuscì a sollevarla e a caricarla sulla sua spalla a testa in giù. La ragazza, non molto contenta della situazione dato che soffriva di vertigini, protestava e dava dei piccoli pugni sulla schiena del ragazzo. Giulia guardò insieme a Gaia la scena ridendo, mentre Paolo approfittava della distrazione di Giulia per fornirsi anche lui di un cuscino e per iniziare la vera lotta.
Genere: Sentimentale, Sovrannaturale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Lidia fluttuava senza alcun peso tra le poche stelle che illuminavano un paesaggio a lei del tutto estraneo. Montagne ombrose e cupe torreggiavano, in un contrasto quasi irreale, sulla grande città che si distendeva disarticolata e caotica in un intreccio di suoni, luci e ombre. Lidia sapeva che era un sogno, ma non riusciva a scrollarsi di dosso la fastidiosa sensazione che il paesaggio sotto di lei acquisisse sempre più consistenza man mano che si avvicinava ad osservare le vie della città. I dettagli diventavano sempre più nitidi: non percepiva solo quelli visivi, ma anche i suoni e gli odori. L’unico senso che non sembrava connesso era il tatto. Pur essendo a contatto con il ruvido asfalto non sentiva l’attrito sui suoi piedi nudi, né tanto meno il peso del suo stesso corpo. Era libera, ma anche sperduta in una città che non conosceva. La paura si insinuò vigliaccamente nel suo corpo paralizzato, e per un attimo ritornò ad essere la bambina di cinque anni che si era persa al mercato. Per calmarsi aveva bisogno di distrarsi. Si guardò attorno e, non appena vide una panchina, vi si sedette in silenzio guardando i passanti sfilare sul marciapiede. Osservare le persone in uno qualsiasi dei momenti quotidiani era un hobby che non aveva mai saputo rimuovere, nonostante le numerose volte in cui la madre le ricordava che fissare a lungo gli estranei era un gesto rude.

Trovava sempre nelle loro pose qualcosa che valeva la pena disegnare, qualcosa che legava sia le sue emozioni che quegli estranei al suo album da disegno. Anche in quello strano sogno trovò il suo soggetto e inconsciamente prese a seguirlo, dapprima solo con lo sguardo, poi, in un secondo momento, affiancandolo. Lo aveva scorto quasi subito, e, tra tutta quella folla, sapeva che lui sarebbe stato il soggetto di quell’osservazione. Si sentiva una calamita attratta dalla sua figura schiva, ma non per questo meno notabile tra le altre. Perciò allungò il collo per poter scrutare a fondo ogni dettaglio del suo aspetto e per ritrarre insieme ad esso anche quello dell’animo. Una forza più grande di lei la fece dissolvere e mescolarsi all’essere del ragazzo. Adesso non era Lidia Dono, ma era lui. Ogni sua emozione le apparteneva, ogni suo gesto lo comprendeva, ma la sua presenza era solo passiva non interferiva con la volontà del ragazzo in alcun modo.

Camminava lentamente tra sorrisi, chiacchiere, passi frettolosi e silenzi. I suoi occhi cupi e scuri avrebbero potuto trovare un’anima affine nelle acque del torbido lago, che lento scivolava dalla profondità oscura dell’orizzonte fino alla costa, sulla quale colori e suoni si mescolavano in un tipico scenario notturno ed estivo. Tuttavia, il ragazzo non rivolse mai lo sguardo verso il lago. L’unico oggetto della sua distratta, se non del tutto assente, attenzione era il suolo del ponte che stava attraversando. Manteneva le spalle curve per permettere alle mani di restare nelle tasche dei jeans scuri. Il cappuccio della felpa copriva i capelli disordinati e le cuffie, con le quali stava assordando la mente pur di non pensare e di scacciar via la rabbia, la solitudine e il senso di colpa che lo avevano tormentato negli ultimi giorni con particolare insistenza. Avevano messo radici salde e penetranti, martellavano, picchiavano la coscienza, facendo ora accelerare il passo, ora muovere il braccio in un gesto di stizza.

Pochi passanti fecero caso al ragazzo, ancora meno si chiesero cosa gli passasse per la testa, ma nessuno si fermò a chiederglielo.

Perché quel dolore? Perché quella rabbia continuava a scuotergli l’anima come se il dio della guerra fosse sceso a patti con Nettuno? Perché la rabbia veniva mitigata dal senso di colpa, ma non smorzava il dolore? E perché la solitudine lo faceva sentire così indifeso, così arrabbiato e così vuoto? Non c’erano né una risposta, né un vera causa. Sapeva solo che gli prudevano le mani, che le sue corde vocali erano in fiamme, perché volevano urlare contro il mondo e le persone che non gli avevano insegato a comunicare, a rendere più facile quel gioco fragile di parole.

L’unico momento di pace era durante un rissa. La rabbia scacciava il resto. Non c’era più posto per la ragione. Mentre combatteva, sentiva solo il respiro affannato, le ossa che si rompevano sotto le sue nocchie e un punta di insoddisfazione. Non aveva mai avuto difficoltà nel buttarsi nella mischia e darle di santa ragione a chiunque avesse avuto il fegato di irritarlo. Un occhiata storta, dei commenti poco apprezzabili ed era fatta: lo scontro iniziava. Neanche la rissa di quella sera si era lasciata supplicare per essere fomentata. Quel gruppetto sgangherato di soli tre coetanei, appena uscito da un bar, lo aveva preso di mira non appena lo vide camminare lentamente sul marciapiede difronte.

“Ehi, amico! Come mai quell’aria truce?” Chiese con tono derisorio il ragazzo che sembrava il leader, mentre gli sfilava le cuffie. In pochi secondi si vide circondato e, sorridendo a quell’opportunità di sfogare la sua rabbia, sferrò un pugno al ragazzo che gli aveva rivolto la parola. Il setto nasale del ragazzo si spezzò sotto il colpo e il dolore lo costrinse a piegarsi in due, mentre le lacrime gli sfocavano la vista. Una volta a terra, infierì su di lui con un calcio sulla mandibola che lo fece sdraiare supino. Uno degli amici del ragazzo dolorante cercò di reagire e di sorprenderlo alle spalle, ma ormai quell’uragano di rabbia seppellita dentro di lui era stata liberata dal guinzaglio e non poteva più essere fermata. Alla fine non rimase altro che sudore, sangue e quell’odiosa insoddisfazione. Il ragazzo si rimise le cuffie alle orecchie e riprese a camminare sempre con la stessa andatura e sempre senza alzare lo sguardo, neanche quando aveva cominciato a piovere. A quel punto Lidia riprese possesso della sua identità e per la prima volta realizzò che lui gli ricordava il nuovo arrivato, Luca. Era un animale ferito, chiuso in una gabbia con nessuna consapevolezza di come uscirne. Una lacrima solcò le guance di Lidia e, al posto del ragazzo, per la prima volta in quella sera, guardò il cielo: era nero e carico di nuvole.

  
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