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Autore: La_li    30/10/2015    0 recensioni
A Niall, che non saprò mai se è come davvero io credo o l'esatto contrario.
A Lavinia, che credevo sarebbe stata l'ultima cosa a rimanermi davvero alla fine di questa mini-long scritta con lo stesso inchiostro con cui vengono dipinti i sogni. E invece, guarda un po', non c'è più nemmeno lei.
Genere: Malinconico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Harry Styles, Niall Horan
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Prima di lasciarvi alla lettura volevo scusarmi se in questa mini-long scritta per sfogo sono cascata più di una volta nel banale. E' solo che, per una volta, ho voluto semplificare un po' le cose. Detto ciò, spero che tra un avvenimento un po' scontato e uno, magari, appena più originale, riusciate comunque a capirci qualcosa e ad emozionarvi almeno la metà di quanto io ho fatto durante la stesura.
Un bacio!
P-

Prima di dormire
Da: Gloria
A: Niall
Non fumare per quasi un mese è un’impresa tremendamente ardua. Mi meraviglio del fatto che io sia comunque arrivata al diciassette marzo con i polmoni che un po’ erano riusciti a scartavetrare via il catrame di dosso.
L’intento era quello di sentire di più una volta aver messo piede su terra d’Irlanda. Ero sicura che tra il fumo denso di una Merit che scendeva giù per la gola e la consapevolezza che dove camminavo io avevi camminato anche tu il cuore si sarebbe dilatato di brutto, permettendomi finalmente di percepire quel sentore di purezza che non riuscivo a trovare da nessuna parte e che, alla fine, non sono riuscita a trovare nemmeno nei tuoi occhi.
Io e Lavinia siamo arrivate all’aeroporto di Roma ch’eravamo quelle a tremare di più, nonostante il sonno. Un senso di smarrimento assurdo tra quell’infinita distesa di bianco ci ha prese alla gola, insieme all’improvviso desiderio di poter correre veloci.
Siamo salite sull’aereo pronte ad esplodere come due mine da guerra. La voce di quella miccia di Artegiani pretendeva d’impartirci rapide “lezioni di comportamento a bordo”, nonostante a malapena sapesse come si cammina per strada.
Credevo che una volta che avrei iniziato a volare con la tua voce nelle orecchie sarei stata felice, non così stramaledettamente nervosa. E, davvero, non vedevo l’ora che l’aereo atterrasse di nuovo perché almeno non saresti più stato così lontano.
Così come lo sei adesso, alla fine.
Che poi il viaggio non è durato nemmeno tanto. Siamo arrivate più in fretta di quello che mi aspettavo e forse è stato meglio così. Non so quanto ancora sarei riuscita a sopportare l’attesa.
L’atterraggio mi ha devastato lo stomaco più di quanto ansia ed emozione avessero già fatto. Quelle due stronze sembravano rosicchiarne le pareti ed è assurdo che, nonostante tutto, come sensazione nemmeno mi dispiaceva.
Io e Lavinia siamo scese prima di tutti e durante la nostra fuga verso l’esterno del veicolo abbiamo involontariamente urtato contro un’hostess così forte da farla finire col culo a terra e la gonna all’aria.
Le mattonelle bianche e lucide di quell’aeroporto irlandese, all’apparenza banali e scontate, in realtà sono riuscite ad assorbire ogni nostra ansia non appena abbiamo potuto calpestarle per la prima volta.
Dietro di noi, Artegiani, continuava a richiamare i nostri nomi e a ripetere che non dovevamo allontanarci dal gruppo senza il suo consenso. Non lo abbiamo nemmeno sentito. Ci siamo guardate negl’occhi serie e gravi per poi esplodere in uno sclero di cuore incominciando ad urlare che: si, eravamo in Irlanda. Lo abbiamo ripetuto più volte per crederci, ci siamo prese la mano e abbiamo iniziato a correre per i cunicoli illuminati di quella struttura lasciando tutto quello che ormai non contava più alle nostre spalle.
Purtroppo, però, Artegiani non si era dimenticato di noi e per evitare di perderci d’occhio aveva iniziato rincorrerci e a urlare di fermarci, perché altrimenti ci avrebbe rispedite subito a Todi in un modo diretto che avremmo dovuto intuire da sole (considerando che certe parole non era autorizzato a dirle).
Io e Lavinia, ovviamente, avremmo alloggiato nella stessa casa e dalla nostra famiglia ci avrebbero portate in taxi. Erano le sei di sera quando ci siamo ritrovate a sfrecciare grazie al veicolo sull’asfalto lucidato di stelle che sembravano brillare di più rispetto a quelle che si vedono da qui, in Italia.
Il paesaggio intorno a noi, le persone e i loro modi di fare, i suoni e i profumi. Tutto era così ammaliante e armonico oltre il finestrino che io e Lavinia non potevamo fare altro se non tacere per tutto il viaggio, troppo impegnate a catturare anche il più piccolo dettaglio che comunque era troppo importante da poter essere trascurato.
Ogni passante che vedevo di sfuggita speravo fossi tu, per quanto magari sia impossibile incontrarti così, per caso.
Scese dal taxi ci siamo subito accese una sigaretta. Lavinia una Marlboro Rossa, io la mia amata Merit sul profilo della quale, esattamente ventotto giorni prima, avevo scritto il tuo nome.
Il primo tiro l’ho fatto esageratamente lungo ed è riuscito a farmi stare esageratamente bene. Avevo la testa pesante e il cuore così leggero che quasi avevo paura potesse volare via dal petto. E correre da te, magari, perché è lì che vuole stare quello stronzo.
 
Meredit e George erano i nomi dei nostri temporanei genitori adottivi. Sembravano tipi apposto. Ci siamo presentati (noi mezzo in tuderte e mezzo in inglese che tanto inglese non era) e poi ci hanno subito indicato la stanza nella quale avremmo dovuto dormire per i pochi giorni a venire. Era piccola, verniciata di un rosa pallido e le tende cucite di bianco pizzo. Carina e accogliente. Poi, se i letti fossero stati comodi non l’avremmo di certo scoperto quella notte. I piani previsti non comprendevano quello di dormire.
Durante la cena a Lavinia sono scappati un paio di rutti ma abbiamo cercato tutti di non farci troppo caso per non metterla in imbarazzo, poverina. Ci ho provato anch’io a ignorarla ma è finita che non sono riuscita a nascondere bene due risate nel bicchiere di cola che stavo bevendo e Meredit e George hanno guardato male pure me. 
Ogni minuto che passava eravamo sempre più tese, preoccupate, spaventate. Ma allo stesso tempo non vedevamo l’ora, eravamo così eccitate all’idea di quello che sarebbe potuto accadere quella notte.
Alle dieci spaccate ci stavamo fumando più o meno la terza sigaretta della serata, con la finestra della camera spalancata sulle luci della città in pianura e avvolte dalle coperte che sembravano essere intrinseche d’ansia. Non parlavamo. Non abbiamo osato interrompere quel religioso silenzio nemmeno una volta, troppo prese a guardare il pallido soffitto e a cercare disperatamente nel fumo denso e grigio, qualcosa che riuscisse a tranquillizzarci almeno un po’.
Andrà tutto bene” ricordo di aver detto, più per rassicurare me stessa che Lavinia. Erano trascorsi almeno un paio di minuti prima che rispondesse. Mi erano sembrati davvero troppi per una ragazza che aveva sempre la battuta pronta come lei.
Non andrà bene proprio un cazzo” aveva sputato tutto d’un fiato, lanciando il mozzicone della sigaretta dalla finestra.
Io non ho dovuto nemmeno pensare a come risponderle: le parole sono scivolate via dalla bocca da sole.
Forse, ma ne varrà comunque la pena
Mi piaceva crederla in quel modo.
Lavinia si è tirata a sedere sul letto, mi ha guardata assorta senza vedermi davvero per poi: “Mi fido” confessare.
E io, in quelle due parole, ci ho creduto davvero.
A mezzanotte dormivano sia George che Meredit, nella stanza affianco. Li abbiamo spiati insieme soffocando quante risate riuscivamo da dietro lo stipite della porta. Il primo ronfava e la donna, a bocca aperta, sbavava leggermente sul cuscino.
A mezzanotte e cinque minuti indossavamo già i nostri cappotti invernali e io mi sono guardata per l’ultima volta allo specchio. Ho osservato le occhiaie un po’ troppo solcate e le guance esageratamente pallide ma ho fatto comunque finta di non credermi così tanto consumata, perché considerando che le persone ti vedono esattamente per come tu ti reputi, non volevo di certo presentarmi a casa tua con l’autostima sotto ai piedi.
A mezzanotte e dieci l’aria gelida d’Irlanda ci morse la pelle e le viscere dello stomaco e per riscaldarci appena, ci ritrovammo costrette ad accendere l’ennesima sigaretta. La quarta, forse.
Varcato il cortile curato e il cancelletto verniciato di verde ci siamo ripromesse di non guardarci più indietro per nessuna ragione giurando che, da quel momento in poi, non avremmo più dovuto lasciare spazio ai ripensamenti.
E se prima eravamo con un solo piede nella fossa adesso, nel buco, stavamo immerse fino alla gola.
Ridendo per sfogare l’agitazione, Lavinia ha estratto la mappa stampata su Google dalla tasca dei jeans per poi aprirla, borbottando subito dopo che non ci si capiva una sega. Il ché era anche comprensibile considerando che l’aveva girata sotto sopra.
Abbiamo svoltato per un paio d’incroci a sinistra, camminando a passo svelto sul marciapiede stretto con le macchine che sfilavano altrettanto rapide sull’asfalto accanto a noi. I viali del quartiere erano tutti uguali: le case all’inglese si susseguivano spente e monotone alternate da lampioni alti e sferici in una serie continua e malinconica. L’architetto non doveva aver avuto di certo tanta fantasia nel progettarli eppure l’aria rimaneva comunque impregnata di qualcosa di strano. Di un sentore che sapeva di libertà e di sogni sospesi.
Abbiamo svoltato per l’ennesimo incrocio segnato dalla cartina e, quando con la coda dell’occhio ci siamo finalmente accorte della stazione del pullman, un sospiro di sollievo è sfuggito sincronico dalle nostre labbra.
Inizialmente, alla fermata, c’eravamo solo io e lei che continuavamo a ripetere “SUMPO’” a raffica, rivolte al pullman numero quindici che non si decideva ad arrivare. Dopo almeno cinque minuti buoni, però, al nostro duetto si è aggiunta anche una vecchietta vestita di tutto punto dai modi di fare altezzosi e signorili. L’abbiamo ignorata per un bel po’, troppo impegnate a ridere così forte per le peggio stronzate che quasi urlavamo. E di questo se n’è accorta anche lei perché si è voltata e: “Can you keep silence, please?” ci ha riprese con tono irato, fulminandoci con lo sguardo. Lavinia l’inglese non lo capiva molto, eppure quelle cinque parole è riuscita a tradurle evidentemente, perché ha sgranato gli occhi per poi risponderle con decisamente poca educazione.
E tu can you go to fanculo, please?” è stata infatti la sua richiesta.
E io proprio non ce l’ho fatta ad astenermi dal ridere di nuovo, così come non sono riuscita a risparmiarmi dall’alzare la mano per invitarla a battere il cinque. Tutto questo monitorata dallo sguardo sbigottito della vecchia che, non capendo, si è limitata a darci le spalle evitando di rispondere.
Nel frattempo il pullman era arrivato e io e Lavinia, prima di salire le scale per il secondo piano, abbiamo deciso di tirare un respiro profondo per provare a calmarci al fine di allontanare ulteriori figure di merda.
Il viaggio in pullman è stato abbastanza tranquillo e rilassante se escludiamo dal ricordo le gambe e le mani che tremavano, il cuore che batteva impazzito e la pressione alta che faceva fischiare le orecchie per tutte quelle emozioni mal nascoste dentro di noi.
L’Irlanda sfilava con il suo mantello magico di luci argentee e buie oltre il finestrino, alternando il profumo di città a quello del mare in un canto che non ti lasciava scampo. T’ipnotizzava e t’ammaliava: i nostri occhi non erano che per lei nonostante tutto il resto.
124 Raithim Mullingar rd west Meath.  Era lì che abitavi e da dove ci trovavamo noi ci volevano circa un’ora e quaranta minuti per arrivarci. L’avevo contati, così come avevo scaricato tutte le mappe con le varie fermate e segnato tappa per tappa i cinque cambi di pullman che ci saremmo ritrovate costrette a fare.
Ogni volta che scendevamo da un veicolo, dovevamo aspettare almeno dieci minuti prima che arrivasse il successivo; per questo io e Lavinia ne approfittavamo per correre verso il bar più vicino, prenderci un caffè di fretta e fumarci una sigaretta in nemmeno sei tiri. Alla terza fermata i minuti d’attendere erano il doppio, così abbiamo fatto in tempo anche a chiacchierare con tre ragazzi che avranno avuto più o meno vent’anni. S’erano avvicinati per primi chiedendoci d’accendere e poi erano rimasti lì con noi domandando di dove fossimo e che cosa facessimo lì. Qualcosa gli abbiamo risposto, ma dubito tutt’ora che c’abbiano capito molto. Ma quello che c’è stato di più figo è il fatto che comunque abbiamo riso di brutto per le figure di merda che facevamo un po’ tutti quanti nel disperato tentativo di farci capire.
Per la prima volta ho pensato che l’inglese non è affatto come ci è sempre stato spiegato. Perché si, le parole sono importanti ma non è solo con la bocca che si può parlare. Non è solo con le orecchie che si può capire. Le mani e gli occhi. Sono quelli che ti dicono tutto. Sono quelli che non puoi fraintendere. Le parole alla fine le puoi sempre rigirare come meglio ti torna.
Salite sul quarto pullman ci siamo rese conto che non sarebbe stato male vivere per sempre così. Scappare di continuo dagli schemi nel tentativo di raggiungere le cose che c’interessano davvero, sentirsi libere e grandi, con la sigaretta tra le dita e le palle e la voglia di conoscere sempre nuova gente, d’inseguire i nostri sogni, di riempire i vuoti con le piccole cose e fare grandi esperienze.
Mi sono accorta che il panorama oltre il finestrino cambiava gradualmente: i negozi del centro venivano sempre più spesso rimpiazzati da modeste casette a schiera, molto simili alla tua. I lampioni divenivano sempre più radi e le piante sempre più fitte, segno inequivocabile che ci eravamo allontanate dal centro urbano e anche di tanto.
Quella consapevolezza ha fatto tremare il cuore a entrambe e improvvisamente il panico ha avuto la meglio. Lavinia, che si stava già massacrando i polpastrelli delle dita coi denti, mi ha guardata persa con le lacrime agli occhi e io ho percepito un nodo intrecciarsi in gola.
Indecise se scendere o no da quel veicolo completamente vuoto ad eccezione nostra e dell’autista, incapaci di salire su quello di ritorno e rientrare in casa facendo finta di niente perché alla fine eravamo ancora in tempo per tirarci indietro. Ma non è nel nostro carattere farci dettare cosa fare dalla paura. Perché, si: siamo ragazze che si fanno mille seghe mentali, che viaggiano con la fantasia parando sempre al resoconto peggiore in situazioni del genere, si spaventano facilmente dinnanzi alle conseguenze delle proprie azioni e siamo davvero tanto, tanto suggestionabili. Ma forse il nostro coraggio risiede proprio lì: nella forza di affrontarle coi denti e con le unghie tutte quelle paure che un po’ c’intimidiscono, certo, ma non riescono mai a farci fuori in definitiva.
E non sono riuscite di certo a farlo nemmeno quella volta. Così, quando il pullman ha inchiodato bruscamente all’ultima fermata, mi son morsa il labbro fortissimo coi denti per reprimerci in mezzo almeno un po’ d’ansia. Ho stretto la mano a Lavinia per poi trascinarla fuori con me, salutando meccanicamente l’autista.
Probabilmente, la piazza di Mullingar, vista con altri occhi (e magari anche ad un’altra ora), non sarebbe poi sembrata così grande. Ma in quel momento, alle due e mezza del mattino e col freddo che s’infiltrava sottopelle, ci siamo sentite davvero piccole al centro di tutta quella desolazione.
Perché in giro non c’era nessuno e ce lo potevamo anche immaginare, ma arrivarci con il pensiero ed esserci fisicamente sono tutt’altre cose.
Lavinia ha lasciato la mia mano per poter sfilare due sigarette dal pacchetto di Marlboro ormai mezzo vuoto, per poi offrirmene una che di certo non ho rifiutato.
I nostri passi lenti e solcati sembravano rimbombare per tutta la superficie in ciottolato, i lampioni erano davvero pochi e la luce ch’emanavano risultava debole e fioca.
Eppure, tutto sommato, anche se all’inizio Mullingar quasi c’intimidiva, passo dopo passo ci siamo rese conto quasi di starci entrando in simbiosi con quell’ammasso di pietra grigia, cemento e casine a schiera, di aiuole più o meno curate, dal profumo caratteristico che non potrei mai associare a nient’altro se non alla stessa.
E io e Lavinia, fumando a piccoli tiri la nostra sigaretta, ci guardavamo attorno sempre più affascinate. Lei, a che pensava mentre lo faceva, proprio non saprei dirlo. Io, semplicemente, mi limitavo ad immaginarti camminare sullo stesso asfalto che adesso stavo calpestando io, magari per andare a scuola quando eri più piccolo o forse per uscire con gli amici di paese il sabato sera. Prima che la fama ti strappasse via da tutto questo, prima che la tua naturalezza e spontaneità venissero rubate da manager e business senza che tu te ne rendessi nemmeno conto.
Alla mappa un occhio lo lanciavamo ogni tanto ma abbiamo comunque sbagliato strada circa quattro volte prima di ritrovarci davanti al portone di casa tua. E a quel punto quasi non ci vedevo più per l’emozione.
Mi sono imbambolata davanti alla struttura piccola e aggraziata che sapeva di te e improvvisamente niente faceva più così tanta paura. Ho guardato Lavinia che non sapeva se crederci o meno in tutto quello e poi … e poi niente, ci siamo abbracciate. Ma forte di brutto perché da sole, lì dove eravamo, non saremmo mai riuscite ad arrivarci. E in quell’abbraccio c’era ogni cosa: un sacco di “grazie” sottointesi e di “ci sarò anche domani” promessi.
Mi sono avvicinata al campanello con il tuo nome; mani che tremavano, occhi liquidi e gambe pesanti come sacchi di sabbia.
Niall James Horan.
In quella targhetta c’era scritto ciò che eri veramente. Ciò che sei tolti gli abiti firmati e c’era il suono della tua voce tra i banchi di scuola e sotto la doccia, non al Madison Square Garden. C’era il sorriso della prima ragazza che tu abbia mai amato sul serio e le mattine del venticinque dicembre, quando eri abbastanza ingenuo da svegliarti all’alba solo per correre a scartare i pacchi che credevi Babbo Natale ti avesse portato. E invece quei regali se l’erano sudati i tuoi genitori e guardati adesso: sei tu che sudi per loro, tra camerini e folle che si fanno anche migliaia di chilometri pur di poterti incontrare almeno una volta nella loro vita.
Come hai fatto a diventare così importante per loro, Niall? Come hai fatto a diventare così fondamentale per me? Te lo chiedi mai?
O Glò, pigia ‘sto cazzo de campanello e fallo in fretta che a na’ cert’ora toccherebbe anche annassene
E tutto sommato, per quanto inopportuna, la voce di Lavinia ha sdrammatizzato un po’ ogni cosa e io ho finalmente trovato il coraggio di premere quello stupido bottoncino nero, nella tua attesa.
Tre minuti dopo mi sono girata verso di lei e ogni cosa è tornata al suo posto senza che noi potessimo far niente per impedirlo.
Le tre del mattino, la lista con i nomi di tutta la famiglia, la casa in mattoni rossi e cemento grigio davanti a noi e la nostra così irrimediabilmente lontana.
Mi sono sentita come uno che crede e serve il bene si sente attratto dal male e pecca un po’, ma che quando si ritrova faccia a faccia con questo si spaventa e torna come un coniglio tra le braccia di Dio, piangendo il suo perdono.
Una cazzata. Solo quello avevamo fatto: una cazzata più grande di noi. E io non sono riuscita ad evitare di mettermi a frignare come una bambina, perché il campanello di casa tua continuava a suonare ma nessuno veniva a rispondere. Le lacrime scendevano sempre più bollenti e io quasi mi ci strozzavo con quelle stronze, mentre l’illusione di poterti davvero incontrare prendeva già a scemare.
Mai più avrei creduto nell’assurdo, mi ero promessa. A costo di rinunciare alla felicità.
Dove cazzo sei?” ho sussurrato tra un singhiozzo e l’altro, mentre Lavinia mi trascinava lentamente via di lì rispettando in silenzio il mio pianto. Verso dove mi stava portando non lo sapeva nemmeno lei, ma una cosa era certa: più ci allontanavamo da casa tua e più il cuore aveva voglia di scoppiare, schiacciato da una pressione sempre più insistente.
Altre due sigarette ce le siamo fumate sulle panchine di un parco giochi mal illuminato, non troppo distante da dove ci trovavamo prima. Le lacrime avevano seccato le labbra e incrostato come calcare ogni ingranaggio. Non sentivo più niente. Solo il religioso silenzio in cui si risparmiava l’Irlanda di notte e i respiri miei e di Lavinia quando lasciavamo al fumo la libertà di fondersi con il buio.
E comunque, guarda: anche se non c’eri fuori rimanevi comunque dentro; ero sicura che quelle che mi stavano dilaniando il petto fossero le tue, di unghie.
Dove sei? Dove sei? Dove. Cazzo. Sei.
Lavinia mi ha guardata inspirando lentamente come a volersi avvelenare, come a dire: andiamocene, che tanto qui non c’è niente per il quale valga la pena restare.
Di fronte a tanta schiettezza ho gettato il mozzicone a terra e sputato lì vicino quel briciolo di speranza ch’era ancora in mio possesso. Poi l’ho calpestato e più provavo a prendermela con lui, più la consapevolezza che tutto quel casino fosse soltanto dipeso da me gridava in gola e nello stomaco.
C’era il nero che stava dentro e provava a mangiarci anche la pelle da fuori. C’era il verde bosco delle chiome che comunque era nero, la luce del lampione pareva inghiottita dal buio e nera anche quella, poco distante dalla lampadina. Poi c’è che qualcosa è cambiato e sottopelle ho percepito anche altri due colori, ancor prima di poterli scorgere da lontano. Ci sono stati il rosso caldo di una risata roca e ovattata e il blu freddo di una voce che è stata troppo tempo costretta fuori a gelare e non riusciva più a sciogliersi.
E’ successo così: io e Lavinia abbiamo messo il primo piede a terra (il sinistro) e quest’ultima ha tremato un po’ o forse è stata soltanto la nostra impressione, quella, ma qualcuno che rideva in lontananza c’era sul serio.
Una risata bassa, matura e allo stesso tempo incontrollata. Forse incontrollata proprio perché costretta a maturare troppo in fretta. La risata di qualcuno che sta sotto catena e museruola trecento-sessantaquattro giorni all’anno e in quel trecento-sessantacinquesimo decide di essere libero tutto in un una volta. E poi il silenzio di chi non può concedersi nemmeno quello di privilegio e semplicemente incassa i colpi o li para male e proprio per questo diventa più forte. Un braccio infilato sotto alle spalle dell’amico che ha voglia di cedere perché schiacciato dal peso del suo corpo.
Che cazzo, Harry! Ma la pianti di fare il coglione?
E hai parlato e quella voce (la tua voce) mi ha sconvolta così tanto a sentirla dal vivo.
E non te l’ho mai detto quanta voglia avevo di urlare, correrti incontro e devastarti con un abbraccio piangendo sulla lana blu del maglione xl che portavi.
 Ma mi fai il piacere di credermi se ti dico che un po’ mi sono sentita crescere completamente di botto? Un moto improvviso di rispetto nei tuoi confronti mi ha suggerito di non farlo, perché in quel momento avevi bisogno di tutto tranne che di qualcun altro che ti si aggrappasse addosso.
Ch’eri tu quello ad avere bisogno di aggrapparsi a qualcuno.
‘Che piangere o ridere in quel momento mi sono sembrate reazioni tanto ridicole d’astenermi dal farlo e alla fine non sono riuscita a fare niente se non a lasciarmi devastare. Semplicemente perché tu riesci a rendere cosa bella anche l’autodistruzione.
Lavinia ch’era rimasta in quel modo, mezza seduta e mezza in piedi, con la bocca aperta finché uno stupido insetto non c’è volato dentro e lei a momenti ci si strozza.
Il lampione alle tue spalle vi ha illuminati abbastanza da poter affermare, adesso, ch’eravate umani da far piangere e da far piangere per bene. Per il bene che vi volevo e che si, cazzo, dopo quasi cinque anni vi voglio ancora.
Perché i ricci di Harry un conto è immaginarli sempre a tiro, perfetti in ogni imperfezione e sistemati come pare agli stilisti, e un conto è vederli messi come pare alla vita e al vento, completamente incasinati, naturali, che gl’impasticciano gli occhi e vanno dove pretendono di stare.
E tu eri pallido come la carta straccia e avevi due occhiaie glicine che avessi potuto avere sonno in quel momento ne avrei avuto tanto e solo per te. La ricrescita castana che sfumava in un biondo ossigenato, il maglione blu come i tuoi occhi era in quel momento stropicciato dalle mani di Harry che lo stringevano disperatamente per non cadere.
Guardami, Niall! Sono un lombrico” ha biascicato lui per poi contorcersi come un verme sotto la tua presa e correre via a braccia e gambe aperte urlando forte che: vaffanculo, era un uomo libero e ormai non lo avrebbe legato più nessuno.
E i tuoi occhi mi hanno suggerito anche da lontano che avevi voglia di fare come lui ma non ci riuscivi … c’ho preso, Niall? Certo che sì. Avevi bevuto pure tu ma sappiamo bene entrambi che più demoni c’hai nello stomaco, più alcool ci vuole per affogarli.
 “A me sembri un coglione ma poi sono punti di vista” se n’è uscita la bionda portando le mani tra i capelli, ma la sua voce non è riuscita nemmeno a sfiorarmi.
Avevo deciso di decentrare il mio sguardo da te verso Harry perché stava messo irrimediabilmente male, tant’è che aveva corso fino a una fontana vuota e dai bordi in marmo con la faccia di uno che dentro di essa ci si stava per buttare. Lavinia, in un guizzo improvviso e istintivo, ha corso fino a raggiungerlo, per poi protendere le braccia verso di lui proprio mentre stava iniziando a sbilanciarsi verso l’interno.
L’ha tirato indietro per le spalle e il corpo è scivolato all’esterno, schiacciandola inevitabilmente a terra. L’impatto è stato così violento che quasi sentivano il bisogno di voltarsi e sboccare sangue sulle pallide margherite di quel parco.
Ma niente a che vedere con la brutalità con la quale il verde liquido di Harry si è scontrato con l’ambra di lei. Lavinia s’è sentita qualcosa di assurdo dentro, proprio all’altezza dello stomaco, qualcosa che impazziva e le faceva venire un’insensata voglia di essere felice. Il riccio, invece, ha sorriso e basta nel vederla, sincero e sghembo come le fossette che gli sono comparse ai lati delle labbra rosee e sottili in un barlume di lucidità inaspettato.
Improvviso come la terza guerra mondiale che si stava combattendo nello stomaco di entrambi, forse.
Ma di certo, se c’è una cosa che ho imparato in tre anni di amicizia con lei, è che Lavinia i momenti romantici dopo un po’ se li sente pesare sulle spalle. E forse è per questo che ha sbuffato scocciata anche se in realtà non lo era affatto. Se l’è scrollato via dallo stomaco e: “Ma che cazzo stavi a creà?” praticamente gli ha urlato contro, dimenticandosi di non avere a che fare con un tuderte.
Harry infatti l’ha guardata di nuovo mezzo rincoglionito, un po’ per la botta e un po’ di suo e: “Ma sei italiana?” le ha domandato, con quell’accento affaticato che io avevo sentito prima solo da dietro le casse di una stupida scatola elettronica.
No, so’ africana. Non me vedi che so’ nera?
A quel punto sono andata verso di loro sfogando l’assurdo di tutto quello con una risata.  Poco dopo ci hai raggiunti anche tu e mi hai aiutata a tirare su Harry per le mani senza nemmeno degnarmi di uno sguardo. Me ne sono accorta perché io, al contrario, ero lì solo per te. Ma ho fatto comunque finta che non m’importasse, che non facesse poi tanto male.
Lavinia ha confessato subito dopo che le faceva male il culo per l’impatto e Harry aveva biascicato che doveva pisciare e tu, per la prima volta dopo dieci minuti, mi hai guardata vedendomi davvero. E forse mi hai parlato anche con gli occhi stravolti lasciandomi la libertà di capire che volevi correre via. Ma da solo no perché avevi bisogno di qualcuno che t’indicasse quella strada che da troppi anni non riuscivi a trovare.
T’incuriosiva il modo in cui ti guardavo ogni tanto, vero? Così serio, impercettibilmente insinuatore, appena che velenoso, troppo vero, troppo troppe cose che tu non potevi racchiudere dentro di te poiché già stracolmo degli sguardi di chissà quante altre ragazze. Un po’ come quando devi scegliere un profumo e ne senti tanti tutti insieme e arrivi a un punto che l’unica sfumatura che riesci a percepire davvero è quella acida e pungente dell’alcool.
Io non te lo reggo il cazzo” hai sbuffato, infine, strecciando i capelli con un movimento all’indietro delle dita lunghe e le unghie corte, mangiucchiate. Una piccola cosa che avrei tenuto per me perché dai poster, dettagli importanti come quelli, è impossibile notarli.
Con la coda dell’occhio mi sono accorta di Lavinia sussurrarmi piano qualcosa che mi ha fatta ridere fino alle lacrime.
Perché quel qualcosa era: “Ma guarda che n’cè problema, se vuoi ce penso io eh” che per fortuna non hai capito. Hai deciso d’ignorarci comunque mentre Harry scoppiava a ridere con noi senza manco saperne il perché. Era come se le vostre personalità si fossero irrimediabilmente scambiate. Cazzo, dovevi essere tu quello col carattere infantile e spontaneo e invece guarda come t’eri ridotto.
Harry, se ci sbrighiamo a tornare pisci nel bagno di casa mia” hai provato a convincerlo e il riccio si è grattato il mento un paio di volte, pensieroso.
Io non ci torno a casa se lei non viene con noi” ha annunciato alla fine, circondando le spalle di Lavinia con il suo grande braccio vestito solo di tatuaggi nonostante le basse temperature.
Lavinia l’ha osservato dal basso sorridendo e: “Seeeee” ha esclamato, tra l’ironico e l’emozionato.
 Tu invece, ci hai squadrate lentamente dalla testa ai piedi con sguardo spento e neutro. Quello a cui stavi pensando l’ho inteso solo quando hai parlato. La voce piatta di chi non ha più voglia di sentire, di provare.
Non fare il coglione, Harry. Non possiamo portarci a casa due directioner, nel giro di cinque minuti metà Irlanda mi si piazzerebbe davanti al portone, lo sai
E lì ci siamo incazzate un po’ io e un po’ anche Lavinia. Ma forse (ma proprio forse), io un po’ più di lei. Perché Twitter, figurati, manco l’avevo. Ero già stata brava a portarmi dietro il cellulare. E comunque non avrei avvisato nessuno nemmeno se ce l’avessi avuto perché per qualche minuto mi sarebbe piaciuto crederti soltanto roba mia.
Lavinia m’ha guardata stringere i pugni e: “Stai molto calma” ha detto a bassa voce per farsi sentire solo da me. T’assicuro che io c’ho provato davvero a dargli retta ma non è che ci sia riuscita poi chissà quanto.
Ma a parte il fatto che io non sono Directiona, no. E poi…” ma tu a Lavinia manco l’hai fatta finire di parlare che ti sei subito girato verso di me e i tuoi occhi mi hanno guardata così cattivi perché distanti che io mi sono sentita incrinare dentro, dico sul serio.
Lei si, però” hai detto semplicemente per poi cacciare le mani nelle tasche larghe dei tuoi jeans.
Ho inarcato le sopracciglia accigliata perché adesso quella presa in causa ero solo io e il tono acido non sono riuscita a sopprimerlo quando: “Non proprio. E non ho Twitter e veramente manco internet in questo momento” ti ho spiegato, guardandoti negli occhi e resistendo senza fatica a inalare quel colore gassoso fino alla fine, ‘che tanto per me non era difficile farlo perché quante volte mi c’ero addormentata pensando a quello fino a portarlo dietro e dentro per tutta la notte?
Mi hai guardata per niente sorpreso, cosa che alla fine non mi aspettavo. Così come non avrei mai creduto nel modo in cui, scalciando svogliato una lattina di cola che avevi tra i piedi, hai pronunciato le parole di dopo.
Dite tutte così tante cazzate
E lì mi sono sentita shakerare gli organi dalla rabbia e qualcosa d’ingombrante salire in gola, mentre Lavinia stava zitta senza capire come comportarsi e Harry, nonostante l’alcool, era comunque riuscito a intendere la serietà del momento decidendo di uscirsene con un severo: “Amico, sei nervoso e ok, ma non sfogartela su chi non c’entra nien…”
Ma io avevo già fatto in tempo ad ingoiare le lacrime e a rimpiazzarle con qualcosa di decisamente più amaro. Qualcosa che mi ha dato il coraggio di risponderti a tono, d’impedirti di farmi così tanto male senza che ce ne fosse alcuna ragione.
No, Harry. Ci può stare, vi capisco. A forza di trovarsi sempre tra le persone salta fuori che di loro non ci si può fidare. Però questa volta ho detto la verità e non ho niente da nascondere, ecco” ho smesso di guardare il riccio che mi ha sorriso sorpreso, come a dire: sei una sveglia, tu. Ho nascosto dentro di me le sue parole non dette con un’immensa fierezza.
Poi sono tornata a guardarti (un Niall che di Niall non aveva proprio niente), ho sfilato il cellulare dalla tasca del giacchetto nero e te l’ho posto subito dopo averlo sbloccato per poi: “Controllalo pure e continua a pensarla come ti pare, tanto l’ho capito che sta sera non ci riesci proprio a ragionare
Forse volevi confutare qualcosa che io non sapevo, forse t’infastidivo e stop e ti sarebbe semplicemente bastato andare via da quel parco, ma poi hai deciso di stare zitto e di sapere, prima di ribattere ancora.
Hai lasciato scorrere il pollice sullo schermo controllando ogni icona e anche le tacchette di rete. Niente rondine blu, nessuna freccetta che indicasse un qualsiasi tipo di connessione. Mi hai ridato il telefono senza guardarmi e: “A casa vostra ci tornate a piedi, però” hai chiuso la conversazione.
Harry mi ha guardata di nuovo: lo stesso sorriso sghembo di uno che apprezza quello che sente. Avevo ricambiato lo sguardo, riconoscente verso di lui e me stessa.
Lavinia e il riccio se la ridevano di brutto poco più avanti di noi e tu semplicemente stavi zitto e indifferente perfino nei tuoi confronti e io avevo voglia di strapparti di dosso le ali nere per farti tornare coi piedi per terra.
Dov’è che stavi camminando, Niall? Avevi gli occhi così incazzati che pareva stessi andando a braccetto col diavolo.
E urlava così tanto il silenzio che ci siamo tenuti dentro, fuori e tra di noi fino all’arrivo di casa tua che quando ci hai invitati ad entrare con un gesto scocciato della testa sentivo i timpani fischiare.
Secondo te come mi sono sentita quando Lavinia e Harry ci hanno lasciati da soli in salotto per raggiungere la camera da letto al piano di sopra? Perché tu non hai fatto niente per fermarli e tenerli incollati con noi al divano del salotto se rimanere da solo con me t’infastidiva tanto? E, cazzo, dovevi smetterla di guardarmi male in quel modo perché io poco ci mancava che ti lanciavo contro il vaso di fiori secchi che stava tanto stabile sulla mensola alla mia sinistra.
Ho provato a ignorarti e per cinque minuti buoni sono quasi riuscita a concentrarmi sulla rivista che stava dimenticata sul divano che mi sosteneva seduta, con le gambe accavallate distrattamente e la coda dell’occhio che ogni tanto tradiva il mio disinteresse nei tuoi confronti.
Perché pareva davvero che non riuscissi a trovare un cazzo di verso, di senso, e la tua paura mi s’incanalava negli anelli vuoti delle vertebre ed era una sensazione così aspra da far accapponare anche la pelle, potrei giurartelo.
Mi sembra di percepirli tutt’ora quei brividi che mi tendevano come corde di violino e mi facevano vibrare e suonare respiri che si strozzavano in gola ancor prima di prendere suono.
Ti ricordo mentre aprivi il frigorifero distrattamente cercando un qualcosa che di certo non avresti trovato lì dentro. Che il cibo non ci riusciva a saziare quel genere di vuoti nello stomaco. Ti stringevi i capelli tra le dita e li tiravi, giravi intorno al tavolo sbuffando, provavi a sparecchiarlo dai vecchi cocci del pranzo, le posate le lanciavi da lontano nel lavandino ma non ci prendevi quasi mai. Quando il piatto di porcellana turchese ti è scivolato dalle mani io avevo voglia di sclerare per sciogliere con le urla parte dell’intreccio di nervi che avevi incasinato tu e tu soltanto, gli stessi che tante altre volte prima di andare a dormire, eri riuscito a distendere con la dolcezza della tua voce.
E io mi sono resa conto che quella voce volevo sentirla di nuovo e che forse mancava anche a te. Così ho tirato fuori il pacchetto di Merit dalla tasca dei jeans e, per quello che valeva, con il tono un po’ scostante ho pronunciato il tuo nome senza guardarti ma poi tu hai guardato me e la voglia di mischiare il nero con l’azzurro (il tuo azzurro) era davvero impossibile da sopraffare con il buon senso.
Senti: la vuoi una sigaretta?
Hai osservato il pacchetto all’inizio senza capire (troppo eri stravolto) e poi mi hai guardata sorridendo, forse un po’ per cortesia, ma io l’ho considerato comunque un inizio. Per questo ho sorriso di rimando anche io quando: “Inizi a starmi un po’ meno sul cazzo, sai?” hai confessato.
E chissenefregava se sul cazzo ti ci stavo ancora (?). Ciò che m’importava davvero era che non ti fossi indifferente. Solo quello, alla fine. E che tu sorridessi ancora.
Allora mi hai fatto cenno con il capo di seguirti in terrazza e io ti sono venuta dietro, preparandomi psicologicamente al freddo d’Irlanda.
Ci sono posti che per quanto acidi ti corrodono le ossa e te le firmano a vita. Il rosso opaco dei mattoni di quel terrazzo stretto ma lungo, la ringhiera arrugginita poco meno scarlatta del pavimento. Un panorama che c’era ma non poteva essere definito tale ma solo come un’infinita distesa di tetti e tegole screpolate, bruciate da una luce fredda che più che illuminare pareva aver voglia d’evidenziare tutto quello squallore con un giallo batterico che strideva e raschiava, tipico dei lampioni di periferia.
Sedendomi al tuo fianco, con la schiena contro il muro gelido, mi sono sentita soffocare perché era tutto troppo per me. Le air force nere che quasi raggiungevano la ringhiera, erano appena che scosse dal leggero tremito che s’era impossessato dei miei piedi.
Ti sei portato la sigaretta alle labbra, l’hai accesa per poi guardarmi e io non ci avrei mai creduto in te con gli occhi lucidi ma sempre, comunque provocatori.
Stavamo crollando insieme, stavo già crollando da sola ancor prima che tu finissi di demolirmi con la durezza del tuo sguardo.
E non ho fatto apposta a rubarti la scena, credimi se ci riesci. Non sono cose che so gestire, quelle. Avessi potuto scegliere, ne fossi stata in grado, ti avrei continuato a guardare sfruttando una forza che non sono riuscita a trovare piuttosto che spostare gli occhi verso dove i tuoi non avrebbero potuto scorgerli, perderli in un orizzonte che non trovavo da nessuna parte e singhiozzare come non pensavo fossi capace di fare, nascondendo piano il volto tra le ginocchia. E nel tessuto dei jeans che portavo c’ho soffocato quante più cose possibili pur di rispettare il silenzio e contaminarlo quanto meno potevo, perché comunque la consapevolezza di starmi sgretolando così miseramente davanti ai tuoi occhi bruciava mille volte di più rispetto alle lacrime che parevano aver voglia d’ustionare le guance.
E… sai? Me l’aspettavo che non mi avresti abbracciata o cose così e alla fine, ora che ci ripenso, non può che avermi fatto piacere. Dire che andava tutto bene, che c’eri e che mi amavi in quanto tua fan, l’avrei presa un po’ per una grandissima presa per il culo. Mi sarei considerata come una tra tante (tantissime) da ingozzare d’illusioni e imbottire di stronzate giusto per tenersi stretto non tanto il suo cuore quanto il suo portafogli.
Allora ho asciugato le lacrime con le maniche della felpa verde bosco ancor prima che smettessero di scendere, finché le guance non erano così rosse da bruciare, graffiate dalle scaglie ghiacciate del clima irlandese.
Ho provato ad autoconvincermi di essere già riuscita a digerire tutta quella situazione e mi sono ravviata i capelli per darmi contegno, prima di tirar fuori le palle e voltarmi a guardarti, con gli occhi che forse non erano più nemmeno rossi.
Hai sfilato una Merit dal pacchetto scivolato a terra e me l’hai posta insieme a un accendino nero mentre la tua ti stava già pressata tra le labbra. Fine, rosee, screpolate.
Mi sono accesa la sigaretta e, davvero, un tiro di Merit non era mai riuscito ad allentare la tensione come quello. Il fumo, giù per la gola, sembrava essere in grado di sciogliere qualsiasi cosa come un balsamo caldo.
Hai aspettato che inspirassi di nuovo prima di guardarmi, ma questa volta aveva fatto meno male. Già, perché tu quasi sorridevi. Come se in un qualche modo tremendamente assurdo fossi riuscito a sfogarti attraverso il mio, di pianto e io non sono mai riuscita a dare un nome a tutto questo.
Ma quella del sorriso è stata solo una nuvola di passaggio perché poi è subito tornata la tempesta.
La smetti di stare zitta? Dì qualcosa, qualsiasi cazzo di cosa che sopprima questo silenzio che non riesco più a sopportarne il peso
E di cose da dire ne avevo tante davvero ma di certo ne avevi più tu.
Quando non ho niente da dire in genere sto zitta” ho mentito perché, comunque, credevo che se ti avessi provocato per bene prima o poi m’avresti vomitato addosso tutti i tuoi demoni e io non vedevo l’ora di poterli esorcizzare.
Allora ricordo che ti sei morso il dorso della mano senza stringere troppo coi denti e mi hai risposo a metà tra l’ironico e lo scocciato, come se dentro ai miei occhi ci stessi vedendo così tante cose da farti credere impossibile che io non avessi proprio niente da dire.
Ma pianatala che se ti graffiassi sanguineresti inchiostro e parole
Nelle mie storie riuscivi sempre a vedermi attraverso la pelle. Il fatto che tu sia riuscito a farlo anche nella realtà mi ha fatta sorridere con le labbra e con gli occhi senza che io potessi fare niente per evitarlo.
Forse, ma sta sera sei tu quello che se non le butta fuori ci si soffoca con quelle stronze
E allora hai sgranato un po’ gli occhi perché comunque ti avevo atterrato ancora di più e adesso con le spalle al muro ti ci ritrovavi non solo fisicamente ma anche allegoricamente parlando.
Ti sei preso la testa fra le mani. L’hai stretta. Poi hai tirato i capelli e io volevo strapparti via da dentro tutto quel marcio che stava mascherando il bene che in te non riuscivi più a vedere.
Io… io non ci riesco” hai confessato dopo un po’ che ti guardavo e tu non osservavi me ma il rosso non più tanto rosso delle mattonelle gelide.
Ehi, guarda che non devi farlo per forza” ho ostentato dolcezza perché pian piano ti stavi spogliando della tua rabbia sotto i miei occhi e di qualche crepa nella tua voce già riuscivo ad accorgermene.
Ti dovrei delle scuse, ma non ne ho
Il tuo volto che si alzava, le ginocchia che si piegavano, le braccia che s’incrociavano su di esse e i pugni distesi in segno di arresa. Quanto ti sbagliavi, Niall.
L’unica persona alla quale devi delle scuse per il tuo comportamento sei proprio tu, sai?” ho inspirato avidamente l’ultimo tiro per poi spegnere senza accorgermene la Merit contro il muro. Ho lanciato il mozzicone oltre la ringhiera per poi osservarlo atterrare s’una tegola più grigia rispetto a tante altre.
E cosa succede se io sono quello che sono solo grazie a voi?” e no, ancora non mi guardavi. Odiavo il fatto che anche se io ti stessi offrendo più di un motivo per restare, tu ti ostinavi comunque a fuggire.
Ma soprattutto, come ti venivano domande così tanto ridicole? Perché ai miei occhi risultava scontato che le palle di credere nei tuoi sogni non l’avevamo mica tirate fuori noi al posto tuo.
Su quel palco d’X Factor ci stavi tu, mi pare. Non io. Tu e i tuoi sedici anni soltanto, non i miei
Non mi meritavo di certo tutto questo
E allora vaffanculo, ho pensato. Adesso mi accendo un’altra sigaretta e gli faccio cambiare idea a costo di finirci il pacchetto, per lui.
Mi sono messa comoda, con le gambe incrociate e rivolta verso di te.
Adesso mi guardi” ti ho detto.
Se questo ti rende felice” hai risposto per poi accondiscendere alla mia richiesta. I tuoi occhi nei miei e all’inizio mi sono irrigidita un po’ ma ho comunque pensato che andasse bene così. Avrei trovato le parole giuste.
Mi sono accesa la Merit e il primo tiro l’ho fatto così lungo che la gola bruciava. La testa girava. Ho preso fiato e il resto è venuto da se, spontaneo come mi viene ancora da sorridere ogni volta che sento la tua (la vostra) voce alla radio.
Vedi, Niall. La cosa bella di te è che sei dappertutto. Tra le lenzuola, nel profumo di muschio bianco che ti ho sempre immaginato indossare e in tutto ciò che è azzurro. In una stazione radio, incastrato tra i ripiani di una libreria, nell’indelebile che disegnerà sui banchi di scuola o dove lui vuole. Perché siamo noi che ti mettiamo in ogni piccola cosa che riempie un po’ il vuoto delle nostre giornate, perché alla fine tu riesci a rendere tutto un po’ più abbastanza. Ma non è questo il punto. Cioè, credo che tu voglia sapere per quale motivo ci piace tanto tenerti con noi, no?
Hai annuito un po’ perplesso perché ancora non riuscivi a capire. Come avresti potuto? Perfino mio padre, che è la persona che davvero mi conosce meglio di chiunque altro, continua a ripetermi da tre anni a questa parte che l’amore che provo nei tuoi confronti è pura follia. Una gran cazzata e basta.
Non so da dove iniziare
Prenditi tutto il tempo che vuoi, non abbiamo fretta
Ma ho compreso che non c’era bisogno di tempo quanto di parole giuste, perché io quello che avevo da dirti già lo sapevo e lì si trattava solo di trovare le frasi più adatte per spiegarti che è così e basta: che con te riesco a sentirmi “tutto” nonostante la consapevolezza di non essere niente.
Il respiro, le mani, la risata. Tre cose che spesso usi senza nemmeno accorgertene, no? Tu sei importante come quelle. A volte devo scappare e ho bisogno di gonfiare i polmoni con tanto di quell’ossigeno. Tu sei il respiro che mi permette di saziarli. Le tue mani. Lo sai? Quando voglio raggiungere un obiettivo, se questo è abbastanza importante per me, non riesco proprio ad astenermi dall’allungare le braccia e dal provare ad acciuffarlo. Ma a volte non ci riesco da sola, c’è qualcosa o qualcuno che puntualmente m’intimorisce e allora retrocedo un attimo. Poi arrivano le tue, di mani, che mi sospingono dolcemente per i fianchi e mi spronano ad avanzare di nuovo. Allora le allunghiamo insieme e quel qualcosa è finalmente mio. O forse nostro, non saprei dirti con esattezza.
La tua risata. Su quella c’è poco da dire, fa il culo a qualsiasi altro miracolo. Sto giù, a pezzi, incazzata, stremata? Posso stare di merda quanto gli pare, Niall, che tanto il suono della tua risata riesce comunque a farmi riemergere un po’ dal nero.
E non chiedermi come ci riesci perché questo non lo so nemmeno io, davvero. So che succede e basta ma alla fine non m’interessa saperne di più. Mi rendi felice anche da dietro uno squallido schermo e non so se è giusto o sbagliato tutto questo, so solo che non potrei farne a meno nemmeno volendo. Ma tanto, no. Mica voglio fare a meno di te
E ci sono parole che lasci germogliare dentro di te e sfociano in gemme latenti che colori con i pigmenti dei sogni. Continui a nutrirli, quei boccioli, anche quando vedi che di aprirsi non ne hanno intenzione ma comunque ci speri e ci credi. Credi nella loro corolla che sarà la più bella. E lo scopri dopo che parole come quelle sbocciano solo nel momento in cui le condividi con qualcuno che l’anima ce l’ha nera e ha bisogno di tinte colorate come i tuoi sogni per poter sentire di nuovo.
Sentire il bianco dell’innocenza che a sedici anni un po’ sfuma in grigio, il rosso del bene che ti avvolge per non farti sentire freddo dentro, il verde di una libertà che con la carriera che fai puoi solo immaginare di poter avere.
Ma comunque il nero permane, e tu di colori sopra ce ne puoi schizzare quanti ti pare ma non credere di poterli vedere che quello stronzo li annulla tutti.
Come i tuoi occhi che nelle mie parole ci hanno creduto solo mentre le ho pronunciate, perché poi la paura di non essere davvero come noi crediamo che tu sia ti ha rimpiazzato in testa ogni certezza appena acquisita.
Ti ringrazio per le belle parole (che lo sono state davvero) ma sei ancora così piccola ed è normale che tu le pensi. Ma te n’andrai anche tu da me. Smetterai di amarmi e sarai grande e avrai cose più importanti dei miei occhi alle quali pensare
E a sentire uscire quelle parole dalla tua bocca, Niall, mi sono sentita comprimere i polmoni così forte che avevo paura potessero collassare per la pressione. Potrei giurartelo che come ci sono parole che ti colorano altre ti spengono e le tue, credimi, non mi hanno di certo fatta brillare.
   
 
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