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Autore: Emmastory    30/10/2015    5 recensioni
Si nasce, e la vita ha inizio. In un mondo ideale, la fortuna e l'amore ci accompagnano fino all'ora della nostra ineluttabile morte, ma così non è per la giovane Malika. Stupida, matta, idiota, diversa, disgrazia. Cinque vocaboli che conosce perfettamente, e che è ormai stanca di sentire. Ammirate il suo viaggio in una vita che non è capace di controllare, e prendetele la mano stringendola per tutto il tempo. Fra una riga e l'altra, conoscerete Malika, ragazza baciata non dal sole ma dalla cattiva sorte.
Genere: Introspettivo, Romantico, Triste | Stato: completa
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate, Violenza
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Amici-immaginari-mod
 
 
 
 
 
 
 
Amici immaginari
 
 
Capitolo I
 
 
Mia sorella ed io
 
La mia vita. Ha un inizio pari a quello di qualunque altra, ovvero con la mia nascita. i miei genitori, Rudolph e Tessa, vivevano insieme come una coppia sposata, e speravano in un nuovo arrivo in famiglia, così che lo stesso potesse renderli felici. Un giorno la loro buona stella decise di sorridergli, regalando loro due adorabili bambine, ovvero me e mia sorella Brooklyn, meglio conosciuta come Brooke. Siamo gemelle, ma lei è più grande di me. Quando è nata, i miei genitori si sono scambiati una dolce occhiata d'intesa, che lasciava trasparire tutto il loro amore. Mia sorella Brooke era il ritratto di mia madre. Essendo bionda e con degli occhi azzurri come l’oceano, era la bimba più carina che avessero mai visto. Qualche minuto dopo, sono nata io, e nessuno sembrava aspettarsi me. Capelli marroni e occhi castani. Un unico difetto faceva sì che nessuno dei miei genitori volesse guardarmi o prendermi in braccio. La mia pelle. Avevo una carnagione davvero scura, e questo mi faceva apparire ai loro occhi come una sorta di orribile abominio. Ora come ora, un secondo ricordo si fa spazio nella mia mente. Avevo quattro anni, e mentre mia madre era impegnata a tenere in braccio mia sorella, mio padre la fulminò con un'occhiata carica di odio. Subito dopo, uscì dalla porta di casa senza dire una parola. Mia madre iniziò quindi ad urlargli contro. Dormivo, ma venni svegliata da quelle grida strazianti. Alzandomi dal divano dov’ero sdraiata, decisi di provare ad investigare la situazione. “Dove credi di andare?” chiese mia madre, in tono perentorio. “Vado da papà.” Risposi, arrestando per un attimo il mio cammino. “Torna subito qui!” gridò, in evidente collera. Impaurita, decisi di voltarmi e raggiungere mia sorella. Dopo quanto era accaduto, dovetti ammettere che un pizzico d’amore da parte sua era quello che mi serviva. Così, decisi di avvicinarmi e posare le labbra sulla sua guancia. Spaventata da quella reazione, mia sorella scelse di ritrarsi, trovando rifugio fra le braccia di nostra madre. “Falla smettere.” Le disse, sperando nel suo aiuto. “Lascia stare tua sorella.” Mi ammonì, guardandomi negli occhi. “Non le ho fatto nulla.” Piagnucolai, tentando di difendermi. “Fa silenzio!” gridò, alzandosi in piedi e avvicinandosi a me. Subito dopo, la vidi fissare il suo sguardo su di me, e l'occhio invelenito con cui mi guardò mi incuteva terrore. Nello spazio di un momento, vidi mia madre abbassarsi e prendermi in braccio, per poi iniziare a camminare verso la porta di casa ora aperta. Poco tempo dopo, mia madre mi lasciò andare , in modo tale che posassi i piedi sul terreno. Era la prima volta che vedevo il cielo, gli alberi e la natura attorno a me. Ad ogni modo, rimasi lì, ovunque fossi. Guardandomi intorno, scoprii di trovarmi nel giardino di casa, luogo dove sembravo venir mandata ogni volta che mi comportavo male. Voltandomi, vidi mia madre rientrare in casa, e richiudersi lentamente la porta alle spalle. Alcune ore passarono velocemente, ed io decisi di sdraiarmi all'ombra di un grande albero. “Vieni dentro.” Disse mia madre, tacendo subito dopo. Obbedendo a quella sorta di ordine, rientrai subito in casa. Mia sorella, ora seduta su una piccola sedia trovata in cucina, rideva. A quella vista, iniziai istintivamente a piangere. Rifugiandomi quindi in camera mia, mi lasciai cadere sul letto, dove mi abbandonai ad un pianto dirotto. Con l'arrivo della sera, imparai un'importante lezione, che identificai come verità. Ero diversa, e ogni persona a me cara avrebbe dovuto imparare ad accettarlo.
 

 

 

 

 

 

 

 
 
Capitolo II
 
 
Trovare un amico
 
 
Tre anni della mia vita avevano appena raggiunto il loro culmine, e quel giorno compivo sette anni. Appena un giorno dopo il nostro compleanno, nostra madre decise che era per me e Brooke arrivata l'ora di andare a scuola. Mia sorella, felicissima all'idea di frequentare un posto così brulicante di bambini della sua stessa età, non riuscì letteralmente a smettere di guardare fuori dal finestrino dell'auto fino alla fine del viaggio. Non appena raggiungemmo la nostra destinazione, scendemmo entrambe dall'auto, ed io vidi mia madre baciare lievemente la fronte di Brooke. “Divertiti a scuola.” Disse, sorridendo. “Ti renderò felice.” Risposi, posando il mio sguardo su di lei. “Parlavo con tua sorella.” Rispose, con aria alquanto seccata. A quelle parole, non risposi, limitandomi ad abbassare il capo e abbandonarmi ad un cupo sospiro. “Andiamo?” chiesi a Brooke, rivolgendole un sorriso e tentando di prenderle la mano. Subito dopo, mia sorella scelse di ritrarsi, guardandomi con un'espressione di disgusto dipinta in volto. “Ascolta, tu non mi piaci, e nessuno deve sapere che siamo sorelle, capito?” disse, con un’ evidente vena di rabbia nella voce. Mantenendo il silenzio, mi limitai ad annuire, avviandomi quindi verso l'entrata della scuola. Ad essere sincera, avrei voluto raggiungere quella destinazione assieme a mia sorella, ma mi ritrovai costretta a soffocare questo desiderio. Ad ogni modo, arrivai in classe, e con l'arrivo dell'intervallo, notai la presenza di tre bambine, che sembravano condividere una somiglianza a dir poco incredibile. A prima vista, sembravano simpatiche, così decisi di avvicinarmi e provare a parlarci. “Sono Malika.” Dissi, presentandomi educatamente. “Chi ti ha fatto entrare?” chiese una di loro, confusa e stranita dalla mia presenza. “Che vuoi dire?” non potei fare a meno di chiedere, attendendo una sua risposta. “Sei diversa, e mio padre dice che esserlo non è bello.” disse una seconda bambina dai capelli neri. “Sono diversa, ma sono una bambina come te.” Dissi, tentando di difendermi da quella sorta di accusa. “Non è vero. Non sei come noi.” Disse una di loro, rompendo il silenzio creatosi nell'aula. “Sono una bambina.” Ripetei, con un tono di voce ora più acuto, che giunse alle loro orecchie come una minaccia. “È matta!” gridarono all'unisono, apparendo visibilmente spaventate. Subito dopo, le sentii parlare fra di loro, notando che ripetevano alcuni nomignoli che mi avevano affibbiato, e che cantilenavano al solo scopo di irritarmi. Diversa, stupida, idiota, ed una sfilza di altri che non mi sforzavo neanche di ricordare. Ad ogni modo, ne esisteva uno capace di ferirmi più degli altri. Disgrazia. Questo il peggiore dei nomignoli che mi avessero mai affibbiato. Poco tempo dopo, ferita e delusa dai loro comportamenti, scelsi di compiere la più logica delle azioni, ovvero scappare via. Uscendo subito dall'aula, raggiunsi il cortile della scuola, dove incontrai due ragazzini. Entrambi, al contrario di Bailey, Dawn e Sally, questi i nomi delle tre bambine che continuavano a denigrarmi senza pietà, loro sembravano loquaci e gentili, ma non ne ero sicura. A quel punto, avevo seppur lentamente imparato a non giudicare un libro dalla copertina. Ad ogni modo, raccolsi il mio coraggio, e avvicinandomi, provai a parlare con loro. “Come ti chiami?” mi chiese uno di loro, che mi colpì per i suoi capelli castani, che sposavano alla perfezione due occhi azzurri come il terso cielo mattutino. “Malika.” Risposi, sorridendo debolmente. “Io sono Benjamin, e lei è la mia sorellina, Darcy.” Disse, spostando quindi il suo sguardo sulla sorella minore. “Non mi credete diversa?” chiesi, colpita dalle loro così positive reazioni. “Perchè dovremmo? Lo sei, ma non c'è nulla di male.” Disse Darcy, regalandomi un luminoso sorriso. “Sei davvero carina.” Disse Ben, sorridendo a sua volta. A quelle parole, arrossii leggermente, facendomi quindi sfuggire una risata. “Faremo tardi.” Ci avvisò Ben, distraendoci dalla nostra conversazione. Subito dopo, decisi di seguirli fino in aula, ritrovandomi però in un altro locale della nostra scuola, che avrebbe dovuto essere adibito ad aula, ma che poi ha finito per riempirsi di giocattoli di ogni sorta. Guardandomi intorno, incrociai lo sguardo di Bailey e delle sue perfide amiche. “Perchè siete con lei?" chiese, rivolgendosi sia a Ben che a Darcy. “È nostra amica.” Rispose Ben, prendendo quindi le mie difese. “Non è come noi, se le rimanete vicini vi farà del male.” Disse Dawn, guardandoli entrambi negli occhi. "È pericolosa, e ha cercato di ferirmi." continuò Bailey, in tono serio. “Non è come noi.” Ripetè Sally, tacendo subito dopo. “Non ti credo.” disse Ben, nel mero e semplice tentativo di difendere la nostra solida amicizia. “Chiediglielo tu stesso.” Intervenne Dawn, dando manforte alle amiche. “Hanno ragione?” mi chiese, voltandosi verso di me e guardandomi con aria interrogativa. “No!” gridai, perdendo completamente il controllo delle mie emozioni. A quelle parole, Ben si ritrasse, facendo quindi qualche passo verso Bailey e il resto delle sue amiche. “Mi fidavo di te. Stammi lontano.” disse, guardandomi con aria truce. Subito dopo, iniziai istintivamente a piangere, scegliendo quindi di ritirarmi in un angolo di quella stanza. Fissando il mio sguardo sul pavimento della stessa, notai un giocattolo, ovvero un coniglietto di pezza. Guardando meglio, notai che aveva un occhio scucito e un orecchio floscio e cadente. Inoltre, la quasi totale mancanza di cuciture, faceva in modo che l'espressione dipinta sul volto di quel pupazzo somigliasse ad un viso mesto quanto il mio. Ad ogni modo, passai il resto di quella mattinata scolastica a piangere. “È così che mi vedono?” mi chiesi, abbandonandomi ad un cupo sospiro e dando inizio ad un tristissimo soliloquio. Concedendomi quindi del tempo per pensare, imparai una preziosa lezione, secondo la quale, avevo appena fallito nel mio intento più importante, ovvero quello di trovare un amico.
 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Capitolo III
 
 
Tempo e ferite
 
 
Un nuovo giorno aveva inizio, ed io mi svegliavo nella mia stanza. Era piccola, con delle pareti bianche e spoglie. Inoltre, la luce del sole filtrava da una lercia finestra. Ad ogni modo, otto lunghi anni della mia vita erano appena trascorsi, ed io sapevo che questa giornata non sarebbe stata diversa dalle altre. Difatti, ero completamente consapevole del fatto che sarei stata picchiata e umiliata da mio padre. Ero immersa in questa miriade di muti pensieri, e una voce fin troppo conosciuta mi distrasse. Era mia madre, che urlando mi intimava di prepararmi per la scuola. Un posto dove andavo per imparare, ma dal quale volevo, in ogni occasione, tentare di scappare. Alzandomi lentamente dal letto, scesi le scale che portavano in cucina, ricevendo subito dopo uno schiaffo da parte di mia madre. “Vedi di muoverti.” Mi disse con evidente aria di stizza, mentre ero occupata a massaggiarmi il volto arrossato dal colpo appena ricevuto. “Tua sorella è già in viaggio.” Aggiunse, non curandosi di mutare il suo tono di voce. Mantenendo il silenzio, mi limitai ad annuire mestamente, per poi uscire di casa e avviarmi verso la mia scuola. Non appena raggiunsi il giardino, scoprii che mia madre aveva ragione. Brooke se n’era già andata, lasciandomi completamente da sola. Seppur lentamente, raggiunsi la mia destinazione, scoprendo che tutti i miei compagni non facevano che ignorarmi. Sospirando cupamente, posai il mio sguardo sui miei libri ancora chiusi. Poco tempo dopo, andando alla disperata ricerca di conforto, spostai il mio sguardo su mia sorella Brooke, la quale, una volta incontratolo, decise di continuare a fingere la mia inesistenza, concentrando quindi tutta la sua attenzione su Calvin, un ragazzo dai capelli neri e gli occhi azzurri. Lui e Brooke si conoscevano sin dalle elementari, e da allora, il loro rapporto non aveva fatto altro che intensificarsi. Ad ogni modo, la prima ora di lezione volò via come una bianca colomba, e quella che ci aspettava era un’ora di matematica. Il professore, tranquillamente seduto in cattedra, aveva deciso di sottoporci ad un’interrogazione a sorpresa, e per qualche strana ragione, fui io la prima ad essere chiamata alla lavagna. Sospirando cupamente, mi alzai in piedi, avvicinandomi e scegliendo di provare a risolvere almeno uno dei quesiti. Preferendo di gran lunga la letteratura, sapevo bene che non avrei avuto vita facile con la matematica, ma stringendo i denti, decisi di fare un tentativo. Lo stesso, si rivelò fallimentare, ed io potei sentire i miei compagni parlare fra di loro. Non avevo modo di esserne sicura, ma qualcosa mi suggeriva che stavano parlando di me. “Non ne è capace.” Dicevano, ridendo di gusto. “È davvero un’idiota.” Aggiungevano, parlando a bassa voce. Fissando il mio sguardo su di loro, capii quanto le loro parole mi avessero ferita, e concedendomi del tempo per pensare, compresi di averne avuto abbastanza delle loro menzogne. Ero diversa, ed era vero, ma questo non significava che fossi stupida o incapace, così decisi di compiere la più logica delle azioni, ovvero scappare via. Uscendo dall’aula, iniziai subito a piangere, incurante del parere dell’insegnante, che continuava ad intimarmi di tornare indietro. Ad ogni modo, non l’ascoltai, tornando a casa in lacrime e rifugiandomi nella mia stanza. Una volta lì, mi lasciai cadere sul letto, e piansi senza un lamento. Dopo ore passate a piangere e lamentarmi di quanto la mia vita fosse irrimediabilmente ingiusta, attirai involontariamente l’attenzione di mia madre, che entrò subito nella mia stanza e mi afferrò il polso con forza inaudita. Subito dopo, mi trascinò nel giardino di casa, dove mi costrinse a rimanere per delle ore. “Lasciami entrare!” gridavo stavolta, sperando che mi sentisse. Per mia mera sfortuna, non ottenni risultato dissimile dal ridestare l’attenzione di mio padre. Lo stesso, mi raggiunse aprendo la porta di casa, e non appena mi vide, iniziò a schiaffeggiarmi sonoramente. Nel tentativo di difendermi, evitavo di piangere e urlare, pur crollando in terra per il dolore. Per qualche strana ragione, questo mio stato di debolezza lo portava a infuriarsi ancora di più. “Non voglio più sentirti!” gridò, continuando a picchiarmi e non accennando a smettere neanche per un attimo. Fu così che gli schiaffi si trasformarono in pugni sul mio viso e calci nel mio povero stomaco. Ad ogni modo, per quella che io consideravo fortuna, o forse per una sorta di miracolo divino, mi venne concesso di rientrare in casa, ed io scelsi di farlo senza proferire parola. Dirigendomi quindi verso il bagno, mi occupai di lavare via il sangue che ancora sgorgava dalle mie ferite. Subito dopo, raggiunsi la mia stanza, sdraiandomi sul letto e piangendo. Con l’arrivo della sera, sentii per la prima volta una sorta di voce nella mia testa. “Si sbagliano.” Diceva quella voce, in un tono così calmo da confortarmi ed essermi d’aiuto in quella così fredda e buia notte. Poco prima di addormentarmi, parlai con me stessa, scoprendo che il lento scorrere del tempo sarebbe in un modo o nell’altro riuscito a guarire ognuna delle mie ferite.
 

 

 

 

 

 

 

 

 
 
Capitolo IV
 
 
Segreti
 
 
Il sole spuntava nuovamente in una città amena e ridente come la mia. Svegliandomi, mi alzai subito dal letto, pur vestendomi con estrema lentezza. Le ecchimosi che ero costretta a nascondere non erano ancora guarite né scomparse del tutto, e dolevano ogni volta che le sfioravo perfino inavvertitamente. Ad ogni modo, andai a scuola come ogni mattina, e quando arrivai, ricevetti un’accoglienza affatto calorosa. Difatti, ognuno dei miei compagni sembrava evitarmi, ma per qualche strana e a me ignota ragione, qualcosa mi diceva che la mia vita sarebbe cambiata radicalmente. Ad ogni modo, ero tranquillamente seduta nel mio banco di scuola, e attendevo l’inizio delle lezioni. Non appena sentii il suono della campanella, mi voltai verso la porta dell’aula, sentendola aprirsi con uno scatto. Il professore di educazione fisica fece quindi il suo ingresso in aula, prendendo una decisione largamente diversa dal solito. Difatti, aveva scelto di accompagnare me e il resto della classe alla piscina comunale per l’odierna lezione di educazione fisica. Non osando contestare la sua idea, scelsi di alzarmi in piedi e seguire i miei compagni fino alla nostra destinazione, scoprendo che il mio rapporto con Bailey e le sue amiche aveva subito un inaspettato cambiamento. Ognuna di loro, aveva infatti scelto di provare a farsi perdonare ognuno dei torti che mi avevano fatto subire in passato, accettandomi quindi nella loro ristretta cerchia di amici. Sorridendo, accettai di buon grado la loro gentile offerta, avvicinandomi e scegliendo di passare con loro il resto del mio tempo. A mia completa insaputa, a loro si era aggiunta Eloise, una ragazza dai capelli rossi come un focolare acceso e gli occhi verdi come il prato pregno di rugiada al mattino. A prima vista, Eloise potrebbe dare l’impressione di essere la classica secchiona portante un paio d’occhiali dalle lenti spesse, ma non è affatto così. Difatti, nonostante il suo difetto della vista, che le impediva di mettere bene a fuoco oggetti troppo distanti da lei, Eloise sembrava essere una ragazza abbastanza tranquilla e loquace. Ad ogni modo, non appena raggiungemmo la nostra destinazione, sentii il nostro insegnante darci delle chiare istruzioni, secondo le quali, ognuno di noi avrebbe dovuto tuffarsi in piscina e provare a nuotare. Ad ogni modo, Bailey, Dawn e Sally non gli diedero retta, scegliendo di andare ad accomodarsi su tre comode sdraio poste accanto alla piscina stessa. Per tale e semplice ragione, le mie tre nuove amiche mi lasciarono da sola. In quel preciso istante, capii di non avere più modo di convincerle a parlarmi, ragion per cui, decisi di avvicinarmi a Ben e fare la mia mossa, sentendo il peso della sua indolenza schiacciarmi come il più grosso dei macigni. In quel momento, Ben nuotava spedito verso il bordo opposto della piscina, al quale si appoggiò unicamente per riposarsi. Poco tempo dopo, scelsi di rintanarmi in un angolo, e iniziare quindi a leggere uno dei miei romanzi preferiti Prima che potessi farlo, qualcosa di completamente diverso entrò nel mio campo visivo. Difatti, vidi Ben avvicinarsi a Bailey, per poi scegliere di baciarla proprio davanti ai miei occhi. Ad essere sincera, sapevo che si amavano, ma ero allo stesso tempo consapevole di volere che la nostra amicizia progredisse fino a raggiungere un livello decisamente superiore. Un pensiero di quel genere poteva certamente sembrare egoistico da parte mia, ma volevo davvero che Ben scegliesse me, abbandonando quindi Bailey al suo destino. Ad ogni modo, li vidi baciarsi una seconda volta, scoprendo quindi che anche questo mio desiderio aveva finito per infrangersi come un’onda marina sulla costa. Tornando a concentrarmi sul libro che leggevo, tentai di liberare la mente per un attimo. Era scritto superbamente, e narrava una storia di dolore e tristezza molto simile alla mia. Trassi quindi conforto dalle parole dell’autrice, sentendomi in qualche modo sollevata. I miei occhi si muovevano fulminei, ed io giravo le pagine di quel libro a intervalli regolari di qualche minuto. Mentre ero nell’atto di farlo, non mi accorsi di una mia amica, che, probabilmente intenzionata a farmi uno scherzo, mi fece cadere il libro dalle mani, per poi spingermi in piscina. Colta alla sprovvista, non ebbi alcun modo di difendermi, finendo per cadere senza alcun movimento. L’acqua della piscina stessa era fredda come la neve, e un improvviso crampo mi impedì di muovermi. Lottando per sopravvivere, mi sforzavo di rimanere a galla e respirare. Ad ogni modo, mi sforzavo di rimanere in vita, non riuscendo a vedere nient’altro che delle piccole bolle d’aria uscire dal mio naso e dalla mia bocca. Per mia fortuna, sembrava che una sola persona provasse realmente pena per me, tanto da rischiare la propria vita tuffandosi in acqua per salvarmi. Ad ogni modo, quando fui trasportata fuori dalla piscina, sembrava che per me non ci fosse più nulla da fare. Tenevo gli occhi chiusi, e non riuscivo a respirare. Ad ogni modo, decisi di sforzarmi e provare ad aprire gli occhi, scoprendo che il mio viso era inondato dalla luce solare. Muovendo lentamente un braccio, mi schermii dal sole, riuscendo solo allora a scoprire l’identità di colui che era riuscito a salvarmi la vita. Alla mia vista, sembrava davvero felice di sapere che fossi ancora viva, ragion per cui, ebbi la fortuna di vederlo sorridere. “Sono Matthew.” Mi disse, presentandosi e tendendomi la mano in segno d’amicizia. “Malika.” Dissi, presentandomi a mia volta e lasciando che il verde dei suoi occhi incontrasse il marrone dei miei. Poco tempo dopo, lo vidi salutarmi ed andarsene, lasciandomi completamente da sola. Per tale ragione, decisi di tornare dalle mie amiche, vedendo Eloise accomodata su una delle tre sdraio che costeggiavano la piscina. “Scusami.” Disse, in tono alquanto mesto.” “Sei stata tu?” le chiesi, dubbiosa. “Non ti avevo vista. Mi perdoni?” continuò, completando il suo discorso con quella domanda. “D’accordo.” Risposi, tendendole la mano perché me la stringesse. Subito dopo, la vidi sdraiarsi accanto a Bailey, iniziando quindi a parlare con lei. Poco tempo dopo, la stessa Bailey mi pose una domanda alla quale stentai a credere. “Hai dei segreti?” mi chiese, attendendo una mia risposta. “Non credo.” Risposi, in completa sincerità. “Sei sicura? Che mi dici del tuo cuore?” continuò, tacendo subito dopo. “Sono innamorata di Ben.” Confessai, abbassando leggermente lo sguardo e sentendo un enorme peso svanire dal mio cuore. “Cosa?” esclamò, incredula. “Lui è il mio ragazzo! Aggiunse, indignata. Subito dopo, la vidi sparire per un singolo attimo dalla mia vista. “Malika è innamorata di Ben!” gridò, confessando all’intera classe il segreto che avevo appena avuto il coraggio di rivelarle. A quella scena, seguì il mutismo generale. Tutti i compagni mi fissavano, non riuscendo a credere alle loro orecchie. Fu quindi questione di un attimo, e mia sorella Brooke mi guardò negli occhi, pronunciando quindi una frase perfino peggiore, che ha ancora oggi il potere di farmi sprofondare in una voragine di malessere. “Ti hanno usato, e tu non sei altro che una nullità.” Disse, tacendo unicamente per guardarmi con aria di disprezzo. “Aspetta! Non puoi abbandonarmi! Siamo sorelle!” gridai, sperando nel suo perdono. In quel momento, ero combattuta. Sapevo bene di aver appena messo in imbarazzo mia sorella, e allo stesso tempo non desideravo altro che la sua amicizia, che in tutto quel tempo non aveva avuto modo di sbocciare. Confusa e indecisa sul da farsi, mi sentii irrimediabilmente ferita, ragion per cui, decisi di scappare via da loro. Correndo, sentii una voce chiamarmi per nome, e pur riconoscendo in quel richiamo la voce di Matthew, decisi di ignorarlo. Ad essere sincera, non avevo una meta precisa. In quel momento, avevo un unico desiderio, ovvero quello di allontanarmi il più possibile da ognuno di loro. Era primavera, e faceva davvero caldo. Portavo dei sandali e un vestito alquanto leggero, che per qualche strana ragione non mi aiutavano a sopportare la canicola. L’asfalto era divenuto bollente, e nella corsa mi imbattei in qualcosa, o meglio, qualcuno. Alzando gli occhi, vidi chiaramente il viso di Calvin, il fidanzato di Brooke. “Ho avuto una giornataccia, ed è tutta colpa di mia sorella. Lasciami passare.” Gli dissi, attendendo che si spostasse. “Aspetta un minuto, io ti conosco.” Rispose, guardandomi fissamente negli occhi. “Somigli moltissimo a Brooke, e porti il suo stesso profumo. Continuò, scansandosi quindi da me e continuando per la sua strada. “Lei è mia sorella.” Dissi, poco prima che riuscisse ad allontanarsi. Subito dopo, continuai a correre alla volta della mia destinazione. Ad ogni modo, quel pomeriggio non tornai a casa. Mi diressi infatti verso il parco cittadino. Guardandomi intorno, scorsi una panchina dove scelsi di sedermi per riposare. Poco tempo dopo, vidi un ragazzo dai capelli castani e gli occhi verdi avvicinarsi. “Ne hai passate tante, vero?” disse, ponendomi quindi quella domanda. “Si, come lo sai? Risposi, confusa e stranita dalle sue parole. “Si nota molto. A proposito, mi chiamo Luke. Disse, sedendosi accanto a me e tentando di consolarmi. “Mio padre mi odia, e per mia madre non esisto.” Continuai, tacendo subito dopo. “Io sono come te.” Disse, guardandomi negli occhi. “I miei fratelli mi ignorano, e fingono che sia invisibile. “Continuò, abbassando leggermente il capo. “D’ora in poi starai con me.” Dichiarò, tornando a guardarmi. “Devo pensarci.” Risposi, dubbiosa. Ad ogni modo, alzai per un attimo lo sguardo, accorgendomi dell’arrivo del tramonto. “Devo andare.” Disse Luke, alzandosi in piedi e allontanandosi d me, sparendo dalla mia vista dopo pochi istanti. Sospirando, guardai per una seconda volta il cielo, iniziando quindi a camminare verso casa mia. Quando arrivai, ebbi cura di non disturbare il sonno di nessuno, infilandomi a letto e piangendo senza un lamento. Ad ogni modo, mi addormentai dopo ore di infruttuosi tentativi, comprendendo che la mia amicizia con Luke era uno dei tanti segreti di cui la mia vita si componeva, e che ero costretta a mantenere per evitare la fatalità delle conseguenze.
 

 
 
Capitolo V
 
 
Insolita amicizia
 
 
È ancora notte fonda, e un insolito rumore mi distrae. Riaprendo gli occhi, noto qualcosa di sconcertante. Luke è nella mia stanza, e mi guarda mentre tiene la schiena appoggiata contro il muro. Che cosa ci fai qui?” chiesi, dopo alcuni minuti passati a strofinarmi gli occhi per l’incredulità. “Ti ho sentita piangere, e volevo aiutarti.” Disse, sorridendo debolmente. “Come sei entrato?” continuai, attendendo una sua risposta. Alle mie parole, Luke non rispose, limitandosi a scomparire come nebbia portata via dal vento non appena chiusi gli occhi. Ad ogni modo, tornai a letto, svegliandomi solo la mattina dopo. Svegliandomi di buon’ora, mi preparai per la scuola come ogni mattina, raggiungendola senza esitazione. Non appena arrivai, ricevetti la solita accoglienza priva di calore. Ignorando ognuno dei miei compagni, mi persi diligentemente nella lettura, che venne prontamente arrestata dai miei stessi compagni. Nel mero spazio di un momento, sento i loro orribili insulti piovermi addosso, e dopo alcuni minuti passati a tentare di ignorarli e calmare la mia tristezza, scopro di non aver letteralmente modo di farlo. Per tale ragione, decido nuovamente di scappare da scuola, raggiungendo subito il parco cittadino, unico luogo dove so di riuscire a ritrovare la calma. Camminando lentamente, scorgo la figura di Luke. Salutandolo, gli rivolgo un sorriso, che lui ricambia senza esitare. Ci conoscevamo da un anno, e sin dal primo giorno sembrava essersi letteralmente stabilito lì. “Che ti è successo?” mi chiese, guardandomi negli occhi. “I miei compagni mi hanno di nuovo deriso.” Dissi, abbassando lo sguardo e sospirando cupamente. “Andrà tutto bene.” Disse, sorridendomi nuovamente. Subito dopo, e unicamente per tentare di sollevarmi il morale, Luke decise di offrirmi un gelato accompagnandomi al vicino chiosco. Ad ogni modo, dopo il gelato, passai il pomeriggio con lui. Con l’arrivo del tramonto, Luke scelse di accompagnarmi a casa, portandomi in un posto che non ricordavo di aver mai visto. Fidandomi ciecamente di lui, mi lasciai pazientemente condurre di fronte ad una vecchia casa diroccata e visibilmente abbandonata. “Quando sarai triste potrai dormire qui.” Mi disse, sorridendo e cingendomi un braccio attorno alle spalle. “Si sta facendo tardi. Non credi di dover andare?” mi chiese, attendendo una mia risposta. “Hai ragione.” Dissi, dandogli le spalle e avviandomi verso casa mia. Camminavo lentamente, ed ero completamente ignara di quello che mi sarebbe accaduto nei minuti a seguire. Non potevo saperlo, ma immaginavo che mia sorella Brooke si fosse preoccupata. Guardandomi intorno, mi accorsi che il buio regnava attorno a me, e non possedendo una torcia elettrica, fui costretta a fermarmi più volte perché i miei occhi si abituassero all’oscurità. Passando accanto ad un lampione fortunatamente ancora acceso, scorsi la figura di mia sorella. “Brooke! Ma allora ti importa!” dissi, felice di vederla. Subito dopo, la strinsi in un abbraccio, ma lei scelse di ritrarsi. “Malika, tu non mi piaci. Sei stupida, strana ed infantile, ma nonostante questo, sei sempre mia sorella. Siamo legate dal sangue, che ci piaccia o no. Ora torniamo a casa, prima che nostra madre ci uccida.” Disse, convincendomi a seguirla e accompagnandomi a casa. Ad ogni modo, non muovemmo un passo, venendo quindi fermate da due poliziotti. “Che fate qui a quest’ora della notte?” ci chiesero, attendendo una nostra risposta. Per loro sfortuna, quell’interrogativo non ne trovò mai una, poiché ci lasciammo condurre pazientemente fino alla nostra destinazione. Quando la raggiungemmo, uno dei due poliziotti bussò alla porta di casa, attendendo che la stessa venisse aperta. Subito dopo, lo stesso guardò nostra madre negli occhi. “Lei deve essere la madre. Abbiamo trovato queste ragazzine fuori al freddo e le abbiamo portate qui.” Disse, tacendo subito dopo. “Non accadrà mai più.” Li rassicurò lei, chiudendo quindi la porta. Da quel momento in poi la situazione peggiorò rapidamente. “Scappi da scuola, te la prendi con degli innocenti, e ora trascini anche Brooke in tutto questo!” gridò mia madre, spaventandomi come mai prima d’ora. “È solo colpa di…” Biascicai, tentando di giustificarmi e non avendo neanche il tempo di finire quella frase. “Sono tutte scuse! Non sento altro che questo! Vorrei non averti mai messo al mondo! Continuò a urlare mia madre, mentre io potevo letteralmente sentire la collera ribollirle dentro. “Smettetela! Non è colpa sua! Gridò Brooke, avvicinandosi a me e prendendo le mie difese. “Non ci provare! L’ammoni mia madre, fissando il suo ora glaciale sguardo su di lei. “Ti credevo perfetta, ma guarda cosa sei…” Quella frase non ebbe mai fine, a causa di una scena alla quale mi ritrovai costretta ad assistere rimanendo ferma e inerme. Difatti, non sopportando un acuto dolore allo stomaco, nostra madre finì per rimettere sul tappeto del salotto. “Dovresti riposare.” Le disse nostro padre, guardandola negli occhi. “Sta zitto, non è la mia prima volta.” Rispose, posandosi una mano sul ventre. Poco tempo dopo, decise di seguire il consiglio del marito, andando a sdraiarsi in camera da letto. “Fa in modo che paghino, ma non provare a ferirle.” Disse, rivolgendosi al marito. A quelle parole, quest’ultimo non rispose, limitandosi ad annuire. Subito dopo, vidi mio padre avvicinarsi a me e tentare di farmi del male. In quel preciso istante, Brooke si frappose fra me e lui, scegliendo ancora una volta di difendermi. “Scappa!” mi consigliò, sperando che le dessi retta. Subito dopo, vidi mio padre concentrarsi su Brooke, per poi picchiarla e spingerla contro il muro del salotto. La sua fronte presentava un livido violaceo, e una ferita alla testa sanguinava, sporcandole i capelli e il muro stesso. Avendo trovato rifugio vicino alle scale, avevo avuto modo di assistere all’intera scena. Tornando in salotto, raccolsi il mio coraggio, guardando quindi mio padre negli occhi. “L’hai uccisa! Sei un assassino! Gli gridai, tacendo subito dopo. Voltandomi, sentii un rumore di passi. Era mia madre. Appariva calma, e doveva aver sentito ogni cosa. Ad ogni modo, il suo stato d’animo cambiò radicalmente non appena il suo sguardo si posò sul corpo di Brooke. “Ti avevo detto di non ferirle! Cos’hai fatto a nostra figlia?” gridò, redarguendo il marito e non potendo nascondere lo scorrere di alcune piccole lacrime, che intanto le rigavano il viso. Poco dopo, la vidi sollevare l’ormai esanime corpo di mia sorella, che ora appariva senza vita. “Dobbiamo andare in ospedale.” Disse, uscendo di casa e sedendosi nella sua auto per poi dare inizio al suo viaggio fino in ospedale. Ad ogni modo, io venni rinchiusa nel giardino di casa, più precisamente nel recinto dove Brooke era solita giocare da bambina. Poi, quasi come se tutto facesse parte di una maledizione, la pioggia iniziò a scrosciare. In quel preciso istante, sentii un rumore di passi. Voltandomi verso la fonte di quel rumore, vidi una ragazza dai capelli rossi e gli occhi azzurri avvicinarsi. “Come ti chiami?” le chiesi, confusa e stranita dalla sua presenza. “Io sono Susan, e tu chi sei?” rispose, rigirandomi quindi la domanda. “Malika.” Dissi, sorridendo debolmente. “Mia madre mi ha chiuso qui fuori, e non riesco ad uscire.” Le dissi, scivolando quindi nel mutismo. Subito dopo, Susan mi liberò da quel recinto, spostando quindi lo sguardo verso la porta di casa mia. “Va tutto bene, ora torna in casa e riposati. Mi disse, guardandomi negli occhi. Annuendo, obbedii a quella sorta di ordine, riuscendo quasi subito ad aprire la porta che credevo chiusa. Raggiungendo la mia stanza, mi lasciai cadere sul letto. Quella notte, pregai per mia sorella sperando che si riprendesse, e concedendomi del tempo per pensare, compresi che la mia amicizia con Luke e Susan era davvero insolita, e si era aggiunta alla lista dei segreti che custodivo all’interno del mio fragile animo. Mi addormentai solo pochi minuti dopo, rifugiandomi nella sicurezza datami dalle preghiere e sperando che il legame che mi aveva unito a loro non fosse falso come quelli precedenti.
 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Capitolo VI
 
 
Conoscere la rabbia
 
 
Il tramonto si trasformava in notte, che lentamente diveniva giorno, ed io compivo sedici anni. Dopo quanto mi era accaduto, non avevo alcuna voglia di andare a scuola, così decisi di saltarla, concedendomi del tempo per pensare. Nel mero tentativo di chiarirmi le idee e ritrovare la calma, scelsi di uscire e fare una passeggiata. Camminando lentamente, raggiunsi il parco cittadino, dove trovai il mio amico Luke. Non appena mi vide, mi salutò amichevolmente, ed io ricambiai il saluto con un gesto della mano. Dopo avergli parlato a lungo, lo vidi cambiare idea. Sorridendo, mi convinse a seguirlo fino alla vecchia casa abbandonata. Durante il viaggio verso la nostra destinazione, non riuscivo a smettere di pensare a mia sorella. In quel momento, migliaia di domande affollavano la mia mente. Era in ospedale? Ce l’aveva fatta? Che ferite aveva? Tre interrogativi che sembravano non avere una risposta. Ad ogni modo, il cielo si scurì tingendosi di nero, e le stelle lo illuminavano sfavillando come piccoli e preziosi gioielli. Quando finalmente raggiungemmo la nostra destinazione, Luke mi prese per mano, invitandomi ad entrare in quella casa. Stringendomi nelle spalle, lo seguii senza proferire parola, notando che anche Susan si era silenziosamente unita a noi. La casa era davvero grande, e per nostra fortuna, disponeva di tre stanze, fredde ma accoglienti. Mentre camminavo, sentii una sorta di rumore nel buio. Voltandomi verso la fonte dello stesso, vidi una figura emergere dall’oscurità. “Chi siete? Che cosa ci fate qui?” chiese un ragazzo dai capelli castani e gli occhi color dell’avorio. “Fa qualcosa! Mi disse Susan, apparendo visibilmente spaventata da quell’individuo. A quelle parole, non risposi, limitandomi ad annuire. “Ci serve solo un posto per la notte.” Dissi, tentando strenuamente di mantenere la calma. “Potete restare finchè volete.” Disse quel ragazzo, calmandosi quasi istantaneamente. Subito dopo, mostrai un debole sorriso, per poi scegliere di ritirarmi in una delle stanze e dormire, scoprendo che la mia amica Susan preferiva farlo fuori casa, godendosi lo sfavillio delle lucenti stelle. Al contrario di me e Susan, Luke rimase fermo davanti ad una finestra, troppo intento a guardare il cielo per muoversi. Poco prima di andare al letto, parlai di nuovo con quel ragazzo, scoprendo che aveva un nome comune, ma al contempo interessante. Peter. Ad ogni modo, andai a dormire tranquillamente, riuscendo ad addormentarmi solo dopo ore di tentativi. Difatti, non riuscivo a smettere di pensare a Brooke. Infilandomi sotto le coperte, pregai per lei finchè non mi addormentai, svegliandomi solo la mattina dopo. Aprii gli occhi alle prime luci dell’alba, scegliendo di raggiungere subito il vicino ospedale. Avvisai i miei amici, per poi avviarmi verso la mia destinazione. “Sono qui per mia sorella.” Dissi, non appena arrivai. “L’unica ragazza qui risponde al nome di Brooke.” Rispose una delle infermiere, guardandomi negli occhi.“È lei.” Dissi, scattando in piedi come una molla. “Questa non è l’ora delle visite, e temo che tu debba restare in sala d’attesa.” Continuò l’infermiera, chinando leggermente il capo. Obbedendo a quella sorta di ordine, tornai a sedermi, attendendo quindi il momento giusto per vedere mia sorella. Dopo circa un’ora d’attesa, l’infermiera mi si avvicinò, chiedendomi di seguirla. Stringendomi nelle spalle, iniziai a camminare al suo fianco, pur essendo concentrata su qualcosa di completamente differente. “È in questa stanza.” Mi disse, non appena entrammo. “Come sta?” chiesi, attendendo una risposta. “È in coma, e il suo cervello è danneggiato. Rispose, guardandomi con espressione alquanto mesta. “Quando si sveglierà?” continuai, sperando di non apparire ingenua agli occhi dell’infermiera stessa. “Non lo sappiamo. Potrebbe svegliarsi fra una settimana, un mese, un anno, o forse mai.” Rispose, scusandosi per avermi intristito. Accettai di buon grado il gesto dell’infermiera, ma ad ogni modo, venni colpita dalle ultime parole da lei pronunciate. Forse mai. Due singole e semplici parole che hanno ancora oggi il potere di spingermi in una spirale di tristezza e depressione. Poco tempo dopo, salutai dignitosamente mia sorella, per poi uscire subito da quell’arido ospedale. Una volta fuori, tornai a casa, sperando vivamente di non imbattermi in mio padre. Entrando in casa, raggiunsi la mia stanza, sedendo quindi sul letto e passando le lunghe e successive ore a pregare per mia sorella. Quella giornata era stata per me piena di emozioni, e per qualche strana ragione, avevo una sola certezza, secondo la quale, ne avevo ora conosciuta una nuova, ovvero la rabbia, che avrei dovuto imparare a controllare al solo scopo di preservare la mia fragile incolumità.
 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Capitolo VII
 
 
Catene di eventi
 
 
Come di consueto, aprivo lentamente gli occhi, e mi risvegliavo nella sorta di base segreta che dividevo con i miei amici. Passare il mio tempo con loro era ormai divenuta una consuetudine, alla quale non tentavo mai minimamente di oppormi. Alzandomi lentamente dal letto, raggiunsi il giardino, dove incontrai sia Luke che Susan. Uno di loro era impegnato a fissare il cielo e godersi il calore del sole mattutino sulla pelle, mentre l’altra era occupata leggere, beandosi del fruscio del vento fra le foglie degli alberi. Salutandomi amichevolmente e con un veloce gesto della mano, mi avviai verso la mia destinazione, ovvero la mia scuola. Ad essere sincera, quello era decisamente l’ultimo dei posti in cui avrei voluto recarmi, ma allo stesso tempo tenevo troppo alla mia istruzione per lasciarmi condizionare dallo scorrere degli eventi. Ad ogni modo, mi concessi del tempo per pensare, comprendendo quanto patetico fosse quel mio pensiero. Difatti, sapevo bene che pur impiegando ogni singolo grammo della mia forza nel farlo, non sarei sicuramente riuscita a concentrarmi. Sospirando, raggiunsi lentamente la mia aula, per poi prendere posto nell’unico banco vuoto, ovvero il mio. Guardandomi attorno, cercai distrattamente gli sguardi dei miei compagni, che ridendo e sussurrandosi frasi a me inudibili, sceglievano come sempre di ignorarmi. In quel momento, abbassai lo sguardo, fissandolo sul mio tanto amato romanzo. La storia che narrava era molto simile a quella della mia vita, ma per qualche strana ragione, quel giorno mi convinsi che le righe colme di nere ma rassicuranti parole di quel libro non mi sarebbero servite a nulla. Con l’arrivo dell’intervallo, mi rintanai in un angolo del cortile, al riparo da tutto e tutti, e specialmente dalla pioggia di insulti che cadeva sul mio corpo e sulla mia anima, distruggendola lentamente. L’ultima campanella della giornata suonò soltanto due ore dopo, ed io ebbi troppo timore di tornare a casa. Poco tempo dopo, la pioggia iniziò a scrosciare copiosamente, ed io decisi di raggiungere la mia seppur umile dimora. Una volta arrivata, mi avviai verso la mia stanza, considerandola il mio nido e non uscendone fino al calar della sera. Alcune ore passarono, ed io mi resi conto di stare per assopirmi.Mi svegliai innumerevoli volte, a causa del mio pensiero sempre e costantemente fisso su mia madre e mia sorella. Ormai tutto era inutile. Per quanto mi sforzassi, non riuscivo a liberare la mente da quel pensiero. Rigirandomi nel letto, mi lasciai poi andare ad un pianto liberatorio, sentendo le lacrime inondarmi il volto come un fiume in piena. Quella sera, piansi in silenzio, non volendo in alcun modo attirare l’attenzione e l’ira di mio padre. Ritrovando poi la calma, smisi di piangere, concedendomi del tempo per pensare e sentendo per l’ennesima volta la voce di uno dei miei amici nella mia testa. “Andrà tutto bene.” Diceva stavolta, agendo da antidoto contro il mio dolore in una notte così buia e gelida, in cui i miei lamenti non venivano ascoltati da nessuno. Ad ogni modo, la mattina dopo non andai a scuola, ritrovandomi costretta a subire l’ira di mio padre. Sapevo bene che sin dalla mia nascita era divenuto schiavo dell’alcol, e che le grandi quantità che ne assumeva lo portavano a perdere la ragione e infierire su di me, picchiandomi spesso senza alcun motivo. Ero ben chiusa nella mia stanza, al riparo da lui, che camminando con passi pesanti nei corridoi di casa, mi cercava. Faceva il mio nome, ma io non rispondevo, restando nascosta dietro la porta della mia stanza. In poco tempo, il mio respiro si fece affannoso, ed io sentii la porta aprirsi. Istintivamente, iniziai a tremare, per poi sentire il dolore provocato dai violenti pugni che mi sferrava in viso, spesso seguiti da calci perfino più dolorosi. Piangendo, urlavo tentando di ritrarmi, ma ogni mio sforzo di farlo risultava vano. I minuti scorrevano lenti, e dopo un tempo che mi parve interminabile, mio padre apparve soddisfatto, e decise di lasciarmi da sola. Faticando ad alzarmi, raggiunsi il bagno, notando che la sua violenza aveva provocato una ferita in prossimità del mio occhio. Al calar della sera, non riuscii a dormire, passando un’intera e insonne notte a pensare, giungendo quindi ad una semplice conclusione, secondo la quale, la violenza e le percosse di mio padre non erano altro che uno degli anelli formanti la catena di eventi che costituiva la mia fragile e sfortunata vita.
 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Capitolo VIII
 
 
Buio e sconforto
 
 
Un lungo giorno stava raggiungendo la sua triste conclusione. Ero ormai tornata nella mia stanza, e la fredda pioggia scrosciava copiosa, bagnando il duro ed inospitale manto stradale. Rimanendo sveglia a fissare il soffitto della mia camera, sentivo delle amare lacrime scivolarmi con estrema lentezza sul viso. Alzandomi in piedi, mi avvicinai alla finestra, notando che la nuova e radiosa alba stava per spuntare. Sorridendo debolmente, respirai a fondo, lasciando quindi che la luce del sole mi inondasse il viso. La ferita provocatami da mio padre doleva e bruciava ancora, e occasionalmente, mi ritrovavo costretta a ripulirmi il viso dal sangue che ne sgorgava. Il tempo scorreva, e inevitabilmente, l’alba si tramutò in mattina, sfumando poi in un soleggiato pomeriggio. Sospirando lievemente, raggiunsi il salotto, per poi violare la porta di casa ed uscirne. Trascorsi quindi gran parte del mio tempo nel parco cittadino, sperando vivamente che il sole e l’aria fresca spazzassero via il senso di malessere che da giorni covavo nel cuore. Sedendomi su una panchina, ammirai il cielo coperto di bianche nuvole, finendo quindi per perdermi nell’immensità dello stesso. Delle lunghe ore passarono, ed io mi accorsi del calar della notte. Non volendo assolutamente tornare a casa e subire nuovamente l’ira di mio padre, scelsi di rifugiarmi nella casa che ormai da tempo condividevo con i miei amici. Mi incamminai senza indugi, e non appena raggiunsi la mia destinazione, ognuno sembrò felice di vedermi. “Va tutto bene?”  mi chiese Luke, apparendo visibilmente preoccupato per me. “Sì.” Mi limitai a rispondere, ben sapendo di mentire sia a lui che a me stessa. “Vieni con me.” Disse, tendendomi la mano ed invitandomi a seguirlo. Mantenendo il silenzio, seguivo i suoi passi, lasciandomi quindi condurre in quella che riconobbi come la stanza che era solita occupare. “Adesso riposati, e cerca di non pensarci. Continuò, sorridendo debolmente e salutandomi con un gesto della mano poco prima di lasciarmi da sola. Incrociando il suo sguardo, annuii lentamente, scegliendo poi di seguire il suo consiglio. Liberando la mia mente da ogni pensiero negativo, riuscii ad addormentarmi placidamente, e dormire meglio di quanto avessi mai fatto. Riaprii gli occhi allo spuntar del sole, e la mattina dopo, mi svegliai con un unico pensiero insito nella mia giovane mente, ovvero quello di raggiungere l’ospedale e far visita a mia madre e mia sorella. Al mio arrivo, non parlai con nessuno, concedendomi quindi del tempo per pensare e giungendo ad una singola e semplice conclusione. In quel momento, non avevo certezze, eccezione fatta per una, secondo la quale, qualcosa sarebbe presto cambiato, sconvolgendo per sempre la mia giovane vita. Ogni giorno, mi svegliavo tentando di mantenere viva la luce sprigionata dalla mia positività, ma visti i miei trascorsi, ero divenuta cieca ed immune ad un’emozione di quel genere. La confusione mi sovrastava, e pur non avendo modo di saperlo, sentivo di stare lentamente precipitando in una buia voragine di puro e inequivocabile sconforto, che avrebbe presto finito per impossessarsi della mia vita e controllarla come mai prima.
 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Capitolo IX
 
 
Sfiducia
 
 
Una lunga e lugubre settimana aveva fine, e una completamente nuova aveva lentamente inizio. Come di consueto, mi recai in ospedale per far visita a mia sorella e vegliare su di lei sperando in un suo risveglio. Avevo passato la notte con i miei amici, dormendo assieme a loro nella vecchia casa abbandonata, che ora consideravamo una sorta di base segreta. Una notte orribile, durante la quale rimasi sveglia a piangere e rendermi spettatrice di una scena alla quale stentavo a credere, ma che era così ricca di dettagli da sembrare irreale. Mia madre e mio padre erano insieme di fronte all’ospedale, e sembravano discutere. Ad ogni modo, la loro discussione degenerò presto in una lite, e ora, per quanto io provi a dimenticare le orribili frasi che si sono rivolti durante quel litigio, non ci riesco. “Dirò tutta la verità, e me ne andrò di casa.” Disse mia madre, in evidente collera. “Non puoi farlo! Siamo sposati ed era casa mia sin dall’inizio.” Rispose mio padre, fissandola con sguardo colmo di rabbia. “Bene! Io e Brooke ce ne andremo! Gridava lei, con una convinzione che non credevo fosse capace di mostrare. “Non mi lasci scelta.” Disse lui, afferrandola per le spalle ed estraendo un coltello dalla manica della sua giacca, piantandoglielo poi  dritto nel collo. Fu quindi una questione di secondi, e mia madre cadde in terra, scegliendo di utilizzare le sue ultime forze per posare il suo sguardo sul marito e imprecare contro di lui. Quasi ignorando le sue ultime parole, iniziò a trascinare lentamente il suo corpo, fino a farlo letteralmente scomparire dalla scena di quel così efferato crimine. Ora come ora, è passata un’intera settimana, e il ricordo di quel gesto è ancora impresso nella mia giovane mente. Ad ogni modo, con quest’unico pensiero in testa, visitai l’ospedale, scoprendo nuovamente di dover sedere in sala d’attesa, sperando nell’inizio dell’ora delle visite. Guardando negli occhi un’infermiera, annuii a capo chino, lasciandomi poi andare ad un cupo sospiro. Una decina di minuti svanì quindi dalla mia vita, ed io vidi due uomini fare il loro ingresso nell’ospedale. Uno di loro indossava una giacca color grigio fumo, e trasportava a fatica il corpo di una donna. Quest’ultima, aveva gli occhi chiusi e sembrava non respirare, ma un occhio più attento del mio appurò che fosse ancora viva. Per qualche strana ragione, il viso di quella povera donna mi ricordava molto vagamente quello di mia madre. I medici speravano che avesse con sé dei documenti, ma per loro sfortuna non ne aveva, ed io sapevo che l’unico modo di capire se quella donna era davvero mia madre, consisteva nel guardarla negli occhi. La fissai quindi per qualche secondo, notando nei suoi la stessa e identica sfumatura color ghiaccio. Ad ogni modo, mantenni il silenzio, tacendo la mia scoperta. Rimasi quindi ferma a guardare i medici trasportarla nella stessa stanza occupata da mia sorella. Poco tempo dopo, mi alzai in piedi, e notando la mia curiosità, una delle infermiere decise di accompagnarmi. “Che sapete di mia madre?” chiesi, spostando il mio sguardo sul letto che sembrava occupare. “Sta bene, ma dovrà restare qui fino alla nascita del bambino.” Rispose, guardandomi negli occhi. A quelle parole, rimasi impassibile, scegliendo quindi di avvicinarmi al letto occupato da mia madre. Con movenze simili a quelle di un automa, posai una mano sul suo petto, avendo la fortuna e il piacere di sentire il battito del suo cuore. Era debole, ma presente. Pochi istanti dopo, mi voltai verso la porta della stanza, ed iniziai a camminare. Uscendone, ritornai in sala d’attesa senza proferire parola. Uno dei due uomini lì presenti, mi chiese il mio nome, ed io risposi debolmente, al solo scopo di soddisfare la sua curiosità. “Malika.” Dissi, in tono mesto. “Io sono il signor Norton.” Rispose, sorridendomi e presentandosi amichevolmente, tendendomi la mano perché gliela stringessi. Seppur con riluttanza, afferrai la sua mano, lasciandola andare soltanto un istante dopo. Nello spazio di un momento, lo vidi alzarsi e dirigersi verso la stanza che mia madre e mia sorella sembravano occupare. “Voglio solo sapere se stanno bene.” Mi disse, mentre ero impegnata a seguirlo e mi concentravo su mia sorella. “Questo è un ospedale. È ovvio che non stiano bene!” risposi, sentendo una giusta rabbia crescermi dentro. “Sono fortunate ad essere ancora vive. Disse, avvicinandosi a me nel tentativo di consolarmi. A quella reazione, mi ritrassi come una bestiola spaventata. “Si riferisce solo a mia madre. Mia sorella potrebbe non risvegliarsi.” Dissi, tacendo subito dopo. “Mi dispiace, non lo sapevo.” Continuò, con voce rotta dall’emozione. “Dov’è tuo padre? Ne sa qualcosa?” mi chiese, irritandomi inconsapevolmente. “Non lo so, ma è meglio che non sappia nulla. Risposi, scivolando poi ancora una volta nel più completo mutismo. In quel momento, avrei davvero voluto parlargli, e raccontargli tutta la verità, secondo la quale, mio padre risultava essere la persona che aveva ridotto mia madre e mia sorella in quelle così pietose condizioni. Ad ogni modo, decisi di provare a non scompormi, scegliendo quindi di tacere. “Non è certo affar suo. Lei non deve sapere nulla.” Gli dissi, rompendo come vetro un silenzio che non riuscivo a sopportare. “Sto solo cercando di essere gentile ed aiutarti. Perché mi parli così?” rispose, rivolgendomi poi quella domanda. “Ci lasci da sole!” gridai guardandolo in faccia e non avendo modo di notare che delle lacrime avevano iniziato a rigarmi il viso. “Non abbiamo bisogno dell’aiuto di nessuno!” Aggiunsi, facendo uso dello stesso tono di voce. A quelle parole, l’uomo chinò il capo, lasciando la stanza senza dire una parola e con una triste e mesta espressione dipinta in volto. Le mura dell’ospedale non erano poi così spesse, ragion per cui, potei sentirlo pronunciare frasi quali:”Che cosa ho fatto?” prima che le sue parole scomparissero dal mio campo uditivo. Ad essere sincera, quell’uomo non mi piaceva affatto. Era decisamente troppo curioso e gentile per i miei gusti. Inoltre, e come se questo non fosse già abbastanza, non era altro che un estraneo, una minaccia verso la mia famiglia. Ero confusa, ma sapevo bene di non poter lasciare che agisse indisturbato mentre il mio mondo cadeva lentamente a pezzi. In fin dei conti, non volevo far altro che proteggere quanto avessi di più caro, ovvero mia madre e mia sorella. Ad ogni modo, non tornai a casa, troppo spaventata all’idea di incontrare mio padre. Non ero affatto sicura della sua presenza, ma non volevo assolutamente rischiare. Raggiungendo il chiosco dove Luke mi aveva accompagnata tempo prima, utilizzai parte dei miei risparmi per comprarmi da mangiare ed evitare di morire di fame. Mi avviai quindi verso la sorta di base segreta che condividevo con i miei amici, e quella sera, litigai con Peter. “Sei chiusa qui da ore, che ti succede?” chiese, entrando nella mia stanza e tacendo nell’attesa di una mia risposta. Non è niente, sto bene.” Dissi, sfuggendo dai suoi sguardi. “Non sei convincente, sai?” continuò, facendo forse involontariamente crescere in me una giusta rabbia. “La mia vita è orribile. Se sono in casa vengo picchiata da mio padre, e se esco sono il bersaglio degli insulti della gente. Non sto bene se è questo che vuoi chiedermi!” gridai, perdendo drasticamente il controllo delle mie emozioni. “Se fossi in te gliela farei pagare. Disse, guardandomi fissamente negli occhi. “La violenza non mi porterà a nulla, ed io non sono così forte quanto sembro. Se lo fossi, sarei giudicata aggressiva, e verrei sicuramente rinchiusa.” Dissi, con la voce ancora corrotta dalla rabbia. “È quello che meritano.” Rispose, scivolando poi nel silenzio. Dopo quelle parole, misi fine a quella discussione, e scivolai nel sonno fino alla mattina seguente. Appena sveglia, tornai per l’ennesima volta in ospedale. Ero livida di rabbia, e stavo iniziando ad avere seri dubbi sulla vera identità dei miei amici. Difatti, sembravano apparire come spiriti e presentarsi a me solo in determinate occasioni. Liberando la mia mente da quel pensiero, mi concentrai sulla mia destinazione, avendo come unico desiderio quello di rivedere mia madre e mia sorella. Alla mia vista, una delle infermiere mi condusse nella stanza che entrambe sembravano occupare, e una volta entrata, scoprii la presenza di una sorta di sorpresa. Il signor Norton era già lì, e sembrava avere l’intenzione di vigilare sul corpo di mia madre. Ad ogni modo, non proferimmo parola, limitandoci a concentrarci sui pazienti. Io vegliavo su mia sorella, tentando quindi di proteggerla. Non avevo modo di sapere cosa il signor Norton volesse da me, ma ero certa che non avrebbe mai neanche sfiorato la mia famiglia. Lentamente, assistetti al passare di due settimane, e continuai a visitare l’ospedale sperando in un risveglio di mia sorella. Con lo scorrere del tempo, iniziai a perdere la speranza di poterle mai parlare, ma le mie preghiere non si arrestavano. Mia madre, d’altro canto, si svegliò dopo essere rimasta priva di coscienza per circa un mese, e il signor Norton le aveva fatto visita ogni giorno, al punto da spingermi a chiedermi quale sarebbe stata la sua immediata reazione. Ero di nuovo confusa e priva di certezze, ma in compenso, sapevo bene che da un giorno all’altro, qualcosa sarebbe sicuramente cambiato. Il tempo continuò quindi a scorrere, e un giorno scoprii il tanto sospirato risveglio di mia madre. Spaventata dalla reazione che avrebbe potuto avere nel vedermi, decisi di nascondermi in un angolo della stanza, proprio dietro alla porta. Pur non uscendo dal mio nascondiglio, vidi mia madre aprire lentamente gli occhi, sentendola quindi biascicare qualche parola. “Che mi è successo?” chiese, tacendo nell’attesa di una risposta. “Ti sei svegliata!” disse il signor Norton, avvicinandosi a lei. “Chi sei? Perché sono qui? Domandò mia madre, sentendosi sempre più confusa. “Mi chiamo Roger Norton. Io ed un mio amico ti abbiamo trovata nel parco ferita  e vicina alla morte, e ti abbiamo portato qui. Rispose lui, nella segreta speranza di aver soddisfatto la sua curiosità. “Capisco. Grazie di avermi salvata, devi essere il mio eroe.” Continuò lei, in tono calmo e pacato. A quelle parole, il signor Norton non rispose, limitandosi a sorridere e continuare a guardarla. “Sono felice che ti sia ripresa. Hai dei begli occhi.” Disse poi, arrossendo visibilmente. “Ti ringrazio.” Rispose lei, sentendosi letteralmente avvampare. Rimanendo nascosta e non osando muovermi, avevo silenziosamente ascoltato tutta la loro conversazione, e per qualche strana ragione, temevo il peggio. “Ugh, ora ricordo. Devo vedere mia figlia.” Disse mia madre, tentando di alzarsi in piedi.”Non stai bene, devi riposarti.” L’avvertì il signor Norton, guardandola negli occhi. “Devo vederla.” Ripetè lei, irrigidendosi e mutando bruscamente il tono di voce. “Le gambe mi stanno uccidendo.” Si lamentò mia madre, faticando ad alzarsi. A quella vista, il signor Norton mosse qualche deciso passo verso di lei, avendo la chiara intenzione di aiutarla. Dandole il braccio, la aiutò a camminare e raggiungere il letto di mia sorella, ed io la vidi iniziare a piangere sommessamente. “Che cosa ti ha fatto? Chiese, parlando con sé stessa. “È in coma da quando siete arrivate, e potrebbe non farcela. Chiarì il signor Norton, chinando leggermente il capo e sperando di non averla ulteriormente intristita. Mantenendo il silenzio, mia madre sfuggì dai suoi sguardi, limitandosi a fissare l’esanime corpo dell’ancora incosciente figlia, e versando delle fredde ed amare lacrime. Proprio in quel momento, vidi la porta aprirsi, e mio padre fare il suo ingresso nella stanza. A quella vista, sgranai gli occhi, e iniziando a tremare, capii di avere ragione. In quel momento, avevo una sola ed unica certezza, secondo la quale, qualcosa sarebbe sicuramente cambiato.
 

Capitolo X
 
 
Destino funesto
 
 
Il tempo scorreva, e mio padre fissava mia madre. “Ti sei ripresa! Le disse, avvicinandosi lentamente a lei. “Che ci fai qui?” chiese lei, confusa e stranita dalla sua presenza. “Sono corso da te non appena ho saputo, e sono felice che i bambini stiano bene.” Rispose, abbracciandola. “Lasciami andare.” Disse lei con voce ferma, mentre tentava di divincolarsi dalla presa in cui il marito la stringeva. “Che stai dicendo?” Chiese lui, sbiancando in volto e non riuscendo a credere a ciò che aveva appena sentito. “Ho detto lasciami andare. Non voglio più avere niente a che fare conte. È finita!” rispose, ponendo inaudita enfasi su quell’ultima frase. “Mi sono mostrato calmo sperando che avessi cambiato idea e mi perdonassi,  e questo è il tuo ringraziamento?” chiese mio padre, ora livido di rabbia. In quel mentre, rimanevo nascosta, desiderando solo di non essere lì con loro. Pochi istanti dopo, il signor Norton si avvicinò a mia madre, tentando di difenderla. “Non riesci a capirlo? Non vuole essere toccata! Lasciala stare!” gridò, utilizzando quanto fiato avesse in gola per raggiungere il suo scopo. A quelle parole, mio padre rimase impassibile, e un ricordo sembrò farsi spazio nella sua mente. “Questa faccenda non ti riguarda!” rispose, mostrando tutta la sua collera. “Tu vieni con me.” Continuò, afferrando mia madre per un polso e tentando di trascinarla con sé. “Non avvicinarti! Disse lei, lottando per liberarsi dalla ferrea presa che il marito esercitava sul suo polso. “Qual è il tuo problema? Vattene da qui!” sbottò il signor Norton, frapponendosi fra lui e mia madre. “Non puoi dirmi cosa fare! È mia moglie!” urlò lui al suo indirizzo, lasciando nuovamente che la rabbia avesse la meglio su di lui. “Sei il marito peggiore di sempre!” rispose il signor Norton, per nulla intimorito da quel’accesso di collera. Come al solito, rimanevo nascosta, ma nonostante ciò riuscivo a sentire tutto. “Devo fare qualcosa alla svelta.” Pensai, decidendo solo allora di lasciare il mio nascondiglio. Correndo più veloce che potevo, mi avviai verso la sala d’attesa, pur attirando senza volere l’attenzione di mio padre. “Da quanto tempo è qui? Non la passerà liscia.” Pensò, uscendo da quella stanza unicamente per tentare di raggiungermi. In quel preciso istante, mia madre iniziò a lamentare un forte dolore allo stomaco. “Non dirmi che è il momento!” disse il signor Norton, guardandola negli occhi. “Non può essere. È troppo presto!” rispose lei, tacendo subito dopo. “Questo dolore… è familiare.” Aggiunse, rompendo il silenzio creatosi nella stanza. A quella risposta, il signor Norton si irrigidì al punto tale da rimanere immobile come una statua. “Tessa?” la chiamò, dubbioso ed incerto sul da farsi. “Non preoccuparti per me. Va ad aiutare Malika!” lo pregò, sentendosi forse in pena per me. In quel preciso istante, il signor Norton annuì, e corse fuori da quella stanza alla mia disperata ricerca. Incontrando quindi lo sguardo di mio padre, cercò di proteggermi dalla sua ira, ottenendo come unico risultato quello di essere scaraventato in terra. “Basta! Ti prego, basta!” gridai, attirando l’attenzione di mio padre, che si voltò subito verso di me. “Ad una condizione.” Disse, fissandomi con occhi pieni di rabbia e odio.” Mantenendo il silenzio, deglutii, attendendo quindi che riprendesse a parlare. “Non dirai nulla a nessuno, e tornerai a casa con me.” Continuò, con tono e sguardo glaciali. In quel momento, non avevo scelta, ragion per cui accettai il suo volere. Ricominciando a camminare nel corridoio, vidi i medici correre trafelati verso di noi, e capii che doveva essere successo qualcosa a mia madre. Inoltre, per qualche strana e a me ignota ragione, mi ritrovai a pregare perché non morisse. In quel mentre, raggiungemmo nuovamente la sala d’attesa. Riflettendo, mi posi una domanda, arrivando a chiedermi come i medici avessero potuto reagire alla vista del signor Norton privo di sensi sul pavimento. Non ho mai avuto occasione di vederlo, ma ho sentito delle urla. Parlandone con una delle infermiere presenti nella sala d’attesa, scoprii che quelle grida erano di mia madre, e che lei avrebbe presto dato alla luce il mio fratellino o la mia sorellina. “Starà bene?” chiesi, con aria preoccupata. “Tua madre si rimetterà presto. È il bambino che ci preoccupa, è troppo presto perché nasca.” Mi rispose, chinando leggermente il capo. “Lei deve essere il marito, sbaglio? È felice di essere di nuovo padre?” chiese, guardando mio padre negli occhi e tentando invano di sciogliere la tensione. “Sono felice, ma anche preoccupato. Spero solo che vada tutto bene.” Rispose lui, mentendo e sapendo di mentire. Fissando il mio sguardo su di lui, sentii per l’ennesima volta una giusta rabbia nei suoi confronti crescermi dentro. Sapevo bene che non era affatto felice, e che sicuramente sperava nella morte del bambino che mia madre stava per mettere al mondo. Da quel momento in poi, aspettammo. Sembrava che passassero anni, ma l’orologio appeso al muro segnava il mero scorrere delle ore. Poi, improvvisamente, accadde ciò che tutti stavamo aspettando. Sentimmo una porta aprirsi, ed io vidi tre medici uscirne. Nessuno di loro proferiva parola, e grazie all’eloquenza del loro silenzio, capii che non erano portatori di buone notizie. “Devo sapere cos’è successo.” Disse ,mio padre. Rompendo il silenzio presente nella sala d’attesa. “Non c’è stato molto da fare. I bambini sono nati troppo presto,  e di certo non passeranno la notte.” Disse un’infermiera, scuotendo il capo con aria di dissenso e rassegnazione. “Stiamo facendo del nostro meglio, ma la sopravvivenza non sarà possibile.  Può vedere sua moglie“Aggiunse un secondo infermiere, rivolgendosi a mio pade e mostrando uno stato d’animo pari a quello della collega. A quelle parole, mio padre non ebbe alcuna reazione, salvo quella di alzasi scattando in piedi come una molla. “Rimani qui.” Mi disse, fulminandomi con lo sguardo. “Va bene.” Risposi, sospirando e limitandomi a fissare il pavimento. Facendo poi ciò che mi era stato chiesto, tornai a sedermi in sala d’attesa, constatando lo scorrere del tempo. Così, un’ intera ora scivolò via dalla mia vita come la limpida acqua di un fiume, e in quel preciso istante compresi di non poter riuscire a sopportare oltre. Attesi invano il ritorno di mio padre, per poi prendere una decisione che sapevo avrei ricordato finchè avessi avuto vita. Addentrandomi in uno dei lunghi corridoi dell’ospedale, raggiunsi la stanza occupata da mia madre, e nascondendomi dietro la porta, evitai di entrare. Mantenendo quindi la mia immobilità, potei chiaramente sentire ognuna delle orribili frasi che rivolse alla moglie. “È la prima volta che metti al mondo dei bambini e guardali! Sono deboli e inutili proprio come te!” urlò, scaricando su di lei tutta la sua rabbia. “Lasciaci in pace, Rudolph. Non vuoi che la polizia ti scopra, vero? Non dirò nulla se te ne vai subito.” Rispose mia madre, con una calma  concessale solo dal suo cagionevole stato di salute. Quasi ignorando le sue parole, lui si voltò, dandole le spalle e abbandonandola in  quella così arida stanza d’ospedale. Poco dopo, raccolsi il mio coraggio, e muovendo alcuni incerti passi in avanti, provai ad entrare. “Mamma?” la chiamai, tentando di attirare la sua attenzione. Mantenendo il silenzio, mia madre volse il suo pacato sguardo su di me, attendendo che riprendessi a parlare. “Moriranno davvero?” le chiesi, tacendo subito dopo. “Non saranno qui ancora per molto, ma almeno non soffriranno.” Rispose, respirando a fatica. “Non voglio che accada.” Piagnucolai, avvicinandomi a lei. “Mi dispiace.” Disse, guardandomi negli occhi e scivolando nel silenzio. “Di cosa?” chiesi ingenuamente, attendendo una risposta. “Per essere stata una persona e una madre orribili.” Disse, respirando sempre più affannosamente. “Va tutto bene. Vuol dire che non mi odi? Risposi, concludendo il mio discorso con una domanda. “Io non ti odio, e mi dispiace per tutto. Continuò, mentre il suo respiro sembrava accorciarsi. “Non preoccuparti, non sono arrabbiata con te. Penso che siano bellissimi.” Le dissi, sorridendo debolmente e riferendomi ai miei tre fratellini. “Anche tu lo sei, Malika.” Rispose, mostrandomi a sua volta un debole ma convincente sorriso. “Cosa?” continuai, sperando che avesse ancora la forza di rispondermi. “Tu e Brooke siete le ragazze più belle  che io abbia mai visto.” Disse, ansimando e avendo sempre più difficoltà nel respirare. “Mi dispiace Malika, sono esausta.” Disse, facendo uso delle sue ultime forze per guardarmi negli occhi. “Ti voglio bene.” Aggiunse, per poi scivolare nel silenzio e lasciarmi per sempre. Mia madre morì quello stesso giorno. I dottori non riuscirono a spiegarmi il perché della sua morte, ma dissero che avrebbe potuto essere stanchezza eccessiva, una malattia congenita, o forse stress per il suo cuore. L’unica cosa certa era che mi avesse lasciata serenamente. Ad ogni modo, ero nuovamente confusa. Non sapevo se le sue parole avessero un fondo di verità, né se le intendesse davvero, ma avevo una sola ed unica certezza, secondo la quale, l’aver sentito quelle parole mi aveva aiutato a crederle vere.Mantenendo il silenzio, rimasi lì, ferma ed incerta sul da farsi. Tenevo lo sguardo fisso sui miei fratellini, piccole e innocue forme di vita che piangevano per la tristezza. Forse sapevano cosa era appena successo a mia madre e attendevano il momento di raggiungerla? Ancora una volta, non potevo saperlo, e guardandoli, non proferivo parola. Rimasi quindi in quella stanza a piangere per ore ascoltando i loro lamenti. Con il passare del tempo, gli stessi divennero più fievoli, fino a tacere, silenziosi come una città senza vita. Sapevo bene che avevano raggiunto mia madre in qualunque posto si vada alla fine dei propri giorni, e per un singolo momento pensai di voler seguire le sue stesse orme, ma qualcos’altro, un suono in particolare, mi ridestò da tali ed esuli pensieri. Il pianto di uno dei miei fratellini mi fece voltare di scatto, e quasi istintivamente lo presi in braccio, cullandolo fino a che non si addormentò. Lentamente, notai lo sfumare del pomeriggio in buia notte, e compresi di dover forzatamente lasciare l’ospedale, tornando quindi a casa e temendo la collera di mio padre. Ad ogni modo, e per qualche strana ragione, ero felice, poiché nonostante la morte di mia madre, uno dei miei fratellini era riuscito a sfuggire al proprio funesto destino.
 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Capitolo XI
 
 
Flebile speranza
 
 
Seduta nella mia stanza, tenevo in braccio il mio fratellino, e dopo ore passate a pensare e prendermi cura di lui, presi una decisione. Come ogni giorno, sarei andata a far visita a mia sorella in ospedale. Provando paura riguardo alla sua reazione, non dissi nulla a mio padre, sparendo da casa in completo silenzio. Raggiunsi la mia destinazione in poco tempo, e scoprii il corpo di mia sorella ancora apparentemente privo di vita. Guardandola, ebbi il piacere di notare che in lei non era cambiato nulla. Non si muoveva, ed era così silenziosa da dare l’impressione di essere appena caduta in un sonno profondo. A quella vista, sorrisi debolmente. I giorni passavano, ma io non accennavo a smettere di credere in un suo risveglio. Ad ogni modo, poco tempo dopo sentii la porta della stanza cigolare ed aprirsi, e vidi il signor Norton fare lentamente il suo ingresso. “Ascolta, il modo in cui tuo padre ti tratta è sbagliato, e perciò vorrei prendermi cura di voi due al suo posto.” Mi disse, guardandomi negli occhi e tacendo subito dopo. “Congratulazioni, sei il primo a notarlo, ma non posso accettare la tua offerta. Se lo facessi mio padre ci ucciderebbe.” Risposi, quasi ignorando le sue parole e mostrando la rabbia che da tempo covavo nel cuore. “Dobbiamo fare qualcosa! Chiamerò la polizia e gli diremo tutto!” aggiunse, cambiando improvvisamente tono di voce. “Questo è un problema mio e non tuo. Forse non ricordi, ma io non mi fido di te! L’unica ragione per cui eri qui era stare con mia madre, ma ora è morta e puoi andartene!” gridai, alzandomi in piedi con velocità inaudita. “Capisco come ti senti, ma sono qui per aiutarti.” Disse, guardandomi negli occhi ed evitando di scomporsi. “Perché? Perché cambiare ciò che non può essere cambiato? Qualunque cosa farai non sarà altro che un fuoco di paglia.” Risposi, sentendo la rabbia previamente provata scorrermi come sangue nelle vene. In quel preciso istante, la porta si aprì di nuovo, e mio padre fece il suo ingresso nella stanza. “Da quanto sei qui? Ti ho cercata ovunque!” urlò, guardandomi negli occhi e tentando di avvicinarsi. Fu quindi questione di un attimo, e lo sguardo di mio padre si posò sul mio dormiente fratellino. “Da quando è vivo?” mi chiese, riferendosi ovviamente a quell’innocente creatura. A quella domanda, non risposi, mantenendo il silenzio e prendendo in braccio il bambino nel mero tentativo di proteggerlo. Mentre ero nell’atto di farlo, assistetti alla reazione del signor Norton, che a sua volta, aveva intenzione di prendere le mie difese. “Non meriti di essere padre! Vattene!” gli gridò, frapponendosi fra me e lui in maniera tale da annullare la distanza che ci separava. “Non ti è bastata l’ultima volta?” chiese, facendo uso di un sarcasmo pungente e per nulla ironico. “Basta! Hai promesso di non ucciderlo! Gridai, sperando di dissuaderlo dal suo reale intento. “Hai sentito? Chiese, ridendo acidamente. “Non ti accadrà nulla se ora sparisci.” Continuò, tenendo gli occhi fissi sul suo interlocutore. “Sei matto? Non mi muovo di qui! Rispose il signor Norton, irrigidendosi di colpo. “Tu sei matto! Sto cercando di salvarti, perciò smetti di fare l’eroe!” Dissi, alterandomi e non curandomi del tono di voce che utilizzai. A quelle parole, il signor Norton non rispose, limitandosi a guardarmi con aria perplessa. “Brava ragazza. Ora andiamo a casa.” Disse mio padre, attendendo che iniziassi a seguirlo.Sospirando, mi limitai ad annuire mestamente, per poi camminare al suo fianco. Fra un passo e l’altro, mi concessi del tempo per pensare. Dentro di me cercavo aiuto, e non desideravo altro che una vita migliore. Nel profondo, sapevo che tale desiderio non si sarebbe mai avverato, ed ero certa che la testardaggine del signor Norton sarebbe stato il motivo della sua morte. Mio padre avrebbe facilmente potuto ucciderlo, ragion per cui, non avevo avuto scelta dissimile dal tentare di calmare le acque. Non proferendo parola, ebbi cura di non mostrare le mie vere emozioni, ma ero davvero felice che il mio fratellino fosse vivo e che mio padre non avesse intenzione di ucciderlo o fargli del male. Ad ogni modo, sapevo anche di non poter continuare a rivolgermi a lui semplicemente chiamandolo “fratellino”, così decisi di provare a trovargli un nome, conferendogli quindi un identità che gli avrebbe permesso di stare al mondo. In quel momento, in me si accese una speranza. Con la sua nascita, la mia vita era cambiata in modo indescrivibile. Ero diventata un modello da seguire per una creatura completamente indifesa, e avevo giurato a me stessa che lo avrei protetto arrivando a pagare con la mia stessa vita. Era autunno, ovvero quella stagione che molti considerano uggiosa e priva di vita, e pur non apprezzandola minimamente, ero di tutt’altro avviso. Difatti, perfino durante la stagione della morte, una vita aveva prevalso, dando prova che ognuno deve avere una possibilità per vivere ed essere felice. Guardandolo, sospirai lievemente, lasciandomi trasportare dai ricordi. Il mio fratellino era una persona speciale, nata sotto una cattiva stella ma sempre pronta a rialzarsi e lottare per essere sé stesso. Per tale ragione, scelsi un nome speciale ed unico almeno quanto lui, ovvero Sarid, parola ebraica che significa sopravvissuto. A sentire quel nome, il mio fratellino mosse lentamente una delle sue piccole mani, per poi emettere un vagito e mostrare quello che identificai come un sorriso. Subito dopo, mi lasciai travolgere dallo sconforto. Riflettendo, capii che ogni persona che mi avesse mai voluto bene aveva finito per provare dolore o morire, ed ebbi quindi paura di perdere il mio amato fratellino. Volgendo poi il mio sguardo fuori dalla finestra della mia stanza, assistetti al lento tramontare del sole, scegliendo quasi istintivamente di raggiungere i miei amici. Sorridendo debolmente, lasciai che poco prima di andare il mio sguardo si concentrasse su Sarid. Completamente ignaro delle avversità del mondo e della crudeltà della gente, dormiva beato. Lo lasciai fare, poiché avrebbe avuto bisogno di energie. Mia madre ci aveva lasciati da un anno, e al suo funerale non mancava che un giorno. A rendere l’intera faccenda ancora peggiore, c’era la data stessa, ovvero quella del mio compleanno. Proprio quella mattina, al sorgere del sole, avrei compiuto sedici anni. Ad ogni modo, alla mia vista, mi accolsero calorosamente, ed io non chiesi che di dormire in loro compagnia. Sorridendo, non mi negarono tale richiesta, ed entrando, li ringraziai, sperando quindi di trovare riparo dal freddo e dalla pioggia che aveva intanto iniziato a scrosciare. “Pioverà ancora per molto.” Osservai, rimanendo seduta accanto ad una delle finestre. “Mio padre mi ucciderà.” Commentai, fissando le gocce di pioggia rigare il vetro della finestra attraverso la quale osservavo un paesaggio inumidito e infreddolito dalla stessa. “Reagisci, e fagliela pagare. In fondo è ciò che merita. Disse Peter, quasi a volermi sfidare con la voce. “Vuoi fare silenzio? Questo non è il momento!” risposi, voltandomi di scatto verso di lui. “Hai paura?” mi chiese, ignorando le mie parole. “Prova solo a ripeterlo! Continuai, avvicinandomi a lui e alterandomi di colpo. “Smettetela!” intervenne Luke, tentando quindi di dividerci. A quella reazione, mi calmai quasi istantaneamente, scegliendo di respirare a fondo e tornare a sedermi. “Non siete reali, perché continuare a dirmi quello che so?” dissi, ritrovandomi nuovamente occupata a fissare il paesaggio. “Che vuoi dire?” chiese Luke, stranito dalle mie parole. “Tu, Peter e Susan non siete reali, e avrei dovuto capirlo molto prima.” Risposi, sperando di aver soddisfatto la sua curiosità. “Ora basta e lasciatemi stare, io me ne vado! Continuai, alterandomi e urlando per la seconda volta. “Malika, devi riflettere. Stai lasciando che la rabbia ti controlli!” mi avverti Luke, sperando di aiutarmi a ritrovare la calma. “Smettila di dirmi cosa fare!” risposi, alzandomi in piedi con la chiara e precisa intenzione di uscire da quella casa. Poco dopo, venni fermata dalla mia amica Susan, come sempre impegnata a guardare le stelle. “Dove vai?” mi chiese, con una vena di preoccupazione nella voce. “Via da qui e via da tutti!” risposi, continuando a correre e non avendo modo di notare che delle piccole lacrime avevano iniziato a rigarmi il viso, mischiandosi inesorabilmente alla pioggia. Come ogni volta, non avevo certezze, e tutto ciò che mi rimaneva, era una flebile ma solida speranza.
 

 

 

 

 
Capitolo XII
 
 
Pianto di nuvole e rabbia latente
 
 
Attorno a me tutto era buio, e camminando, riflettevo. Le parole che avevo usato contro i miei amici mi avevano ferita. Non sapevo se ciò che pensavo fosse vero, né se loro facessero davvero parte della mia immaginazione, ma ad essere onesta, non credo più di riuscire a riconoscermi. Non riesco a capire cosa siano, né a discernere il falso dalla realtà. Forse, esiste un’alquanto remota possibilità che io abbia davvero perso la testa. Presto finirò per parlare con dei comuni oggetti, e poi avrò una conversazione con un fantasma. Il solo pensiero mi spaventa a morte. Che cosa sono? Chi sono? Qual è il significato della vita? Perché esistere al fianco di persone che non desiderano altro che la mia morte? Tutte domande che da giorni mi ronzano in testa come uno sciame di voraci insetti, e che per mia sfortuna, non troveranno mai una risposta. La vita stessa risulta essere troppo complicata per essere spiegata attraverso l’uso di semplici parole. Esistiamo solo grazie ai nostri genitori, ma non vedo ragione di ringraziare coloro che mi hanno offerto il dono della vita, specialmente dopo tutto quello che mio padre mi ha fatto. La lista dei suoi soprusi è lunghissima, e pur provando a stilarla, non credo che riuscirei mai ad arrivare alla fine. Ora come ora, il sole è sorto, e la mattina sta lentamente sfumando nel pomeriggio. Quello odierno, è un giorno triste, che sono certa di non poter dimenticare. Proprio oggi, il funerale di mia madre verrà solennemente celebrato. Senza proferire parola a riguardo, lasciai che mio padre accompagnasse me e Sarid in chiesa, mantenendo il silenzio per tutto il tempo. Guardandomi attorno, scorsi i volti di molte persone che sembravano conoscerla, e che apparivano addolorate almeno quanto me. Le lacrime mi correvano sul viso, ma nonostante questo rimanevo muta e immobile, mentre Sarid era in piedi al mio fianco. Pur essendo soltanto un bimbo di due anni, sembrava aver compreso la gravità della situazione, tanto da mantenere un silenzio consono al luogo di culto nel quale ci trovavamo. “Che è successo alla mamma?” mi chiese, guardandomi negli occhi. “Se n’è andata.” Risposi, in tono calmo e pacato. Subito dopo, mi lasciai scivolare nel silenzio, e il mio sguardo incrociò quello del signor Norton. “Dispiace anche a me. Disse, guardandomi negli occhi e parlando in tono mesto. “Per te è diverso. Tu non hai perso tua madre.” Risposi, lasciando che una chiara sensazione di stizza corrompesse il mio tono di voce. Dopo quelle parole, scivolai nel più completo mutismo, scegliendo di voltarmi e dare le spalle al mio interlocutore. Capendo quindi di non aver modo di convincermi del dolore che provava, il signor Norton sospirò, per poi allontanarsi lentamente da me. In quel momento, un rumore mi distrasse, ed io mi voltai nuovamente. Mentre ero nell’atto di farlo, rividi in lontananza il signor Norton. Era troppo lontano perché potessi affermarlo con sicurezza, ma ora sembrava sorridere, ed era in compagnia di una donna. “Perfetto! Hai ritrovato la tua ragazza e puoi dimenticarti di mia madre!” gridai, avvicinandomi con fare quasi minaccioso. “Malika, lascia che ti spieghi.” Pregò, sperando che gli dessi modo di parlare. “Spiegare cosa? Come hai deciso di abbandonarci?” urlai, sapendo di aver appena perso il controllo delle mie emozioni. “Credevo di potermi fidare, ma mi sbagliavo.” Continuai, sentendo le mani prudere per la rabbia. “Andiamo Sarid, lui non ci serve.” Continuai, guardando il mio fratellino ed invitandolo a seguirmi. Così ebbe inizio il nostro viaggio verso casa, che raggiungemmo dopo un lasso di tempo che mi apparve incalcolabile. Rintanandomi nella mia stanza, approfittai del silenzio per iniziare a pensare. Mi chiesi come il signor Norton avesse potuto farmi una cosa del genere, pur non riuscendo a trovare una motivazione per quel gesto. Ad ogni modo, provò a contattarmi diverse volte, mai io continuai ad ignorarlo. Inevitabilmente, arrivò poi il giorno in cui mio padre gli urlò letteralmente in faccia intimandogli di lasciarci in pace, e da allora non rividi più quell’uomo né la sua “ragazza.” Non saprei dire con precisione quanto tempo passò, ma i giorni continuarono a susseguirsi, ed io tornai a scuola dopo un lungo periodo di assenza. Quel giorno varcai il cancello scolastico con riluttanza., ricevendo un’accoglienza priva di calore e fredda come il ghiaccio. “Guardate chi è tornata! Gridò Bailey alla mia vista, spingendo tutti gli altri compagni a guardare nella mia direzione e iniziare a fissarmi. “Che cosa ci fai qui? Credevo avessi smesso di venire a scuola! Disse Dawn, stranita dalla mia presenza. A quelle parole, seguì una pioggia di insulti ai quali non ebbi reazione alcuna, salvo quella di chinare il capo e sperare di scomparire per sempre dalla loro vista. Poco dopo, risollevando lo sguardo, sussultai vedendo Calvin avvicinarsi a me. “Ho saputo di tua madre. Come sta Brooke?” chiese, mostrando una melliflua considerazione ed un evidente sarcasmo. Tentando di ignorarlo, mi sforzai di ricacciare indietro le lacrime. “Quando la rivedi puoi dirle che la lascio! Non perdo il mio tempo con le nullità!” aggiunse, alterandosi di colpo. A quelle parole, mi sentii enormemente ferita, e lasciando che le mie emozioni avessero la meglio su di me, esplosi in un accesso di collera. “Non posso! Mia sorella è in coma da mesi e potrebbe non risvegliarsi!” gridai, non curandomi del tono che avevo usato nel rispondere. Subito dopo, iniziai a piangere, sentendo le lacrime rigarmi il viso. In quel preciso istante, un particolare attirò la mia attenzione. Calvin era letteralmente sbiancato, e i suoi occhi azzurri erano colmi di lacrime. “Dov’è adesso? Mi chiese, singhiozzando e non riuscendo a smettere di piangere. “In ospedale, ma non c’è nulla che tu possa fare.” biascicai, sperando di aver soddisfatto la sua curiosità. Ebbi a malapena il tempo di pronunciare quelle parole, che la sua inaspettata reazione si palesò davanti ai miei stessi occhi. L’intera faccenda mi aveva sorpreso profondamente, e non potei fare altro che guardarlo iniziare la sua corsa mentre la pioggia scrosciava copiosa. Ad ogni modo, Calvin si voltò improvvisamente. I nostri sguardi si incrociarono, e un singolo attimo scivolò via dalla mia vita, allo scadere del quale ricominciò a correre. Subito dopo, fissai il mio sguardo sul terreno, e sentii Jacob, un mio compagno di classe lamentarsi per le intemperie. “Sta piovendo. Dai Matthew, entriamo prima di bagnarci.” Disse, alzando gli occhi al cielo e riferendosi all’amico. Lo stesso, parve non ascoltarlo, poiché evidentemente concentrato su qualcosa di completamente differente, ovvero me. “Dove guardi?” gli chiese Jacob, accorgendosi della sua disattenzione. “Da nessuna parte.” Rispose quest’ultimo, guardandosi nervosamente intorno. Poco dopo, Jacob lasciò cadere l’argomento, e Matthew decise di seguirlo. Ad ogni modo, il mio sguardo si posò su Bailey e sul suo gruppo di perfide amiche. Per qualche strana ragione, mi fissavano con sguardo malevolo. Alla loro vista, iniziai inconsciamente a tremare, e vidi Bailey avvicinarsi lentamente a me. “È spaventata. Stiamo spaventando la bambina.” Disse, in tono evidentemente canzonatorio, iniziando quindi a ridere assieme alle sue compagne. “Perché non torni alle elementari?” aggiunse, continuando a guardarmi e ridendo acidamente. Mantenevo il silenzio e tremavo a causa del freddo, ma in quel preciso istante, sentii nuovamente una voce nella mia testa. “Fagliela pagare.” Diceva quella voce, spingendomi quindi a compiere un gesto del quale non credevo sarei mai riuscita a rendermi artefice. Istintivamente, spinsi Bailey così violentemente da farla cadere a terra. Non contenta di quel risultato, iniziai a prenderla a pugni sul viso, fino a quando non vidi il suo naso sanguinare. Anche se per un singolo momento, non ebbi idea di cosa stessi facendo. Era come se la mia rabbia interiore avesse preso il sopravvento. Per qualche strana e a me ignota ragione, le chiare immagini di ciò che avevo fatto a Bailey erano ancora fisse nella mia mente. Riuscivo perfino a ricordare la sensazione datami dalla presenza del suo sangue sulle mie mani. “Guarda cosa mi hai fatto Sei completamente pazza!” si lamentò Bailey, faticando a rialzarsi. Guardandola negli occhi, non risposi, mantenendo il silenzio. Provando evidente pena per lei, Ben le si avvicinò, tentando quindi di confortarla. Disgustata da quella scena, continuavo a fissarla. “La pagherai.” Mi disse Ben, avvicinandosi a me con fare minaccioso e avendo la chiara intenzione di farmi del male. Ben, il ragazzo che avevo considerato mio amico, tentava ora di ferirmi. Non tentai minimamente di muovermi o allontanarmi. Mi vergognavo di ciò che avevo appena fatto. Per qualche strana ragione, tutta la rabbia che sembrava avermi controllato era come sparita e dimenticata. Ero sicura che la mia vita avrebbe certamente avuto fine. Non credevo che un insegnante sarebbe mai venuto a conoscenza di quanto era appena accaduto, né che avesse realmente provato a calmare le acque. Un pensiero patetico, ma che non si fece mai spazio nella mia mente. L’insegnante fermò Ben e mi separò dal resto del gruppo attraverso l’uso di metodi che reputai imbarazzanti. La stessa, mi afferrò per le spalle, lasciando che gli altri mi fissassero con meraviglia e irritazione. In quel momento, mi resi conto di quanto fossi tesa, e della velocità con la quale il mio cuore stesse battendo. Mi rilassai completamente, e chiusi gli occhi al solo scopo di non vedere niente e nessuno. Volevo solo sparire. Ad ogni modo, mi ritrovai in classe. La professoressa, che tutti conoscevamo come signorina Griffith, aveva speso parte del suo tempo per ripulire il sangue dalle mie mani senza che me ne accorgessi. “Che devo fare con te? A cosa pensavi?” mormorò, scivolando poi nel silenzio. Poco dopo, l’insegnante mi disse che aveva informato mio padre dell’accaduto, e aggiunse che avrei dovuto scusarmi con Bailey. “È lei che ha iniziato!” dissi, tentando di difendermi e giustificarmi al tempo stesso.” “Non mi interessa.” Rispose, guardandomi negli occhi. Ad ogni modo, poco tempo dopo vidi mio padre fare il suo ingresso nella mia aula, seguito da Sarid. “Qual è il problema?” chiese mio padre, attendendo una risposta. “Sua figlia si comporta in maniera inammissibile. Ha ferito una studentessa.” Rispose, in tono alquanto serio. “Le spiace se le chiedo di sua moglie?” azzardò, sperando di non risultare invadente. “È in un posto migliore, ed è una vera tragedia.” “Ho perso la mia cara moglie e devo prendermi cura dei miei figli con i pochi soldi che ho.” Rispose, mostrando una melliflua tristezza e versando qualche finta lacrima. “È una vera tragedia. C’è qualcosa che posso fare per aiutarla?” chiese la signora Griffith, mossa a compassione da quelle parole. “Mi servirebbe compagnia.” Rispose mio padre, continuando a portare avanti quella che io consideravo una farsa.  Dopo quelle parole, mi rifiutai di continuare ad ascoltare. Conoscevo le sue intenzioni, e ne ero letteralmente basita. Mi chiesi come potesse mentire su sé stesso e sulla sua intera famiglia. Ad ogni modo, i due iniziarono a frequentarsi, e dopo circa due mesi, mio padre interruppe quella relazione per un’altra donna. Non rividi mai più la signora Griffith, ma non venni mai sospesa da scuola. Il tempo continuò a passare come se nulla fosse accaduto, anche se da quel giorno in poi le cose cominciarono a cambiare. Non sapevo cosa aspettarmi, ed ero solo sicura di essere rimasta da sola con la mia stessa rabbia.
 

 

 

 

 

Capitolo XIV
 
 
Dispiacere
 
 
E così, il tempo continuava a scorrere, e la mia carriera scolastica proseguiva. Per mia mera sfortuna, le cose continuarono a peggiorare. La mia classe, l’intera scuola, e perfino la città vennero a sapere ciò che era accaduto a Bailey dal suo punto di vista. Per lei non ero che una ragazza aggressiva e priva di controllo che l’aveva attaccata e ferita senza una ragione. Grazie a quel suo intervento, mi guadagnai la peggior reputazione possibile, che continuava a cambiare negativamente con il solo passare del tempo. innumerevoli voci di corridoio si sparsero per la città come fuoco vivo. Ormai ogni singola persona sembrava credere alla storia raccontata da Bailey, o almeno così pensavo. Qualche giorno dopo, tornai come di consueto in ospedale assieme a Sarid, e camminando per raggiungere la stanza di mia sorella, sentii una voce troppo conosciuta per essere confusa, ovvero quella di Calvin. Guardando il suo corpo quasi privo di vita, le parlava costantemente, pronunciando frasi che testimoniavano quanto la amasse. Facendomi coraggio, spinsi la porta socchiusa fino ad aprirla, incrociando quindi lo sguardo dello stesso Calvin. “Mi hai sentito, vero?” mi chiese, pur continuando a fissare l’esanime corpo di Brooke. “Non credevo di trovarti qui. Pensi davvero ciò che hai detto?” gli dissi, terminando quella frase con una domanda. “Sì, è tutto vero. Non mi importa se è diversa, io la amo per ciò che è.” Rispose, regalandomi un debole ma convincente sorriso. “Allora perché? Perché hai mentito e detto quelle cose orribili?” chiesi, stranita e confusa dalle sue parole. “Non ho avuto scelta! Dicevano che era sbagliato! Mi hanno detto cosa fare!” rispose, spostando il suo sguardo su di me e non riuscendo a trattenere le lacrime. In quel preciso istante, un dubbio mi balenò in mente, ed io mi chiesi a chi si riferisse. “Bailey, Dawn, Sally e il resto della classe. Ho detto a tutti che siete sorelle. È stato stupido, e avrei dovuto capire di provare ancora qualcosa per lei.” Disse, rispondendo alla domanda che mi ponevo quasi leggendomi nel pensiero. “Lasciala.” Mi dicevano. “Ho accettato ma me ne pento, perché ora so di amarla. Continuò, chinando leggermente il capo per la tristezza. “È sciocco. Perché ascoltarli? Perché non fare quello che vuoi?” disse Sarid, quasi volendolo rimproverare. “Hai già risposto a quella domanda. Sono sciocco e lo so bene, ma non lascerò più che gli altri mi controllino.” Rispose, concentrando il suo sguardo sul mio fratellino. “Credi che a Brooke piacerebbe un ragazzo come me?” mi chiese, guardandomi e spostando poi lo sguardo sulla mia incosciente sorella. “Dovrai chiederlo a lei quando si sveglierà. E se si sveglierà.” Risposi, ponendo inaudita enfasi su quell’ultima frase. “Non perderò la speranza, e pregherò per lei ogni giorno. Dichiarò, alzando lo sguardo e apparendo fiducioso. “Se si sveglierà, chiederò la sua mano.” Aggiunse, sorridendo e guardandomi negli occhi. “Che significa? Mi chiese Sarid, guardandomi con aria confusa. “Lo capirai da grande.” Dissi, tacendo subito dopo. Ad ogni modo, quella mia visita ebbe fine con quella conversazione, ed io iniziai ad avviarmi verso casa. Attorno a me tutto era buio, ma nonostante tutto camminavo tranquilla. Qualche sporadico lampione illuminava la mia strada, e il silenzio regnava sovrano. L’unico rumore che sentivo era quello dei miei passi, lenti ma decisi. Improvvisamente, sentii una voce chiamarmi. Istintivamente, mi voltai verso la fonte di quel rumore, e vidi una ragazza dagli occhi azzurri avvicinarsi. “Mi dispiace, non volevo spaventarti.” Disse, con voce tremante. “Non dovresti parlarmi. Sono pericolosa. Non hai sentito le voci?” risposi, quasi stizzita dalla sua presenza. “Le conosco, ma so che non sei pericolosa.” Continuò, guardandomi negli occhi e tremando per il freddo. “Non sai niente di me! Ora sparisci dalla mia vista.” L’avvertii, sentendo una giusta rabbia crescermi dentro. “Non vuoi farmi del male, vero?” mi chiese, con voce flebile. A quelle parole, non risposi, scivolando nel mutismo più completo. “È colpa di Peter, sbaglio?” domandò, attendendo una mia risposta. “Come sai di lui? Sono l’unica a vederlo! Chi sei?” dissi, sentendomi confusa e stranita da quella domanda. “Mi chiamo Wendy, e conosco la tua storia proprio come Susan, Luke e Peter. “Sei come loro? Non sei reale? Perché continuo a vedervi? Ne ho abbastanza!” dissi, apparendo spaventata e  ponendo inaudita enfasi su quella valanga di domande. “Ti prego, calmati. La ragione per cui ci vedi è semplice. Siamo Amici Immaginari, ed esistiamo nella tua mente.” Chiarì, facendo conseguentemente sparire ogni mio dubbio. Ad ogni modo, dopo quella sorta di spiegazione non potei evitare di chinare il capo ed iniziare a singhiozzare. Poco dopo, rialzai lo sguardo perché attirata da una sorta di luminescenza, e fu allora che vidi il resto dei miei amici. Alcuni istanti dopo, anche Wendy li raggiunse. Parlavano fra di loro, rivolgendosi frasi che non riuscivo a capire, ragion per cui, li guardai con aria confusa. “Ci dispiace di averti ferito. Volevamo solo aiutarti, e odiavamo vederti così sola.” Disse Luke, chinando lo sguardo per la tristezza. “Devi sapere una cosa. Noi quattro siamo i tuoi amici immaginari, e ci basiamo sui tuoi sentimenti.” Aggiunse, avendo cura di spiegarsi e far scomparire ogni mia insicurezza. “Mi chiamo Luke, e sono il tuo primo amico immaginario. Sono venuto ad aiutarti quando eri vittima del bullismo. Sono la tua intelligenza e la tua creatività.” Concluse, tornando a guardarmi. Mantenendo il silenzio, ascoltavo con attenzione, non tentando minimamente di interrompere. “Io sono Susan, e sono la tua seconda amica. Ti ho sentita piangere nel mezzo della notte e sono venuta a consolarti. Sono la tua tristezza.” Disse lei, tacendo subito dopo. “Sono Peter, il tuo terzo amico immaginario. Sono comparso quando eri furiosa con tuo padre. Hai lasciato che la tua rabbia si palesasse attraverso me. Grazie.” Disse, sorridendo debolmente e scivolando nel silenzio. “Ed io sono Wendy, la quarta e probabilmente ultima amica immaginaria. Mi sono mostrata per chiarirti le idee, ma non sono che la tua ragione e il tuo buon senso. Confessò, guardandomi mestamente. Non riuscivo a crederci. La razionalità mi portava a farlo, eppure non volevo che fosse vero. Chinando nuovamente il capo, sospirai cupamente, per poi incontrare lo sguardo di Luke. “Non sei da sola. Devi solo aprire gli occhi e conoscere le tue possibilità. Ora sei intrappolata dal volere di tuo padre, e devi riuscire a liberarti.” Mi disse, in tono serio. “Non è così semplice. È più forte di me, ed io non posso fare nulla, o almeno non da sola. Sarid è malato ed autistico, e se riuscissi a scappare come mi prenderei cura di lui?” risposi, terminando il mio discorso con quella domanda. “Non devi fare altro che ucciderlo.” Disse Peter, serrando con forza i pugni.” La violenza non è un’opzione, e tu lo sai bene.” Rispose Wendy, abbassando lo sguardo con aria rassegnata. “Io non ho una risposta, e voi non potete aiutarmi. Devo andare.” Conclusi, dando loro le spalle e iniziando a camminare. Per qualche strana ragione, mi sembrava di camminare metaforicamente in cerchio. Era come se ognuno dei miei sentimenti negativi si stesse ripercuotendo sul mio animo amplificando il mio dolore. Camminavo nel buio di quella fredda sera, ed ero nuovamente rimasta sola, con il mio dispiacere come sola ed unica compagnia.
 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Capitolo XV
 
 
Umiliazione
 
 
È ancora buio, e il mio cammino verso casa è ancora lungo. Ora come ora, la pioggia cade copiosa, e perfino il cielo pare piangere assieme a me. Tengo il capo chino e gli occhi bassi, singhiozzando sommessamente. Il silenzio mi accompagna, ed io mi sento, poiché la mia stessa ombra sembra essere la mia unica amica.  Mi sono da poco svegliata, avendo dormito in un sudicio e sporco bugigattolo trovato in un buio vicolo. Non ho tolto i vestiti anche se bagnati, volendo semplicemente conservare parte del mio esiguo calore corporeo. Rialzando lo sguardo, scopro di aver raggiunto la porta di casa mia. Avvicinandomi, la apro lentamente, scegliendo poi di entrare in casa. Con la stessa lentezza, tolgo la giacca che porto. Facendo poi qualche incerto passo in avanti, fui accolta freddamente da mio padre. Era evidentemente confuso e abbruttito dall’alcol, tanto che i suoi occhi apparivano vitrei e acquosi. “Dove sei stata? Hai idea di che ora sia?” mi disse, facendo suonare quelle domande come retoriche e prive di una reale risposta. “Sono solo uscita.” Risposi, con una voce così flebile da somigliare ad un sussurro. “Vieni nella mia stanza, così posso punirti.” Disse, posando su di me il suo malevolo e glaciale sguardo. “Va bene.” Continuai, annuendo lentamente e iniziando inconsciamente a tremare. Subito dopo, lo vidi voltarsi e salire le scale che portavano alla sua camera, e anche se per un misero istante, fui felice di vederlo allontanarsi. Poco tempo dopo, vidi il mio fratellino Sarid raggiungermi e iniziare a saltellarmi intorno come un passerotto, e sorridere alla mia vista. “Non correre. Sai di essere malato.” Lo avvertii, posando il mio ora preoccupato sguardo su di lui. “Ti va di giocare?” mi chiese, tacendo subito dopo, e rompendo il silenzio solo con degli improvvisi colpi di tosse. “Visto? Non stai bene. Ora va a riposare. Dissi, avvicinandomi ulteriormente a lui. “Voglio solo giocare con te.” Mi disse, dando così inizio ad una preghiera da me egoisticamente ignorata. “Ho detto di no.” Risposi, opponendomi al suo innocente volere. “Non è giusto!” si lamentò lui, scuotendo il capo. “Nulla a questo mondo è giusto, Sarid. Dobbiamo abituarci e sfruttare ciò che abbiamo.” Gli spiegai, parlando lentamente e abbandonandomi poi ad un cupo sospiro. “Mi fai paura. Dovresti essere gentile con me, e non comportarti così. Che ti è successo mentre eri fuori?” disse, completando quel suo discorso con una domanda. “Non capiresti.” Mi limitai a rispondere scuotendo il capo. Da quel momento in poi, tutto tacque, e il silenzio cadde nella stanza. Le mie parole dovevano averlo ferito, poiché lo vidi abbassare lo sguardo e fissare il pavimento. Tentai di scusarmi, ma nulla potè prepararmi alla sua reazione. “Sei cambiata, e questa parte di te non mi piace! È perché sono diverso? Sono un peso? È perché non capisco le persone?” gridò, posando poi il suo sguardo velato dalle lacrime su di me. “Faccio del mio meglio, davvero, ma ho sempre paura di qualunque cosa. Ho paura. Ho tanta paura. Rivoglio la mamma e voglio capire.” Continuò, sempre guardandomi negli occhi. “Sarid, io so cosa vuol dire essere diversi.” Risposi, cingendogli un braccio attorno alle spalle e tentando di consolarlo. “Tu non sai niente!” gridò, poco prima di finire preda di uno dei suoi ormai soliti accessi d’ira, che lo portavano ad urlare e contorcersi sul pavimento in preda allo spavento e al dolore. Istintivamente, tentai di calmarlo prendendolo in braccio, e il mio espediente parve funzionare, poiché tale azione lo calmò quasi istantaneamente. “Sono solo! Solo! Perché nessuno vuole stare con me? Perché sono diverso? Perché?” si chiedeva, urlando e riuscendo a ferire perfino me con tali domande. Ad ogni modo, comprendendo perfettamente i suoi sentimenti, soffrivo per lui, ben sapendo che ai suoi occhi il mondo non rappresenta che un’angusta trappola. Poco dopo, sentii mio padre chiamare il mio nome dal piano di sopra, e sospirando, decisi di salire le scale e raggiungerlo. “Mi dispiace davvero Sarid. Giocheremo più tardi.” Dissi poco prima di andare, mentendo sia a lui che a me stessa dandogli una falsa speranza. Iniziai quindi a salire le scale, raggiungendo poi la stanza di mio padre. Chiamando a raccolta le mie forze e il mio coraggio, vi entrai senza dire una parola. “Lasciami stare.” Lo pregai, tremando inconsapevolmente. Alle mie parole, mio padre non rispose, quasi a volerle ignorare. Fu poi questione di un attimo, e uno schiaffo mi colpì in pieno volto con una forza tale da rendermi temporaneamente incapace di ragionare. Indietreggiando lentamente, speravo che la sua ira si placasse, ma sbagliavo enormemente. Difatti, ben presto mi ritrovai con le spalle al muro, e fu allora che gli schiaffi divennero pugni sul mio viso, sferrati con forza inaudita. Gli stessi, mi procuravano lividi e lesioni sanguinanti, che non potevo certamente evitare. Nel tentativo di proteggermi, mi schermivo il volto con le mani e urlavo evitando accuratamente di piangere, ma ogni sforzo era inutile. Per mio padre non significavo nulla, e per tale ragione, continuava strenuamente ad infierire su di me. Poi, per mia pura fortuna, mio padre decise di fermarsi, e lasciò la stanza non curandosi di me. Ero esausta, e le gambe mi facevano così male da impedirmi di alzarmi da terra. Provandoci, fissai il mio sguardo sulle mie mani, le stesse mani che avevo usato per tentare di difendermi, e che ora sanguinavano. Ad ogni modo, dopo vari tentativi andati a vuoto, riuscii finalmente a rialzarmi, e raggiunsi subito il bagno di casa, con la precisa intenzione di lavare via il sangue dalle mie fresche ferite. Una volta lì, barcollai fino a ritrovarmi seduta sul bordo della vasca da bagno. Rimasi in quella posizione per alcuni minuti, concedendomi del tempo per respirare e riprendermi dall’accaduto. Subito dopo, mi lavai accuratamente le mani, scoprendo che il sangue sembrava non scivolare via con la solita facilità. Esaminandole, scoprii che la colpa di tale situazione era da imputarsi a delle ecchimosi violacee ed evidenti. Quando ebbi finito, lasciai il bagno, raggiungendo il piano inferiore e andando subito alla ricerca del povero Sarid, che si era prontamente rifugiato nella sua camera. Era nascosto dietro alla porta, e tremava incontrollabilmente. Alla mia vista, sembrò calmarsi, ma la situazione sembrava destinata a peggiorare. Un misero attimo svanì dalla mia vita, ed io mi ritrovai svenuta e priva di forze sul suo letto. Non saprei stimare la durata della mia incoscienza, ma una cosa era certa. Quella non era affatto la prima volta che mio padre osava ferirmi a quel modo. Era tutto iniziato nel giorno del mio quindicesimo compleanno, ovvero quando mio padre aveva deciso di trasformarmi in donna. Secondo il suo pensiero, avrei presto dovuto imparare a difendermi da sola, e a suo dire, quello era l’unico modo per insegnarmelo. A volte, mi interrogo silenziosamente, chiedendomi cosa abbia fatto per meritare tale vita. Inoltre, mi capita spesso di immaginare di essere in un posto isolato, e lontano da questo modo di vivere. Un posto dove gli alberi sono in fiore e il cielo ha un colore opaco ma al contempo piacevole ed accogliente. So bene che un posto di quel genere non esiste, ma facendo uso della mia immaginazione, lo visito nei miei sogni. Ad ogni modo, mi risvegliai dopo un tempo che non riuscii a definire, sentendo che il mio corpo era ancora martoriato dal dolore, e desiderando che mio padre avesse l’occasione di provare la stessa sensazione di malessere da me sperimentata negli anni. Due mesi passarono veloci, ed io tornai come di consueto a scuola. Sembrava essere un giorno come tutti gli altri, e l’insegnante di educazione fisica aveva proposto una lezione di danza. Ad essere sincera, non ne avevo alcuna voglia, e mi limitavo a restare ferma in un angolo della palestra guardando Bailey e le sue amiche danzare al mio posto. Le fissavo controvoglia, trovando le loro movenze da bambola assolutamente patetiche. Le ragazze si rivolgevano complimenti e parole di incoraggiamento che non ascoltavo, sentendomi disgustata da quell’odioso spettacolo. “Malika, stai ascoltando? Fatti avanti e mostraci cosa sai fare. Mi disse l’insegnante, invitandomi a prendere il posto di Bailey e delle amiche. Onestamente, speravo che si dimenticasse di me e lasciasse spazio agli altri, ma ciò sembrò non accadere, ed io mi ritrovai costretta ad obbedire. Così, provai a muovere qualche passo di danza, ma caddi non appena ci provai. “Una ragazza come te non farà altro che metterci in imbarazzo. Perché non scegli di morire? Sibilò Bailey nel vedermi faticare a rimettermi in piedi. A quelle parole non risposi, fissandola con sguardo truce. Di fronte alla mia caduta, le mie compagne risero, non curandosi del dolore che provassi o di come mi sentissi fisicamente. “Smettetela.” Dicevo, sperando di convincerle ad evitare di denigrarmi. “Ottimo lavoro.” Mi disse Darcy, non riuscendo poi a trattenere una risata. “Vi ho detto di smetterla.” Continuai, rimettendomi finalmente in piedi e raggiungendo l’esatto centro della palestra. “Ora basta ragazze, tutti commettono degli errori.” Disse l’insegnante, prendendo le mie difese. “Sì, ma lei ne fa di continuo! Non è fatta per questa scuola!” Rispose Bailey, posando il suo sguardo su di me. “È vero! Dovrebbe solo restare a casa e desiderare di non essere nata!” continuò Dawn, dando manforte all’amica. “Non capite. Nessuno di voi capisce.” Dissi, abbassando lo sguardo al solo scopo di controllarmi. “Calmatevi. È diversa, e non ha talento.” Proruppe la professoressa, facendomi inconsapevolmente infuriare. “Ne ho abbastanza.” Pensai, volendo solo dare un netto taglio alle loro maldicenze. “Esatto! Lei non è come noi, non riesce a fare nulla! Perché viene a scuola con noi? Non è giusto!” si lamentò nuovamente Dawn, guardando l’insegnante con disappunto. “Non c’è nulla di giusto in questo mondo, sciocca viziata!” gridai al suo indirizzo, non riuscendo ad avere il controllo della mia reazione. “Come osi!” mi rispose lei, indignata. “Torna da quell’ubriacone di tuo padre, vuoi?” Continuò Darcy, volendo unicamente tentare di difendere l’amica. “È vero. Ho un padre ubriaco, una madre morta, una sorella che sta per raggiungerla e un fratellino che devo crescere perché quell’idiota di mio padre non può!” urlai, perdendo nuovamente il controllo. “Poi ci siete voi, pronti a denigrarmi in ogni singolo giorno della mia vita! Vedete la mia faccia? È diventata così a causa delle notti insonni e degli abusi che subisco!” aggiunsi, gridando con quanto fiato avessi in gola e stentando a trattenere le lacrime. “Ci dispiace, ma non è colpa nostra se hai una vita tanto orribile. Perché non vai in orfanotrofio?” Sentenziò Eloise, deridendomi e continuando ad avere, assieme alle perfide amiche, il coltello dalla parte del manico. “Non ho mai scelto di avere questa vita. Non ho mai deciso come sarebbe stata, non ho neanche chiesto di frequentare questa scuola! È successo, e non posso controllarlo! Ma voi! Voi potete decidere come comportarvi, quindi perché non mi lasciate da sola anziché continuare ad insultarmi?” sbottai, sapendo che il mio autocontrollo aveva ormai raggiunto il suo limite. “Non puoi dirmi cosa fare! Tu sei quella che urla e ci accusa! Non ti abbiamo fatto niente, e ricorda che tu mi hai attaccata!” urlò Bailey, volendo con quelle parole difendere sé stessa e il resto della classe. “Non capite.” Mi limitai a rispondere con voce flebile, per poi abbassare il capo e nascondere il volto e le lacrime con le mani. Subito dopo, scappai via dalla palestra, ignorando le urla dell’insegnante, che intanto cercava di riportare alla calma le ragazze. Correndo, raggiunsi l’atrio della scuola, non accorgendomi che Matthew mi aveva seguita. “Cosa vuoi? Dirmi di smetterla di accusare Bailey? Se è così sbrigati, non ho tutto il giorno.” Gli dissi, non curandomi del tono che utilizzai nel parlargli. “No! Non ti fare mai qualcosa del genere! Volevo solo…” Fare cosa? Picchiarmi? Darmi dell’inutile?” continuai, iniziando a piangere e sentendo le lacrime solcarmi il volto, non dandogli quindi modo di terminare quella frase. “Non piangere, mi fa male vederti così.” Mi pregò, arrossendo e posando il suo sguardo colmo di preoccupazione su di me. “Fai piangere le ragazze? Sei patetico.” Disse una voce alle mie spalle che inizialmente non riuscii a riconoscere. Voltandomi, scoprii in Calvin il mio nuovo interlocutore, e con gli occhi ancora velati dalle lacrime, lo guardai. “Avevo idee migliori su di te, Matthew.” Disse, guardando quel povero ragazzo negli occhi e volendolo quasi redarguire. “È un malinteso! Non le farei mai del male! Si difese lui, tremando come una foglia. “Ti aspetti che ti creda?” chiese Calvin, sarcastico. “Sto dicendo la verità! Non le mentirei mai perché…” la frase gli morì in gola, e non trovò mai una fine né un reale completamento. In quel preciso istante, Ben e Jacob fecero il loro ingresso nell’atrio scolastico. “Bravo Matt! Dille quanto vogliamo che se ne vada, che lasci questa scuola e quanto sia fastidiosa! Dille quello che ci hai detto stamattina! Disse Ben, incoraggiando l’amico. Non so di cosa parli.” Tentò di giustificarsi Matthew, mentre la sua voce era tradita da un tremore evidente. “Fa come dice!” lo incalzò Jacob, obbligandolo in tal modo a rivelare una verità forse inesistente. “Prenditela con qualcuno della tua taglia! Urlò Calvin, avvicinandosi a me al solo scopo di difendermi. “Andiamo Malika, ignora questi idioti e vieni con me.” Disse poi, invitandomi a seguirlo e cingendomi un braccio attorno alle spalle. Mantenendo il silenzio, accettai quell’invito con un cenno del capo, per poi iniziare a camminare al suo fianco. Camminando, raggiunsi assieme a lui il parco cittadino, ed entrambi ci sedemmo ad uno dei tavoli presenti vicino al chiosco dove Luke mi aveva accompagnato tempo prima. Sinceramente, ero davvero curiosa circa ciò che Matthew avesse voluto dirmi, ma in quel momento la questione non appariva importante. Probabilmente non voleva che denigrarmi come tutti gli altri. “Non voglio lamentarmi, ma non devi comportarti così con me. Posso farcela da sola.” Dissi a Calvin, mentre camminavamo. “Sei stata da sola per troppo tempo, Malika.” Mi rispose, guardandomi negli occhi con fare apprensivo. Anche i diffidenti hanno bisogno di compagnia.” Aggiunse, sorridendo debolmente. “Nessuno è mai gentile con me senza ragione. Subito dopo accade sempre qualcosa di brutto. Mia sorella è in coma, mia madre è morta, due dei miei fratellini se ne sono andati e il signor Norton mi ha abbandonato per la sua ragazza.” Dissi, abbassando lo sguardo e aggrottando la fronte. “Perché dovresti essere diverso? Finirai per lasciarmi come tutti gli altri.” Aggiunsi, dando inizio a quel discorso con una domanda. A quelle parole, Calvin non rispose, limitandosi ad avvicinarsi e scegliere di abbracciarmi. “Ne hai passate tante, e non riesco a credere di essere stato uno di loro. Istintivamente, mi lasciai avvolgere dal suo abbraccio ed iniziai a piangere. “Ti fa bene.” Mi disse, mostrandomi un sorriso e lasciando che mi sfogassi. Piansi fra le sue braccia, sentendolo poi pronunciare una frase che ricorderò finchè avrò vita. Quello fu possibilmente l’autunno più lungo della storia, ma finalmente arrivò la neve. Inoltre, il giorno passato con Calvin è ad oggi ancora prezioso, poiché mi sono sentita amata da qualcuno di diverso da mio fratello. A lui importava davvero di me, ed io lo sapevo. Per tale ragione, decisi di fidarmi. Mi rividi con lui in un giorno nevoso, divertendomi a giocare in sua compagnia nella neve, e tornando per una giornata ai miei cinque anni d’età. Dati i miei trascorsi, la mia infanzia non era certamente stata rose e fiori. Ad ogni modo, dopo aver passato parte del suo tempo con me, Calvin decise di riaccompagnarmi a casa. “Sto gelando.” Dissi una volta raggiunto la porta di casa mia. Tremavo come una foglia, ragion per cui Calvin si offrì di farmi indossare il suo giaccone. “Lo credo, non hai un cappotto. Tieni, puoi avere il mio.” Rispose, privandosene e aiutandomi ad infilarlo. “Non mi serve, non ho più freddo.” Mentii, mentre la mia voce tremava assieme al mio corpo. “Non mi inganni. Nessuno dovrebbe uscire di casa senza un giubbotto.” “Sembro un ragazzo.” Osservai, ora avvolta dal suo giubbotto. “Non è vero.” Mi rassicurò, mostrando un debole ma convincente sorriso. “Te ne serviranno degli altri ora che è inverno.” Mi avvertì, tornando improvvisamente serio. “Non ne ho nessuno.” confessai, continuando inconsciamente a tremare. “Cosa? E perché mai?” mi chiese, apparendo sorpreso e confuso dalle mie parole. “Mio padre dice che costano troppo, e che l’aria fredda mi fa bene.” Dissi, abbassando lo sguardo per la vergogna. Che razza di persona! Se la vedrà con me!” affermò, in tono deciso. “No! Ti prego, non avvicinarti a lui.” Lo avvertii, spaventandomi di colpo. “Perché? Che succede? Perché hai così paura?” chiese, apparendo ora stranito e preoccupato. “Fidati di me, e promettimi di stargli lontano.” Dissi, tornando a guardarlo negli occhi, sapendo che i miei erano pieni di terrore. “Non capisco.” Biascicò, preoccupandosi sempre più seriamente. “È la cosa migliore.” Chiarii, sperando che smettesse di pormi domande. “Grazie di tutto, ma ora devo andare.” Dissi poi, dandogli le spalle e allontanandomi da lui. Mentre ero nell’atto di farlo, sentii la sua voce in lontananza. “ Malika, aspetta! Perché scappi dai tuoi problemi?” mi chiedeva, attendendo invano una risposta che non ricevette mai. “Mi spiace Calvin, ma non puoi aiutarmi con questo problema.” Quella fu l’unica frase che riuscii a proferire prima di essere troppo lontana per sentirlo gridare il mio nome. In quel preciso istante, le mie emozioni turbinavano nel mio animo così come faceva il vento. la mia vita non sembrava essere cambiata neanche di una misera virgola, eppure qualcosa mi appariva diverso. Ero stata umiliata, ma al contempo salvata dall’affetto che un amico provava per me.
 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Capitolo XVI
 
 
Fobia
 
 
Un nuovo giorno stava lentamente avendo inizio. Un anno era passato, e in quella delicata giornata primaverile, compivo diciott’anni. Il vento soffiava gentilmente, ma per qualche strana ragione, delle scurissime nuvole sembrano deturpare il cielo. Sembra davvero che stia per piovere, ma con un pizzico di fortuna, avremo un tempo decente. “Sei pronto ad andare a scuola? Chiesi a Sarid, attendendo una sua risposta. Il mio fratellino aveva da poco compiuto tre anni, ragion per cui avrebbe dovuto iniziare a frequentare l’asilo, che per pura fortuna non distava molto dalla mia scuola. “Devo proprio? È noioso! I miei compagni mi odiano!” protestò, fissando lo sguardo sul pavimento. “Lo so Sarid. Non vorrei andare neanch’io, ma dobbiamo entrambi, specialmente tu.” Gli spiegai, mantenendo la calma e abbassandomi fino a toccargli una spalla. “Non ci vado! E non cercare di convincermi.” Continuò, non accennando a smettere di lamentarsi. “ Davvero? Credo che Cynthia sarebbe davvero felice di rivederti.” Dissi, tentando forse invano di convincerlo. “Cynthia?” ripetè, guardandomi negli occhi e arrossendo leggermente. A quella vista, alzai gli occhi al cielo, pensosa. Non lo trovavo credibile. Fra tutte le persone presenti a questo mondo, proprio il mio amato fratellino aveva finito per innamorarsi. Ad essere sincera, sapevo tutto sul conto di quella bambina, e dai giornalieri racconti di Sarid al ritorno da scuola, avevo avuto modo di capire che era figlia dei coniugi Roger e Felicia Norton, che mi avevano molto aiutata dopo l’incontro di mia madre con il suo ineluttabile e funesto destino. Sin dal primo giorno di asilo, Sarid e Cynthia erano diventati grandi amici, e sembrava che nulla potesse mai riuscire a separarli. Inoltre, stando a quanto ho potuto notare andando a riprenderlo in una giornata ventosa, la stessa Cynthia era forse l’unica bambina a non emarginarlo né ad aver paura di lui. Difatti, per qualche arcana ragione a me sconosciuta, i suoi accessi di rabbia non sembravano aver alcun effetto su di lei. Al contrario degli altri bambini, che fuggivano impauriti alla sua vista, o lo denigravano senza alcuna pietà come Bailey e il suo gruppo di amiche continuano a fare con me, lei rimane calma, gli si avvicina e tenta di aiutarlo, mettendo poi al corrente dell’accaduto l’insegnante più vicino. Ad ogni modo, dati i miei trascorsi, so bene che il sentimento che porta il nome di amore può a volte rivelarsi un’arma a doppio taglio, capace di colpire e ferire, emozionare e piangere. Come se ciò non fosse abbastanza, sono anche consapevole di non poter continuare a proteggere Sarid da qualsiasi cosa, vivendo la costante paura di perderlo, poiché anche se non è che un bambino, sta pur sempre crescendo, e presto dovrà imparare a dominare sé stesso e i propri impulsi in un mondo crudele, ove la diversità implica nella maggioranza dei casi il non essere accettato. Entrambi, viviamo e sperimentiamo le conseguenze di tale tipologia di bullismo sulla nostra pelle, e se a volte Sarid decide di non parlarmi quando torna da scuola, fingendo che nulla gli sia accaduto, e che tutto vada bene, so che non è vero. Può sembrare strano, ma Sarid non è altro che un bambino speciale, sensibile e curioso che non cerca nulla di dissimile da un compagno di giochi. Dentro di sé desidera correre, saltare, giocare e divertirsi, ma sa bene di non poterlo fare a causa del suo debole sistema immunitario. Ad ogni modo, Sarid conosce solo una faccia di questa medaglia. Conoscendosi, non vuole mai sforzarsi troppo, né apparire troppo stanco davanti ai miei occhi, ma non sa che a volte esagera, e facendolo, potrebbe morire. Le sue difese sono basse sin dal giorno della sua nascita, ma non poco tempo fa, nell’ultimo giorno dello scorso nevoso e freddo inverno, qualcosa è cambiato. Quello odierno, sembrava essere un giorno completamente ordinario, ed io stavo accompagnando Sarid a scuola. Lui mi seguiva senza parlare, e questo mi preoccupava. Poi, voltandomi, lo vidi fermarsi e alzare il capo verso il cielo. In quel preciso istante, la pioggia iniziò a cadere scrosciando, e lui fu come paralizzato. Allarmata da quella vista, chiamai più volte il suo nome, pur non ricevendo alcuna risposta. Ad ogni modo, sapevo bene il perché. Come avrei potuto dimenticare la paura di Sarid per la pioggia. Era tutto iniziato nel giorno in cui mio padre ha scelto lui come bersaglio delle sue cattiverie al mio posto. Era inverno, e il freddo pungeva come migliaia di spilli. Mio padre aveva deciso di accompagnare Sarid al lago, così che avesse modo di ammirare le bellezze del ghiaccio che lo ricopriva. Ingenuamente, Sarid accettò, non avendo modo di saper a cosa andava incontro. Quel giorno, stavo tornando a casa dal parco, e per puro caso mi ritrovai a passare da quelle parti. Fu allora che lo vidi. Mio padre fissava Sarid con sguardo malevolo, per poi prenderlo in braccio e lasciare che cadesse in acqua. Era ovvio che volesse ucciderlo, ma io non potevo permettere che accadesse. Così, corsi più veloce che potevo, raggiungendolo e tuffandomi in acqua al solo scopo di salvarlo. “Aiutami. Non voglio morire qui.” Diceva, guardandomi e tremando violentemente. Continuando a nuotare, avevo cura di tenere la sua testa fuori dall’acqua. Non appena fu in salvo, evitai che prendesse freddo aiutandolo ad infilare il mio giubbotto. Subito dopo, sentii mio padre imprecare al mio indirizzo. “Non avresti dovuto salvarlo! Non merita che di morire come te e tua madre!” gridò, dandomi poi le spalle e barcollando a causa della sua venefica dipendenza dall’alcol. Mio padre era una persona orribile, imputava la colpa della morte di sua moglie a me e Sarid. Per tale motivo, e secondo il suo pensiero, sia io che lui avremmo dovuto morire. Poco dopo, mi incamminai con lui verso casa, mettendolo poi a letto per tenerlo al caldo e scongiurare una malattia. Ringraziandomi, Sarid sorrise, per poi riuscire ad addormentarsi. Ora come ora, il nostro viaggio verso la scuola continua, e lui sembra essersi calmato. “Voglio venire con te.” Mi disse, continuando a camminare. “Non si può.” Risposi, evitando di fornire ulteriori spiegazioni.” Voglio venire con te.” Ripetè, sperando davvero che accettassi. Ad ogni modo, continuai a rifiutarmi di portarlo con me, salvo poi arrendermi e scegliere di realizzare il suo desiderio. Lo guardai per un attimo negli occhi, scoprendo che era troppo stanco per continuare a camminare. Decisi quindi di prenderlo in braccio, e mi diressi lentamente verso la mia scuola. Ci arrivai dopo poco tempo, anche se mi accorsi di essere in ritardo. Durante il tragitto, incontrai Calvin. “Malika! Sai che le lezioni sono iniziate da circa mezz’ora?” chiese, attendendo una mia risposta. “Che cosa ci fai qui?” chiesi, confusa. “Mi hanno cacciato da scuola dopo che ho cercato di difenderti da Bailey.” Disse, sorridendo debolmente. “Dobbiamo andare.” Dissi, ringraziandolo e incamminandomi verso la mia destinazione. Vedendomi allontanarmi, Calvin mi chiese di aspettarlo, per poi iniziare a camminare al mio fianco. Raggiungemmo la scuola dopo poco tempo, facendo il nostro ingresso nell’aula che ci apparteneva. Occupavo il mio posto, e Sarid sedeva accanto a me in assoluto silenzio. Le ore trascorsero veloci, e l’intervallo ebbe inizio. Uscendo dall’aula, mi recai subito nel cortile della scuola e Sarid mi seguì senza parlare. Rintanato in un angolo, trovai Calvin. Pur posando il mio sguardo su di lui, non mossi un muscolo, ma Sarid scelse di avvicinarsi. “Sembri simpatico.” Gli disse, guardandolo con quelle sue iridi bicolore. “Non sei da meno.” Rispose lui sorridendo. Poco dopo, vidi Calvin fare un cenno con la mano, invitandomi ad avvicinarmi. Annuendo, accettai quell’invito camminando verso di lui. “Devo dirti una cosa.” Mi disse, facendo sorgere in me mille dubbi differenti. “Di cosa?” chiesi, attendendo una risposta. “Si tratta di tua sorella.” Rispose, scivolando poi nel più completo silenzio. “Ho scoperto che se n’è andata.” Continuò, abbassando lo sguardo a causa della tristezza. A quelle parole, non risposi, limitandomi a dargli le spalle e scappare prendendo Sarid per mano. Lasciai quindi la scuola al suo fianco, per poi avviarmi verso l’ospedale. Non appena arrivai, provai a raggiungere la stanza occupata da mia sorella, entrandovi e posando il mio sguardo sul suo ora esanime corpo. Guardandola, ricominciai a piangere, e le parlai della nostra infanzia, sperando invano che riuscisse a sentirmi. Improvvisamente, sentii il cardiografo presente nella stanza emettere un suono preoccupante e prolungato. A quella vista, gridai con quanto fiato avessi in gola per chiedere aiuto, e vidi un’infermiera raggiungermi. La stessa, tentò subito di rianimarla, ma fallì miseramente nel suo intento. “Mi dispiace, ma non ce l’ha fatta.” Mi disse, in  tono mesto. A quelle parole, non risposi, limitandomi ad iniziare a piangere fuggendo via da quella stanza. Raggiunsi quindi la strada, e correndo, piansi ininterrottamente. Non volendo far preoccupare Sarid, nascosi il volto con le mani. Lo riaccompagnai quindi a casa, aprendogli la porta così che riuscisse ad entrare. La porta si richiuse appena un attimo dopo, ed io compresi di essere molto simile al mio fratellino. Difatti, Sarid aveva una vera e propria fobia per la pioggia, mentre la mia era quella di amare.  
 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Capitolo XVII
 
 
Sentimenti inaspettati
 
 
Era passato appena un giorno, ed io piangevo. Continuavo a piangere senza sosta, faticando poi a respirare. Sarid non faceva che chiedermene il motivo, ed io davo sempre la stessa risposta. “Questa era nostra sorella.” Dicevo, mostrandogli conseguentemente una foto dell’ormai defunta Brooke. Quasi incantato da quella stessa immagine, Sarid la prese fra le dita, e mugolò il nome della sorella. Subito dopo, mi fece una domanda che non dimenticherò mai. È con la mamma?” mi chiese, con assoluta innocenza. Mantenendo il silenzio, annuii lentamente, rivolgendogli poi un debole sorriso. “Sì, e nessuno ora potrà più farle del male.” Dissi, guardandolo negli occhi. lentamente, il mattinò sfumò in pomeriggio, e Sarid ebbe una sorta di desiderio da esprimere. Guardandomi, mi chiese di portarlo a casa della sua amica Cynthia. Secondo il suo pensiero, ero l’unica persona a poterlo fare. Nostro padre era preda di uno dei suoi soliti mal di testa, ragion per cui, si era limitato a cacciare Sarid dalla sua stanza in malo modo. Provando istintivamente pena per lui, mi alzai dal divano dove ero seduta, per poi scegliere di realizzare il suo desiderio. Aprendo la porta di casa, diedi inizio al nostro viaggio, raggiungendo la mia meta in pochissimo tempo, venendo accolta con calore dai coniugi Norton. Guardandoli, chiesi educatamente loro di prendersi cura di lui in mia assenza, lasciando quindi che giocasse con la loro figlia. Accettando, entrambi annuirono spingendomi amorevolmente fuori dalla porta. Ad ogni modo, affidai Sarid alle cure dei Norton, per poi tornare a casa per qualche ora. Rientrando, ritrovai mio padre nella posizione in cui lo avevo lasciato, ovvero in stato di semi coscienza sul letto della sua stanza. Ignorando quella vista con un’espressione di disgusto dipinta in volto, raggiunsi la mia camera, iniziando ad ascoltare della musica nel tentativo di coprire i brutti pensieri. Ad ogni modo, per qualche strana ragione, nessuno dei brani e delle melodie che ascoltavo sembrarono rincuorarmi, motivo per cui, accorgendomi del passare del tempo, decisi di sciacquarmi le mani e il viso nel tentativo di lavare via i miei sentimenti negativi. La porta del bagno era chiusa, ma nonostante questo sentii quella di casa aprirsi con un cigolio, per poi richiudersi sonoramente. A quel rumore, sussultai letteralmente, precipitandomi quindi fuori dal bagno e uscendo subito di casa. Come c’era da aspettarsi, il mio primo pensiero andò a Sarid. Lo avevo lasciato alle cure dei Norton qualche ora prima, e avevo intenzione di andare a riprenderlo. Una volta arrivata in strada, corsi verso la mia meta più veloce che potevo, e non appena arrivai, bussai educatamente alla porta, attendendo quindi che venisse aperta. Entrambi i coniugi Norton mi accolsero salutandomi, ma stavolta non battei ciglio. “Dov’è Sarid?” mi limitai a chiedere, troppo preoccupata per dire altro. “Tuo padre è passato a prenderlo poco fa.” Rispose il signor Norton in tono calmo e pacato. A quelle parole, non risposi, ma in compenso, mi sentii mancare. Ero arrivata tardi. “Cosa c’è? Stai poco bene?” chiese la signora Norton, allarmata dal mio improvviso pallore. Mostrando il mio dissenso con un cenno del capo, mi scusai per il disturbo, andando quindi alla ricerca del mio fratellino e di mio padre. Per qualche strana ragione, non tornai a casa, dirigendomi invece verso il parco cittadino, che trovai deserto. Poi vista la bella giornata piena di sole, scelsi di raggiungere il lago vicino casa, e fu allora che li vidi. Ripetendo le azioni compiute tempo prima, mio padre stava di nuovo tentando di uccidere Sarid. Sin da quando era venuto al mondo, mio padre lo aveva sempre e pesantemente ignorato, arrivando perfino a desiderarne la morte. Ad ogni modo, comportandomi esattamente come la prima volta, mi avvicinai subito a Sarid, riuscendo stavolta ad impedire che gli facesse del male. Poi sentendomi come investita da una forza che non potrei che definire mistica, decisi di fare ciò che andava fatto, e che in diciott’anni di vita non avevo mai avuto il coraggio di fare. Muovendo qualche deciso passo in avanti, assestai un pugno a mio padre, colpendolo in pieno volto. Lui stesso, indebolito dall’alcol, finì per barcollare e cadere in terra, e inutile è dire che non lo aiutai a rimettersi in piedi. “Tu non dovrai più toccarlo. Ce ne andiamo!” gridai, prendendo Sarid in braccio e scappando via da lui. Mi allontanai con velocità inaudita, e malgrado la distanza che mi separava da mio padre, potei perfino giurare di averlo sentito imprecare al mio indirizzo. Ad ogni modo, mi sembrava di aver in qualche modo già vissuto quella stessa e identica situazione anche se stavolta qualcosa mi portava a credere in un repentino cambiamento. Correvo senza sosta, e le lacrime mi offuscavano la vista. Mi costava ammetterlo, ma stavo di nuovo piangendo. Mia madre se n’era andata, mio padre non era che un mostro, e perfino mia sorella aveva smesso di lottare per vivere, perdendo la battaglia che aveva intrapreso contro il suo coma e morendo in un arido e clinico letto d’ospedale. Ancora una volta piangevo, e per tale motivo, una volta arrivata davanti a casa, non mi accorsi che qualcuno mi aveva seguita. Voltandomi di scatto, riconobbi il viso di Matthew “Che cosa ci fai qui?” gli chiesi, confusa e stranita dalla sua presenza. “Bailey, Ben e Darcy. Ho chiesto loro dove abitassi, ma non hanno voluto dirmelo, così ti ho seguita.” Mantenendo il silenzio, lo guardo con aria confusa. Non so davvero cosa dire, e attendo che riprenda a parlare. Lentamente, mi si avvicina, fino a toccarmi e prendermi per mano. “Non volevo che lo scoprissi così, ma io ti amo, e voglio che tu faccia parte della mia vita.” Disse, baciandomi e togliendomi la capacità di respirare. Istintivamente, chiusi gli occhi, quasi volendomi proteggere dalla valanga di sensazioni che invadevano il mio corpo. La rabbia verso mio padre, il dolore accumulato negli anni, e l’astio e la collera trattenuti fino a quel fatidico giorno di fronte a Bailey. Poi la felicità provata con Calvin, e infine, quel preciso istante, in cui riuscii finalmente a capire che i miei amici avevano avuto ragione sin dall’inizio, e che i sentimenti provati da Matthew, per quanto inaspettati, mi avevano appena aiutato a spezzare le metaforiche catene che mi legavano alla vita con mio padre. Ora ero libera di vivere, e decisamente troppo stanca di subire.
 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Capitolo XVIII
 
 
Memorie del passato
 
 
Tutto sembrava statico. Il tempo pareva aver smesso di scorrere, ed io ero assieme a Matthew. C’eravamo solo noi due, l’uno fra le braccia dell’altra, impegnati in un bacio pieno di passione e significato, che racchiudeva i forti sentimenti di entrambi. Alcuni secondi svanirono dalle nostre vite, e noi sciogliemmo il nostro abbraccio. Istintivamente, ci guardammo negli occhi, e deglutendo, decisi di parlargli. “Mi dispiace davvero, ma io non credo nell’amore.” Dissi a Matthew, quasi ignorando quella sorta di confessione che sapevo nascesse direttamente dal suo cuore. Subito dopo, mi avvicinai alla porta di casa mia, richiudendomela lentamente alle spalle. Nel farlo, guardai nuovamente Matthew negli occhi, scusandomi per la seconda volta. Non sapevo davvero cosa dire, ragion per cui, sparii dalla sua vista rinchiudendomi nella mia stanza. Una volta entrata, mi sedetti in terra, iniziando conseguentemente a piangere. Non riuscivo a credere a me stessa. Avevo spesso tutta la mia vita andando alla ricerca di un sentimento come l’amore, e ora che ero finalmente riuscita a trovarlo, lo avevo respinto, annullandolo così come avevo fatto con il resto delle mie emozioni. Ora come ora, vorrei davvero che i miei amici fossero qui per consigliarmi, ma vista la mia età, e il modo in cui si sono congedati da me appena un anno fa, sono sicura che non torneranno. Ad ogni modo, piansi per ore, desiderando di poter tornare indietro ed annullare anche le mie azioni. In breve, la pioggia iniziò a scrosciare, ed io mi ritrovai a correre per la strada, urlando a squarciagola il nome di Matthew. Nonostante i miei sforzi, non lo trovai, scoprendomi costretta a tornare a casa e concentrare su di lui il mio pensiero. La sera calò prima che me ne accorgessi, ed ero talmente triste da non riuscire a reagire in alcun modo. La mia unica  speranza risiedeva ora nell’attesa di un cambiamento. Singhiozzando sonoramente, ero impegnata a crogiolarmi nel mio stesso ed infinito dolore, quando improvvisamente, sentii qualcuno bussare alla mia porta. Istintivamente, pensai che fosse mio padre, ma mi calmai vedendo l’esile figura di Sarid sgusciare da dietro la porta. “Stai bene?” mi chiese, facendo uso della sua innocenza. “Sì.” Risposi, mentendo e sorridendo debolmente fra le lacrime. “Le persone felici non piangono.” Disse poi, facendosi serio.  “Sto bene.” Continuai, sperando che lasciasse cadere l’argomento. “È Matthew, vero?” chiese, attendendo una mia risposta. “Come lo sai?” chiesi a mia volta, stranita da quelle parole. “L’ho visto seguirti fino a casa, e ho capito subito.” Confessò, concedendosi poi del tempo per guardarmi negli occhi. “Lui ti vuole bene, e tu lo hai ferito.” Continuò, portandomi a provare per la prima volta una sensazione mai sperimentata prima, ovvero il rimorso. Sarid aveva ragione, ma io non sapevo cosa fare. Continuavo a pensare a Matthew, e non potevo negarlo, ma ricordando il suo viso corrotto da un’espressione di dolore e confusione, non credo che ora accetterebbe i miei sentimenti. Ad ogni modo, e con questo pensiero annidato nella mia mente, andai a letto, pur non riuscendo a dormire e passando una notte insonne. Al risveglio, decisi di non andare a scuola. Il dolore che provo è stavolta troppo forte per essere nascosto e celato da una finta indifferenza realmente non provata. Così, trovando nuovamente compagnia nel silenzio e nella solitudine, rimasi in attesa di una sorta di segno, che per mia fortuna, o forse per una sorta di miracolo, non si fece. Il tempo scorreva, e l’imbrunire si avvicinava, e mentre me ne stavo seduta nella mia stanza, sentii bussare alla porta di casa. Senza perdere un’istante, corsi subito ad aprirla. Non ebbi neanche il tempo di respirare, che il mio cuore sembrò letteralmente fermarsi. Davanti a me c’era Matthew, che sembrava avermi fatto visita per un motivo ben preciso. “Possiamo parlare?” mi chiese, rimanendo fermo sull’uscio di casa. “Certo.” Gli dissi, invitandolo ad entrare. Dopo averlo fatto, Matthew tentò di sedersi sul divano di casa, ma istintivamente lo fermai. “Mio padre tornerà a momenti.” Lo avvertii, procedendo a guidarlo verso la mia stanza. Entrandovi quasi contemporaneamente, ci sedemmo entrambi sul letto, guardandoci negli occhi. “Cosa dovevi dirmi?” azzardai, sperando in una sua esauriente risposta. “Malika, io ti amo davvero, ma c’è qualcosa che non sai su di me.” Disse, per poi sollevare la manica della maglietta e mostrarmi la presenza di alcuni tagli su uno dei suoi polsi. “Queste sono memorie del mio passato.” Dichiarò, in tono serio. “Che vuoi dire?” ebbi la sola forza di chiedere, poiché ancora attonita da quella visione. “Io e te siamo incredibilmente simili. Veniamo da mondi uguali.” Chiarì, cancellando quindi ogni mio dubbio. “Anche mia madre mi ha lasciato, ma allora ero solo un bambino, e i miei fratelli mi odiano a morte.” Dissi, soffocando il nodo formatosi nella sua gola, e che gli impediva di parlare. “Poi, ti ho incontrata, e vederti soffrire per colpa di persone come Bailey e il suo gruppo mi faceva davvero star male. È stato allora che ho capito di amarti.” Continuò, togliendomi il respiro e facendomi provare una delle migliori sensazioni esistenti a questo mondo. Da quel momento in poi, tutto tacque, e le nostre labbra si unirono. Quando quel bacio ebbe fine, nessuno di noi due disse una parola, anche se non dimenticammo di sussurrare l’uno all’altra quanto ci amassimo. Poco dopo, Matthew fu costretto ad andarsene, e una volta rimasta da sola, capii qualcosa di davvero importante. Finalmente, sapevo di non essere sola, e ciò mi era servito a capirlo non era che l’ascolto di un cuore ferito e contuso come quello di Matthew. Proprio come me, anche lui aveva sofferto, ma incontrandomi, aveva trovato il coraggio di rivelare le memorie del suo triste passato.
 

Capitolo XIX
 
 
Decidere
 
 
Come ogni giorno, la buia  notte lasciava il posto ad un dorato mattino, e quello odierno era un giorno davvero speciale. Difatti, oggi il mio amato fratellino Sarid compie quattro anni. Sin da quando è nato, io mi sempre e assiduamente occupata di lui, prendendo regolari appuntamenti con il suo medico a causa della sua condizione, ovvero l’autismo. La prima volta che lo vide, il medico stesso mi disse che Sarid avrebbe certamente avuto problemi durante la crescita e la vita, poiché ogni caso di autismo è letteralmente singolare. Per quanto riguarda lui, non fa altro che soffrire di crisi di panico, ansia e accessi di collera, che lo portano talvolta a ferire sé stesso o gli altri bambini. Parlando con il dottore, ho avuto cura di illustrargli la mia situazione familiare, non omettendo la reazione e i comportamenti di Sarid a riguardo. Aprendomi completamente, dissi che fra noi due, Sarid sembrava essere la persona maggiormente provata dall’intera faccenda. Sono ormai passati anni, eppure ricordo ancora quanto abbia sofferto dopo la scomparsa di nostra madre, e non posso dimenticare quanto soffra ancora oggi nel vedermi rannicchiata nella mia camera a piangere dopo gli abusi e le violenze di nostro padre. Continua a dire di essere costantemente arrabbiato con sé stesso, poiché non riesce a difendermi quando lo stesso infierisce su di me. Volendomi bene, e considerandomi la sua unica amica oltre alla giovane Cynthia, vorrebbe  davvero riuscire ad evitare che nostro padre mi faccia del male, e continua a rimproverarsi per i suoi insuccessi. “Devi odiarmi. Non sono che una seccatura.” Dice, portandomi istintivamente a provare pena per lui. “Non è vero.” Rispondo ogni volta, posandogli una mano sulla spalla e abbracciandolo. “Potresti benissimo vivere senza di me.” Aggiunge, scivolando sempre più in basso, in un baratro di dolore e malessere che io cerco disperatamente di evitargli. Ad ogni modo, come gli avrò ripetuto un numero incalcolabile di volte, mentre lui stesso si ostina a non volermi credere, Sarid è un bambino speciale, con delle semplici limitazioni fisiche che non devono impedirgli di usare la sua grande intelligenza. Il suo corpo, come quello di qualunque altra persona, non è che un mero strumento contenente ogni nostra emozione, e che può essere utilizzato secondo la nostra semplice e ferrea volontà. Inoltre, ho oggi preso una nuova ed importante decisione, ovvero fare ricorso alle vie legali perché quel mostro di nostro padre non abbia più modo di arrivare a Sarid. Fra qualche giorno mi aspetta un’udienza in tribunale volta a dar prova delle mie capacità di prendermi cura di un bimbo come Sarid. Una prova ardua, ed un rischio che sono disposta a correre per salvarlo dalle continue angherie di un uomo di quel calibro.  Ora come ora, sono davvero nervosa, e ho bisogno di calmarmi, ragion per cui, ho deciso di provare a chiamare Matthew e spiegargli l’intera situazione. Qualche tempo fa, per la precisione due mesi or sono, io e lui ci siamo fidanzati, perciò so di potermi fidare di lui. Per mia sfortuna, non ha risposto, ed io non ho avuto scelta dissimile dall’andare a stare dai Norton. Ovviamente, non ho esitato a portare Sarid con me, in parte per la rimembranza legata all’ultima volta in cui l’ho lasciato a casa da solo con nostro padre, e in parte perché sapevo quanto desiderasse trascorrere il suo tempo con Cynthia, sua compagna d’asilo. Bussando educatamente alla porta di casa, venni accolta da entrambi i coniugi, scegliendo poi di andare a sedermi con loro nell’ampio salotto. In breve, una discussione ebbe inizio, ed io mi limitai a parlare rispondendo alle loro domande e mantenendo la calma. Mi chiesero di Sarid, di me stessa, e anche di mio padre. Su quest’ultimo, non dissi una parola. Il signore e la signora Norton, dal canto loro, sapevano bene quanto io fossi arrivata ad odiare quell’uomo dopo l’indicibile calvario che mi aveva portata a subire, e notando la mesta espressione dipinta sul mio volto, la signora Norton non tardò a porgermi le sue scuse, provvedendo poi a lasciar cadere la questione. Sorridendo, annuii lentamente, lasciando conseguentemente che il mio sguardo si posasse su Sarid e Cynthia, legati fin dal primo giorno in cui si erano conosciuti. Entrambi, giocavano insieme rincorrendosi per la casa, e quella scena non potè che strapparmi un sorriso, facendomi al contempo versare una lacrima. Difatti, ricordai la mia infanzia unita a quella di mia sorella, un tempo della nostra vita che per diverse ragioni non riavremo mai più indietro. Brooklyn. Una giovane ragazza, un delicato fiore che è stato reciso prima di aver modo di sbocciare. Questo il modo in cui mi piace ricordare mia sorella, e sempre quello il motivo per cui tengo un fiore accanto ad una sua vecchia foto. A causa dei nostri trascorsi, non abbiamo mai passato molto tempo insieme, ragion per cui, mi sono concessa del tempo per pensare, arrivando quindi ad una semplice ma profondamente ragionata conclusione. Ricordo ancora il giorno in cui ha cercato di proteggermi dalla cieca ira di nostro padre, arrivando a pagare con la vita tale prezzo, semplicemente perché mi voleva bene, e perché io non ho reagito. Ho fatto ciò che voleva, e sono scappata, ma non l’ho protetta a mia volta. L’ho lasciata da sola, e davanti ai miei stessi occhi, lei è morta. Questo stesso ricordo, mi ha fatto riflettere, ed io ho deciso. Proteggerò Sarid dai miei demoni, evitando con tutte le mie forze che viva ciò che io ho avuto la sfortuna di vivere. Ho fiducia in me stessa, e so che per me è arrivato il momento di decidere.
 

 

 

 

Capitolo XX
 
 
Al riparo dal dolore
 
 
Due settimane. Questo il lasso di tempo che è trascorso dal giorno in cui ho scelto di fare ricorso alle vie legali per proteggere il mio fratellino e la sua incolumità. Buone notizie hanno raggiunto il mio orecchio, e secondo le stesse, ora sono l’unica tutrice legale di Sarid. Grazie alla sua innocenza, lui stesso riesce a mantenere la sua innata positività, vedendo quindi tale situazione come perfetta. Stando a quanto gli ho spiegato, è davvero felice dei risultati che ho ottenuto, poiché ora sa di essere al sicuro da una persona violenta e collerica come nostro padre. Ad essere sincera, lo conosco sin dal giorno della mia nascita, eppure non ho mai capito chi o cosa lo abbia spinto a divenire la persona che è oggi. Inoltre, secondo i racconti della mia ormai defunta madre, inizialmente mio padre era una persona completamente diversa. Un uomo dolce e gentile, la cui gentilezza è andata persa con il passare degli anni. Ora come ora, non sa nulla riguardo all’udienza in tribunale o alla perdita della patria potestà, e non c’è giorno che passi senza che io pensi a cosa possa succedere nel caso in cui lo scoprisse. Conservando la codardia maturata negli anni della mia infanzia, temo la sua reazione, ma sono al contempo pronta a reagire. Subisco le sue angherie sin dal giorno in cui ho conosciuto la luce del sole, e sono convinta di aver sofferto abbastanza perfino per Sarid. Lui stesso, è un bambino intelligente e speciale, che con la sua nascita ha provato che un pericolo pari alla morte può essere sconfitto. Come pochi altri nella mia vita, quel giorno ha un significato profondo e speciale per me. Ero lì con lui, e non sentivo che il suo pianto unito a quello degli altri due sfortunati fratellini, che arrendendosi all’evidenza, avevano deciso di andarsene, raggiungendo la loro mamma. Sarid non è che un bambino, eppure sa bene cosa sta succedendo. Il tempo scorre, e lui vive la sua vita come può, aggrappandosi ad ogni minimo barlume di speranza che la stessa gli offre. Per lui Cynthia è molto più che un’amica, ed io ho avuto modo di capirlo. “Voglio stare con lei. Le voglio bene.” Ripete, sorridendo debolmente ogni volta. Mantengo il silenzio, e sorrido a mia volta, sapendo che forse, un giorno, lui se ne andrà lasciandomi da sola, e con una singola convinzione, ovvero il non aver fallito. Conosco bene il mio fratellino, così come il suo quadro clinico e le sue condizioni fisiche, essendo anche perfettamente consapevole di poter sopravvivere a lui, continuando a vivere dopo la sua morte. Vederlo morire. Un pensiero che mi tiene sveglia nelle notti buie e piovose. Tento strenuamente di non pensarci, eppure so che accadrà. Facendo i dovuti scongiuri, mi prendo cura di lui come faccio da anni, ma tale pensiero non svanisce. Un giorno, in un futuro che spero di riuscire ad allontanare, mi sveglierò con lo spuntare del sole mattutino, scoprendo che lui non c’è più, e che ha smesso di lottare per vivere. In breve, so bene che la sua vita potrebbe finire prima della mia, e improvvisamente. Tengo lontano questo pensiero traendo conforto dalle parole dei Norton, ovvero le uniche persone che conoscono l’intera storia della mia vita. Ora come ora, sono a casa, e rimango seduta nella mia stanza, riflettendo. Mi chiedo davvero che giorno sarà domani, sperando di riuscire a tenere Sarid al riparo dal dolore.
 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Capitolo XXI
 
 
Reazioni insperate
 
 
Un giorno passava, ed io tornavo come di consueto a scuola. Quella odierna, appariva come una giornata normale, eppure qualcosa mi portava a credere in un cambiamento. Tre ore scorsero veloci, e presto arrivò l’intervallo. Ero rintanata in un angolo del cortile, intenta a leggere come ero solita fare, quando improvvisamente vidi la figura di Bailey stagliarsi su di me. “Che cosa vuoi?” le chiesi, alterandomi di colpo e faticando a leggere. “Tu sei diversa, ed io non ti sopporto.” Disse, guardandomi fissamente. “Ricorda che non ti ho mai fatto nulla.” Risposi, alzandomi in piedi e affrontandola a muso duro. “Nulla? Non ricordi l’avermi attaccata?” chiese, facendo uso di un sarcasmo che non colsi e ignorai. “Te lo meritavi, e te la sei cercata.” Dissi, stavolta guidata da una giusta rabbia nei suoi confronti. “Tu non vuoi capirlo, ma nessuno di noi ti sopporta. Tutti noi ti odiamo, e devi sparire.” Continuò, piombando poi in un silenzio dato dalla sua stessa collera. “Questo non è vero!” gridai, avventandomi su di lei e spingendola fino a farla cadere a terra. A quella vista, iniziai a respirare irregolarmente, ma tentai in ogni modo di respirare al solo scopo di ritrovare la calma. Poco dopo, quasi come se rispondessero ad una sorta di muta richiesta d’aiuto, le tre amiche di Bailey mi raggiunsero, iniziando ad insultarmi e denigrarmi come erano solite fare sin dall’infanzia. Rimanendo ferma ed immobile, subivo, non muovendo un muscolo né tentando di difendermi. Lasciavo che infierissero, arrivando perfino a picchiarmi. Colpi su colpi mi ferivano il viso e le braccia, ma nonostante questo, non mi muovevo. Le lasciavo agire, in attesa del placarsi della loro ira. Tutte loro avevano chiari motivi per odiarmi, e quasi volendo accettare quella che identificai come punizione, assistevo inerme allo scorrere degli eventi. Successivamente, e forse solo per mia grande fortuna, un solo individuo provò pena e compassione per me, decidendo di aiutarmi. Sopportando i violenti colpi che mi venivano inferti, tenevo gli occhi chiusi, notando che con il passare del tempo, la violenza non faceva che intensificarsi. Ad un tratto, sentii una voce, poi aprii gli occhi. In quel momento, ero rannicchiata in terra come un povero animale spaventato, dolorante e incapace di muovermi. Alzai lo sguardo, e vidi Matthew. Il mio fidanzato, il ragazzo che amavo, e per la seconda volta, la persona a cui dovevo la vita. “Allontanatevi subito da lei.” disse, riferendosi a quelle tre orribili ragazze. “Altrimenti? Cosa vuoi farci?” chiese Bailey, in tono acidamente sarcastico. “Voi non capite, ma Malika è diversa. Non riuscite a vederlo, eppure è  bellissima. Guardatela.” Disse, avvicinandosi ed aiutandomi a rialzarmi. “Guardate come l’avete ridotta.” Aggiunse, facendo in modo che le mie aguzzine posassero lo sguardo sui tagli e le ecchimosi che loro stesse avevano finito per provocarmi. “E allora? Se le è meritate.” Disse Dawn, dando quindi manforte alle amiche, che in risposta, sorrisero maliziosamente. “Vi sbagliate, e non siete che gelose. Malika è migliore di voi. È umile, gentile e premurosa. E voi? Voi non siete che sciocche e viziate. Non è uguale a voi, ma non può farci nulla. Io la amo, ed è per questo che l’ho scelta.” Rispose Matthew, ponendo fine a quel monologo solo tacendo e stringendomi in un abbraccio. “Grazie.” Sussurrai, non volendo che le altre mi sentissero. Mantenendo il silenzio, Matthew sorrise, per poi prendermi la mano e scegliere di accompagnarmi in classe. Una volta entrata, occupai il mio posto come ogni mattina, e istintivamente, sorrisi al suo indirizzo. Non era passato molto, e le mie ferite dolevano ancora, ma la cosa non mi toccava. Matthew mi aveva letteralmente salvata, e silenziosamente, ammisi di non avere scelta dissimile dal ringraziare il cielo per tale incredibile e insperata reazione.
 

 

 

 

 

 

 

Capitolo XXII
 
 
Quieto vivere
 
 
Lentamente, due anni sono passati, venendo sospinti dal dolce vento verso mete sconosciute. Sono poco più che una ventenne, e da qualche settimana, Matthew ed io abbiamo deciso di provare a fuggire dal dolore e dai problemi, dando quindi inizio ad una vita nuova e migliore. Ora come ora, sono a casa con lui, e ho avuto la fortuna e il piacere di conoscere suo padre, uomo gentile e di buon cuore, ovvero l’esatto contrario del mio, ancora oggi cinico, violento e collerico. Matthew mi guarda, ed io sono seduta accanto a lui. Non proferiamo parola, ma i nostri sguardi hanno l’eloquenza di mille parole. Il tempo scorre, e il battito dei nostri cuori accelera. Di punto in bianco, l’atmosfera nel salotto di casa cambia radicalmente. Sono ferma, immobile, e persa nei suoi occhi. Mi impongo di non muovermi, ma il mio cuore decide di rompere tale promessa. Difatti, seppur lentamente, mi avvicino a Matthew, lasciando quindi che i miei sentimenti parlino per me. Poso quindi le mie labbra sulle sue, e intuendo le mie intenzioni, lui ricambia quel bacio, per poi stringermi a sé e provocarmi una serie di brividi lungo tutta la schiena. Ad ogni modo, qualcosa mi spinge poi a fermarmi. Visti i miei trascorsi, so di non riuscire più a fidarmi di me stessa o delle mie emozioni, ragion per cui, tento sempre di pormi un freno prima di perdere il controllo. In fin dei conti, è già successo, e anche se per vie talvolta traverse, ho avuto modo di osservarne le conseguenze. Io amo davvero Matthew, e sono certa di non voler rovinare la nostra relazione con la mia impulsività. Conoscendomi a fondo, e quasi come il palmo della sua stessa mano, lui non batte ciglio, continuando ad amarmi per la splendida ragazza che sono ai suoi occhi. Nella maggioranza dei casi, non mi parla, lasciando che un infinito gioco di sguardi gli dia modo di esprimersi. Inoltre, perfino Sarid sembra apprezzare la sua compagnia. Parlandomi, mi ha perfino confidato di volergli davvero bene. “Posso chiamarlo papà?” mi ha chiesto, ricordando il giorno in cui gli avevo spiegato la faccenda dell’adozione. Non sapendo cosa rispondere, ho guardato Matthew negli occhi, quasi a volermi sincerare della sua opinione. Subito dopo, ho annuito lentamente, avendo il piacere di vedere un sorriso spuntare sul suo volto. Intanto, il tempo continua a scorrere, e due mesi sono lentamente trascorsi. La mia convivenza con Matthew ha progredito, e finalmente, è successo qualcosa di letteralmente incredibile. Quella odierna, sembrava essere una giornata calma, caratterizzata unicamente dalla tranquillità, ma presto, mi sono accorta di sbagliarmi. Matthew ed io eravamo seduti l’uno di fronte all’altra in uno dei ristoranti più rinomati della città. Stavo consumando la mia cena senza proferire parola, e alzando lo sguardo, ho iniziato a notare dei cambiamenti alquanto sospetti. Matthew non faceva che guardarmi negli occhi, e all’improvviso, lo vidi posare sul tavolo una piccola scatola, che mi porse con incredibile gentilezza. Poco dopo, Matthew mi chiese di aprirla, ed io obbedii senza battere ciglio. Fu quindi questione di un attimo, e mi ritrovai a piangere per la gioia. Proprio davanti ai miei occhi, giaceva un piccolo e scintillante anello, che infilai senza protestare. Poi, quasi a voler essere  sicuro riguardo al mio volere, Matthew mi pose una domanda alla quale non potei evitare di rispondere. “Io ti amo con tutto me stesso, Malika. Vuoi sposarmi?” disse, completando quella frase con un interrogativo che considerai retorico. Mantenendo il silenzio, venni colta da un’inspiegabile sensazione di felicità che mi portò a piangere ed annuire. “Lo voglio.” Risposi, alzandomi in piedi e avvicinandomi unicamente per baciarlo. “Ti amo.” Gli dissi, sorridendo e lasciando che posasse le sue labbra sulle mie. Poco tempo dopo, tornammo a casa, ed io potei finalmente dirmi felice e pronta a vivere una vita completamente nuova. Non ero più sola, poiché ora esistevamo solo io, Matthew e Sarid, tutti animati dalla gioia e dall’amore che ci univa. Solo qualche mese più tardi, Matt ed io convolammo a giuste nozze, coronando il sogno d’amore che conservavamo sin dall’adolescenza. La mia felicità aveva raggiunto il suo culmine, e rifugiandomi nel silenzio dei miei pensieri, dovetti essere sincera con me stessa, ammettendo di aver chiuso tutti gli oscuri capitoli della vita che mi scorreva davanti.
 

Capitolo XXIII
 
 
Sogni di vetro
 
 
È ormai pomeriggio inoltrato, e la notte sta per farci visita. Sono tranquillamente intenta ad ammirare il cielo stellato, mentre la leggera brezza serale mi solletica il viso scostandomi i capelli. In breve, Matthew mi raggiunge, lasciando che le nostre mani si intreccino. Mi ama davvero, e sono convinta che le parole non servano, risultando quindi superflue. Il tempo scorre, e l’aria si raffredda, divenendo troppo ostile per essere sopportata. Tremo come una foglia, e Matthew mi abbraccia per poi riportarmi in casa. Lentamente, e animata dai forti sentimenti che provo per lui, lo seguo fino in camera da letto, con movenze simili a quelle di un automa. Una volta entrata, mi siedo sul letto, limitandomi a fissarlo. “Chiudi gli occhi.” mi chiede, attendendo che ubbidisca a quella sorta di ordine. Senza proferire parola, feci ciò che mi era stato chiesto, attendendo una sua qualunque reazione. I miei occhi sono chiusi, e non riesco ancora a vedere nulla, ed è in questo preciso istante che i miei altri sensi si fanno subito vivi. In quei momenti, era come se avessi perso la capacità di vedere, ma nonostante questo, il mio cuore mi suggeriva quello che mi accadeva intorno. Respirando a fondo, non sentii altro che il profumo di Matthew inondarmi le narici. Poco dopo, venni sospinta lievemente sul letto, e mi adagiai sulla coperta come un neonato nella culla. Avevo riaperto gli occhi, ma mi ritrovai a chiuderli nuovamente accettando un bacio che non disdegnai e ricambiai con passione e sentimento. Le sue dita accarezzavano i miei capelli, per poi spostarsi lentamente sul mio viso e sul resto del mio corpo. Il tempo scorreva, ma ad entrambi non importava. Ci stavamo amando l’un l’altra, e quella era l’unica cosa a contare davvero. Non proferivo parola, ed ero silenziosa, ma i miei stessi sentimenti mi tradirono. Il delicato tocco di Matthew mi faceva sussultare, ed io sorridevo al suo tocco. Ben presto, decisi di baciarlo, per poi decidere di non poter continuare a negarmi a lui. Intuendo il mio volere e le mie chiare intenzioni, Matthew continuava a baciarmi e stringermi a sé, mentre io, completamente assorta e rapita dal suo sguardo, lasciavo che agisse. Successivamente, e senza che io avessi modo di rendermene conto, accadde quello che temevo. Persi letteralmente il controllo, e fermandomi di colpo, iniziai a tremare. Notando la mia reazione, Matthew mi guardò con aria preoccupata. “Stai bene?” chiese, attendendo una mia risposta. “Sì.” Mi limitai a rispondere, annuendo e facendo fatica a respirare. Non volendo deluderlo, tentavo in ogni modo di mascherare il mio malessere, scegliere di lasciare che la situazione continuasse ad evolvere, ed imponendomi di evitare di ribellarmi. Alcuni istanti dopo, raggiunsi il mio limite, e tutto tacque. Mi ritrovai quindi avvolta nelle candide coperte del letto, che ora fungevano da scudo contro il freddo notturno. Matthew, sdraiato al mio fianco, appariva stremato, ma nonostante questo sorrideva. Avvicinandosi, mi sussurrò una frase nell’orecchio, ed io lo baciai, sciogliendomi come neve al sole. Un attimo dopo, chiusi gli occhi, e scivolando nel sonno, vidi la mia intera vita scorrermi davanti, con la lentezza riservata esclusivamente ai fotogrammi di un vecchio film. Mugolando frasi prive di un apparente senso, mi resi conto di stare avendo un incubo, ragion per cui mi svegliai, e un mio urlo squarciò la notte. Sentendomi, Matthew si svegliò di soprassalto, e notando la mia agitazione, tentò subito di calmarmi. “Cos’è successo?” mi chiese, mentre tremavo come una bestiola impaurita. “Era solo un incubo.” Risposi, sentendo la mia voce spezzarsi come l’ala di un uccellino ferito. “Va tutto bene, ora è finita.” Mi rincuorò, agendo con il fare premuroso che lo caratterizzava, e che mi aveva portato ad innamorarmi di lui. Quella sera, qualcosa in me non andava, ma la sua presenza, unita all’amore che sapevo di provare per lui, mi avevano calmata da quella sorta di incubo. Ad ogni modo, nonostante tutto, non riuscivo a sentirmi a mio agio, poiché continuavo a tacere quello che io consideravo uno dei miei sogni di vetro.
 

 

 

 

 


Capitolo XXIV
 
 
Dubbi e solitudine
 
 
Tre settimane. Tre lunghe settimane sono scivolate via dalla mia vita, e quella sorta di incubo ha continuato a perseguitarmi. Ogni notte non vedevo che mio padre, rimembrando ognuno dei giorni che ha passato a picchiarmi e farmi del male. Come se questo non bastasse, mi ha anche parlato. “Tornerò, e per te sarà finita.” Mi ha detto, incutendomi terrore e inducendomi a svegliarmi. Nel tentativo di calmarmi, ne parlavo con Matthew, ma proprio oggi, farlo non ha funzionato. Così, sentendomi irrimediabilmente ferita, spaventata e confusa da quell’incubo, sono scappata di casa, lasciandolo completamente da solo. Correndo, ho guadagnato la porta di casa, e la pioggia ha iniziato a scrosciare. Correvo senza una meta, e non facevo che piangere. Gli occhi mi bruciavano a causa delle lacrime, e le stesse non volevano che uscire. “Scappare non ti aiuterà!” gridava Matthew, tentando di convincermi a tornare indietro. “Lasciami da sola.” Risposi, voltandomi di scatto verso di lui. “Perché lo stai facendo?” mi chiese, dopo essere riuscito ad arrestare la mia corsa. “Mio padre mi ha minacciato, perfino nei miei sogni.” Dissi, stentando a trattenermi dal piangere. Non volendo apparire debole di fronte a Matthew, ma dopo innumerevoli tentativi, decisi di arrendermi, abbandonandomi quindi ad un pianto liberatorio. “Ha scoperto tutto, e vuole vendicarsi.” Singhiozzai, lasciandomi abbracciare e proteggere da Matthew. “Per noi è finita.” Aggiunsi, respirando a fatica. “Non è vero.” Rispose Matthew, rincuorandomi come solo lui era capace di fare. “Torniamo a casa.” Continuò, prendendomi per mano e invitandomi a seguirlo. Annuendo lentamente, sorrisi, scegliendo, da quel momento in poi, di pendere dalle sue labbra. Avevo cercato di fuggire dai miei problemi, e lui aveva per l’ennesima volta tentato di salvarmi dai miei stessi demoni, segno che mi amava davvero. Durante gli anni della mia adolescenza, non avevo mai creduto nell’amore, ma con l’arrivo di Matthew nella mia vita, mi sono ritrovata costretta a ricredermi. Il sentimento che ci lega è forte, ed entrambi speriamo che non finisca mai per indebolirsi. Ad ogni modo, il tempo continuò a scorrere, e quella giornata giunse alla fine. Calò la sera, ed io mi rintanai in camera da letto, sedendomi in terra come solevo fare da adolescente. Quella era la posizione che assumevo quando volevo stare da sola, concentrandomi solo sul battito del mio cuore, e ignorando la voce di qualunque persona cerchi di consolarmi. Ad un tratto, sentii bussare alla porta. La maniglia si abbassò lentamente. Era Matthew. “Possiamo parlarne?” chiese, sedendosi al mio fianco. “No.” Risposi, ignorandolo e dandogli le spalle. Data la mia risposta, Matthew ebbe un’unica reazione, ovvero quella di avvicinarsi e tentare di baciarmi. “No.” Ripetei, allontanandomi da lui. Guardandomi negli occhi, Matthew assunse un’espressione preoccupata e al contempo confusa, ed io non proferii parola, limitandomi a pensare. Isolandomi quindi dal resto del mondo, non avvertii che il vuoto della mia stessa mente. Improvvisamente, ricordai. Durante quelle tre settimane, Matthew non mi aveva rivolto attenzioni. Non un bacio, né un abbraccio o una parola gentile. Era strano, ma questo suo comportamento così freddo e distaccato non era da lui, così mi convinsi a porgli una domanda per me incredibilmente importante. “Devi dirmi la verità.” Esordii, guardandolo negli occhi. Mantenendo il silenzio, Matthew mi guardava, apparendo sempre più confuso. “Non stiamo insieme da mesi. Hai un’altra ragazza, vero?” chiesi, attendendo una risposta. A quelle parole, Matthew non rispose, limitandosi a tendermi una sorta di trappola. Avvicinandosi, si impossessò delle mie labbra, baciandomi con una passione tale da farmi ritrovare letteralmente con le spalle al muro. Respirando a fatica, assaporai ogni istante di quel bacio, sentendo quindi il mio corpo sussultare, e il mio cuore aumentare il ritmo dei suoi battiti. “Ti basta come risposta?” chiese, avendo modo di notare la confusa espressione dipinta sul mio viso. Non proferendo parola, lo guardavo senza capire. “Sei mia moglie, e io ti amo. Ora baciami.” Continuò, facendo suonare quell’ultima frase come una sorta di ordine. Lasciandomi guidare dai miei sentimenti, lo baciai a mia volta con passione inaudita, che in tutto quel tempo, sapevo di non avergli mai mostrato. Subito dopo, mi ritrovai ad essere così felice della sua compagnia da sentire il battito del mio cuore accelerare costantemente. Il comportamento di Matthew stava cambiando, ma qualcosa mi spingeva sempre a lasciarlo agire. Gli obbedivo lasciandomi guidare dal mio stesso cuore, facendo ogni volta qualunque cosa mi chiedesse. Poco tempo dopo, mi sdraiai al suo fianco, e quasi leggendomi nel pensiero, Matthew iniziò a far scivolare le sue dita sul mio viso, per poi proseguire con il resto del mio corpo. Il suo era un tocco caldo e piacevole, che non avrei disdegnato in nessuna occasione. Mi piaceva davvero, e pur volendo farglielo sapere, lottavo contro me stessa per mantenere il silenzio. Ad ogni modo, nonostante tutti i miei sforzi, fallii nel mio intento, finendo per lasciarmi sfuggire un mugolio. Per qualche strana ragione, questa mia reazione faceva sì che Matthew continuasse a toccarmi, baciarmi e riservarmi l’attenzione che meritavo. Con il passare del tempo, mi lasciai trasportare dal suo volere, continuando ad obbedirgli con quella che definirei una fedeltà cieca. Un’ora dopo, mi sentii stremata, ragion per cui, posai la testa sul cuscino, provando a respirare lentamente per tentare di calmarmi. Quella era stata una delle notti migliori della mia vita, e finalmente, potevo essere felice e sicura di non sbagliarmi. Matthew mi amava, e non aveva gli stessi sentimenti per nessun’altra donna. Inoltre, sapere che non aveva fatto uso del dono della parola per rispondere alla mia domanda, mi rendeva felice. Mi aveva baciata, e quel bacio aveva suggellato la promessa d’amore che mi aveva fatto nel giorno del nostro matrimonio. In quel preciso istante, i dubbi e la solitudine erano scomparsi dalla mia vita, non divenendo altro che un vago e lontano ricordo.
 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Capitolo XXV
 
 
Parole non dette
 
 
Un nuovo anno, ovvero dodici mesi che si sono susseguiti con quella che io definirei una lentezza esasperante. Ho passato momenti felici, intervallati nella maggioranza dei casi da momenti bui e orribili, come durante la mia adolescenza, il periodo peggiore della mia vita. Abusi, soprusi, dolore e umiliazione che hanno caratterizzato le mie giornate e formato il mio carattere. Inizialmente, non ero che una ragazzina fragile e priva di difese, che aveva perfino paura della sua stessa ombra, ma ora tutto è cambiato. La mia fragilità è rimasta intatta, e un raggio di sole ha attraversato la mia vita, rendendola più luminosa, e in definitiva migliore. Matthew. Un ragazzo a me molto simile, e di cui mi sono follemente innamorata, e che ha deciso di passare il resto dei suoi giorni al mio fianco sposandomi. Ora come ora, sono seduta nel salotto di casa, rimirando il mio anello di matrimonio. È di puro argento, e scintilla ogni volta che muovo le dita. Sospirando, lascio che il mio sguardo si posi su una vecchia foto della mia defunta sorella Brooke. Era ancora giovane, appena diciottenne, ed è morta. Sono ora passati due anni, e non c’è un giorno in cui il suo ricordo non mi perseguiti. Improvvisamente, un rumore di passi mi distrae, e voltandomi verso la fonte di quel rumore, scopro l’arrivo del mio fratellino Sarid. Ha cinque anni, ma a causa della sua condizione, può talvolta apparire perfino più infantile di quanto non sia “Brooklyn.” Sussurra, sedendosi accanto a me e accarezzando quella foto con lei dita. “Lei non c’è più.” Aggiunse, dandomi il dispiacere di vedere le sue iridi scintillare e i suoi occhi riempirsi di lacrime. Provando istintivamente pena per lui, decisi di abbracciarlo, per poi consigliargli di tornare in camera sua. Speravo l’andare a giocare lo distraesse, e in effetti il mio espediente funzionò. Alcuni minuti passarono, e Matthew mi raggiunse a sua volta. “Va tutto bene?” mi chiese, notando la triste espressione ora dipinta sul mio volto. “Sono solo ricordi.” Dissi, mostrandogli la foto di mia sorella. “Ti capisco benissimo.” Rispose, cingendomi un braccio attorno alle spalle. Fu quindi questione di un attimo, e lui scelse di baciarmi. Non mi opposi minimamente a quella manifestazione d’affetto, pur volendo solo che si fermasse. Dopo quanto mi era accaduto, non ero decisamente in vena, ragion per cui, mi voltai ignorandolo completamente. “Ho una cosa da dirti.” Aggiunse poi, rompendo il silenzio creatosi nella stanza. Guardandolo negli occhi, attesi che ricominciasse a parlare, e le parole che pronunciò mi colsero letteralmente alla sprovvista. “Devi venire con me.” Disse, prendendomi la mano e conducendomi lentamente in camera da letto. Lo seguivo senza parlare, ma intanto, mi interrogavo circa le sue intenzioni. Una volta entrata, mi sedetti sul letto, scoprendo che Matthew non faceva che guardarmi. Seppur lentamente, si avvicinò a me, per poi tentare nuovamente di baciarmi. Sorridendo, lo lasciai fare, godendomi ogni istante di quel bacio, e sentendo contemporaneamente qualcosa mutare dentro di me. Per qualche strana ragione, il suo tocco e i suoi baci erano perfino più delicati di quanto solevano essere, e in quel preciso istante, volevo solo che continuasse. Improvvisamente, Matthew si staccò da me, pronunciando una frase che mi fece letteralmente perdere la testa. “Ti amo, e non riesco a resisterti.” Disse, spingendomi dolcemente sul letto per poi scegliere di stringermi a sé come sapevo non avesse mai fatto. Inconsapevolmente, tremavo, e sentivo che il mio corpo spasimava per lui. Di lì a poco, una seconda pausa. “Non possiamo.” Dissi, indietreggiando e tentando di allontanarmi da lui. A quelle parole, Matthew non rispose, limitandosi a guardarmi negli occhi. “Non sapevo come dirtelo, ma io sono diversa.” Aggiunsi, per poi tacere nel tentativo di trattenere le lacrime e sciogliere il nodo alla gola che mi impediva di parlare. Matthew mi fissava, confuso. In quel momento, non desiderava che una spiegazione, ed io non sapevo cosa dire. Il mio era un segreto che gli nascondevo da anni, e che non avevo mai osato rivelargli. A causa del mio passato, e principalmente per colpa di quel mostro di mio padre e delle sue violenze, avevo da poco scoperto di non poter mai avere dei figli. Istintivamente, abbassai lo sguardo per la vergogna, continuando a mantenere il silenzio. “Sai che puoi dirmi tutto.” Disse, prendendomi il viso fra le mani ed incoraggiandomi a parlare. “Non sarai mai padre, ed è solo colpa mia.” Confessai, iniziando poi a piangere senza un lamento. “Guardami.” Continuò, costringendomi a posare il mio sguardo su di lui. “Tu sei una donna meravigliosa, e non sei causa del tuo passato.” Concluse, sorridendo debolmente e al solo scopo di rincuorarmi. “Io ti amo, e un figlio da te sarebbe un miracolo.” Aggiunse, pochi istanti prima di baciarmi e porre fine ai miei lamenti e al mio dolore. In breve, le nostre effusioni si intensificarono, ed io finii per perdere letteralmente il controllo, tanto da sentire il mio corpo dolere e sussultare per quello che identificai come piacere. In quel preciso istante, mi sentii completamente libera dalle mie inibizioni e dal peso di quella verità a lungo taciuta, composta da importanti parole non dette.
 

 

 

 

 

 

 

 

Capitolo XXVI
 
 
Conseguenze involute
 
 
Come sempre, e quasi come se giocasse nel terso cielo mattutino, il sole fa la sua comparsa, facendo così diradare le bianche nuvole presenti, che a loro volta galleggiano nell’aria con infinita grazia e leggiadria. Assisto quindi allo spettacolo offertomi dalla lucente e giornaliera alba, scoprendomi però insolitamente diversa. Un incredibile senso di nausea mi pervade, e lo stomaco non fa che dolermi. Inoltre, un lancinante mal di testa mi debilita. “Devi solo stenderti.” Mi ha detto Matthew, offrendomi un consiglio e un delicato bacio sulla guancia. Sorridendo debolmente, ho annuito, scegliendo di dargli ciecamente retta. Raggiungendo la nostra camera da letto, mi sono lentamente sdraiata, tentando di dormire. Per mia mera sfortuna, ogni tentativo fu inutile. Il mio mal di testa divenne presto un’emicrania martellante, che riuscii a controllare solo addormentandomi. Ad ogni modo, fui costretta a svegliarmi a causa di un fortissimo senso di nausea che non riuscii a domare, finendo quindi per rimettere nel bagno di casa. Come c’era da aspettarsi, il mio stato di salute preoccupò Matthew, che subito cercò di rincuorarmi e guarirmi dal mio malessere. Per qualche strana ragione, mi sentivo malissimo, e il mio buon senso mi portava a collegare tutto al rapporto che avevo con lui. Speravo vivamente di sbagliarmi, eppure sapevo di mostrare gli stessi sintomi di una donna in stato interessante. Era inutile negarlo, poiché tutto combaciava. Lentamente, ogni singola e vitrea tessera di questo mosaico prendeva il suo posto. Poi, il pezzo mancante, ovvero un ritardo nelle mie puntualissime mestruazioni. Ora non c’erano dubbi, ed io ero incinta. La mia condizione avrebbe dovuto essere per me motivo di gioia e letizia, eppure non era così. Sapevo bene di essere sposata con l’uomo che amavo, e che una famiglia era l’unica cosa a mancarmi, ma per qualche strana ragione, non la desideravo. Dati i miei trascorsi, non avrei mai voluto mettere al mondo dei figli, unicamente per paura di vederli crescere vivendo il mio stesso calvario. Trascorrevo il mio tempo rimuginando su tale conclusione, quando all’improvviso un secondo pensiero si fece spazio nella mia mente. Dovevo, pur non volendo, trovare il modo di dirlo a Matthew. Sposandomi, ha promesso di starmi accanto nella buona e nella cattiva sorte, ragion per cui, so bene di non dover temere la sua reazione, ma nonostante tutto, questa mia sorta di paura non svanisce. Vorrei davvero parlargli, e avere il coraggio di confessare dicendogli la verità, ma non riesco a farlo. So bene di non essere una bugiarda, ma allo stesso modo sono consapevole di non aver modo di farlo Non ora, non in questo istante, e soprattutto non mentre un uomo del calibro di mio padre è ancora a piede libero. Il bambino che porto in grembo esiste solo dentro di me, e non permetterò che una persona orribile come lui lo avvicini. Ora come ora, devo proteggere la mia nuova famiglia, volendo assolutamente evitare conseguenze involute.
 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Capitolo XVII
 
 
Lotta impari
 
 
Sono tranquilla, e osservo il lento andar del tempo. L’orologio appeso al muro continua a ticchettare, segnando lo scorrere dei minuti. Gli stessi, divengono lentamente ore, giorni, e infine mesi. Chiudo gli occhi, e ispirando a fondo, avverto un piccolo movimento. È il mio bambino, che scalcia dolcemente. Seduta nel salotto di casa, non proferisco parola, concentrandomi unicamente sulla piccola vita che custodisco proprio sotto al mio cuore. In breve, Matthew mi raggiunge, sedendosi accanto a me. Imitandomi, non parla, lasciando che le sue azioni lo facciano per lui. Lentamente, si porta una mano sulle ginocchia, sperando quindi che io comprenda le sue intenzioni. Istintivamente, sorrido, per poi obbedire a quella sorta di ordine, secondo il quale, avrei dovuto raggiungerlo. Mi sedetti quindi sulle sue gambe, avendo cura di non fargli del male. Poco dopo, il silenzio presente nella stanza si rompe come vetro. Un bacio mi impedisce di respirare, ma la cosa non mi tocca minimamente. Amo Matthew con tutta me stessa, e in un momento del genere, la sua vicinanza mi è di vero conforto. Da ormai alcuni lunghi minuti, non parlo, quasi temendo per la mia incolumità. Al contrario, trascorro il mio tempo con Matthew, ed entrambi non facciamo che scambiarci effusioni. Come sempre, il suo tocco è delicato, e i miei sentimenti si palesano. Baciandolo a mia volta, ho modo di sincerarmi dell’amore che prova per me, sentendo perfino l’accelerazione del suo battito cardiaco. “Sono qui per parlarti.” Mi disse, ponendo fine a quelle manifestazioni d’affetto. “Che vuoi dire?” chiesi, confusa e stranita da quelle parole. “Tuo padre. Ti maltratta da anni, e devi affrontarlo.” Rispose, in tono inequivocabilmente serio. “Non posso.” Biascicai, mostrandomi codarda provando vergogna per me stessa. “È più forte di me, e potrebbe uccidermi. Tu non lo conosci, e non hai idea di ciò che è in grado di fare.” aggiunsi, tentando di giustificarmi e sottrarmi a quella sorta di incombenza. In quel momento, tacevo, e Matthew continuava a guardarmi con espressione neutra. Per qualche strana ragione, la sua serietà mi rendeva nervosa, tanto che faticai a trattenere delle amare lacrime, finendo quindi per piangere davanti a lui. “So che fa male, ma esci dal tuo guscio.” “Fallo per me.” Pregò, guardandomi negli occhi con aria preoccupata. “Non posso.” Ripetei, scivolando poi nel più completo mutismo. “Devi farlo, o continuerà a perseguitarti.” Disse, ritornando ad essere serio. Non avevo idea di come fosse potuto accadere, ma quelle parole avevano appena scatenato in me una rabbia che sentivo di covare nel cuore da tempo ormai immemore. “No!” gridai fra le lacrime. “È pericoloso per entrambi! Questo è un mio problema e non puoi aiutarmi!” aggiunsi, per poi scappare via da lui rifugiandomi nella nostra stanza. Non appena fui sola, ricominciai a piangere. Tentavo in ogni modo di negarlo e convincermi che si sbagliava, ma Matthew aveva ragione. Contrariamente a lui, avevo torto, e pur sapendolo, mi rifiutavo di ammetterlo. Per l’ennesima volta nella mia vita, la paura sembrava controllarmi, ed io non riuscivo ad avere reazione dissimile da quella appena avuta, ovvero fuggire dai miei problemi, per poi nascondermi e versare amare lacrime. La mia debolezza stava di nuovo avendo la meglio su di me, ed io mi sentivo vittima di una sorta di crollo emotivo. Ero ormai convinta delle mie idee, secondo le quali, continuare a scappare dai miei demoni senza lottare, mi avrebbe presto condotto alla salvezza, ma come ormai avevo capito, mi sbagliavo. Ero confusa, e allo stesso tempo coinvolta in un’ impari lotta contro me stessa.
 

 

 

 

 

 

 

 

Capitolo XXVIII
 
 
Ricordi
 
 
Come sono solita fare, ammiro il panorama visibile dalla finestra del salotto, prestando stavolta particolare attenzione ad ognuno dei particolari della natura che mi circonda. Il prato del giardino è verde e rigoglioso, e qualche sporadico fiore spunta fra l’erba. Il sole cocente minaccia di bruciare le neonate piantine, e respirando a fondo, sorrido. Dopo tre mesi di perfetta immobilità, ecco un altro movimento da parte del mio bambino. Posando una mano sul mio ventre leggermente gonfio, inizio a pensare, arrivando a fantasticare sull’aspetto che avrà. Silenziosamente, spero che erediti il carattere di suo padre, uomo premuroso e al contempo forte, e le mie caratteristiche fisiche, da Matthew spesso definite angeliche. Ad ogni modo, l’unico lato negativo riguardo alla mia gravidanza, è rappresentato dalla mia consapevolezza di non poter salvare il mio futuro figlio da un mondo crudele e ostile come quello in cui viviamo. Inoltre, e come se questo non bastasse, il mio bimbo crescerà senza l’amore dei suoi stessi nonni, ma ad essere sincera, mi spiace solo pensare a mia madre. Stando a quanto ricordo, in quel nefasto giorno in ospedale, era vicina alla morte, e poco prima di andarsene lasciandomi per sempre, aveva ammesso di volermi bene, e si era perfino scusata di tutto il male che era arrivata a causarmi. Grazie alla mia innocenza, sono riuscita a perdonarla, e ora come ora, potrei letteralmente giurare di averla vista sorridere poco prima di spegnersi. Non conoscerà mai suo nipote, ma so che il mio dolore non la riporterà indietro. Per quella che io considero sfortuna, la stessa sorte è toccata a mia sorella Brooke, una giovane ragazza la cui vita è stata spezzata dalla violenza di nostro padre unita alla sua stessa debolezza. Ripensandoci, mi convinco giornalmente che in cuor suo avrebbe voluto lottare per vivere, ma sentendosi stremata, ha smesso di farlo, e conseguentemente, non ce l’ha fatta, limitandosi a raggiungere nostra madre nel cielo notturno, pieno di stelle che da allora mi ricordano della sua presenza spirituale in questo mondo. Anche lei, non diverrà mai zia, ma sarà certamente ricordata da Calvin, il suo fidanzato che si era ripromesso di sposarla qualora si fosse risvegliata uscendo dal tunnel rappresentato dal coma in cui era caduta all’età di sedici anni. Il giorno del suo funerale è stato davvero straziante, ed io non ho fatto che piangere per l’intera cerimonia, esprimendo un unico desiderio, ovvero quello di riaverla indietro. Quando ero ancora a scuola, e le altre ragazze non facevano che denigrarmi, lei ha cercato di salvarmi da me stessa riportandomi sulla strada di casa, e preoccupandosi per me. La sua morte, unita a quella di nostra madre, mi aveva portato a chiudermi in me stessa, e a non credere nell’amore, consolandomi solo con la lettura e con il piacere datomi dalla solitudine. Da allora in poi, ho vissuto senza alcuna compagnia, fino a quando il mio fratellino Sarid non è entrato a far parte della mia vita. Mia madre era riuscita a metterlo al mondo poco prima di spirare, ed io me ne prendo cura sin da allora. Poi, è arrivato Matthew, che ha ammesso di amarmi scegliendomi come fidanzata. Mi parlava spesso, dicendomi che ero diversa, e che esserlo mi rendeva unica. Ci siamo quindi innamorati, e ad oggi, sposati da circa due anni. Ora come ora, sono in attesa del nostro primo figlio, e nonostante l’avanzamento della mia gravidanza, lui non ne ha la minima idea. Provando paura al solo pensiero di ciò che potrebbe accadere, ho taciuto la verità fino ad oggi, ma ho allo stesso tempo compreso di non poter continuare a tacere. Così, l’ho convinto a parlarmi, dicendogli che avevo delle notizie da riferirgli. “Sto ascoltando.” Mi ha detto, aspettando che riprendessi a parlare. Inizialmente, ho esitato abbassando il capo e mordendomi le labbra, ma scuotendo la testa, mi sono decisa. “Stai per diventare padre.” Ho risposto, tacendo al solo scopo di osservare la sua reazione. La stessa, mi scioccò, poiché positiva. Fino a quel momento, ero stata guidata unicamente da un sentimento oscuro come la paura, ed ero arrivata a temere un suo rifiuto, ma notando il suo luminoso sorriso, e l’abbraccio in cui mi strinse, compresi di sbagliarmi. Matthew aveva scelto di starmi accanto, e di assumersi ogni responsabilità in quanto padre di questo bambino. In fin dei conti, eravamo sposati, e sapevo che amandomi, non avrebbe mai, in nessuna circostanza, potuto scegliere di abbandonarmi e spezzarmi il cuore. Come ripeto quasi giornalmente, lo amo, e so bene che i miei sentimenti per lui non cambieranno mai.
 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 
 
 

 

 

Capitolo XXIX
 
 
Luce nella vita
 
 
Con la mia solita tranquillità, ho tenuto mentalmente il conto dei giorni che separavano sia me che Matthew dalla nascita del nostro primo figlio, e proprio oggi, secondo il parere dei medici, sono pronta per dare alla luce il mio bambino. Attualmente, Matthew ed io siamo in viaggio verso il più vicino ospedale, a causa di alcuni forti dolori addominali da me provati durante tutta la scorsa notte. Ora come ora, il dolore è scomparso quasi completamente, e questo mi induce a preoccuparmi. Ad ogni modo, stringo i denti, sperando vivamente che tutto vada bene. Il mio arrivo in ospedale attira l’attenzione di gran parte dei medici, che subito mi assegnano una stanza dove accomodarmi in attesa del parto e dell’assistenza medica di cui ho bisogno. Lasciandomi accompagnare da Matthew, ho atteso l’arrivo dei medici per alcuni minuti, allo scadere dei quali, è arrivato per me il momento di dare alla luce il mio bambino. Così, dopo circa tre estenuanti ore di travaglio, mi sono potuta dire felice di stringere fra le mie braccia mio figlio, il piccolo Philip. Appena nato, appariva ai miei occhi come una creatura perfetta, priva di difetti o imperfezione. Avevo atteso quel momento per mesi, e finalmente, era arrivato. Guardando negli occhi del mio bambino, riuscii letteralmente a vedere una piccola luce, uno scintillio che non dimenticherò mai. Nostro figlio aveva appena fatto il suo ingresso nel mondo, e sia io che Matthew non potevamo essere più felice. Ad ogni modo, in questo frangente, la persona maggiormente provata dall’intera vicenda risultavo essere proprio io. Difatti, conoscevo alla perfezione il mio passato, ed ero arrivata a pensare che a causa degli abusi di cui ero stata vittima, non avrei mai potuto avere dei figli, ma proprio quel giorno, compresi di sbagliarmi. In fin dei conti, il nostro piccolo Philip ne era la prova. La mia diversità si palesava unicamente da un punto di vista estetico, ragion per cui, non avrei dovuto preoccuparmi riguardo alle mie capacità. Non avevo che paura di me stessa e delle mie emozioni, ma ora sapevo tutto. Conoscevo la verità fino in fondo, ed ero riuscita ad impararla solo grazie alle parole di mio marito Matthew, un uomo meraviglioso che mi reputava bellissima nonostante il mio passato e i miei mille difetti. Alzando gli occhi, lasciai che i nostri sguardi si incrociassero, e proprio in quel momento, sorrisi. Una piccola ma affatto amara lacrima non si fece attendere, ed io non tentai in alcun modo di ricacciarla indietro. Ero felice, e sapevo bene che nulla avrebbe potuto rovinare quell’istante, per me di vitale importanza. Lo trovavo a dir poco incredibile, eppure avevo appena sperimentato la gioia di diventare madre, divenendo assieme a Matthew responsabile di una creatura priva di difese e completamente dipendente da entrambi. Commettendo un errore madornale, continuavo a negarlo, ma ad essere sincera, non aspettavo altro. Inoltre, e contrariamente a quanto molte altre persone potrebbero pensare, Philip non era un bimbo come gli altri, ma era speciale, poiché nato da una coppia di genitori come me e Matthew, il cui passato aveva lentamente distrutto le loro anime, facendole precipitare in un buio e profondo baratro di malessere, fino a farle completamente scomparire. In breve, Philip non risultava essere solo un neonato, ma un individuo amato da entrambi, e la luce della nostra vita. Insieme, Matthew ed io ci saremmo presi cura di lui, proteggendolo da qualunque pericolo. In fondo, farlo non era solo e soltanto parte del nostro istinto, ma anche una promessa che avremmo strenuamente mantenuto fino alla fine dei nostri giorni.
 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Capitolo XXX
 
 
Libertà di essere
 
 
E così, accompagnati da un soffio di vento, altri due anni sono volati via come uccelli intenti a raggiungere il nido. Matthew ed io lasciamo che il nostro mestiere di genitori assorba la maggior parte del nostro tempo, che riusciamo però a conciliare con i nostri rispettivi lavori. Tenendo fede alla mia grande passione per la lettura, sono riuscita, con una buona dose di impegno e forse anche un pizzico di fortuna, a diventare una famosa scrittrice ormai conosciuta in tutto il mondo. L’aver vissuto una vita costellata di ferite, paura, solitudine e dolore, mi ha aiutato a trovare il modo di esprimersi. Ad essere sincera, ho sempre amato la lettura, un hobby che solevo considerare noioso, ma che ho poi imparato ad apprezzare con l’andar del tempo. Leggere, ovvero l’atto di seguire con gli occhi le lunghe righe colme di neri caratteri in un libro, ha inoltre ampliato il mio vocabolario, e con l’aiuto dei miei sentimenti, derivanti dai miei trascorsi e dal mio burrascoso passato, sono perfino riuscita a mettere le mie idee e la mia anima su carta, scrivendo un intero racconto autobiografico, mia opera prima e di grande successo. Contrariamente a me, Matthew ha avuto perfino più fortuna, riuscendo, solo grazie al suo carisma e alle sue straordinarie capacità comunicative, ad ottenere un posto di lavoro come impiegato in banca. Inoltre, anche se la sua nuova occupazione porta via molto del suo tempo, riesce sempre a dedicarsi a me, continuando ad amarmi, e sostenendo di essere ancora innamorato di me come la prima volta, ovvero ai tempi del liceo. Il sole mattutino splende su di noi, illuminando ogni passo del nostro cammino verso l’accettazione di noi stessi, e come se questo non fosse abbastanza, ad allietare le nostre vite è arrivata anche la piccola e dolce Agnes, nostra seconda figlia, e fonte di gioia per entrambi. Riflettendo, mi concedo del tempo per pensare, e non riesco a credere a me stessa. Tempo addietro, credevo che la mia vita dovesse aver fine dal giorno alla notte, ma la purezza del mio animo, unita all’amore che una persona come Matthew prova per me, mi ha dato la forza di rialzarmi e andare avanti, vivendo la mia vita nonostante le difficoltà, e superandole di volta in volta. Io sono Malika, e questa non era che la mia storia.
 

 
Non avete che letto e vissuto la travagliata vita della giovane Malika. Immagino che alcuni capitoli vi abbiano fatto scendere una lacrima, e questo mi rende orgogliosa. Vuol dire che la storia vi è piaciuta, ma nonostante questo, accetto ogni critica.

Emmastory
 
 
 
 
 
   
 
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