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Autore: Angye    30/10/2015    2 recensioni
"A cosa rinuncerai quando sarai costretto a scegliere: al potere, all'amore o alla vita?"
Questa è la domanda che accompagna i protagonisti della mia storia, due persone che non avrebbero mai dovuto posare lo sguardo l'una sull'altro, ma che, invece, hanno sfidato la sorte.
Ogni scelta, ogni azione, ogni sogno ha un prezzo; Angelica e Mikey lo scopriranno a loro spese.
Terza classificata e vincitrice del premio "Miglior Personaggio " nel contest "Romeo e Giulietta: un amore impossibile" indetto da Aurora_Boreale sul forum di efp
Genere: Storico | Stato: completa
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Il Novecento
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Nick: Angye (Angyefp)
Titolo: “Una sola notte ancora, Angelica.”
Lunghezza:  12135 parole.
Rating: Arancione
Genere: Storico
Beta reading: nessuno.
Angolo autrice: alla fine della storia, contenente alcune precisazioni.

 
                                                         
                                                              

 
 
 
 
Sigari, whiskey e musica jazz.
Potevano riassumersi in quel modo la maggior parte delle serate a cui prendeva parte; lei, ornamento e cimelio, quasi più preziosa dell’anello d’oro e diamanti che spiccava al dito di suo padre.
Anche quella sera affiancò l’uomo nello sfarzoso e solenne ingresso al Colosimo’s Restaurant.
Suo padre varcò la soglia con un sigaro tra le labbra sottili e la mano di lei, superba, altezzosa e bellissima, poggiata nell’incavo del gomito.
Una manciata di uomini li avevano preceduti, com’era richiesto alla sicurezza di un uomo del suo calibro, e un’altra dozzina li attendeva di fuori, distribuito equamente tra marciapiedi, vicoli laterali o posteriori, e Cadillac, pronte a una fuga precipitosa.
Un’altra donna, meno appariscente e dalle labbra esageratamente pronunciate, che le erano valse una serie di soprannomi tra i più volgari, seguiva la coppia tenendosi a qualche passo di distanza.
Suo padre avanzò sicuro, spavaldo, impeccabile nello smoking nero, scese i tre gradini coperti dalla moquette rossa e attese che lei facesse lo stesso.
La fanciulla si prese tutto il tempo di posare delicatamente la mano, guantata fino al gomito, sulla balaustra di legno, come se fosse disgustata all’idea di sfiorare qualcosa che non fosse oro zecchino e, sensuale, scese gli scalini senza mai distogliere lo sguardo dalla parete di fronte a sé, da dove uno specchio, lungo e sottile, le rimandava la propria immagine flessuosa.
Immediatamente, Jim Colosimo li raggiunse, salutando ossequiosamente, e, con un cenno galante della mano, indicò la stanza attigua da cui giungeva il cicalare allegro delle signore.
- Miss Angelica, il tavolo migliore l’aspetta. – disse.
Lei gli rivolse uno sguardo sprezzante, superando lui e il padre senza pronunciare una parola; l’altra donna, Mary, le fu subito dietro dopo aver fatto un rapido cenno di commiato agli uomini.
- Una gattina nervosa, hm. – commentò Big Jim, poco furbamente.
L’altro uomo non rispose, si limitò a lanciare un’occhiata d’avvertimento a Colosimo che si affrettò a sollevare le mani in segno di resa.
- Scusate, è il whiskey. – balbettò, pallido in volto.
Se c’era qualcosa di cui la malavita di Chicago era perfettamente informata, era di sicuro l’amore sconfinato e la gelosia ossessiva che l’uomo nutriva per la propria figlia.
Più della sua ferocia, della crudeltà, del sadismo e dell’abilità nel mantenere, per anni, il controllo sul traffico clandestino di armi e alcolici, di Al Capone, i nemici, ricordavano del trattamento riservato a chiunque avesse osato alzare gli occhi su Angelica.
Poiché nessuno, mai, aveva o avrebbe osato alzare su di lei un dito, fosse stato anche per porgerle un fiore.
Mentre precedeva Al Capone dietro il palco, su cui suonava la band e dal quale si apriva una porta di legno, sbarrata da diverse serrature e sorvegliata da quattro uomini dall’aria poco amichevole, Big Jim si augurò che il boss dimenticasse alla svelta le sue parole.
 
 
 
Michael “Mikey” Rizzo fece il suo ingresso seguito da una manciata di uomini e, immediatamente, raggiunse la porta dietro il palco, dove Colosimi lo stava aspettando.
Non mancò di notare, tuttavia, la figura che sedeva oltre le tende di broccato rosso, sulla destra del locale.
Angelica Capone faceva oscillare in una mano il bicchiere di champagne e, con l’altra, giocherellava con il collier di diamanti che le ornava il collo sottile.
Fu un istante, breve e tanto rapido da sembrare frutto di un sogno, e i suoi occhi bruni si fissarono in quelli di Mikey e le labbra carnose, tinte di ciliegia, abbozzarono appena un sorriso.
Mikey proseguì dritto, serrando la mascella e sistemando il cappello sui capelli biondo scuro.
- Quel pezzo di merda di Agente del Tesoro. – si limitò a dire a Big Jim, mentre assieme varcavano la soglia e attraversano un corridoio lungo e stretto, oltre che male illuminato, scortati da uomini di fiducia che avevano il compito di sorvegliarli e sorvegliarsi a vicenda. Raggiunsero una seconda porta alla quale bussarono in codice.
L’interno era saturo di fumo e puzzo di sudore mischiato a whiskey.
Una dozzina di uomini sedevano distribuiti tra i tre tavolini presenti, ricoperti di velluto verde, intenti a fumare e giocare d’azzardo.
Al loro ingresso, tutti accennarono ad alzarsi e tolsero i capelli in cenno di rispettoso saluto.
Attraversarono la sala sorridendo alle cameriere strizzate in abiti aderenti e quasi trasparenti, e raggiunsero il bar, dove sedettero nell’angolo più appartato.
- Mr Rizzo, ossequi. Il solito? – il barista, gettandosi un fazzoletto sulla spalla.
- Il solito. – annuì Mikey, posando il cappello sul tavolo e sfilando la giacca.
La camicia di seta bianca spiccava in contrasto con la carnagione olivastra, le bretelle e la cravatta color cenere si sposavano perfettamente agli occhi quasi grigi.
Mikey era un bell’uomo di quarant’anni, ancora in forma, proprio come quando aveva messo piede in quel locale la prima volta.
Big Jim, invece, era in sovrappeso, aveva perso gran parte dei capelli e un velo di sudore gli impregnava costantemente la fronte e gli angoli delle labbra.
Sorseggiarono dai rispettivi bicchieri in silenzio, ascoltando il brusio di sottofondo dei giocatori e il rumore dei passi degli uomini di guardia che risuonavano sul parquet.
Svizzero come un orologio, Johnny Torrio si affiancò a Colosimo e gli borbottò qualcosa all’orecchio, rivolgendo a Rizzo un secco cenno di saluto.
- La sala privata è pronta. – lo informò Big Jim, alzandosi.
Mikey diede fondo al suo whiskey e si alzò anche lui, infilando la giacca e lanciando uno sguardo a Vince “Falco” Misura, suo braccio destro e uomo più fidato, che annuì impercettibilmente.
Big Jim fece strada passando dietro al bancone del bar, seguito da Mikey, Johnny e Vince.
Entrarono in una seconda stanza, più piccola, che ospitava un tavolo con tre posti a sedere, sul quale troneggiavano mazzette di denaro e alcuni fogli chiusi in una cartellina.
Seduta con le spalle rivolte alla parete, si stagliava la figura massiccia di Al Capone, ai cui lati se ne stavano due uomini armati di fucili mitragliatori.
Big Jim e Mikey slacciarono le fondine delle pistole, svuotarono le tasche dai coltellini e i machete e lasciarono che un terzo uomo li perquisisse rapidamente.
A un cenno di assenso di Capone, questi uscì, chiuse la porta e si sistemò nel mezzo tra  Johnny e Vince a guardia della porta.
- Sedete, sedete. – li invitò Capone con un gesto della mano.
I due uomini si accomodarono in silenzio, ben consapevoli che esordire in qualsiasi modo sarebbe stata una mancanza di rispetto nei confronti del boss.
- Lavoriamo assieme da quanti anni, ormai, dieci? – disse Capone, parlando nel solito tono strascicato e saggio. – Voi mi conoscete, sapete che uomo sono. – aggiunse, con convinta modestia. – Un uomo d’onore, prima di ogni cosa, un padre, un marito e un uomo di chiesa, soprattutto. – continuò.
- Vedete, quand’ero un bambino feci un sogno, sognai che stavo in piedi, sopra a una torre d’oro e che tutti stavano sotto di me, pure il prete della mia chiesa. Allora capii, capii che quello era un segno di Dio, che Dio stava parlando con me, mi stava indicando la strada. –
Mikey contrasse impercettibilmente la mascella e Big Jim si asciugò il sudore dalla fronte.
Al Capone fece schioccare le dita e l’uomo alla sua destra gli infilò un sigaro tra le labbra, e poi scattare un accendino d’oro di fronte al viso.
- E allora, se è Dio che mi ha indicato la strada, è anche Dio che mi spinge a prendere certe decisioni, necessarie per mantenere l’ordine, no? – fece, afferrando il sigaro tra il pollice e l’indice.
Gli altri due tacquero, limitandosi ad annuire vagamente.
- Esatto, è proprio così. – affermò Capone, allargando le braccia. – E allora, è arrivato il momento di risolvere un problema diventato troppo… - smise di parlare, come se fosse alla ricerca delle parole giuste da usare. - … fastidioso. – aggiunse. – Del resto, è Dio che mi ha scelto e non posso certo permettere che un pezzo di merda figlio di puttana qualunque venga a dettare legge a casa mia, no? – fece, retorico.
Mikey e Big Jim assentirono.
- Esatto, esatto. – annuì Capone. – E’ deciso. Domani notte. Organizzate gli uomini come stabilito e che sia una cosa pulita. – ordinò, alzandosi.
Mikey e Colosimi seguirono a ruota, mentre Capone girava attorno al tavolo e si avviava alla porta.
- E adesso andiamo a divertirci; ho visto Mary “bocca di burro” in giro, no? – rise il boss, varcando la soglia.
A Mikey e Colosimi furono riconsegnate le armi e tutti e tre gli uomini tornarono nella sala principale del ristorante, raggiungendo il privé dove se ne stavano le signore.
Capone si accomodò nel mezzo del tavolo d’onore e si poggiò contro l’imbottitura dello schienale.
La musica riempiva l’aria, alcune signore danzavano, i bicchieri tintinnavano poiché sostituiti in continuazione.
Angelica si muoveva sinuosa, al ritmo di blues, facendo oscillare i fianchi stretti nell’abito rosso scuro e giocando con i lunghi capelli corvini.
Nessuno osava avvicinarsi a lei, nessun uomo la sfiorava, perfino i camerieri avevano accortezza di passarle a qualche metro di distanza.
Mikey sedeva di fronte alla pista, gli occhi fissi su di lei nascosti dal bicchiere colmo, le labbra e i pugni stretti.
Angelica danzava, danzava sempre, anche nei suoi ricordi e nelle sue fantasie.
Il braccio di Al Capone si posò sulle spalle di Mikey, facendolo sussultare e l’alito che sapeva di liquore lo colpì in piena faccia.
- Vedi, Mikey, devi imparare che esistono due tipi di donne: quella da sposare e quelle da scopare. – esordì. – Tu hai scelto di sposare una donna da scopare. – aggiunse. – Questo non significa, però, che tu possa scopare una donna da sposare, mi capisci? – chiese.
Un brivido gelido corse lungo la schiena di Mikey che annuì, solenne, allontanando gli occhi dalla porcellana che era la pelle di Angelica.
- Non prendertela: le puttane sanno come incastrarti. –
Capone gli batté una pacca sulle spalle, prima di alzarsi e raggiungere sua figlia.
 
 
 
Elise non era una puttana.
Probabilmente era la donna più onesta e timorata di Dio che avesse mai conosciuto.
E non l’aveva incastrato, proprio no.
Si conoscevano fin da bambini, quando, per tacitare i morsi della fame, rubavano assieme le mele e le scatolette di carne secca dai negozi, aiutandosi a vicenda.
Elise andava sempre in chiesa, dopo, a chiedere perdono a Dio.
Suo padre aveva lasciato la famiglia pochi anni dopo la sua nascita e così, quando sua madre era morta alcolizzata, sua sorella più grande le aveva ficcato in mano qualche banconota ed era sparita assieme al tizio con cui stava allora, lasciandola completamente sola.
Elise aveva sedici anni e nient’altro che un viso grazioso, con grandi occhi verdi e labbra sottili.
Mikey, che all’epoca aveva diciannove anni ed era innamorato di lei fin da bambino, l’aveva sposata e messa incinta nel giro di un anno, mantenendo entrambi facendo l’apprendista di un barbiere a Chicago.
Barbiere che, qualche anno dopo, sarebbe diventato l’unico a curare niente meno che la figura di Al Capone.
Così, Mikey si era avvicinato al mondo della malavita, cominciando come semplice porta buste e facendo carriera nel corso degli anni.
Vent’anni dopo, eccolo lì, seduto nel lussuoso appartamento che aveva comperato in contanti, con sua moglie sopra di lui, ancora graziosa, intenta a donarglisi completamente per appagarlo, mentre i loro tre bambini erano da qualche parte, fuori città, assieme alla tata.
Eppure, Elise non era Angelica.
Quella consapevolezza lo irritò profondamente, spingendolo ad afferrare le natiche di sua moglie e invertire le posizione, spingendola contro la stoffa morbida del divano e immergendo il viso nel cuscino.
La possedette con violenza, rabbioso, affamato del corpo e dell’animo di una donna che sapeva di non poter avere.
Mikey non era un idiota, anzi, la sua intelligenza era tenuta in grande considerazione dai suoi soci e perfino da Capone in persona.
Sapeva bene che Elise non aveva nulla da invidiare ad Angelica: era dolce, materna, comprensiva, paziente e possedeva una grazia innata e delicata.
Angelica era capricciosa, volubile, testarda e prepotente, orgogliosa e vendicativa, oltre che sensuale e bellissima.
Ed era intoccabile, come il più profano dei peccati.
E lui si era macchiato di colpe indicibili che, se rivelate, lo avrebbero condannato all’Inferno.
 
 
 
La prima volta che l’aveva vista, Angelica aveva quindici anni ed era tornata in America per le vacanze estive.
Mancava da Chicago da otto anni, ormai, e appariva fuori luogo nel chiassoso giardino dell’immenso ristorante di proprietà dei Capone a New York. 
Seduta al tavolo d’onore, nel mezzo tra sua madre, Mae, dalla quale aveva ereditato i capelli corvini e la pelle chiarissima, e sua zia, Rosa, scrutava con occhi spenti gli uomini armati a guardia del cancello.
Mikey, che all’epoca aveva da poco passato i trent’anni ed era un giovanotto affascinante e dai modi galanti, aveva avvertito quegli occhi posarsi su di lui in più di un’occasione, durante i festeggiamenti.
Era stata la prima volta in cui si era reso conto di essersi completamente dimenticato di Elise, rimasta a casa poiché obbligata a letto dalla seconda gravidanza, la più difficile.
Quando, al calar della sera, Angelica aveva espresso al padre il desiderio di tornare a casa, poiché stanca e desiderosa di andare a letto, Mikey si era immediatamente offerto di farle da scorta.
In quel particolare frangente, Al Capone era ai ferri corti con Dean O’Banion e temeva che il ritorno di Angelica rappresentasse l’occasione perfetta per rappresaglie e attentati; così, lavorando d’intelligenza, aveva assentito affinché fossero gli uomini di Mikey a scortare Angelica (e Mae) presso una delle ville di sua proprietà a New York.
Secondo Capone, O’Banion avrebbe ritenuto impossibile che il boss affidasse la sicurezza della propria figlia a qualcuno che fosse meno del suo uomo più fidato e, quindi, gli uomini del suo rivale avrebbero di certo seguito le sue Cadillac, lasciando via libera alla banda di Mikey, all’epoca ancora semi-sconosciuto nel mondo della criminalità.
Angelica era salita a bordo dell’auto e Mikey le si era accomodato accanto, mentre Vince Misura occupava il posto accanto all’autista, armato e vigile.
Erano partiti non appena la notte era calata e, durante tutto il viaggio, Angelica non aveva mai distolto gli occhi tristi e furenti dal finestrino.
- Siete contenta di essere a casa, Miss Capone? – le aveva chiesto Mikey, senza potersi impedire di rivolgerle la parola.
Quella bambina – poiché solo tale poteva essere definita – aveva la capacità di suscitare un disagio e un imbarazzo indicibili in uomini adulti e pieni di esperienza, come lui.
Vi era qualcosa nel suo modo di scrutare, nella grazia con cui si muoveva, nella curva perfetta che le labbra disegnavano, sorridendo senza gioia, che avrebbe incantato anche il più cieco degli esseri umani.
Lei si era voltata, lo aveva studiato per un momento e, con un sorriso malizioso, si era morsa le labbra carnose, sollevando piano le spalle.
- Questa non è casa mia. – aveva risposto, indicando le strade umide e buie di New York.
Mikey, che aveva seguito con particolare attenzione il modo in cui la stola di seta color polvere era scivolata oltre le spalle nude, aveva deglutito.
- Intendevo in America, Miss Capone. – 
- Io sono Angelica, Angelica e basta. – aveva ribattuto, forse offesa, forse divertita.
Mikey aveva incrociato le braccia. – D’accordo, Angelica. – aveva assaporato quel nome, tanto etereo e puro, come un giglio posato su una montagna di sterco; col tempo, avrebbe capito che Angelica era proprio quello: un fiore immacolato, sbocciato nella merda più fangosa.
L’auto aveva sgommato in curva, Vince Misura era scattato, allerta, fissando gli occhi piccoli e scuri dritto di fronte a sé.
- Problemi? – aveva chiesto Mikey, ansioso, sporgendosi in avanti.
Angelica, al suo fianco, aveva mantenuto una calma stoica e serafica, anzi, gli era parsa quasi speranzosa, come se non attendesse altro che finire vittima di una regolazione di conti tra bande.
A distanza di anni, imparando a conoscerla e pur amandola perdutamente, Mikey non sarebbe mai riuscito a comprendere quel lato oscuro del suo animo, quella parte di lei che, in quella macchina, aveva bramato la morte.
- Solo uno stupido gatto. – aveva risposto Misura, tornando a poggiare la schiena contro il sediolino.
Mikey aveva ripreso a respirare e, sbirciando Angelica, aveva scorto la delusione nei suoi occhi.
- Avete avuto paura, Angelica? – le aveva chiesto, già consapevole di quale sarebbe stata la sua risposta.
La risata cristallina della ragazza, tuttavia, non aveva niente a che fare col comportamento sicuro e altezzoso che ostentava.
Era come zucchero fuso, dolce e caldo, e Mikey aveva quasi potuto assaporarne l’essenza.
- Non ho paura di morire. – aveva risposto, tamburellando con le dita sulle gambe sottili.
- Siete coraggiosa. – 
Angelica lo aveva guardato e, nei suoi occhi, Mikey aveva scorto un fuoco e una determinazione che lo avevano spaventato: erano lo specchio perfetto degli occhi di Capone, sadici e vendicativi.
- Ho solo paura di non morire in modo sufficientemente plateale, in modo che i sensi di colpa tormentino mio padre per l’eternità. – aveva aggiunto, in un sussurro gentile.
Mikey non aveva detto più niente, non una parola, fino a quando non erano giunti alla villa e, con mano delicata, senza quasi sfiorarla, l’aveva aiutata a scendere dall’auto e l’aveva consegnata nelle mani degli uomini di Capone.
Il cancello dorato si era chiuso sul viso distaccato di Angelica, ma il tremito, celato ai più, non era passato inosservato a Mikey.
Rinchiusa, prigioniera, invisibile. Angelica.
 

 
 
Lasciò Elise addormentata sul divano e si diresse alla porta del salotto, alla quale Vince Misura aveva bussato.
Pistola alla mano, Mikey aggrottò le sopracciglia. – Che c’è? – chiese.
Il suo braccio destro si fece da parte e lasciò che vedesse la figura sottile che si stagliava alle sue spalle.
Angelica sorrise, stringendosi nel cappotto nero che a malapena copriva l’abito scarlatto.
Mikey sgranò gli occhi, afferrò il soprabito e si precipitò fuori.
- Che diamine ti è venuto in mente? – le chiese, prendendole un braccio e guidandola verso l’altra ala della casa.
La presa sulla sua pelle, dapprima ferrea e nervosa, si fece preso dolce e carezzevole.
- Avevo voglia di vederti. – rispose Angelica, intrecciando le dita con le sue. – Mi sei mancato moltissimo in queste due settimane. – aggiunse, seguendolo.
Si riferiva ai giorni in cui Mikey, in quanto uomo della gang di Capone, aveva dovuto recarsi a New York per svolgere affari per conto suo; poiché era rientrato solo quella sera, non era stato possibile per loro vedersi senza destare sospetti.
Il fatto, poi, di non aver potuto nemmeno scambiare un semplice “ciao”, qualche ora prima al Colosimo’s Restaurant, li aveva turbati profondamente entrambi, anche se Angelica, più impulsiva e ribelle, non si era fatta problemi a precipitarsi da lui.
- Qualcuno l’ha seguita? – domandò Mikey a Vince, che camminava dietro di loro, a debita distanza.
L’uomo scosse il capo. – Noteranno la sua assenza. – commentò.
Mikey sapeva che il braccio destro aveva ragione: Capone si sarebbe presto accorto che la sua preziosissima, unica figlia fosse sparita da sotto al suo naso.
- Prepara l’auto, la riportiamo a casa. – ordinò a Misura che, deviando a destra, sparì.
Angelica, imbronciata, si lasciò condurre in uno dei salotti e si accomodò accanto al fuoco acceso; quando si comportava a quel modo, divenivano evidenti i suoi vent'anni.
- Non voglio tornare a casa. – protestò, scuotendo i capelli lunghi con fare affascinante.
Mikey, che stava sistemando la fondina della pistola, non poté fare a meno di rimanere incantato dalle ombre che le fiamme, ondeggiando, disegnavano sulla pelle di porcellana.
- Angelica, hai fatto una stronzata vendendo qui, stanotte. – le disse, imponendosi di non lasciarsi distrarre dal corpo sinuoso e la voce sensuale di lei.
- Tuo padre mi ha detto qualcosa di strano, stasera, come se si fosse accorto di come ti guardo e, di certo, mi terrà d’occhio. – spiegò.
Intanto, Angelica si era alzata e aveva preso a camminare elegantemente lungo la stanza, quasi scivolando sul parquet e carezzando con le dita sottili le fotografie in bianco e nero fissate alle pareti.
- Dobbiamo fare attenzione, per qualche settimana, magari un paio di mesi. – aggiunse Mikey, mentre lei lo raggiungeva, gli occhi bruni fissi nei propri, le labbra imbronciate.
Mikey aveva imparato che, quand’era infelice, Angelica era capace di rendere la vita impossibile anche al più pio degli uomini e, soprattutto, era letale e vendicativa, proprio come il padre.
La sua avanzata minacciosa parve rallentare quando un’ombra di insofferenza si palesò negli occhi dell’uomo.
- Non vuoi più stare con me? – gli chiese, diretta e confusa, quasi spaventata.
Si era fermata a qualche passo da lui, una mano sollevata, pronta per sfiorargli il viso, tremante.
Mikey non poteva mentirle, lo sapeva: non sarebbe mai stato in grado di ferire Angelica, non riusciva a immaginare che lei si sentisse infelice, insicura, abbandonata, a causa sua. L’ascendente che avevano l’uno sull’altra non avrebbe potuto essere più evidente: lei non era capace di trattarlo come tutte le altre persone della propria vita, manipolandolo e rendendolo infelice e lui, al contempo, non era in grado di farla soffrire, di deluderla, sebbene ne andasse della propria esistenza.
Le afferrò la mano, annullando la distanza tra loro attirandola a sé e, abbracciandola, le sussurrò tra i capelli: - Stare con te è l’unica cosa che voglio. – giurò.
Angelica si rilassò tra le sue braccia, si strinse a lui, aggrappandosi alla sua camicia.
Profumava di mandorle, zucchero bruciato e qualche spezia di cui Mikey non conosceva il nome.
- Mi dispiace, non volevo crearti problemi. – gli disse, riemergendo dal suo petto con gli occhi lucidi e le guance rosate.
Il suo sguardo era sincero, limpido, come raramente Mikey l’aveva visto; Angelica era solita celare il proprio stato d’animo di continuo, come se temesse che il resto del mondo potesse scorgerla per ciò che era: una fanciulla piena di sogni e speranze.
- Lo so, ma devo riportarti a casa prima che ci arrivi tuo padre. – rispose, asciugandole una piccola lacrima dalle ciglia brune e, con un movimento lento, si chinò a depositarle un bacio sulle palpebre pulsanti.
Angelica sospirò, chinando il capo. – D’accordo. – disse, facendo spallucce. - Scusami. – aggiunse, strofinando il naso contro il velo di barba che stava riaffiorando sulle guance dell’uomo.
Uscirono dalla porta posteriore mano nella mano, Mikey avvolse Angelica in un cappotto pesante e, assieme, salirono rapidamente in auto; prima ancora che chiudessero gli sportelli, Vince Misura partì a razzo.
- Capone ha lasciato il ristorante un minuto fa. – comunicò loro.
Fu una corsa frenetica, fatta di cuori che battevano all’impazzata, dell’auto che sgommava sulla strada bagnata e gocce di pioggia che si catapultavano in una cara infinita lungo i vetri dei finestrini.
Angelica posò una mano su quella di Mikey e, quando lui si volse a guardarla, si accorse della solennità che s’irradiava dai suoi occhi, dal suo contegno, dalla sua espressione.
- Non lascerò che mio padre ti faccia del male. – giurò, con voce tanto sicura che, per un istante, Mikey si chiese come fosse possibile che lei possedesse una tale forza e un tale coraggio.
Non aveva dubbi, difatti, sul fatto che, se fossero stati scoperti quella notte, Angelica avrebbe sfidato Capone e il suo impero, pur di restargli accanto.
La fortuna, paradossalmente, li scortò in quel tragitto e, benevola, concesse loro di giungere alla villa qualche minuto prima del boss.
Angelica gli afferrò il colletto della camicia e lo baciò, prima di scendere come una furia dall’auto e catapultarsi verso il cancello che fu subito aperto, incurante della pioggia e del gelo.
Quando Vince Misura ripartì sgommando, Mikey si sorprese del sapore salato che gli era rimasto sulle labbra.
 
 
 
La seconda volta che si erano visti, Angelica aveva appena compiuto diciassette anni.
Era stato durante una cena data in onore di un colpo grosso a Brooklyn che si erano ritrovati seduti vicini e avevano intavolato una conversazione vivace e stimolante.
Angelica era raffinata, colta e affettata, amava ridere e, soprattutto, amava essere ammirata.
Mikey ne era rimasto abbagliato non appena aveva posato gli occhi su di lei, intenta a scendere la scalinata curva al braccio di suo padre, vestita d’oro e con delle perle a ornarle i capelli scuri.
Quella sera, si erano intrattenuti qualche istante in giardino, ammirando i giochi d’acqua delle immense fontane, e Mikey aveva scorto nel viso affilato di quella sirena una tristezza e una rabbia che lo avevano scosso nel profondo dell’animo.
Non ne aveva compreso le motivazioni, ma quegli occhi gli erano rimasti impressi come gli fossero stati marchiati dritti sul cuore.
- Sembrate così infelice. – le aveva detto, senza sfiorarla.
Lei, poggiata contro la ringhiera della terrazza, aveva sorriso, amara. – Forse non ho motivi per non esserlo. – aveva risposto, volgendo a lui gli occhi bruni.
- Siete bella, ricca e vostro padre vi ama infinitamente. – aveva ribattuto Mikey, sorseggiando dal suo bicchiere per distogliere lo sguardo dal solco tra i seni, che s’intravedeva dalla seta leggera del vestito.
- A volte l’amore è una condanna. – aveva obbiettato lei, assottigliando gli occhi a mandorla e sfiorandosi con dita leggere la piccola cicatrice che le colorava il profilo destro del collo.
Mikey non avrebbe saputo come se l’era procurata per lungo tempo.
Dopo quella notte, difatti, Angelica era sparita per altri due anni.
Continuamente in viaggio, continuamente in pericolo, continuamente in fuga.
Era il più prezioso dei tesori di suo padre, destinataria di molti attentanti, pericolosa arma se fosse capitata nelle mani degli avversari di Capone.
Appena poco più di una fanciulla, fragile e innocente, pronta a essere sacrificata per distruggere l’impero del padre.
In molti avevano tentato di ottenere la sua mano, sugellando così l’affiliazione al clan di Capone, ma, fino a quel momento, nessuno era stato reputato abbastanza ricco, potente o all’altezza di Angelica.
Era chiaro a tutti l’amore infinito e il rispetto assoluto che il più grande gangster di Chicago aveva per quella fanciulla ed era lampante il tarlo che lo tormentava, frustrandolo e angosciandolo: la possibilità che le accadesse qualcosa a causa sua.
Se per suo figlio, Albert Capone, il boss non aveva che un vago legame affettivo dovuto alla consanguineità, per Angelica avrebbe messo a ferro e fuoco Chicago.
Del resto, Angelica era intelligente, furba e manipolativa, tanto quanto suo padre e sarebbe stata l’erede perfetta di quel mondo criminale, se Capone non fosse stato terrorizzato all’idea di vederla trapassata da centinaia di proiettili.
Quando, il Natale dello stesso anno, Angelica era giunta a Chicago, fresca dei suoi diciotto anni, più bella di quanto non fosse mai stata, più furiosa di quanto fosse pensabile per una donna, Mikey non aveva potuto fare a meno di innamorarsi di lei.
E la sua caduta era cominciata nel giorno della nascita di nostro Signore.
 

 
 
Capone scese dalla Cadillac e, passando attraverso un corridoio interno al garage, giunse direttamente in casa.
Immediatamente fu accerchiato dalle cameriere, che lo liberarono della giacca, del cappello e lo seguirono in salotto, portando un vassoio con whiskey e sigari.
Furono tutte congedate.
Rimasto solo con i suoi uomini più fidati, Capone ordinò loro di uscire e che le porte del salotto fossero chiuse.
L’unico con cui voleva parlare era Johnny Torrio.
Mentre la voce tesa dell’uomo lo informava riguardo ciò che aveva richiesto, Capone tenne lo sguardo fisso sulla brace ardente del camino sul quale, al centro, faceva bella mostra di sé una sfera di Natale.
Angelica aveva adorato il Natale fin da bambina, lo ricordava bene e, ogni volta che tornava a casa per festeggiare con la famiglia, si metteva a capo del nutrito gruppo di domestici per adornare l’intera villa.
Nonostante fosse cresciuta e profondamente cambiata – non c’era più ombra di quella bambina dagli occhi vivaci e il sorriso furbo nella glaciale donna che gli era più cara della vita stessa – quella tradizione aveva resistito e anche quell’anno la casa era stata messa sottosopra dai suoi addobbi.
Quando il Natale era passato e il momento di rimettere tutto apposto giunto, Capone aveva preteso che quell’unico ornamento restasse, cosicché, rientrando a casa, potesse posarvi gli occhi e scorgere, nella ballerina che danzava sotto la neve, la sua Angelica.
- Non farne parola con nessuno, hai capito? – chiese Capone in tono tanto violento che, di certo, Torrio non si sarebbe lasciato sfuggire nemmeno un gemito della faccenda.
- Assolutamente, Capo. –
La ballerina continuò a danzare sotto la neve di Natale.
 
 
 
La sera di Natale si erano scambiati poche parole di circostanza, sufficienti a riaccendere la complicità e l’intesa già creatasi fra loro anni prima.
Angelica era parsa inizialmente infastidita nel vederlo accompagnato da Elise, graziosa nel suo abito verde mare, poi il suo viso aveva assunto una sfumatura divertita, quasi come se stesse valutando la portata di una sfida.
Non aveva idea di aver già vinto in partenza o, forse, lo sapeva fin troppo bene.
Mentre l’orchestra giunta direttamente da Vienna intonava canti su nostro Signore, Angelica lo aveva affiancato, nascosta fino alla vita da una poltrona imbottita, e aveva strusciato un ginocchio contro la sua coscia.
Mikey aveva sudato freddo, nel vano tentativo di controllare l’eccitazione, fino a quando lei non lo aveva superato, diretta al camino, passandogli tanto vicino a sfiorarlo con un fianco.
Le sue provocazioni erano andate avanti per tutta la sera, fino a quando la cena non era finita e gli invitati si erano congedati.
Mentre usciva, Mikey aveva scorto Angelica in piedi, sotto il lampadario di cristallo, in cima all’ immensa scalinata centrale, che lo guardava con un sorriso carico di promesse.
Quella notte, si era ritrovato in giardino assieme a un pacchetto di sigarette, frustrato ed eccitato, ancora stordito dal profumo di lei.
Poi, come evocata da un raggio di luna, Angelica era apparsa di fronte al suo cancello, accompagnata da una brezza leggera e una nebbia sottile.
Era sola, priva di scorta, ancora vestita da sera e aveva il solito sorriso vivace e malizioso a colorarle il viso infantile.
Mikey si era quasi soffocato col fumo, si era affrettato a gettare la cicca e l’aveva raggiunta, facendo cenno a Vince di aprire il cancello e lasciarla entrare.
- Sei impazzita? Tuo padre ti ucciderà!- aveva esclamato, afferrandole un polso e tirandola dentro, a riparo dagli occhi indiscreti e dai pericoli della strada buia. 
Angelica aveva riso, scuotendo il capo e facendo ondeggiare i lunghi capelli neri, liberi dai fermargli che li avevano tenuti legati durante la cena.
- Mio padre non mi sfiorerebbe mai, nemmeno per sbaglio. – aveva risposto, avvicinandosi a lui con fare provocatorio.
- È incredibile, vero? Si preoccupa tanto di tenere tutti fuori, ma l’idea che qualcuno non voglia starsene dentro non gli è mai passata per la testa. – aveva osservato Angelica, facendo vagare lo sguardo sul giardino, la casa, il vialetto, girandogli intorno come fosse stato una preda e lei la cacciatrice.
Mikey aveva lanciato uno sguardo allarmato a Vince e lui si era dileguato, portando con sé gli altri due uomini di guardia di piantone al cancello principale.
Angelica si era fermata ad un fiato da lui, la pelle più candida della neve, le labbra rosse di freddo, gli occhi luminosi e ribelli.
- Tu, invece, sarai in grave pericolo se lascerai che io ti baci. – lo aveva avvisato, gettandogli le braccia attorno al collo, senza avvicinarsi ancora.
Era apparsa adulta e sensuale, mentre gli poneva davanti la più grande delle verità, eppure, nascosti dalle lunghe ciglia scure, i suoi occhi avevano brillato di una fragilità infantile.
Era chiaro che non stesse scherzando e, col tempo, Mikey avrebbe anche scoperto che, in passato, quella minaccia si era già concretizzata.
Quando Angelica aveva avuto diciassette anni e frequentato un collegio femminile in Italia, si era invaghita del suo professore di musica, un giovane fresco di accademia.
Non era mai accaduto nulla tra loro, il loro amore era stato platonico, basato su lettere e casuali sfioramenti di mani in corridoio o durante le lezioni.
Angelica aveva imparato a suonare il piano, strumento preferito di suo padre, e il giovane aveva composto una melodia per lei.
Per quella fanciulla, cresciuta come un’emarginata a causa della propria famiglia, rinchiusa e privata dell’essenza stessa della vita, quell’uomo, unico amico in un mondo estraneo e diffidente, era stato la prima vera gioia della vita, che le aveva ridato speranza nelle persone e convinta che, forse, lei non era destinata a un’esistenza di sofferenza e solitudine.
Ciò che la ragazza non avrebbe mai immaginato, era che suo padre avesse insinuato delle spie anche nel collegio e che, quella tenera amicizia, era stata descritta nei minimi dettagli ad Al Capone.
Quando, un mattino, Angelica aveva messo piede nell’aula di musica, aveva trovato il giovane insegnante riverso sul pianoforte, con la bava alla bocca e gli occhi sbarrati.
Era stato avvelenato e, sebbene non ne avesse avuta alcuna prova, Angelica aveva compreso perfettamente chi fosse stato il colpevole e quale avvertimento si celasse dietro l’accaduto.
Non doveva e non poteva innamorarsi, non sarebbe mai appartenuta a nessun uomo, poiché apparteneva a suo padre e alla malavita di Chicago.
Mikey le aveva afferrato il viso con entrambe le mani, premendo la fronte contro la sua e respirando a grandi boccate; il suo profumo era parso fuoco nelle sue narici, come se la sola presenza di Angelica fosse stata sufficiente a far divampare un incendio dentro di lui.
- Non voglio costringerti a correre il rischio, non sono così egoista. – aveva aggiunto lei, la voce meno ferma e una promessa di pianto negli occhi.
Mikey l’aveva baciata tuffandosi letteralmente su di lei, stringendosela addosso, infilando le mani tra i suoi capelli.
Angelica si era aggrappata a lui, più fragile di quanto avesse creduto d’essere, bisognosa di calore e amore disinteressato.
Avevano fatto l’amore in giardino, la notte di Natale, sotto e sopra la neve, con le labbra viola per il freddo e la paura che Capone in persona, accortosi della sparizione della propria diletta, avrebbe potuto cercata, trovata con lui e ucciso entrambi senza pietà.
Angelica era vergine e il suo candore aveva macchiato la notte di scarlatto.
 
 

 
Mikey rientrò a casa zuppo di pioggia e si diresse direttamente in bagno.
Passando in camera da letto, scorse la sagoma di Elise, sveglia, tra le coperte.
La donna gli sorrise, speranzosa che il marito dormisse si coricasse accanto a lei, ma Mikey proseguì oltre e, rispettosamente, Elise non disse nulla né lo seguì; si limitò, invece, a spegnere il lume sul comodino e girarsi dalla parte opposta.
Mikey si gettò sotto la doccia calda, con i muscoli rigidi di tensione e l’ansia ancora a contrargli le viscere: avevano rischiato moltissimo, quella sera.
Angelica era stata avventata, sciocca, eppure più coraggiosa di lui che, pur sentendo lo stesso spasmodico bisogno di vederla e stringerla, non aveva avuto il fegato di rischiare.
La situazione era giunta a un bivio, a un punto critico dal quale non potevano più tornare indietro.
Mikey amava Angelica, l’amava tanto perdutamente che avrebbe rinunciato a qualsiasi cosa per lei, che fosse il potere, la ricchezza o la vita stessa.
Un altro ricordo lo strappò violentemente ai suoi pensieri.
 
 
 
Erano riusciti ad andare a teatro, uno dei passatempi preferiti di Angelica e avevano assistito a una rappresentazione drammatica.
Una frase in particolare, recitata da uno dei diavoli tentatori, aveva colpito entrambi:
- “A cosa rinuncerai, quando sarai costretto a scegliere: al potere, all’amore o alla vita”? – aveva chiesto al baldo protagonista, che vegliava il corpo  dell’amata morente, impugnando la spada che lo avrebbe reso il più forte tra  gli uomini, mentre l’esercito nemico avanzava contro di lui, inarrestabile.
 
 
 

Mikey posò la fronte contro le piastrelle della doccia, lasciando che l’acqua bollente gli scorresse lungo le spalle e la schiena.
Era giunto il momento, lo sapeva: dovevano prendere una decisione, non c’era più tempo.
Il loro amore era divenuto troppo appassionato, indomabile, folle, per essere celato.
Ogni cosa era già stata sistemata da settimane, perfino i bambini sarebbero stati al sicuro, non appena lui avesse dato il via a tutto.
Doveva solo prendere la decisione di agire.
Mikey sapeva di volersi prendere cura di Angelica, del suo purissimo animo e del suo cuore eternamente infantile per il resto della vita.
Nessuno le avrebbe fatto mai del male, soprattutto non la sua famiglia, come aveva già fatto in passato.
 
 
 
Aveva scoperto la provenienza di quella cicatrice sul collo una notte, mentre se ne erano stati abbracciati tra le lenzuola disfatte di una casa che Mikey aveva acquistato un anno prima, con l’intenzione di ristrutturarla e farne una seconda abitazione.
I mesi successivi alla notte di Natale avevano cercato di stare attenti e non dare nell’occhio e, inoltre, avevano dovuto combattere contro loro stessi.
Angelica, difatti, pur mostrandosi sicura di sé, indifferente alle regole e alle imposizioni sociali, era fortemente rispettosa del legame del matrimonio e non perdonava a se stessa di essersi innamorata di un uomo sposato.
Avevano perfino cenato assieme, una sera, scortati da Vince e nessun altro, poiché unico uomo totalmente affidabile: se qualcuno li avesse visti insieme, Mikey si sarebbe ritrovato con un blocco di cemento ai piedi diretto a fare da mangime per i pesci.
“L’incidente” era accaduto quando Angelica aveva appena sette anni e Albert Capone ne aveva circa dieci.
La preferenza spudorata del padre per Angelica aveva esasperato il ragazzino, stanco di sentirsi sempre il secondo, che aveva ben pensato di provare a liberarsi della sorella una volta per tutte.
Il seme della follia si era fatto strada presto in Albert e, per fortuna, Mae Capone l’aveva intuito fin da subito, così da dare ordini affinché Angelica non fosse mai lasciata sola a lungo.
Una delle cameriere era rientrata nella stanza della bambina mentre Albert, tenendola per i capelli, le ficcava il taglierino, che suo padre gli aveva regalato a Natale, nella carne.
Qualche giorno dopo essersi ristabilita, Angelica era stata separata definitivamente dal fratello che, fino a quel momento, aveva amato incondizionatamente.
Poiché Albert era destinato a essere l’erede di Capone, era necessario che rimanesse vicino al padre, imparasse e si facesse un nome nel mondo della malavita di Chicago.
Così, fu deciso che sarebbe stata Angelica quella da allontanare dalla città.
La bimba fu spedita da alcuni parenti in Italia, da cui fu trattata benissimo, ma alla stregua di una prigioniera.
Non le era consentito giocare con gli altri bambini né tantomeno andare a scuola o in chiesa.
Gli insegnanti privati la seguivano a casa e la sua unica compagnia erano le cameriere o il prete che arrivava puntuale ogni Domenica.
Angelica, che aveva sempre posseduto un animo ribelle, artistico, vivace, si era ritrovata in una gabbia dorata a causa del proprio padre, del proprio fratello e della propria famiglia.
Quando aveva compiuto undici anni, era stata iscritta al collegio femminile dal quale non aveva mai messo piede fuori fino al compimento dei diciotto anni.
La voce di Angelica, sempre squillante e sarcastica, si era abbassata di tono ed era divenuto un sussurro dolcissimo, mentre gli raccontava, nascosta contro il suo collo, di quanto si era sentita sola, poiché le altre ragazze erano spaventate dalla sua famiglia e non si erano mai lasciate avvicinare.
Orgogliosa Angelica, che aveva detestato i suoi professori, poiché le avevano sempre regalato il massimo dei voti solo in virtù del cognome che portava, proprio a lei, che aveva desiderato mettersi alla prova e testare i suoi limiti.
Testarda Angelica, che aveva rubato un cavallo e si era gettata in una cavalcata quasi suicida, all’età di quindici anni, poiché, per timore che si ferisse, le era stato impedito di praticare qualsiasi sport, e che aveva condannato a morte, con quel suo gesto sconsiderato, lo stalliere del collegio che aveva convinto ad aiutarla sfruttando l’infatuazione che aveva per lei.
Dolce Angelica, che si portava addosso i sensi di colpa di tutte le vite che erano state rovinate da lei, dal suo desiderio di vivere come una persona normale, di innamorarsi e avere dei figli, di nuotare libera nel mare cristallino o passeggiare per le strade pittoresche della città.
- Tuo padre acconsentirà a farti sposare, prima o poi. – la aveva detto un giorno all’alba,  amaro, dopo che lei gli aveva preparato una torta per festeggiare, in ritardo, il suo compleanno.
Mikey non avrebbe sopportato la visione di lei, bellissima e eterea, all’altare, intenta a giurare la propria vita, il proprio corpo, la propria anima a un altro uomo, eppure, pur di saperla felice, si sarebbe ficcato due lame ardenti negli occhi e sarebbe rimasto in silenzio, se mai, un giorno, Capone avesse deciso di lasciarla a qualcuno.
Angelica aveva sorriso e quel velo di tristezza le aveva di nuovo incupito lo sguardo.
- Se mai dovesse accadere, sarà solo per affari. – aveva risposto. – E, allora, mi getterò dal ponte senza rimpianti né paura. – aveva aggiunto, tanto solenne, determinata e rabbiosa che Mikey era sussultato.
Sapeva che non stava mentendo, aveva imparato a credere a ciò che diceva, poiché Angelica non aveva mai paura di dire ciò che pensava, consapevole che nessuno avrebbe mai osato contraddirla.
- Angelica! Non dire queste stronzate!- aveva esclamato, lasciando cadere il vassoio e afferrandola per le spalle per scrollarla violentemente.
La colazione si era riversata sulle lenzuola e il caffè gli aveva scottato le gambe.
Lei aveva cominciato a singhiozzare e si era gettata contro il suo petto, rannicchiandosi come una bambina.
- Non potrò mai sposare te. Non potrò mai avere un figlio da te. Non sposerò mai qualcuno che non amo. – aveva detto, mentre Mikey le stringeva le braccia attorno e le posava baci delicati sul capo.
Era la verità, lo sapevano.
Mikey era sposato, di fronte a Dio aveva giurato di rimanere legato fino alla morte a un’altra donna.
Al Capone, uomo profondamente cattolico, l’avrebbe scuoiato vivo, se avesse immaginato che aveva infangato la purezza di sua figlia, lui, un uomo sposato.
E, se anche Mikey fosse stato libero, Angelica non sarebbe mai stata sua.
Era chiaro a tutti che Capone non avrebbe mai concesso sua figlia a nessuno, poiché la considerava alla strenua della Vergine Maria, sacra e intoccabile.
Mikey era certo che Capone avesse dato ordini a proposito, anche per quanto riguardava ciò che sarebbe dovuto accadere dopo la sua morte: Angelica avrebbe vissuto, protetta e immacolata, fino a quando un colpo di pistola dritto in mezzo agli occhi non avrebbe spedito suo padre dritto al creatore; allora, qualcuno dei suoi, come già organizzato fin dal giorno della sua nascita, avrebbe riservato a lei lo stesso trattamento, affinché potesse raggiungerlo il prima possibile
- Mi dispiace per Elise, Mikey, forse dovremmo smettere. – aveva aggiunto, staccandosi da lui e asciugandosi gli occhi con la camicia da notte.
Glielo ripeteva spesso, fin dalla seconda volta che si erano amati.
Nonostante apparisse fredda e disinteressata a qualsiasi cosa o persona, Angelica era sensibile e rispettava profondamente l’amore e il vincolo tra marito e moglie.
Si sentiva in colpa per Elise, nonostante sapesse che, nel corso dei vent’anni in cui erano stati sposati, Mikey l’avesse ripetutamente tradita.
- È come se non potessi amarti davvero; quel posto nel tuo cuore spetta a lei di diritto. – gli aveva detto un’altra volta, mentre passavano assieme di fronte a una chiesa.
Fragile Angelica, condannata all’infelicità, impossibilitata ad amare l’uomo che il suo cuore aveva scelto, vittima di un gioco di potere che le aveva strappato le ali.
Era stato allora che, in Mikey, aveva cominciato a maturare l’idea di lasciare Elise, Chicago e la malavita, e scappare con lei.
Non ci sarebbe stato altro modo per poter stare insieme davvero, lo sapevano entrambi.
Angelica era parsa entusiasta e terrorizzata dell’idea: non le importava di vivere nella miseria, non le interessavano i gioielli e le case lussuose, non avrebbe sentito la mancanza di Chicago.
Gli aveva chiesto più volte se fosse sicuro, se volesse davvero lasciare i suoi figli, giurandogli che lo avrebbe capito se così non fosse stato.
- So cosa si prova a crescere senza un padre, Mikey, anche se il mio credeva di fare la cosa giusta allontanandomi. – gli aveva detto. – Non devi abbandonare i tuoi bambini per me. –
- Rinuncerei a qualsiasi cosa, per te. – le aveva risposto. – Un giorno, da adulti, li cercherò e spiegherò loro ogni cosa. - aveva aggiunto, notandone l’espressione contrariata. 
 

 
 
Il mattino seguente, Mikey e Angelica si incontrarono in casa Capone, dove era stata convocata una riunione degli uomini del bosso per perfezionare i dettagli dell’operazione prevista per qualche notte dopo.
Angelica, rimasta in uno dei salotti a fare colazione con sua madre e sua zia, finse di aver dimenticato il libro che stava leggendo in biblioteca, così da poter uscire e intravedere Mikey.
Qualche giorno prima avevano parlato, seriamente, dell’idea che frullava loro per la mente da un po’ di tempo: fuggire assieme.
Fino ad allora avevano sempre accantonato la cosa e rimandato, ma, la sera prima, qualcosa era cambiato in entrambi, scuotendoli profondamente e aprendo loro gli occhi: non sarebbero sopravvissuti a lungo perché, presto o tardi, qualcuno li avrebbe scoperti.
Così, mentre saliva rapidamente le scale, Angelica intercettò gli occhi grigi di Mikey che le parvero gridare: “Lo faremo”, mentre entrava nello studio di suo padre.
Non ebbe bisogno di ulteriori conferme né di sentire quelle parole pronunciate dalle sue labbra; Angelica era certa di ciò che Mikey aveva voluto dirle con quello sguardo.
Non si era sbagliata.
Col cuore in tumulto e le mani tremanti, si affrettò a nascondersi in biblioteca, timorosa che la gioia violenta che le divagava dentro non passasse inosservata agli occhi del resto del mondo.
 
 
 
Una volta, le aveva chiesto: - Perché io?- vittima di quell’insicurezza che solo lei gli causava.
Angelica, seduta in giardino e intenta a giocherellare con delle margherite, aveva sollevato gli occhi bruni su di lui e un sorriso dolcissimo le aveva colorato le labbra.
- Perché mi hai vista nonostante tutto. -  aveva risposto.
Mikey l’aveva scrutata, attento, allungando una mano a sistemarle un ricciolo dietro l’orecchio: non si spiegava come facesse, lei, ad avere dubbi riguardo al fatto di essere vista o meno.
Nessun uomo, sarebbe potuto rimanere indifferente d’innanzi all’insieme perfettamente armonico del viso, del corpo e dell’animo di quella donna.
- Nessuno si era mai accorto prima di quanto fossi infelice. – gli aveva detto. – Nemmeno mio padre.-  aveva aggiunto, stringendo i pugni e fissando lo sguardo lontano.
- Vedono solo i diamanti, il potere, Chicago, il mio nome e mio padre, quando mi guardano. – aveva sussurrato.
Poi, si era voltata verso di lui e, inclinando di lato la testa, timorosa come una bambina, aveva chiesto: - Tu cos’hai visto? – dolce e timida.
Insicura Angelica, come raramente gli aveva concesso di scoprirla.
Mikey si era ritrovato immerso in una miriade di ricordi.
Gli occhi tristi di Angelica, ardenti di un fuoco che Capone non avrebbe mai potuto estinguere.
La stola di seta che scivolava giù dalle spalle di Angelica, invito e tentazione.
La risata di Angelica, ipnotica, quasi come il canto delle sirene che resero folle Ulisse.
La pelle chiara di Angelica, sul cui viso l’acqua delle fontane creava giochi d’ombre ammalianti.
La voce di Angelica, miele e fiele, melodia e strido, delizia e sconcerto.
La gamba di Angelica, soffice e calda, dritta contro la sua coscia.
Il profumo di Angelica, avvolgente e inebriante.
Angelica sotto la neve, Angelica sopra la neve, Angelica immersa nella neve.
Le lacrime di Angelica, figlia in eterno, mai sposa.
Angelica.
- Ho visto tutto. – 

 
 
 
 
Angelica era entusiasta.
Erano trascorsi tre giorni, durante i quali lei e Mikey non avevano potuto incontrarsi a causa della tensione tra le fila degli uomini del boss; tutti bramavano di ricevere personalmente l’incarico di eliminare una volta per tutte Bugs Moran, diretto e più potente nemico di Capone nel controllo della città.
Quella sera, tuttavia, lei e Mikey riuscirono a incontrarsi per qualche minuto, nel giardino della villa, da soli.
Mikey appariva eccitato, emozionato e ottimista.
- Voglio farlo, Angelica, voglio scappare con te. – le disse, tenendo le mani della giovane strette tra le sue.
Nascosti all’ombra del gazebo, illuminati solo dalla flebile luci delle lanterne disseminate tra gli alberi, Angelica si ritrovò col fiato corto e il cuore che batteva all’impazzata.
Osservando gli occhi trasparenti di Mikey, ella poteva quasi guardare, come fosse uno spettacolo messo in scena appositamente per lei, il futuro che quella proposta – o promessa – apriva d’innanzi a loro.
C’erano magia, calore e luci, in quegli occhi,  e profumi che avrebbero avuto il gusto di casa.
C’erano fatica, lavoro e problemi da affrontare, e mani forti pronte a sostenersi l’un l’altra.
C’erano rughe, capelli bianchi e nipotini che correvano in giardino, e due cuori ancora innamorati.
- Oh, Signore!- esclamò a voce più alta di quanto avrebbe voluto e, immediatamente, si portò le mani alle labbra, tremante.
Mikey, intanto, si guardò circospetto attorno.
- Sei… sei sicuro? Insomma, come… come farai con Elise e i tuoi bambini… -
Cominciava a perdere sicurezza, Angelica, fossilizzata nella paura che strappare l’uomo che amava alla vita che aveva scelto avrebbe significato farsi odiare, un giorno.
Mikey lesse quei dubbi nei suoi occhi bruni e, con veemenza, le afferrò il viso, costringendo i loro sguardi a incrociarsi.
- Ti amo. – le disse, in tono tanto solenne che un giuramento di fronte a Dio non avrebbe potuto avere più valore.
Le lacrime presero a scivolare giù dalle guance di Angelica e, mentre lui le asciugava con i pollici, lei posò le mani sulle sue e sorrise, felice per la prima volta nell’intero corso della sua esistenza.
- Quando? – chiese.
Mikey le si fece più vicino. – La notte di San Valentino. – sussurrò. – Ci sarà un grosso lavoro, quella notte e si genererà grande caos e confusione. Non si accorgeranno della nostra assenza fino all’indomani. – spiegò.
Angelica, che conosceva bene gli affari del padre, non fece altre domande riguardo il “lavoro” in questione, poiché non aveva bisogno dei dettagli per sapere che altre anime si sarebbero aggiunte a quelle che la sua famiglia portava già sulla coscienza.
Mikey la strinse in un abbraccio, depositandole un lungo bacio sulla fronte.
- Grazie. – mormorò Angelica, contro la stoffa della sua giacca.
- Per cosa? –
- Per avermi dato la possibilità di vivere. –
 
 
Vivere era stata una cosa che Angelica non aveva mai sperimentato.
Sempre rinchiusa, sorvegliata a vista, controllata; ogni attimo della propria esistenza era stato o sarebbe stato organizzato da qualcun altro che, probabilmente, non la conosceva nemmeno.
Dopo i primi mesi con Mikey, per non destare i sospetti del padre, Angelica era dovuta ripartire per l’Inghilterra, dove , da quell’anno, avrebbe studiato presso l’Università di Cambridge sotto falso nome, ma sempre circondata dagli uomini del padre.
Durante i due mesi del primo bimestre di corsi, Angelica aveva sentito la mancanza di Mikey lacerarle il cuore, soprattutto a causa dell’impossibilità di sentirsi telefonicamente; le telefonate transatlantiche erano ancora difficili e limitate agli enti governativi.
Così, Angelica aveva scritto decine di lettere, stando bene attenta a rimanere sul vago, a non dire troppo, rischiando a quel modo di mettere in pericolo Mikey se una delle missive fosse stata intercettata dagli uomini di suo padre.
Le lettere erano divenute il loro unico modo di comunicar e, considerato quanto tempo occorreva affinché giungessero a destinazione, non è difficile immaginare con quanta ansia, entusiasmo e impazienza Angelica attendesse una risposta.
Quando era tornata a casa, poco prima di Natale, Angelica era stata costretta a distruggere le missive, terrorizzata all’idea che qualcuno potesse scoprirle e dar vita a sospetti di qualunque tipo.
Eppure, non avrebbe mai dimenticato nessuna delle frasi d’amore che Mikey aveva tracciato, con grafia elegante e chiara, solo per lei.
 

 
A San Valentino mancavano due giorni e Mikey trascorse quel tempo organizzando il viaggio.
Con grande accortezza, racimolò un bel gruzzolo di soldi, abbastanza per sopravvivere almeno un anno, forse due, in un qualche hotel o in un appartamento in periferia.
Acquistò nuovi abiti da mettere in valigia, cosicché Elise e i domestici non si stupissero del guardaroba d’improvviso dimezzato e invitò Angelica a fare lo stesso.
Comprò sei diversi biglietti del treno, per tre destinazioni diverse, in modo che nessuno, eccetto lui ed Angelica, avrebbero saputo di preciso dove fossero diretti, fino all’ultimo istante.
Aveva istruito Vince Misura riguardo la Notte di San Valentino, dando ordini affinché l’uomo passasse a prendere prima lui, poi Angelica e, infine, li lasciasse nei pressi della stazione.
A quel punto sarebbero saliti sul primo treno in partenza tra quelli prenotati e, da quel momento in poi, sarebbero stati liberi per sempre.
C’era, tuttavia, una cosa che Mikey sapeva di dover fare, prima di poter chiudere nettamente con il passato: dire addio ad Elise.
Certo, non in modo romantico, ma drastico.
Come Angelica, anche lui desiderava una famiglia con lei, desiderava che lei divenisse sua moglie, di fronte a Dio e al resto del mondo, desiderava che i loro figli fossero legittimi e non bastardi.
 Il divorzio, all’epoca, non era nemmeno considerabile e, così, Mikey dovette prendere una decisione dolorosa, che gli sarebbe pesata eternamente sulla coscienza.
Tuttavia, c’era dell’altro, un’altra ragione per cui Elise era un pericolo troppo grande per loro.
 
 
 
Quando Angelica era rientrata dall’Inghilterra, con una settimana di anticipo, l’ultima lettera che Mikey le aveva scritto era rimasta abbandonata nel cassetto della sua scrivania per diversi giorni.
Una sera, rientrato a casa, l’uomo non l’aveva trovata, ma, recatosi in salotto, aveva visto il camino accesso e i fogli di carta bruciare, sotto lo sguardo tranquillo di Elise.
- Dovresti fare più attenzione, Mikey. – gli aveva detto, alzandosi e dirigendosi verso il corridoio che dava sulla camera da letto; passandogli accanto gli aveva posato un bacio sulla guancia, leggera.
 

 
Durante tutti quegli anni, Elise non aveva mai aperto bocca riguardo ai tradimenti di Mikey e, se lui e Angelica non avessero preso la decisione di fuggire, non sarebbe occorso arrivare a tanto.
Tuttavia, dopo la loro fuga, Elise avrebbe potuto rivelare a Capone o ai suoi rivali quello che aveva scoperto durante l’anno della sua relazione con Angelica e mettere entrambi in pericolo.
Forse non l’avrebbe fatto volontariamente, forse sarebbe stata torturata e minacciata, avrebbero potuto far del male ai loro bambini.
Così, Mikey dovette assicurarsi di sistemare quella faccenda una volta per tutte.
 
 
 
Due settimane prima, Mikey aveva telefonato alla tata che, in quel momento, si era trovata nella loro casa delle vacanze assieme ai tre bambini; le aveva spiegato che, di lì a qualche giorno, avrebbe potuto chiamarla, ordinarle di fare i bagagli, prendere i bambini e partire alla volta di Seattle.
Era stato conciso e perentorio, ordinandole di non esitare e obbedire non appena lui le avesse detto di andare.
Sarebbe stato un lungo viaggio, le aveva spiegato, ma, una volta arrivati, qualcuno sarebbe stato lì ad aspettarli.

Vince Misura, difatti, aveva ricevuto l’ordine di recarvisi immediatamente dopo la partenza di Angelica e della propria e portare i bambini al sicuro, in un appartamento che Mikey aveva affittato telefonicamente sotto falso nome qualche mese prima, spedendo una cospicua somma d’anticipo via posta.
 
 
Mikey sospirò, agitato, per niente sereno all’idea di mettere i bambini in pericolo.
Tuttavia, sapeva di aver compiuto quel passo molti anni prima, quando aveva scelto la vita del criminale.
La tata aveva ricevuto abbastanza soldi, prima della partenza di Elise e propria subito dopo l’estate, per poter mantenere se stessa e i bambini per diversi mesi, dopodiché, non appena lui e Angelica si fossero sistemati, avrebbe provveduto a spedire altro denaro.
Mikey posò un bacio sulla fronte di Angelica, addormentata sul proprio petto e lei, lentamente, aprì gli occhi bruni, sbattendo le lunghe ciglia.
Erano riusciti a trascorrere assieme quella notte, nonostante la tensione che si respirava nel clan di Capone.
- Buon San Valentino. – le disse, accarezzandole con dolcezza i capelli profumati di mandorle.
Un sorriso dolcissimo sbocciò sulle labbra della ragazza mentre, ancora nuda e calda di sonno, si stiracchiava e tirava a sedere.
- Buon San Valentino, amore. – rispose, avvolgendosi le lenzuola attorno al corpo.
- E’ l’alba, devo incontrare tuo padre a colazione, ci sono gli ultimi dettagli dell’operazione di stanotte da stabilire; impiegherò un paio d’ore. – le spiegò, mentre lei si dirigeva in bagno e apriva la doccia.
Angelica si osservò allo specchio, passando una mano tra i capelli ingarbugliati, con aria assente.
Mikey si alzò e la raggiunse, abbracciandola da dietro e posandole le labbra nell’incavo del collo.
- Sei sicura di volerlo fare? – le chiese.
Angelica gli posò una mano sulla guancia e i loro occhi s’incontrarono, riflessi nello specchio.
- Farei qualsiasi cosa per te, e con te. – rispose, voltandosi per abbracciarlo.
Mikey l’accolse tra le braccia, mentre le lenzuola cadevano a terra, e strinse il suo corpo nudo.
Il loro bacio, dolce e tenero, si tramutò presto in una lotta appassionata; sembrava quasi che stessero combattendo una guerra in cui il vincitore sarebbe stato decretato da chi avrebbe ceduto per primo, interrompendo il contatto.
Mikey le baciò il profilo della mascella, il collo, scivolando lentamente in basso e disegnando piccoli cerchi con la lingua sul contorno di un capezzolo.
Angelica gemette, mentre le dita di Mikey andavano a insinuarsi tra le sue cosce, costringendola a divaricare le gambe e affondando in lei, prepotenti e possessive.
Lei gli afferrò i capelli con una mano, l’altra si posò sulla sua schiena, attirandolo a sé.
Mikey la spinse contro il marmo del bagno, sollevandola e infilandosi tra le sue gambe; cominciò a baciarle il ventre, scendendo sempre più in basso e Angelica gettò il capo all’indietro, poggiandosi contro lo specchio.
Mikey le baciò l’interno coscia, scivolò fino al ginocchio e alla caviglia e, risalendo, la morse leggero sul fianco, desideroso di assaporare ogni cosa di lei.
Quando entrò dentro di lei, Angelica gli allacciò le caviglie dietro la schiena e si aggrappò alle sue spalle.
I loro gemiti furono coperti, in parte, dallo scrosciare dell’acqua nella doccia e, quando, a distanza di pochi istanti l’uno dall’altra, raggiunsero l’apice, Mikey restò dentro di lei, afferrandole il viso con dolcezza e baciandola sulla fronte, sul naso, tra i capelli.
L’amava, l’amava di un amore che lo terrorizzava.
Stava per gettare tutta la sua vita all’aria per lei, e non gliene fregava un cazzo.
Si separarono poco dopo, quando Vince batté i soliti cinque colpi alla porta e Mikey si diresse a colazione con Capone.
 
 
 
Angelica aveva un sogno.
In realtà, da bambina, quando ancora l’intero mondo del quale il padre era perno essenziale le era sconosciuto, poiché troppo piccola e ingenua per comprenderne le dinamiche, Angelica aveva avuto tanti sogni.
Nonostante l’ammirazione e l’affetto per la propria madre, moglie fedele e affettuosa, non aveva mai capito perché Mae non avesse realizzato qualcosa da sé, per sé, nella vita, limitandosi al ruolo di comparsa nell’esistenza di qualcun altro.
Le dinamiche tra uomini e donne le erano state chiare fin da subito, poiché l’epoca in cui era nata, pur promettendo grandi cambiamenti, era rimasta saldamente ancorata alle tradizioni, eppure, Angelica aveva sviluppato un carattere forte, indipendente, indomabile.
Aveva sognato di viaggiare, per studio e diletto, di apprendere i costumi di altre società, di comprendere quali dinamiche avevano generato i diversi assetti istituzionali del mondo.
Aveva sognato di insegnare, di entrare ogni giorno in una classe piena di giovani e avide menti che si sarebbero nutrite del sapere che lei avrebbe donato loro.
Aveva sognato di cavalcare, libera e priva di paure, lungo praterie sconfinate, lontana dalla chiassosa e puzzolente Chicago.
Aveva sognato di avere una famiglia, un marito che l’avrebbe amata e venerata e protetta, come il più grande dei tesori e dei figli, a cui leggere fiabe della buona notte.
Aveva sognato di essere felice.
Da adulta, mentre si accingeva a compiere uno dei passi più rischiosi e folli che avesse mai immaginato, Angelica aveva ancora un sogno, uno soltanto, l’unico sopravvissuto alla sua vita indecente: amare e essere amata.
 
 
 

Lo amava.
Lo amava come non aveva mai creduto di poter fare.
Si era sempre ripromessa di non cedere mai al bisogno di avere qualcuno nella sua vita, di non legarsi mai totalmente a qualcuno tanto da dipenderne e non poterne fare a meno.
Invece si era innamorata.
Amava Mikey tanto da essere pronta a rinunciare a lui in qualsiasi momento lui gliel’avesse chiesto.
Amava Mikey tanto da essere terrorizzata all’idea che potessero essere scoperti e lui pagasse il prezzo di una debolezza che era stata solo sua.
Non poteva accadere, non di nuovo.
Per quel motivo non gli aveva detto niente del bambino.
Angelica era incinta di quattro settimane, ma Mikey non ne aveva idea.
Non aveva voluto metterlo di fronte a quella realtà, poiché non voleva che si sentisse costretto a scegliere lei, a fuggire con lei, a rischiare la vita per lei, solo per il bambino.
 
 
 
Avevano parlato a lungo di abbandonare Chicago, cambiare nome e vivere felici, lontani da suo padre e dalla malavita e, adesso, si erano decisi a compiere quel passo pericoloso.
Sarebbero partiti quella notte, la notte di San Valentino e, una volta giunti a destinazione, Angelica gli avrebbe detto che, presto, sarebbero diventati una famiglia.
Una famiglia vera, piena d’amore e comprensione, una famiglia in cui dei giochi di potere non avrebbero rovinato la vita del loro bambino.
Una famiglia in cui la paura di non sopravvivere alla notte non sarebbe stata che una fantasia lontana.
Una famiglia, di fronte a Dio e al resto del mondo.
Aveva dovuto pazientare, non essere avventata e stare attenta: se suo padre avesse anche lontanamente sospettato qualcosa, Mikey avrebbe fatto la fine peggiore che si potesse immaginare.
Così, non gli aveva detto niente, per non metterlo sottopressione, per non distrarlo.
Era stata prudente e aveva atteso, per giorni.
Perché lo amava.
 

 
 
L’eco di un sogno la fece tremare mentre si accingeva a recuperare qualche altro cappotto per il viaggio e controllare che i bagagli fossero ancora nascosti, che nessuno li avesse trovati.
A cosa rinuncerai, quando sarai costretta a scegliere: al potere, alla vita o all’amore?
Angelica aveva già compiuto la sua scelta e ne aveva accettato le conseguenze, qualsiasi fossero state.
 
 
 
 - Sei in grado di farlo, vero, Mikey? – gli aveva chiesto Capone, cercandolo con la coda dell’occhio.
Se ne stavano nella suite del lussuoso albergo in cui il boss alloggiava e il gangster stava sottoponendosi alla delicata operazione di rasatura.
Il suo vecchio maestro aveva salutato Mikey con un cenno rispettoso del capo, quando lui e Johnny Torrio erano entrati nella stanza.
- Sarà un onore. – aveva risposto Mikey, mantenendo un tono di voce fermo e il volto inespressivo.
Capone era parso soddisfatto. – Ben detto, ragazzo, ben detto. Un onore. E’ una grande responsabilità, non farmi pentire di averla affidata a te. – aveva detto.
Johnny Torrio aveva lanciato a Mikey uno sguardo in tralice, infastidito: le parole di Capone era suonate come un monito per lui, che, adesso, ripercorreva gli ultimi giorni alla ricerca di qualcosa nel suo comportamento che aveva potuto irritare il boss.
La decisione di Capone di affidare a Mikey l’operazione “Bugs” aveva una valenza simbolica davvero potente: George “Bugs” Moran era il rivale numero uno di Capone, al momento, per quanto riguardava il traffico  degli alcolici e il dominio di Chicago ed erano ormai mesi che il boss organizzava l’attentato mortale al nemico.
Era un’operazione rischiosa, sarebbe stata una strage di massa, non poteva essere commessi errori.
Ogni cosa era stata pianificata alla perfezione: Capone sarebbe partito di lì a un’ora per recarsi a Miami, dove l’attendeva un interrogatorio con un giudice federale, un alibi perfetto.
Quella notte, gli uomini di Capone, guidati da Mikey e vestiti da poliziotti, avrebbero fatto irruzione in uno dei locali di Bugs e avrebbero finto di arrestare il boss e i suoi, portandoli in un garage e mettendoli faccia al muro; poi, sarebbe avvenuta l’esecuzione.
Dapprincipio, era stato deciso che sarebbe stato Torrio a guidare la spedizione e quel cambiamento di rotta improvviso suscitò tensioni e nervosismo nel nipote di Colosimo.
Capone era scontento di lui e ciò poteva significare solo una cosa: doveva guardarsi le spalle.
Quando lasciò la suite di Capone, Mikey sentì l’adrenalina prendere a circolare rapida nel suo sangue e un senso di potere dibattersi furioso dentro di lui.
Con quell’operazione sarebbe diventato il braccio destro di Capone e, magari, se fosse riuscito a liberarsi di Elise, avrebbe potuto avanzare la richiesta di sposare Angelica.
Era un piano semplice: Elise sarebbe stata trovata morta per un qualche cocktail di farmaci e alcol, lui sarebbe stato un vedovo e l’uomo più fidato di Capone;  il boss non avrebbe potuto rifiutarsi di affidargli Angelica.
Doveva affrettarsi a parlarne con lei, dovevano rimandare la partenza, annullare la fuga.
Si precipitò alla casa che usavano per i loro incontri, dove nessuno immaginava di trovarla; per sua madre, Angelica era fuori città dalla sera prima, diretta a una mostra d’arte, così da avere un margine di tempo più vasto di ritardo da sfruttare, quando, quella sera, non si sarebbe presentata a cena: “La mostra era fuori città, avranno trovato dei posti di blocco”, avrebbe detto Mae, guardando l’orologio.
Il litigio che ne seguì fu tra i più furibondi.
 
 
 
Angelica aveva scritto una lettera, di nuovo, tra le lacrime.
Ogni progetto, sogno, speranza si era frantumata nel giro di un istante.
Mikey era caduto nella trappola che il proprio ego aveva piazzato per lui e nemmeno lei era riuscita a convincerlo di star commettendo un errore.
Aveva impresso su carta tutto l’amore che sentiva per lui, tutto ciò a cui era stata disposta a rinunciare per lui e, infine, la vita che era stata concepita grazie a quell’amore e per la quale, lei, lo avrebbe lasciato.
Poi, non appena era calata la sera, Angelica aveva acceso il camino e gettato quella lettera tra le fiamme: non poteva rischiare che qualcuno scoprisse dov’era andata o perché era fuggita.
Nessuno avrebbe mai immaginato che lei e Mikey si erano amati e avevano concepito un figlio.
Per quel figlio, Angelica aveva abbandonato il suo cuore in quella casa, quella notte, rinunciandovi eternamente.
 

 
 
 
Angelica salì a bordo del treno lanciando un ultimo sguardo addolorato alla stazione deserta.
Il capotreno l’aveva aiutata a sistemare i bagagli nello scomparto – non che si fosse portata dietro granché – e, dopo aver controllato il biglietto, si era dileguato.
Avvolta in un abito di cammello pesante, con il viso celato da un cappellino a cloche, guanti scuri a nascondere il tremito delle mani, Angelica sedeva, irresponsabile, accanto al finestrino.
La notte era puntellata di stelle, gelida e silenziosa, proprio come piaceva a lei.
Da qualche parte, un cane abbaiò quando il fischio del capotreno annunciò la partenza.
Una morsa di panico le strinse lo stomaco, dovette afferrare il bordo del tavolo di fronte a sé per non vacillare sulla panca, mentre copiose lacrime le scivolavano giù dagli occhi scuri.
Addio, Mikey.
Stava lasciando Chicago, suo padre, la malavita, il lusso e l’uomo che amava, per sempre.
Si posò una mano sul ventre ancora liscio, dentro il quale una nuova vita stava germogliando, speranzosa e innocente.
Il suo bambino non avrebbe mai conosciuto il proprio padre, lo sapeva.
Mikey l’aveva supplicata, ricoperta di promesse, spergiuri, aveva pianto e l’aveva perfino scrollata con tanta violenza da farle paura.
Angelica, però, aveva deciso: sarebbe partita quella notte, con o senza di lui.
Conosceva suo padre e, a differenza di Mikey, non nutriva alcuna speranza riguardo la possibilità che potesse accettare il loro amore e dare loro la sua benedizione.
Rammentava bene la gelosia negli occhi d’onice di Al Capone, ogni qual volta uno sguardo maschile, seppur innocente e privo di malizia, si era posato su di lei fin da bambina.
Li avrebbe uccisi entrambi non appena la gravidanza sarebbe divenuta evidente.
O, peggio, avrebbe ucciso Mikey e fatto in modo di assassinare il loro bambino, lasciando lei viva e morta allo stesso tempo, prigioniera di una colpa che non avrebbe mai trovato espiazione.
 
 
 
- Ti supplico, Mikey, non andare! Parti con me! È la nostra possibilità di essere felici. – gli aveva detto, tra le lacrime, mentre sedevano nell’angolo più riservato di un caffè.
- La nostra occasione di essere felici è questa, Angelica, è stanotte; se ogni cosa andrà come deve, tuo padre capirà che sono l’uomo giusto per stare al tuo fianco, un uomo in grado di proteggerti e avere cura di te. – aveva ribattuto lui, asciugandole le lacrime dal volto infelice.
- Ti prego, Mikey, ti prego, non farlo. –
- Aspettami, Angelica, ti supplico. Una sola notte ancora, ti prego. – 

 
 
 
Lei non l’aveva aspettato.
Suo padre sarebbe stato furioso, avrebbe pensato che fosse stata uccisa o rapita, si sarebbe scatenata una guerra senza precedenti, a causa sua, ma a lei non importava: sarebbero state solo altre vite distrutte da portare sulla coscienza e lei era abbastanza forte.
Poi, avrebbe reso conto a Dio e a nessun altro.
Angelica aveva fatto una scelta.
A cosa rinuncerai, quando sarai costretta a scegliere: al potere, all’amore o alla vita?
Angelica aveva scelto di non rinunciare alla vita di suo figlio.
 
 
 
Lei lo avrebbe aspettato.
Lo amava, lo amava troppo per abbandonarlo, non amava nessun altro quanto lui, lo sapeva.
Era forte, la sua Angelica, era coraggiosa: lo avrebbe aspettato e avrebbero affrontato il domani insieme.
Ancora una notte, una notte soltanto.
In quel momento, Elise si stava addormentando per sempre, dolcemente, senza soffrire.
Il rumore sordo dei tacchi sul marciapiede, mentre lui, a capo degli uomini di Capone, si avvicinava al locale dove gli uomini di Bugs se ne stavano a bere e fumare, ignari del loro destino.
Capone era immerso nel suo interrogatorio, rilassato e disponibile, arrogante.
Il campanello della porta che si apriva di scatto, l’irruzione in perfetto stile polizia, alcuni uomini che si davano alla fuga, le donne che gridavano, gettandosi a terra.
Vince Misura aspettava in auto, le chiavi già pronte nella toppa della Cadillac.
Sette uomini ammanettati e trascinati fuori, Mikey non riuscì a vedere se Bugs fosse tra loro, mentre li conducevano  in un garage vicino.
Cominciò a cadere una pioggia sottile e le strade diventarono scivolose; un puzzo di umido e alcol raggiunse Mikey in una sferzata.
La saracinesca del garage si aprì cigolando, le proteste degli uomini di Bugs furono tacitata dai finti poliziotti.
Johnny Torrio doveva starsi rodendo il fegato, in quel momento, pensò Mikey.
Non si accorse che, tra i tiratori posizionati in fila dietro gli ostaggi, entrato di soppiatto come ordinato da Capone, c’era proprio Torrio, armato di un revolver.
Non avrebbe mai immaginato, Mikey, che Capone avesse scoperto della sua passione per la propria figlia un mese prima, quando aveva incaricato proprio Torrio di spiare Angelica, a causa dello strano comportamento degli ultimi tempi e ne aveva ottenuto conferma la sera del loro incontro al Colosimo’s Restaurant.
Era apparsa troppo felice, Angelica, troppo serena, come mai era stata nella vita.
Quell’angelo pregno di oscurità, infelicità e furia, era parso libero dalle catene dell’odio che troppo a lungo l’avevano intrappolato.
Mikey doveva morire per aver osato amare Angelica, per aver osato farla innamorare di lui.
Tuttavia, nessuna macchia avrebbe dovuto sporcare la reputazione candida della fanciulla, creatura eterea e ultraterrena agli occhi del padre.
Il compito di eliminare Mikey e far passare la sua morte come un danno collaterale della missione, spettava dunque a Torrio che, orgoglioso e tronfio, non aveva idea che una pallottola, sparata dallo stesso Capone, lo avrebbe raggiunto in mezzo agli occhi nel momento stesso in cui si sarebbe precipitato a dargli la buona novella: nessuno avrebbe mai dovuto sapere che Angelica non era più pura, nessuno, perfino Dio avrebbe rivolto gli occhi altrove, fingendo di non esserne a conoscenza.
Il rumore degli spari, decine e decine di spari, rimbombò nel locale, colorando la notte.
I colpi rimbalzarono ovunque, Mikey sentì almeno quattro delle pallottole penetrargli la carne, mentre cadeva al suolo.
L’eco di un sogno lo fece tremare, come se il gelo della notte gli fosse piombato addosso solo in quell’istante: A cosa rinuncerai, quando sarai costretto a scegliere: al potere, alla vita o all’amore?
Mikey aveva rinunciato ad Angelica, ma Angelica lo stava aspettando, ne era sicuro, com’era certo di essere caduto in trappola.
Mentre moriva, inzuppato del proprio sangue che, incredibilmente, sembrava riscaldarlo, Mikey ebbe la fortuna di riuscire a scorgere il cielo, oscuro e puntellato di stelle.
La luna, regina incondizionata, spadroneggiava nella notte infinita, candida e pura, irraggiungibile dai comuni mortali, dai peccatori, dagli uomini.
Proprio come Angelica.
 
 
 
- Ti prego, Mikey, non andare. –
- Una sola notte ancora, Angelica. –
 

 
 
 
 
Angolo autrice: ho scelto il genere storico e ho utilizzato personaggi realmente esistiti, come Al Capone, Torrio e Colosimo.
Tuttavia, ho, ovviamente, creato i personaggi di Angelica, Mikey, Vince Misura, Elise e così via.
Spero di non aver violato alcuna regola del contest, inventando una possibile figlia di Capone;  avevo sempre immaginato come avrebbe potuto comportarsi un Boss del suo calibro nei confronti di una figlia. Aggiungo un piccolo appunto: Capone parla "maluccio", diciamo in modo sintatticamente imperfetto, poichè ogni film/documentario che ho visto su di lui lo descriveva come un uomo intelligente e "geniale", ma non di grande cultura.
C’è un incongruenza temporale che, tuttavia, non ho voluto modificare poiché mi piaceva l’idea che la fuga di Angelica e la morte di Mikey avvenissero la notte di San Valentino: Capone aveva trentun anni quando la strage fu ordinata, sarebbe quindi stato impossibile che avesse una figlia di diciotto/diciannove anni.
Io ho immaginato che Capone avesse invece quaranta, quarantadue anni, spero non sia un problema.
  
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