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Autore: Absynthe_sea    30/10/2015    0 recensioni
― E tu chi sei?
― L'autore.
― Della tragedia?
― No, di queste pagine.
― E che cazzo vuoi?
― Non so come continuare. Vorrei assistere al finale.

A volte spiegarsi è davvero difficile. A volte recitare un ruolo stanca.
Genere: Commedia, Malinconico, Sovrannaturale | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: Incompiuta
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Il vecchio teatro è buio, i fari sono spenti, eppure le tende rosse e polverose del sipario sono perfettamente illuminate.
Il silenzio è rotto dal ticchettio di un orologio, lontano, perso nella marea di poltrone vuote in platea. Apparentemente non c'è nessuno e questo è il dramma più grande che abbia mai varcato le soglie di quel luogo. Il genio, l'idea stessa del teatro è lì, impalpabile. Si gode gli ultimi momenti: è una donna bellissima in abito da sera seduta lì, sulla destra. Ha le labbra carnose e l'espressione un po' civettuola, sorride aspettando l'ultimo atto. Si alza il sipario.

Il vecchio teatro.
Dicono che non ci sia nulla di più cupo e deprimente. A me piace, forse perché sono cupo e deprimente anch'io.
Mi chiamo Teo, sono un attore. O forse sarebbe più corretto che lo ero, una volta, molto tempo fa. O forse no, forse essere attori significa recitare solo quando si è fuori dal teatro ed essere sé stessi solo entrando nelle parti che altri hanno scritto per te. Scusate, sto divagando. Mi capita quando sono confuso -e lo sono spesso. Dubito di tutto. Forse. Rifacciamo da capo.
Mi chiamo Teo, sono un attore. Da che ricordo ho sempre finto di essere qualcun altro -a volte un po' peggiore, a volte un po' migliore. Però esagerando sempre, mi piaceva esagerare. Era il mio modo di dire 'Ehi, guarda che non sono davvero così, c'è una persona vera qui sotto, da qualche parte!'. Solo che la gente non capiva. Non ero abbastanza ridicolo da essere una macchietta. Così sono finito a fare il caratterista, che è un modo cordiale per dire che non sono abbastanza bravo o aitante per fare il protagonista. Così mi rifilano ruoli secondari, tutti molto simili.
Mi chiamo Teo, sono un attore. Faccio il cattivo, sempre. Non che io lo sia o che mi piaccia, è solo il ruolo che mi riesce meglio. Sono credibile. E più mi impegno per fare sembrare quella cattiveria banale e più risulto credibile. Odio tutto questo, odio il mio ruolo. Adesso sto aspettando di entrare in scena, devo recitare l'ultimo atto. Non mi piace quest'opera, recitare questa parte è pura sofferenza. Li vedo ogni sera, quelli del pubblico, che la guardano senza capire. Vedono tutta la sofferenza sul palco e credono che sia una sofferenza finta che ne vuole rappresentare una reale e cercano di dare centinaia di possibili giustificazioni a quel dolore. Li vedo tutte le sere e non capiscono che questa sofferenza è vera e di solito quelli finti sono loro. E il dolore non ha un motivo e non ha una giustizia, come ogni dolore che si rispetti. Il dolore è come l'arte secondo Oscar Wilde: completamente inutile.
Mi chiamo Teo, sono un attore. Scusate, tocca a me.


Teo entra in scena, l'occhio di bue lo segue.
Le assi del palcoscenico scricchiolano sotto il suo passo incerto, non c'è pubblico quella sera e dunque non c'è un applauso ad accoglierlo, solo il silenzio e il sorriso della sua musa.
Teo è vestito di grigio, un doppiopetto elegante, una camicia glicine e una cravatta color tortora. Ha un viso qualunque con un po' di barba, gli occhi rossi e gonfi, l'aria svagata di chi è oppresso da un pensiero che non è ancora riuscito a portarlo alla disperazione. Si guarda intorno e inizia a declamare.

TEO: Sono stanco. Ho trascorso la mia vita a fare finta, aspettando di trovare uno sprazzo di sincerità in un'altra persona solo per accorgermi che gli altri fingevano tutti e tutti cercavano la sincerità. La cercavamo ovunque, tranne che in noi stessi. Eravamo così accecati dal bisogno, dal desiderio di trovare qualcosa che fosse puro che nessuno si curava più di esserlo. Oh, qualcuno faceva finta e ad alcuni veniva addirittura bene, addirittura c'era qualche imbecille che ci cascava! Alla fine, però, tutti tornavano a casa delusi, intristiti. Anche con l'amore ci abbiamo provato. Oh, l'amore! Che grandiosa fregatura. Intendiamoci, non è l'amore a essere una fregatura, è l'idea che noi ci siamo fatti dell'amore a esserlo. Senza dubbio, senza dubbio. Perché vedete, noi credevamo davvero di poterla fare, questa cosa qui. Noi credevamo davvero di potere idealizzare qualcosa e di poterla trovare. Noi avevamo, tutti noi, la faccia tosta di immaginare una cosa assolutamente perfetta e poi andare a cercarla, illudendoci di averla trovata salvo infine lamentarci perché non era all'altezza delle nostre aspettative. E così potevamo andare in giro a lamentarci, a dire che l'amore fa schifo. Figurarsi! Non è che l'amore facesse schifo, semplicemente facevamo schifo noi, che cercavamo comprensione rifiutandoci di comprendere. Che cercavamo le attenzioni e volevamo misurare un rapporto cercando l'equilibrio perfetto senza accorgerci che stavamo togliendolo, l'equilibrio, con quella continua insoddisfazione. Non è che l'amore facesse schifo, erano le nostre aspettative ad essere troppo alte. Era tutto sbagliato in proporzione perché era sbagliato l'assunto da cui eravamo partiti, solo che nessuno voleva crederci e tutti guardavano i film e qualcuno addirittura leggeva i libri e sognava un amore come quello dei romanzi e si dimenticava che i romanzi sono fantasia e comunque raccontano solo una parte di una vita, una parte di una storia. Sempre così: chi scrive decide da dove iniziare, come finire e cosa lasciare non detto. E chissà quanto dolore -quanto dolore vero- c'era in quelle pagine non scritte, quante notti a piangere, quante maledizioni. Ma bisognava lasciare al mondo il sogno di un amore perfetto e immacolato e quelle pagine non potevano e non dovevano esistere. Ci siamo affidati a una menzogna e abbiamo pianto perché non riuscivamo a renderla reale, invece di accettare il fatto che se solo ci fossimo sforzati di amare davvero saremmo anche riusciti ad essere felici ogni tanto. Mica sempre, solo quel tanto che basta per non impazzire. Invece no, abbiamo continuato finché il nostro cuore non si è del tutto inaridito, finché il dolore provato è diventato nient'altro che una spinta a provocare il dolore negli altri. Così siamo diventati cattivi.

Teo si ferma. Sospira. Il suo sguardo vaga per la platea ma non vede nessuno. Per un attimo smette di recitare.
― Non ce la faccio, dice.
No, non è nel copione. Lui è solo stanco. Stanco di dover fingere di essere cattivo e di doversi giustificare per questo.
Si sente un rumore, il frusciare di un vestito di lana fra le poltrone. Il regista si affaccia al proscenio. Un uomo fra i quaranta e i dieci milioni di anni, ha gli occhi verdi e l'eyeliner nero, una folta barba bianca e i capelli lunghi raccolti in un codino nascosto sotto il basco. Leggermente sovrappeso, indossa una maglia nera con la scritta 'SEX BOMB', un panciotto di pelle con le borchie; sul basco, poco sopra la fronte, campeggia una spilla luminosa a forma di triangolo.

― Cosa c'è?
― Sono stanco.
― Stanco?
― Stanco.
― ...
― Che c'è di strano? Sono stanco. O forse preferisci un'espressione più colorita: mi sono rotto i coglioni.
― Non è necessario scaldarsi tanto...
― Non è necessario, dici? Hai idea di cosa sia venire qui a ripetere la stessa cosa ogni maledetto giorno?
― E lo chiedi proprio a me?
― Non ridermi in faccia. Per te è diverso...
― Hai ragione, per me è peggio: tu devi morire, io no.
― Che cosina allegra! E non è nemmeno una battuta originale, stai citando quel vecchio film...
― Quale?
― Ma sì, quello su Scipione l'Africano.
― Ah beh, quello... Capirai, nessuno di questi qui l'avrà mai nemmeno sentito nominare.
― Qui non c'è nessuno...
― In realtà c'è il pienone e tutti ti stanno fissando. Non si è svuotato il teatro, Teo: ti sei svuotato tu. Non vuoi più andare avanti, tutto è inutile, tutto è vuoto.
― Mi stai dicendo che sono...?
― Impazzito?
― Morto!
― Ah, no. Non clinicamente, come dite voi. Non ancora, almeno, ma non ci può mancare molto, visto l'andazzo. Però vorrei capire perché dici di essere stanco.

Teo smette di sporgersi verso il regista e si rivolge al pubblico. Sorride. Non sembra più stanco.

TEO: (camminando sul palco, accompagnato da una musica in crescendo)
Perché sono stanco? Perché nessuno ha capito. Nessuno ha capito la mia difficoltà e solo perché nessuno si è mai sforzato di capire. Chiunque ci abbia provato si è limitato a dire che essere cattivi è facile e che invece per essere buoni bisogna impegnarsi. Ora voglio farvela io una domanda, campioni: qualcuna di queste menti illuminate è mai andata da un cattivo a chiedergli cosa prova, se è facile essere cattivi? No, ovviamente no! Anche perché fuori di qui (ma pure qui dentro, caro il mio Regista), è tutto un casino: i cattivi sono convinti di essere buoni e di agire per il bene, però anche i buoni sanno di essere buoni e di dover condannare i cattivi. E così i buoni decidono chi sono i cattivi, come se fosse onesto e leale, e poi si costruiscono anche un bello scranno di ipocrisia, ci posano le loro onnipotenti chiappe e iniziano a latrare di quanto alta sia la loro moralità. Moralità. Proprio loro!

― Ehi, vacci piano. I buoni sono buoni e i cattivi si credono nel giusto e quindi buoni. In pratica stai offendendo tutti.
― Fregancazzo.
― Eh?
― Gergo giovanile, non puoi capire.
― Lasciamo perdere.
― Va bene.
― Teo?
― Cosa?
― Perché sei stanco?

Perché sono stanco? Non lo so.
Vi capita mai di arrivare a metà pomeriggio, uno di quei pomeriggi noiosi in cui è troppo presto o troppo tardi per qualunque cosa, come diceva... chi lo diceva? Non mi ricordo. Beh, non ha importanza. Dicevo, vi è mai capitato di arrivare a metà di un pomeriggio qualsiasi e sentirvi stanchi? Così, senza una ragione. Stanchi di tutto, soprattutto stanchi di dovervi impegnare costantemente per ottenere qualcosa che alla fine non siete nemmeno sicuri di riuscire a capire cosa sia. Ecco, io sono stanco. Ma perché sono stanco?


― Non lo so.
― Teo?
― Cosa?
― La verità.
― La verità...

TEO: (al pubblico) La verità è che essere cattivi è difficile. Difficilissimo. Soprattutto quando non lo si è.
Intendiamoci, al giorno d'oggi c'è un sacco di gente che gioca a fare il cattivo, ma quelli fanno finta e si vede, non va mica bene. Se vuoi davvero fare il cattivo, recitare il ruolo del cattivo, devi calarti nella parte! Devi convincerti di esserlo e non ci sono santi, quello è un ruolo che ti rimarrà addosso e non riuscirai più a togliertelo dalle palle! Perché essere cattivi richiede dedizione. Facile essere cattivi quando credi di essere nel giusto: prova ad essere cattivo sapendo di star facendo una cosa sbagliata. Facile essere cattivi con la gente di cui non ti importa: prova a esserlo nei confronti di una persona che non vorresti mai ferire. Prova, provate! Poi venitemi a dire che per essere cattivi non c'è bisogno di talento, che non bisogna impegnarsi. La verità...
La verità è che sono state dette un sacco di stronzate sull'essere buoni o cattivi perché tutti si sentivano in diritto di dire la loro.

La scena si interrompe, un uomo sulla trentina si presenta sul palco, sembra spaesato. Ha la barba, gli occhi rossi e incavati, le occhiaie. Non dorme bene, o forse non dorme più.

― E tu chi sei?
― L'autore.
― Della tragedia?
― No, di queste pagine.
― E che cazzo vuoi?
― Non so come continuare. Vorrei assistere al finale.

Teo scrolla le spalle. Tanto, ormai...
Teo riprende a parlare, ormai è lanciatissimo.

TEO: E non basta! Alla fine devo anche sentirmi giudicato dagli altri. Devo sentirmi dire cosa dovrei fare e come dovrei farlo e a dirlo sono delle persone talmente insulse che non sono nemmeno sicuro abbiano trovato il loro, di ruolo. E poi ci sarebbe tutta una fauna di tipi umani o sub-umani che si pavoneggia intorno cercando di darti a bere quanto siano profondamente soddisfatti delle loro esistenze. Si prendono a braccetto con chi non sa fare altro che lamentarsi e sempre a braccetto vanno in giro battibeccando su tutto-tutto-tutto. Dio mio salvi! (il Regista sorride e fa un inchino) Non riescono a mettersi d'accordo su nulla ma non è per questo che discutono. Lo chiamano "dialogo", quando è solo polemica. Lo chiamano "confronto", quando è solo uno scontro, e nemmeno di quelli accidentali. Vogliono disperatamente prendersela con qualcuno e alla fine, alla fine di tutto intendo, su chi ricade la colpa?

Il regista lo interrompe.

― Sui cattivi.
― Esatto!
― ...
― ...
― Fammi capire, ragazzo. Vorresti sceglierti tu il ruolo?
― Io... Non lo so, credo di sì.
― Ma c'è un copione, devi seguire il copione! Ricorda il regolamento.

Teo tira fuori una pistola dalla tasca della giacca. Era sempre stata lì, lui lo sapeva, il Regista lo sapeva. Lo sapevano tutti, anche il pubblico. Anche quella donna in terza fila che ora spalanca gli occhi, sconvolta.
― In culo il regolamento.
Buio.

Mi chiamo Teo, ero un attore.
Oggi sono morto e non è stata nemmeno una bella morte. Sicuramente non come l'avevo immaginata. Non è stata nemmeno originale, ma quanto a questo prendetevela con il Regista -o con l'autore. Sognavo di andarmene con un'ultima frase straordinaria, di grande effetto. Come in certi film americani, sapete? E invece questo imbecille mi ha fatto morire con la frase di un altro. Con una frase di Danny Boodman T.D. Lemon Novecento. Il pianista, lo conoscete, no? Beh, io non sapevo suonare nemmeno il campanello. Che volete farci, quello era il copione.

Il vecchio teatro.
Applaudono tutti, mentre mi inchino. Alcuni sono addirittura in piedi. Non me lo sarei mai aspettato.
Mi chiamo Teo, ero un attore...
   
 
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