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Autore: Phoebe Moon    31/10/2015    1 recensioni
Nel villaggio di Westerhouth nascosto dalle montagne e l'intrico della foresta, isolato dal resto del mondo, si posa l'occhio dell'algida Regina delle Nevi.
Quattro fanciulle unite da sincera amicizia per salvare Gerda intraprendono un viaggio dirette alle Lande ghiacciate.
A dividerle un maleficio, un accordo, una caccia, un segreto ed una malìa.
Potranno tornare a casa o si perderanno lungo la via?
Genere: Dark, Fantasy, Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: Violenza
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Briar Rose
A dark Fairytale
 
 
“In questa selva profonda e oscura,
ti farò sprofondare nell’eterno riposo”
 
 
 
La regina Cassandra strinse con forza il bracciolo della poltrona foderata in broccato rosso sangue. La pioggia battente colpiva con vigore il castello e temeva potesse infrangere le vetrate delle sue stanze per irrompere all’interno.
Nuovi lampi e tuoni squassarono il cielo livido, la donna serrò le palpebre per non vedere e li riaprì quando il frastuono cessò di straziarle le orecchie. Il vento piegava le cime degli alberi e strappava via i petali delle rose del suo giardino. L’autunno non si era ancora manifestato del tutto,  non era naturale quella violenza inaudita per un periodo che ancora avrebbe dovuto serbare la dolcezza dell’estate.
Tutto aveva avuto principio al suo ottavo mese di gravidanza, le tempeste si erano susseguite frequentemente con crescente violenza. Quello squilibrio delle stagioni l’aveva gettata in una profonda preoccupazione, era un cattivo presagio che gettava un’ombra oscura sul futuro dell’erede.
Aveva palesato la propria inquietudine al sovrano ma lui aveva liquidato il tutto affermando che si trattava di sciocche superstiziosi, crucci da femmina.
Preoccupati di generare un erede in piena salute le aveva ordinato.
Sua maestà il re all’abbreviarsi dell’attesa si rendeva sempre più smanioso.
E come biasimarlo?
Aveva atteso così terribilmente a lungo l’arrivo di un erede, le aveva imposto di sospendere svaghi come le sue adorate passeggiate mattutine, ed i ricevimenti le erano interdetti per scongiurare ogni possibile e malaugurato incidente. Trascorreva nelle sue stanze buona parte del tempo, sempre più di frequente consumava in esse pasti in solitudine per non dover percorrere le innumerevoli scalinate del palazzo ed affaticarsi.
Cassandra pregava nascesse un maschio poiché era necessario donare un erede al regno.
Inoltre, non sarebbe stata in grado di sostenere la delusione e lo scherno negli sguardi della corte, la quale da tempo sussurrava maligna alle sue spalle di una plausibile sterilità.
Quell’ignobile accanimento nei suoi confronti era da imputare al fatto che il matrimonio perdurava da circa cinque anni e Cassandra per lungo tempo si era dimostrata deludente nell’unico compito che in quanto regina aveva l’obbligo di assolvere: generare un erede.
Quando il re aveva palesato l’intenzione di voler prendere in sposa Cassandra, i genitori della giovane avevano trattenuto l’entusiasmo solo perché erano nobili e non rozzi contadini che manifestavano sempre inappropriatamente le proprie emozioni, in caso contrario si sarebbero volentieri messi a ballare.
Il corteggiamento era durato un mese, il tempo minimo che si richiedeva ad un corteggiamento, ma si era trattata di mera apparenza dal momento che era già tutto deciso. Cinque mesi dopo Cassandra si era sposata ed era ascesa al trono all’età di diciassette anni. I primi tempi le era parso tutto un gioco, trascorreva i suoi giorni trastullandosi con gioielli dal valore incalcolabile ed abiti costosi, ogni giorno lo passava scoprendo che non vi era limite alcuno alle sue brame né ai mezzi per soddisfarle. Tuttavia col trascorrere dei mesi e dei successivi quattro anni tutti avevano preso a chiedersi perché la sovrana non fosse rimasta incinta ed ora, all’età di ventuno anni, finalmente suo marito e l’intera corte potevano godere della vista della pancia rotonda della regina.
Bussarono, e Cassandra voltò il capo repentinamente, i lunghi capelli simili a oro filato saettarono nell’aria. “Avanti” consentì, con voce monocorde allentando la presa sui braccioli.
La servetta entrò timidamente, in mano recava un vassoio con una tazzina di fine porcellana ed una panciuta teiera squisitamente decorata sui bordi e colma di tè, dal cui beccuccio si levavano odorose volute di fumo. Procedette con lentezza per timore che il vassoio le sfuggisse dalle mani riducendo tutto ad un mucchietto di cocci. Si mordicchiò il labbro per la tensione e frattanto gettava frequenti e veloci occhiate all’interno della camera: era un luogo meraviglioso. Ricolmo di stoffe pregiate dai colori sgargianti riccamente ricamate con oro e argento, innumerevoli fili di perle decoravano le tende color pesca e il corpetto dell’abito che la regina indossava, oggetti rari ed esotici di cui lei non riusciva a comprendere l’utilizzo, tuttavia erano indubbiamente affascinanti e lasciavano vagare la mente immaginando luoghi mai visti, pietre preziose di vari generi incastonate in parure scintillanti, gioielli luminosi dal valore incalcolabile.
Il più prezioso, nonché il più appariscente, consisteva in uno zaffiro grosso quanto una noce incastonato nel mezzo della corona della sovrana.
La serva posò il vassoio sul tavolino accostato alla finestra e versò con cautela la bevanda nella tazzina, si diresse verso i candelieri e tirò fuori dalla tasca del suo grembiule (un po’ sdrucito sui lati) una serie di candele con cui sostituire i moccoli consumati.
Finito il lavoro a testa china e mani congiunte verso il basso domandò flebile “Vostra maestà comandate altro?”
“No, và pure” assentì congedandola con un elegante gesto della mano piccola e dalle dita affusolate, attorno alle quali scintillavano anelli di rubini e diamanti.
La porta venne richiusa con un tonfo secco e finalmente la regina poté allungare le mani verso la tazzina senza che alcuno scorgesse il tremore che le attraversava, più fermamente che poteva accostò la tazzina alle labbra rosse e piene e ne sorbì un sorso. Il calore le invase le membra disperdendo un po’ del tormento che l’affliggeva. Aveva un che di consolatorio, sopperiva in minima parte alle parole di conforto che tanto bramava udire ma era ben conscia che ciò non sarebbe mai avvenuto.
Finito il tè tornò a guardare fuori.
Un sospiro tremolante fuoriuscì dalle labbra di Cassandra, la fronte solcata da una ruga d’inquietudine, si segnò e tirò fuori dal corsetto la croce in cui terminava il sottile filo d’argento che le adornava il collo diafano, strinse l’oggetto con forza fra le mani e prese a pregare come ogni giorno.
 
 
 
Il mese seguente le nuvole traboccanti di pioggia erano scomparse, ragion per cui la regina aveva abbandonato il suo stato d’ansia. Il ventre era divenuto più prominente che mai e il suo malumore col trascorrere dei giorni si accresceva per il disappunto.
Il medico di corte le aveva sconsigliato di abbandonare il letto non volendo far fronte ad un parto prematuro.
Cassandra tuttavia aduggiata, produceva sospiri a profusione per lo scontento, non avrebbe mai creduto che i giorni potessero scorrere tanto adagio, non poteva neppure variare la posizione in cui era stesa per via della pancia.
Si stiracchiò appena cercando di sciogliere le membra indolenzite.
Non ne poteva più di passare i suoi giorni contemplando costantemente le mura della stanza, ormai le risultava sgradita ed odiosa. Il suo primo proposito a seguito del parto sarebbe stato trasferirsi in un’altra ala del castello e arredare una nuova camera con mobilia e suppellettili d’altro genere.
Propendeva per il salmone e l’oro.
Sì, avrebbe fatto ricoprire le pareti d’oro e si sarebbe fatta cucire dei nuovi abiti trapuntati di smeraldi e diamanti, quelli che possedeva oramai le procuravano un tremendo dolore al capo solo a guardarli. E avrebbe ordinato all’orafo di creare dei gioielli ancora più raffinati e vistosi di quelli che già possedeva, se li meritava dopo tutto quello che stava passando. Già si figurava nella mente gli sguardi carichi d’invidia e bramosia di tutte le dame della corte, avrebbe finalmente potuto girare per il castello a testa alta senza udire le risatine delle malelingue.
E poiché nessuna di esse poteva rivolgerle la parola a meno che lei non lo facesse per prima, l’avrebbe negata a tutte le dame che l’avevano derisa con insinuazioni più o meno velate per almeno due mesi. Cosicché potessero angustiarsi nell’attesa di una sua parola.
Avrebbe fatto in modo che si pentissero della loro insolenza e al banchetto per l’erede avrebbe predisposto loro gli ultimi posti della tavolata, ultime persino alle baronette. O magari, per diletto, le avrebbe escluse dal ricevimento in modo da crogiolarle nell’umiliazione per essere state dispensate da un tale evento.
Ma primariamente necessitava rimediare al suo tedio.
Tirò con forza il batacchio del campanello e una serva entrò trafelata e con tono sommesso chiese: “Vostra maestà desidera?”
“Và a chiamare la mia dama di compagnia. E fa in fretta” ordinò stizzita.
Poco dopo dalla porta fece capolino Lady Eleonore, avvolta in un abito di seta verde sulla cui scollatura erano applicate adorabili rose rosse con una perla ferma al centro di ognuna.
La sovrana intimamente sbeffeggiò quegli anonimi capelli opachi di una bislacca colorazione di biondo, stretti nella solita sobria acconciatura, neppure un fermaglio tempestato di zaffiri ad adornarli. Lei ne possedeva a bizzeffe, magari avrebbe potuto cederne generosamente uno per non dover subire quello strazio per gli occhi.
Cassandra scrutò con disappunto il ventre piatto della propria dama di compagnia con una punta d’invidia. A vederla in simili condizioni nessuno avrebbe presunto che nove mesi addietro anche lei aveva posseduto una figura snella e flessuosa che era stata decantata da innumerevoli poeti. Tutti la descrivevano come ‘Il più elegante cigno che i loro occhi avessero avuto la fortuna di vedere’.
Fece cenno alla dama di avvicinarsi “Aiutami ad alzarmi, ho voglia di passeggiare in giardino” affermò scostando le coperte con insofferenza.
Lady Eleonore trasalì. “Ma Vostra maestà, i medici hanno sconsigliato…”
“So cos’hanno sconsigliato. Io c’ero ricordi?” vista la totale incapacità della propria dama di essere anche in minima parte d’aiuto tentò di sollevarsi con le proprie forze. Lady Eleonore accorse reggendola per i gomiti “Maestà no! Il medico”
“Chi è la sovrana qui Eleonore? Fa ciò che ho ordinato e serba per te ogni preoccupazione” una volta in piedi tirò fuori dall’armadio il suo abito più bello: un tripudio di bianco, volant arricciati lungo i fianchi e l’orlo, oro e zaffiri scintillanti.
Ordinò alla dama di aiutarla con la vestizione. Faticò un po’ per sistemare la crinolina e Lady Eleonore rischiò varie volte di finire gambe all’aria a causa dei movimenti disordinati che compiva. Non immaginava che senza l’assistenza delle serve abbigliarsi risultasse così difficoltoso.
Lady Eleonore si affacciò cautamente alla porta per accertarsi che non vi fosse il sovrano o qualchedun’altro che potesse arrestare la piccola fuga della regina. Appurato che non vi fosse pericolo Cassandra sgattaiolò fuori dirigendosi trepidante verso l’immenso giardino, attraversando gli appartamenti della servitù, che si augurava di non percorrere nuovamente, e camminò felice.
 Si beò di quella piccola passeggiata avanzando tra gli immensi alberi che costeggiavano il vialetto le cui foglie avevano preso a tingersi di rosso e arancio, la ghiaia per terra scricchiolava ogni qual volta le sue scarpette la calpestavano e lei si lasciava sfuggire un risolino. Intinse velocemente le dita nella fontana in marmo, attorno alla quale erano scolpite come figure beneauguranti le fate che accorrevano a porgere auguri ad ogni erede che la famiglia reale dava alla luce.
S’intrufolò nel roseto dalla parte opposta del vialetto ormai incurante che qualcuno potesse scorgerla e riportarla nelle sue stanze. Anche se il termine più appropriato da utilizzare era prigione dal momento che l’avevano costretta al loro interno vietandole ogni sortita.
Il vento che si levava era pungente ma non vi prestò troppo caso, felice di poter infine uscir fuori per passeggiare. La sua dama gettava occhiate inquiete ad ogni angolo timorosa che qualcuno potesse scorgere la regina fuori dalle sue stanze, soprattutto si scoprisse che l’aveva aiutata a mettere in atto quell’azione insensata.
Cassandra si deliziò dello spettacolo delle rose invernali, dal rosso talmente intenso da parer fatte di sangue, con i vispi occhi azzurri accesi di un luccichio bambino si chinò a cogliere una rosa.
Quando all’improvviso…accadde.
Un tuono risuonò nell’aria e contemporaneamente avvertì una fitta al basso ventre. Portò le mani alla pancia accasciandosi al suolo per il dolore, mentre dalle labbra fuoriusciva un gemito strozzato, Lady Eleonore accorse ansante. “Maestà! Cos’avete?” domandò in preda all’ansia, se fosse accaduto qualche sciagura all’erede il re l’avrebbe fatta decapitare!
“Il-il bambino” mormorò faticosamente Cassandra. Sentiva qualcosa di umido colarle lungo le gambe “Và a chiamare qualcuno, sbrigati!”
Lady Eleonore si rialzò e, in barba ad ogni decoro, sollevò le ampie gonne fin sopra le caviglie e corse alla ricerca di qualcuno che potesse aiutarla.
Cassandra rimase a contorcersi per il dolore per un tempo che non seppe quantificare. Nuove fitte si susseguivano sempre più frequenti mentre il vento soffiava con più ferocia e gocce di pioggia scendevano dal cielo.
Perché? si domandò la donna Fino a poco fa il cielo era terso.
Boccheggiava ogni qual volta le fitte le sottraevano fiato, le dita stringevano manciate d’erba e terreno insudiciandole le unghie, avvertiva brividi freddi scuoterle il corpo. Ciò che le aveva rivelato tempo addietro suo padre stava forse per compiersi? Le sue preghiere si rivelavano vane proprio nell’istante in cui necessitava fossero ascoltate?
Tuoni e fulmini si scatenavano nel cielo. La pioggia le aveva infradiciato totalmente l’abito, facendole battere forte i denti, quando Lady Eleonore fece ritorno con due guardie che la sollevarono e la trasportarono nel castello.
Cassandra non riuscì a capire granché di ciò che le accadeva attorno, percepiva solo un gran fermento, urla concitate e passi affrettati sul pavimento.
Venne adagiata sul letto e qualcuno la spogliò del proprio abito per rivestirla con una camiciola da notte. Guardò disperata fuori dalla finestra la tempesta che infuriava impietosa non riuscendo a crederci, chiedendosi perché accadesse a lei.
La porta si aprì ed entrò il medico di corte che le disse che era giunto il momento e che avrebbe dovuto tenere duro perché avrebbe sentito molto dolore.
Cassandra si chiese se fosse possibile provare più dolore di quanto ne sentisse in quel momento.
Da che era cominciato il travaglio trascorse ore interminabili: Cassandra si dibatteva in preda al dolore tanto che occorsero serve che la immobilizzassero. I capelli biondi raccolti nell’acconciatura si erano sparpagliati attorno al viso, alcune ciocche si erano appiccicate al collo e alla sua fronte madida di sudore, gli occhi -che prima di allora erano sempre stati luminosi- erano incavati dalla fatica e la pupilla nera aveva quasi inghiottito l’azzurro dell’iride.
Urla disumane fuoriuscivano dalla sua bocca mentre stringeva con forza le lenzuola del letto sin quasi a strapparle. Le serve più giovani, che porgevano nuovi teli puliti al medico e gettavano quelli intrisi di sangue, osservavano la scena con orrore e i loro visi avevano assunto la sfumatura verdastra di chi stava per rimettere di lì a poco.
Cassandra si tese tutta rovesciando gli occhi all’indietro e con un’ultima spinta diede alla luce l’erede.
Il piccolo iniziò a piangere. Era sporco di sangue, minuscolo e con la pelle accartocciata.
“E’ una femmina” annunciò il medico, scuotendo la testa con delusione. Nessun erede maschio che potesse succedere al regno.
Cassandra la osservò per un tempo indefinito sorridendo stancamente. Si sentiva felice di aver dato alla luce una bambina e improvvisamente il compito di generare un maschio per il regno divenne un dettaglio irrilevante, avvertiva qualcosa di caldo e confortante avvolgerle il cuore. Finché non giunse la balia che avrebbe allattato sua figlia nei prossimi mesi, l’avvolse in fasce bianche e pulite e lo portò via.
La regina lasciò ciondolare la testa da un lato. Adesso che tutto era giunto al termine si sentiva assonnata e le figure dinanzi ai suoi occhi sfumavano in ombre confuse.
Decise che si sarebbe concessa del riposo prima di poter reggere fra le braccia la sua bambina e stringerla amorevolmente al petto.
Cassandra preda della spossatezza chiuse gli occhi e non li riaprì mai più.
 
 
 
Il palazzo reale non risuonava più delle risate argentine della sua regina, né la sua figura allietava i suoi occupanti con la propria grazia e beltà. Le spoglie della sovrana furono tumulate nel cimitero dei reali di Stormwind e la messa funebre venne celebrata sotto il cielo piovoso che aveva suscitato angoscia  in Cassandra.
Intorno alla tomba si riunirono a lutto tutti i sudditi di alto rango che osservati da  lontano apparivano un’onda nera e funesta che si riversava sulla terra.
 La statua che replicava l’aspetto di Cassandra non le rendeva giustizia. Il suo volto possedeva un rigore, un’austerità che non le era appartenuta, i lineamenti non erano dolci ma possedevano una beltà algida che non rispecchiava il carattere della donna che fu.
Conclusa la messa funebre a poco a poco i nobili fecero ritorno alle rispettive dimore. Solo il re si trattenne ad osservare la tomba, la statua bagnata dalla pioggia incessante ai suoi occhi pareva stesse piangendo. Allungò una mano a sfiorare il marmo, stupendosi di trovarlo duro e freddo al tatto, per la maestria con cui era stato scolpito si era illuso che potesse prendere vita e tornare ad allietare la propria esistenza.
Infine, distrutto, con lentezza fece ritorno alla sua dimora.
Drappi neri furono calati a coprire le finestre e il lutto aleggiava sulla corte.
Avevano perso una regina. Il cigno dorato di Stormwind non allietava più quelle fredde mura.
Quella sera il sovrano rientrò nelle sue fredde e solitarie stanze, con la certezza che non sarebbero mai più state scaldate dalla presenza della sua consorte. Nonostante non l’avesse mai dimostrato apertamente aveva amato Cassandra, in caso contrario non si sarebbe mostrato sordo  nei confronti dei suoi consiglieri, l’avrebbe ripudiata e avrebbe cercato una nuova consorte che generasse l’erede che tutti avevano atteso.
Adesso aveva una figlia ma aveva perduto una moglie. Riportò alla mente la prima volta che l’aveva veduta durante un ballo a corte.
 
 
 
Il re suo padre aveva lasciato quella terra ormai da dieci anni lasciando gravare su di lui il peso di una corona che sentiva non esser pronto a portare.
Senza che avesse il tempo d’accorgersene il funerale e la cerimonia d’incoronazione si erano svolti -ad una velocità che sorprendente era dir poco- lasciandolo del tutto estraneo agli avvenimenti, aveva subito passivamente quelle pompose cerimonie come se si fosse trattato di un altro regno e di un altro principe e lui fosse un mero spettatore. Aveva attraversato periodi in cui spesso aveva rimuginato sul suo modo di governare, domandandosi se suo padre avrebbe compiuto questa o piuttosto quell’altra scelta. Dubitava di ogni suo passo ritenendosi inadeguato al compito e prevedendo catastrofiche conseguenze della sua reggenza.
Tuttavia diversamente a quanto previsto, sotto la sua guida il regno si era sviluppato ricco e fiorente e adesso necessitava generare un erede in maniera tale da  perpetrare la stirpe.
Ragion per cui aveva indetto uno sfarzoso ballo a palazzo invitando ogni fanciulla titolata in età da marito. Aveva danzato con numerose dame quella notte ed aveva conversato con ognuna nella speranza di trovare fra esse quella che sarebbe divenuta la sua futura sposa.
La musica lenta e dolce si diffondeva nell’enorme sala da ballo. Quel fattore unito alla conversazione a dir poco ridicola che una dama stava portando avanti in un noioso soliloquio, aggiungendo risatine forzatamente divertite ogni qual volta terminava una frase, stavano causando in lui un effetto soporifero.
Lottava da quelle che parevano ore contro il bisogno di sbadigliare ma un sovrano non sbadigliava mai. Né in pubblico né in privato e non si alterava di fronte alla propria corte come un volgare paesano per quanto ardentemente desideri farlo.
Spostò lo sguardo dalla dama verso l’ingresso e venne folgorato.
Una fanciulla che non dimostrava più di diciassette anni entrò con discrezione nella sala, seguita da quelli che dovevano essere i genitori. Apparivano seccati per il ritardo e ansiosi di volersi mescolare nella folla.
La dama dinanzi a lui proseguiva il suo soliloquio ma lui aveva occhi solo per la fanciulla con l’abito colore del cielo: i capelli incredibilmente lunghi parevano una cascata d’oro lucente, continuava a torturarsi le mani inguantate che le nascondevano le braccia magre sino al gomito.
In quel momento ignorando la più elementare regola del galateo si allontanò dalla propria dama, la quale lo osservò basita andar via mentre il rossore della vergogna le accendeva il volto, umiliata per essere stata abbandonata dinanzi a tutti.
Stefano si diresse verso la fanciulla dai capelli d’oro, incantato dalla sua figura, e una volta l’uno dinanzi all’altra le porse la mano invitandola a ballare. Lei arrossì leggermente sulle guance colorandole di una deliziosa sfumatura rosata e posò con leggerezza la propria mano su quella del re.
Stefano per la restante parte della serata danzò unicamente con la fanciulla che rispondeva al nome di Cassandra, incantato dalla sua voce flautata e dal suo viso grazioso. A distanza non aveva potuto accorgersene ma i suoi occhi avevano il colore degli zaffiri e la sua pelle era diafana: nessun neo o efelide disarmonizzavano la perfezione della sua pelle di luna.
Le chiese se desiderasse unirsi a lui per una passeggiata in giardino e Cassandra accettò di buon grado, la di lei madre li seguì qualche passo indietro, non sarebbe stato decoroso altrimenti che una fanciulla nubile rimanesse sola con un uomo nonostante si trattasse del re.
Discorsero piacevolmente attraversando il viale alberato illuminato dalle torce.
Cassandra interveniva spesso dimostrando di essere una gradevole interlocutrice, arguta e in alcune occasioni risultò persino divertente. E soprattutto non riteneva di dover ridere ad ogni parola.
Dopo un po’ Cassandra manifestò stanchezza e, non essendoci panchine in quella zona del giardino, decise di riprendersi dalla fatica accomodandosi sul bordo di una fontana, si tolse il guanto mostrando la pelle del braccio anch’essa candida come la neve, con una risatina lieve immerse la punta delle dita nell’acqua.
Poi chiese il perché della scelta di tre fate come soggetto della fontana e Stefano le spiegò come ad ogni nuovo nascituro della famiglia reale quelle creature benigne benedicessero la vita del nuovo nato,  augurandogli una reggenza lunga e serena.
Cassandra si tese all’indietro così da riuscire ad ammirare meglio il gruppo scultoreo e il bordo del suo ampio abito si scostò mostrando delle scarpette luccicanti.
“Sono scarpette di cristallo?” chiese, non capendo la scelta di un materiale tanto fragile per delle calzature.
“Sì, sono magiche. Un dono della mia fata madrina”.
Gli spiegò che anche lei aveva un’entità a proteggerla, un’amabile fata dall’aspetto buffo poiché vestiva sempre con una tunica azzurra lunga sino al terreno e un cappuccio troppo largo le pendeva davanti agli occhi. Spesso soffriva di amnesie e perdeva di frequente la propria bacchetta ma in quell’occasione nulla era andato storto e per il ballo le aveva donato l’abito che indossava e quelle scarpette di cristallo che non si sarebbero mai rotte.
Tornati indietro, mentre salivano le scale del palazzo, Cassandra era inciampata rischiando di rovinare al suolo. Lui l’aveva prontamente afferrata per i fianchi -constatando come fosse più leggera di quanto immaginato- e i loro visi si erano ritrovati ad una distanza troppo intima dal momento che non erano neppure fidanzati.
Lei era arrossita ringraziandolo.
Stefano si era accorto di come la scarpetta sinistra fosse scivolata un paio di gradini in basso, l’aveva recuperata e inginocchiatosi ai piedi della fanciulla l’aveva calzata al suo minuscolo piede.
Cassandra vedendolo in quella situazione insolita, un re non si inchina per infilare una scarpa ad una suddita per quanto sia graziosa, aveva ridacchiato portando una mano davanti alla bocca e in seguito affermato “Come siete buffo”.
La madre l’aveva ammonita con lo sguardo per la sua scioccaggine. Dire una cosa del genere al re!
Stefano al contrario l’aveva trovata semplicemente deliziosa. Riteneva fosse quello il momento in cui si era innamorato di Cassandra.
 
 
 
Sette mesi erano trascorsi dalla morte di Cassandra e Stefano ancora non aveva visto sua figlia né si era svolta la cerimonia di presentazione dell’erede.
Il periodo del lutto si era concluso da tempo per cui i consiglieri ritenevano fosse inappropriato non mostrare la piccola principessa. Certo comprendevano la delusione per la mancata nascita di un maschio ma era necessario rispettare le tradizioni.
Ma lui non ci riusciva, sapeva di essere ingiusto e che il suo era un rifiuto irrazionale ma imputava a quella creatura la colpa della morte di sua moglie, convinto che se non fosse mai venuta alla luce Cassandra sarebbe rimasta al suo fianco. Stefano chiuso nelle sue stanze si tolse la corona dal capo, negli ultimi mesi gli pesava più di quando era giovane ed inesperto, non faceva che rimuginare sull’accaduto cercando di comprendere se avesse potuto impedire in qualche modo la tragedia.
Sfogare la rabbia sulla dama di compagnia di sua moglie non era servito a niente. La donna davanti alla sua furia era scoppiata a piangere, si era prostrata ai suoi piedi implorando pietà.
Il re aveva desiderato poterla condannare a morte, anche se non avrebbe portato indietro la sua amata moglie almeno avrebbe mitigato un poco le sue pene, ma alla fine si era limitato a bandirla.
Ogni mattino la balia di sua figlia gli faceva un resoconto della salute della bambina e col suo tono pacato ricordava che l’infante era ancora priva di un nome.
Un nome.
Preso dal dolore, dagli impegni e dalla voglia di dimenticare tutto  un nome era una questione che non aveva preso in considerazione.
 
 
 
Balia Abrianna finì di allattare la bambina.
Appena la posò nella culla quella prese a lamentarsi agitando le piccole manine nell’aria.
La culla in cui era posta era in legno con intarsi dorati, costruita in maniera da poterla dondolare per far sì che cadesse subito in un sonno profondo. Abrianna constatò come il corredo fosse alquanto sfarzoso nonostante la piccola avesse solo pochi mesi: i lenzuolini in cui veniva avvolta erano in seta con ricami lungo tutto il bordo, così come la cuffietta che copriva la testolina su cui qualche ciuffo dorato aveva preso a spuntare ribelle.
Inoltre appesi alla culla dei ninnoli agitati dal vento divertivano la bambina che emetteva gorgoglii deliziati.
Nulla da eccepire. Peccato si trattasse di un corredino da maschietto.
Difatti con la certezza che la piccola sarebbe stata un lui erano stati confezionate cuffiette blu, i lenzuolini decorati avevano i bordi blu e i ninnoli erano statuine in legno figuranti cavalli e cavalieri.
Senza contare che la poverina era ancora priva di nome nonostante avesse sollecitato svariate volte sua maestà a sceglierne uno, poiché presto la piccola avrebbe compiuto dodici mesi ma le sue parole si erano perse nel vento.
Tolse dalla bocca della piccola un lembo del lenzuolino che stava ciucciando beatamente. La bambina osservò la propria balia con la boccuccia umida di saliva aperta e gli occhi sgranati, indispettita per essere stata privata del suo gioco scoppiò a piangere.
“No piccola no. Guarda il sonaglino” disse agitando in aria un ninnolo a forma di scettro con un campanello. La piccola s’incantò a guardarlo dimenticando immediatamente il lenzuolino.
“Adesso insieme a balia andrai a fare una passeggiata in giardino. Ti va, sì?” la piccola gorgogliò ancora. Di norma l’erede non andava mostrato prima della cerimonia ufficiale ma oramai erano trascorsi sette mesi, nei quali la piccola era rimasta confinata nella sua stanza.
Balia Abrianna avvolse ben bene la piccola nelle fasce e la coprì ulteriormente con una coperta pesante foderata di pelliccia. Voleva mostrarle le rose d’inverno senza che si buscasse un malanno per il clima rigido della stagione.
Agitando il ninnolo per fare in modo che la bambina non ciucciasse la pelliccia si diresse al roseto.
La prima volta in cui le aveva viste era stata convocata a corte per accudire l’erede che di lì a breve sarebbe nato, aveva scorto il roseto dalle finestre del palazzo e ne era rimasta meravigliata. Le rose che conosceva lei fiorivano nei mesi caldi ed aveva creduto quelle opera di magia.
In seguito in cucina le avevano spiegato che la regina amava le rose e per goderne la visione in tutte le stagioni aveva fatto portare da lontano quella specie che fioriva nei mesi in cui il clima era rigido.
In prossimità del roseto notò una figura di spalle che rimirava i fiori.
Vedendo che si trattava del re Abrianna si arrestò all’improvviso, causando i gemiti di protesta della piccola che fu sballottata contro il petto della balia.
Appena il re si voltò nella loro direzione la donna si affrettò ad inchinarsi, provocando nuovi lamenti nella bambina per tutti quei movimenti repentini ben differenti dal dolce dondolio della sua culla.
Stefano osservò incuriosito il fagotto che la donna stringeva.  
Così quello era l’erede che Cassandra gli aveva donato. Si avvicinò per osservarla meglio: era minuta e l’avrebbe potuta reggere benissimo con una mano sola. La prese dalle braccia della balia per poterla esaminare con comodo e si accorse di come gli occhi fossero identici a quelli di Cassandra. La piccola afferrò in uno dei pugnetti il bottone dorato del suo mantello attirata dal luccichio. Appariva in salute e crescendo sarebbe senz’altro divenuta graziosa come la madre.
Solo un particolare fece corrugare la fronte di Stefano: la cuffietta azzurra.
“Perché la piccola è vestita da maschio?”
“E-ecco Vostra maestà, erano sicuri che sarebbe stata un maschio…ordinate solo fasce…per cui” farfugliò la donna in maniera sconnessa e dire che solitamente appariva molto più linguacciuta.
“Immagino occorrerà un corredo più consono ad una principessa”
“Ed un nome maestà” ricordò nuovamente.
“Un nome” guardò le rose che in vita Cassandra aveva tanto amato e venne colto da un’ispirazione “Rosaspina”
“Come?” domandò la balia confusa.
“Il nome della bambina è Rosaspina”
 
 
 
Al castello fervevano i preparativi per la cerimonia di presentazione ufficiale di Rosaspina.
Vennero spediti inviti a tutti i nobili cosicché potessero porgere omaggio alla piccola principessa. Drappi dai colori sgargianti vennero appesi ed ogni particolare fu curato perché tutto alla fine risultasse perfetto. La presentazione ufficiale doveva svolgersi senza alcun intoppo.
I nobili nella sala del trono attendevano impazienti di posare lo sguardo su colei che rappresentava il futuro di Stormwind. Certo molti mormoravano che un erede maschio avrebbe servito meglio la causa: una donna non guidava i soldati in battaglia, non governava sola un regno, non si occupava di politica, erano questioni troppo impegnative.
 Era bene che in quella testolina circolasse aria o si rischiava impazzisse. Si auguravano che almeno crescesse bella così sarebbe stato più semplice trovarle un marito. Gli uomini solitamente sceglievano una sposa in base al lignaggio e alla dote ma un bel visino da poter ammirare non guastava e andarci a letto non sarebbe stato un gran sacrificio.
La voce tonante del re zittì i mormorii dei nobili che osservarono la bambina levata in aria.
 Il capo venne asperso d’acqua inzuppando i modesti ciuffetti ricci.
Tre luci si levarono al di sopra della folla e tre fate apparvero attorno alla piccola.
Erano giovani, ali grandi e luminose dipartivano dalle loro schiene, possedevano ricci capelli biondi ad esclusione della fata in abito verde i cui capelli erano rossi, la foggia dei loro abiti ricordava le corolle dei fiori ma venne ritenuta inappropriata per presenziare a corte poiché lasciava scoperte le braccia e le gambe sino al polpaccio. Dal nulla fecero apparire tre bacchette da cui eruttarono scintille luminose.
La prima in rosa la colpì con la bacchetta sul capino “Principessina, io ti auguro una lunga vita” la seconda in abito azzurro la imitò augurandole una lunga reggenza. Quando la terza in verde compì lo stesso gesto augurandole una vita piena di gioia e luce avvertì salirle lungo il braccio un dolore terribile e un senso d’inquietudine attanagliarle lo stomaco.
Scombussolata abbozzò un sorriso benevolo alla piccola facendosi da parte insieme alle due compagne. Rosaspina venne levata verso i nobili “Avete la vostra principessa!”
Durante il banchetto mentre gli altri commensali bevevano e mangiavano allegramente, le tre fate
-che rispondevano ai nomi di Flora, Fauna e Serena- discussero fittamente dello strano effetto che Fauna aveva subito.
Gli auguri di Flora e Serena sembravano essere andati a buon fine solo il terzo era stato rigettato come se qualcosa gravasse sulla piccola. Escludevano si trattasse di un maleficio perché in quel caso ad alcuna di loro sarebbe stato possibile avvicinarsi.
La magia oscura si sarebbe manifestata in maniera violenta ed incontrollata per evitare che l’incantesimo imposto sulla neonata fosse intaccato.
Serena aveva ipotizzato che potesse essere il maleficio di una strega morta che perdurava e per questo gli effetti erano stati minimi, ma una simile ipotesi prevedeva che la strega in questione dovesse essere incredibilmente potente e alla mente era affiorato solo il nome di colei che non veniva più nominata. Il solo pronunciare quel nome rievocava tempi terribili che nessun essere votato alla luce amava ricordare.
La strega oscura più potente che fosse mai esistita. Aveva mietuto numerose vittime prima di trovare la morte per mano di qualcuno d’insospettabile.
Presero in considerazione numerose teorie: forse un oggetto con cui la principessa era entrata in contatto era intriso di magia oscura oppure una strega circolava liberamente in quella corte.
Infine Flora la più anziana fra loro, che affermava sempre che non bisognava immischiarsi troppo nelle questioni degli umani, impose che non avrebbero detto nulla al sovrano.
Poiché avevano compiuto il loro dovere e non era necessario intervenire ulteriormente sull’erede di Stormwind. Ma Fauna non era d’accordo, per lei la magia doveva aiutare il prossimo nel momento del bisogno, ragion per cui decise che quella notte avrebbe agito da sola aggirando l’autorità della fata più anziana. Flora era divenuta di pietra, terribilmente insensibile alle sventure altrui.
 Fauna dubitava che possedesse un cuore e se ne aveva uno… era molto piccolo, indurito dalla sentenza che si era ritrovata a subire. Per quanto riguardava Serena era troppo giovane per opporsi e lasciava che le decisioni venissero prese da una delle sue compagne di sventura, eseguendo le istruzioni facendo giusto il minimo indispensabile. Si lasciava trascinare dalla corrente.
Fauna invece conservava ancora una cieca fiducia nel bene e nel prossimo, era altruista, sempre pronta a farsi carico delle difficoltà altrui, in lei si trovava una spalla a cui poggiarsi, credeva che se il Bene non aiutava coloro che si trovavano in difficoltà allora non era tanto diverso dalle forze del male. Per la fata abbandonare qualcuno ai suoi guai era un peccato peggiore della malvagità.
 
 
 
La notte calò.
Un drappo nero che avvolse il mondo in un’oscurità densa e impenetrabile. Fauna utilizzò la magia per far cadere nel sonno l’intera corte, guardie comprese, così da poter raggiungere indisturbata la stanza della principessa.
Sotto forma di globo lucente volò attraverso i corridoi illuminati dalle torce che proiettavano inquietanti ombre distorte sui muri che fecero trasecolare la fata. Giunta dalla principessa riassunse la sua consueta forma e, bacchetta alla mano, disegnò un simbolo sul fragile collo di Rosaspina che frattanto dormiva beata sotto l’influsso dell’incantesimo. Fauna mise via la bacchetta e  osservò con occhio critico il suo operato: adesso la runa protettiva era stata apposta. I quattro segni intrecciati fra loro sfavillarono un’ultima volta prima di sbiadire lentamente sino a scomparire, come se non fossero mai stati tracciati.
 “La mia magia potrebbe non essere abbastanza potente ma…spero di averti protetta almeno un po’ dal male giovane principessa”
Soddisfatta di se stessa Fauna volò via sciogliendo la corte dal suo incanto e fece ritorno alla capanna in cui viveva insieme a Flora e Serena.
La foresta prescelta come luogo per la loro piccola dimora distava diverse miglia dalla reggia.
Si erano stabilite nella zona più fitta e nascosta in modo tale che nessuno riuscisse a trovarle e potessero vivere indisturbate, circondate dalla natura e libere di esercitare liberamente la propria magia.
Fauna dovette volare attraverso gli alberi, come ogni volta le sembrò che i rami adunchi e nodosi che si dipanavano dal tronco la volessero catturare, sapeva che la natura degli uomini non era benigna come quella delle fate che le proteggeva dal male.
Spesso feriva, ingannava e intrappolava.
Risalì un fiumiciattolo, giungendo al lago che nasceva dalle acque di una cascata e prestando la massima attenzione si insinuò fra un paio di rocce che conducevano al retro di essa volando all’interno della buia grotta. Sulla volta un gruppo di pipistrelli sonnecchiava a testa in giù.
Sbucò fuori arrivando finalmente alla capanna.
Era una modesta costruzione in legno, dal tetto in paglia e poche finestre per rischiare l’interno, grazie all’ausilio della magia avevano velocizzato la crescita degli ortaggi che coltivavano intorno alla casa. Possedevano una cucina perennemente in disordine in cui polvere di fata, cibi, pentolami e oggetti appartenenti alla loro vecchia vita convivevano in disordine. Il comignolo non tirava bene motivo per cui cucinare negli ultimi tempi si era dimostrato ancor più difficoltoso del solito, le sole stanze che possedevano una parvenza di ordine erano le camere da letto.
Dall’interno alcuna luce rischiarava la capanna e Fauna entrò silenziosamente badando a non fare rumore salendo le scale. Aperta la porta della sua camera però l’attendeva una sgradita sorpresa: Flora seduta sulla sua sedia l’attendeva, braccia conserte ed espressione truce in volto.
“Ciao Fauna”
“Flora” gracchiò la fata arretrando maldestramente ed urtando il piede contro lo stipite della porta.
“Credevo di essere stata chiara Fauna, non dobbiamo immischiarci nelle faccende degli umani più di quanto non facciamo. Non spetta a noi proteggere la principessa”
“Non sono d’accordo” borbottò l’altra fissando ostinatamente il muro “Se ne siamo in grado dovremmo aiutare il prossimo”
Flora punta sul vivo si alzò in piedi e prese a scuotere la compagna con tanto vigore da farle battere i denti “Devo ricordarti il motivo per cui abitiamo qui? Credi che mi piaccia vivere in questa capanna? E’ per questa ostinazione nell’immischiarci in ciò che non ci compete che siamo state scacciate dalla Corte Benedetta! Se non avessimo agito incuranti delle regole non saremmo qui” Flora ricordava con nostalgia i momenti trascorsi alla Corte fra racconti di guerre e d’amore con la musica dolce del vento e delle chiome alberate. I giorni felici trascorsi ai piedi dello scranno della Regina come sua favorita seduta su una soffice corolla di giglio, la casa accogliente ottenuta dalla cavità di un albero che abitava un tempo.
Poi la cacciata. Umiliante, bruciante vergogna quando la sua casa le era stata portata via senza potersi opporre, la Regina non perdonava gli inottemperanti anche se fra questi vi era la sua favorita.
“Ma se non avessimo aiutato quel giovane Lei sarebbe ancora viva. Alla Corte sono degli ingrati col nostro operato abbiamo salvato molte vite”
“Trasgredendo gli ordini della Regina e per questo siamo state bandite. Smettila di preoccuparti degli umani, loro ci ritengono niente più che creature inferiori utili solo ai loro scopi e ci dimenticano quando non siamo più necessarie. Prima lo capirai meglio sarà per te”
 
 
 
Nonostante le preoccupazioni di Fauna, Rosaspina cresceva buona, bella e piena di vita.
A cinque anni la sua principale occupazione consisteva nello sfuggire al controllo di balia Abrianna, per correre nel giardino a catturare piccoli insetti per osservarli da vicino e adottare piccole creature malandate.
I biondi capelli di Rosaspina crescevano lunghi e riccissimi e gli occhi erano due zaffiri lucenti.
Nel prossimo avrebbe potuto colpire la sfumatura rosata di guance e labbra, la luminosità dei suoi capelli e la corporatura esile. Purtroppo nonostante gli sforzi congiunti di balia e serve il suo aspetto era sempre trascurato coi capelli arruffati fra cui spesso si trovavano foglie e rametti secchi, il più delle volte gli abiti eleganti erano strappati e infangati.
La principessa si affrettò a nascondersi gettandosi di slancio ai piedi di una siepe a forma di cigno, premette le mani contro la bocca per evitare che le sue risatine la tradissero. Una volta che la balia si fu allontanata -borbottando parole come peste, impossibile e screanzata- si sollevò da terra asciugando i palmi sporchi della sua saliva e terra sull’abitino in seta rosa.
Per accorciare il percorso fino al roseto decise di passare per le scuderie. Suo padre le aveva promesso che un giorno pure lei avrebbe posseduto un cavallo e sarebbe stato il più bello e veloce di tutti. Rosaspina non vedeva l’ora così la sua balia non avrebbe più potuto acciuffarla.
Saltellando, saltellando finì che pestò l’orlo dell’abito e cadde lunga distesa per terra. Il viso si macchiò del marrone della polvere così come il vestito a cui il fieno si era attaccato  e chiazze scure, di certo sterco dei cavalli, l’avevano macchiato.
Strofinò la manica del vestitino sulla faccia spalmando il sudiciume da una guancia all’altra, si sollevò da terra e riprese la sua fuga al roseto.
Camminando sul terreno bagnato dalle abbondanti piogge di stagione sporcò di fango l’orlo dell’abito confezionato appositamente per lei solo la settimana precedente, talmente lungo che strisciando trascinava con sé mucchietti di foglie. Rosaspina raccolse un piccolo bouquet di rose incurante delle spine che le graffiavano le mani paffute, quando sentì un debole cinguettio provenire dal basso. I fiori caddero al suolo dimenticati mentre la principessa strisciò sul ventre per raggiungere la fonte del suono. A forza si fece strada attraverso la siepe spezzando i rami delle rose finché non individuò un uccellino.
Lo raccolse con una delicatezza che non le si sarebbe attribuita per quanto era vivace e strisciò fuori dalla siepe, guardò l’uccellino dal piumaggio azzurro che si agitava sulla sua mano cercando di spiccare il volo ma l’ala spezzata glielo impediva. Subito Rosaspina volle mostrarlo a suo padre.
Re Stefano si trovava nel mezzo di una riunione con i suoi consiglieri per cercare una soluzione al problema delle piogge che avevano allagato i villaggi e rovinato i campi.
 “Occorrerà distribuire le riserve di grano raccolte la stagione passata finché i contadini non potranno riprendere il lavoro” prima che il consiglio potesse avvallare o disapprovare la proposta, la principessa Rosaspina irrompette all’interno della sala al grido di: “Padre!”
Re Stefano osservò incredulo la propria figlia ricoperta di fango, coi capelli in disordine levare in alto un animaletto come se fosse stato un gioiello prezioso.
Si arrampicò sullo scranno del padre per salirgli in braccio. “Guardate padre un uccellino. Ha l’aluccia spezzata e non  ha potuto volare via con i suoi compagni!”
“Rosaspina” la richiamò ammonitore “Quante volte ti ho detto di non entrare qui? Una principessa non grida né si mostra trasandata come una volgare popolana” la figlia si corrucciò, strinse l’uccellino al petto e abbassò il capo per non mostrare di star per mettersi a piangere. Odiava che suo padre fosse arrabbiato con lei e temeva la cacciasse come faceva coi servitori impudenti, senza volerlo compiva in buona fede errori che le valevano un ammonimento, quando intendeva solo rallegrarlo mostrandogli le cose interessanti e meravigliose che trovava.  
“Perché la balia non è con te?”
“Io…io mi ero nascosta” rispose con una vocina tremolante. Stefano non sapeva se Rosaspina l’avesse intuito e sfruttasse quella consapevolezza contro di lui, ma ogni qual volta la figlia utilizzava un tono che indicava fosse prossima al pianto non sapeva essere severo con lei, avvertiva il bisogno di doverla consolare desiderando che la sua principessina non fosse mai infelice.
La ricordava neonata quando ad appena sette mesi l’aveva stregato con la sua dolcezza d’infante bisognosa di protezione, la rivedeva a tre anni quando sgambettava impacciata sulle gambe tremanti fra i corridoi della reggia troppo grandi per lei e lo cercava, si attaccava al suo mantello chiedendo di essere presa in braccio,
“Perché non vai dalla balia e le mostri il tuo uccellino? Potrai comprare una gabbia per non farlo volare via” concesse sapendo di rallegrarla.
“Davvero?” domandò la principessa già dimentica del piccolo rimprovero ricevuto.
“Davvero. Ma adesso vorrei riprendere la seduta”
“Come volete padre mio. Buona giornata”
Nonostante Stefano adorasse la sua unica figlia, pur col suo carattere vivace e le perdonasse ogni cosa, la principessa non riscuoteva la stessa approvazione da parte dei consiglieri: se crescendo non fosse cambiata dedicandosi al ricamo e altre faccende da donna, esuberante com’era maritarla si sarebbe rivelata un’impresa ardua. La principessa non era posata, pacata e malleabile come ci si aspettava di consueto da una femmina, la sua balia non riusciva a controllarla mentre re Stefano non la puniva per la sua condotta disdicevole per una reale. In molti concordavano che una settimana trascorsa in camera e privata dei suoi balocchi l’avrebbe resa meno irruenta. Sfiorare appena l’argomento ‘Nuova consorte’ col re  non era neppure da provare, significava sfidare la buona sorte rischiando di trovarsi fuori dalla reggia.
 
 
 
Balia Abrianna quando vide in quali condizioni fosse ridotta la sua cocchina ebbe l’impulso di mettersi le mani fra i capelli. L’abito nuovo oramai era da gettar via, i capelli un groviglio melmoso pieno di erbacce e fra le mani stringeva un uccellino mezzo spiumato.
Abrianna sospirò pesantemente.  E pensare che una volta Rosaspina era così calma, gattonava tranquilla sul tappeto vicino al camino e non le dava alcuna preoccupazione, adesso invece si era trasformata in un vero monellaccio di strada.
“Guarda balia, guarda! Dobbiamo comprargli una gabbietta e dargli da mangiare”
La donna mise la mani sui fianchi e agli occhi di Rosaspina (dal basso della propria statura) con l’aria severa, la cuffia a coprirle i capelli e l’abito grigio, apparve un colosso ma non le faceva paura quanto suo padre quando si arrabbiava.
Venne afferrata per la collottola e trascinata nelle sue stanze, privata dell’uccellino che venne infilato in un cestino e prese a cinguettare disorientato dallo sballottamento. L’abito venne buttato via mentre due serve addette alla vasca provvidero a riempire una tinozza d’acqua calda in cui la calarono, strofinarono la pelle della bambina col sapone lavando via ogni traccia di sudiciume mentre lei si dibatteva e sputacchiava acqua saponata, gli occhi le bruciavano e avvertiva dolore alla testa come se la stessero trafiggendo con tanti piccoli aghi.
La balia pettinava energicamente la chioma ricciuta levando via foglie e sporcizia.
Rosaspina sospirò di sollievo quando venne tirata fuori dalla tinozza e avvolta in un telo candido e profumato, una nuvola di stoffa che l’avvolse piacevolmente trattenendo il calore del suo corpo.
“Credevo di essere la balia di una principessa non di un ragazzetto di strada” sospirò Abrianna lasciandosi cadere pesantemente sulla poltrona, in quel momento un goccio di vino sarebbe stato un vero toccasana per i suoi nervi.
“Io sono una principessa!”
“Allora iniziate a comportarvi come la vostra defunta madre! Lei era l’emblema dell’eleganza e della grazia. Centinaia di poeti ne decantavano la bellezza nelle odi”
Rosaspina drizzò le orecchie, sapeva che un dipinto della fu Cassandra si trovava nelle stanze di suo padre e doveva esisterne almeno un altro. Sollevò le braccia lasciando che le addette alla vestizione l’abbigliassero con un abito azzurro “Balia Abrianna c’è un dipinto di mia madre alla reggia?”
“Ovviamente. Uno si trova nella biblioteca e la ritrae il giorno del matrimonio” la principessa si divincolò dalla presa delle servette e a piedi nudi corse verso la porta, non aveva idea di quale aspetto possedesse sua madre, sapeva unicamente che tutti la consideravano bella .
Venne bruscamente riacciuffata dalle braccia forzute della balia “Ferma principessa. Dovete prepararvi per il pranzo”
“Ma io non ho fame. Io voglio vedere il dipinto, sono curiosa” lamentò seduta sul soffice lettone imbottito di piume mentre una serva le calzava un paio di scarpine di raso.
“Prestate attenzione principessa, le bambine troppo curiose come voi sono la preda prediletta delle streghe. Che nella notte le rapiscono dalle loro camere portandole nei loro antri per divorarle in un sol boccone” l’ammonì facendo una faccia spaventosa. Nella mente di Rosaspina si delineò l’immagine di una donna dalla pelle verde e bitorzoluta, intenta a rimestare una mistura maleodorante con un gigantesco mestolone. Rabbrividì.
Magari avrebbe pazientato fin dopo il riposino pomeridiano per vedere il ritratto di sua madre.
 
 
 
Ad undici anni la principessa Rosaspina aveva dimostrato di possedere la stessa bellezza di Cassandra. Coi ricci scintillanti come l’oro ornati sempre più spesso da preziose perle che dalle foglie e dal sudiciume che s’incastravano quand’era bambina. Crescendo aveva perso una parte della sua esuberanza divenendo più mite. Prediligeva il ricamo alle esplorazioni dell’infanzia, amava la lettura e il suo piccolo uccellino Pip.
Balia Abrianna non doveva più cercarla per l’intera reggia -con suo sommo sollievo- e le sembrava che  fosse molto maturata da quando era entrata nel periodo della fanciullezza.
Solo un’insana e macabra abitudine che aveva preso le suscitava agitazione.
Il temporale estivo infuriava violento: il vento ricordava gli ululati dei lupi, i rami aspri degli alberi si incurvavano come artigli pronti a ghermire le prede incaute, lampi rilucevano abbacinanti illuminando per una frazione di secondo scorci di paesaggio squarciando il cielo, imponendo la loro presenza in quell’inferno d’acqua. In lontananza si era formata una spessa coltre di nebbia che occultava l’orizzonte. Tutto era un miscuglio sfocato di grigio, verde e marrone.
Qualunque fanciulla sola in mezzo alla tempesta si sarebbe sentita spaesata, sarebbe scoppiata in lacrime e avrebbe gridato aiuto cercando di sovrastare il vento. Ma non Rosaspina.
Fin da piccola non aveva mai temuto i temporali, mentre gli altri bambini piangevano per la paura la principessa ridacchiava deliziata di fronte alla potenza della natura.
Anche adesso che era una fanciulla camminava protetta dal suo mantello nero per mimetizzarsi nel buio pastoso, con la pioggia a sferzarle il corpo incollandole i ricci voluminosi al viso. Procedeva spedita inspirando a pieni polmoni l’odore del terreno bagnato dalla pioggia.
La camicia da notte bianca sotto il mantello era leggera, con l’umidità si era incollata al corpo come una seconda pelle facendo penetrare il gelo fin dentro le ossa. Percorse il cimitero fino a raggiungere la tomba di Cassandra, come durante ogni temporale sedette ai piedi della tomba osservando la statua bianca stagliarsi verso il cielo colpita dalle gocce di pioggia: Cassandra appariva splendida ed inavvicinabile, di una bellezza ultraterrena che poteva appartenere unicamente a una dea e in quei momenti non credeva alle parole di chi affermava avesse ereditato la beltà di quella donna morta troppo presto. Come di consueto si stese al suolo, il terreno tramutato in una poltiglia viscida le inzaccherò il mantello ma lei non vi fece caso. Chiuse gli occhi e prestò orecchio al fragore dei tuoni come se udisse una melodia suonata al piano.
Non ne temeva la forza perché da sempre si sentiva attratta da quel particolare fenomeno, come se facesse parte di lei o si trattasse un vecchio amico giunto a visitarla. Si grattò distrattamente dietro il collo, negli ultimi tempi avvertiva un prurito tremendo alla nuca e si grattava con tanta foga da graffiarsi.
Dall’alto, riparati in una nicchia nel muro, due corvi osservavano con interesse la minuta figura distesa al suolo, un’entità che manifestava il suo rispetto alla natura.
Gracchiarono con cupa soddisfazione in trepidante attesa.
“Principessa!” il vento trasportò l’eco di un richiamo e subito lo risucchiò indietro “Principessa!” Rosaspina si sollevò dal suolo, intontita come se strappata ad un sogno, e s’incamminò nella direzione verso cui proveniva il richiamo.
Man mano che avanzava prendeva a distinguere alcune figure che arrancavano nella sua direzione. Giunti gli uni dinanzi all’altra la principessa poté vedere due cavalieri: affaticati nelle loro pesanti armature che la invitavano a tornare al riparo entro le mura del palazzo. Lei li seguì docile.
Non posò un passo all’interno della reggia che balia Abrianna accorse munita di un pesante mantello asciutto, trafelata e ansimante per la fatica di dover trasportare il peso in più accumulato in quegli anni. La trascinò nelle sue stanze in cui una vasca, dalla quale si levavano volute di fumo, l’attendeva. Le serve addette alla vasca si erano premunite di mantenere l’acqua calda nell’attesa del suo rientro. L’abito sudicio venne gettato in un angolo e Rosaspina insaponata e ripulita.
Spesso si grattava la nuca e Abrianna le spostava con stizza la mano “Principessa, smettetela con questa disgustosa abitudine o a corte crederanno che siate sporca come una semplice popolana” la redarguì sempre attenta alla sua educazione, amava quella principessina come avrebbe amato una propria figlia od una nipote e teneva molto che si comportasse come si confaceva ad una reale.
I comportamenti squisiti ed educati della sua cocchina erano il suo orgoglio, così come la sua abilità nel cucito e la mancanza di vanità per la sua seducente bellezza.
Rosaspina sospirò. Non era certo colpa sua se le prudeva il collo, era un fastidio impossibile da ignorare più si sforzava di desistere più quello aumentava in maniera esponenziale “Balia Abrianna, quando tornerà mio padre?” chiese impaziente, grattandosi furtivamente la nuca. Stefano era partito settimane prima per il regno di re Uberto così da combinare il fidanzamento tra lei e il principe Filippo. Rosaspina non aveva mai avuto modo di incontrarlo ma sperava si sarebbero piaciuti almeno un po’.
“Se il temporale cesserà già domani sarà di ritorno alla reggia principessa”
“Bene, sono contenta” ammise lasciando che le districassero i capelli.
 
 
 
Come preannunciato dalla balia l’indomani sera Stefano fu di ritorno con un dono di fidanzamento per Rosaspina, la quale avvistando da lontano il padre gli corse incontro saltandogli felice al collo. “Rosaspina, come stai figlia mia? Sono stato via troppo a lungo” le accarezzò i capelli biondi con affetto lasciando che si stringesse a lui.
“Padre! Sono felice che siate tornato mi siete mancato in questi giorni” la principessa prese a subissarlo di domande“Com’era il regno di re Uberto? Bello come il nostro? E il principe com’era?”
Stefano rispose con pazienza alle domande della figlia dilungandosi sulle bellezze che possedeva il regno. Infine estrasse da un cofanetto in legno un monile d’argento con un rubino rosso sangue incastonato nel mezzo “Per te. Un dono da parte del principe Filippo per il vostro fidanzamento” Rosaspina si voltò lasciando che il padre le allacciasse al collo il gioiello, osservandolo deliziata poté notare che vi era un gancetto per la chiusura. Lo aprì incuriosita “Ma è vuoto!” esclamò delusa.
“Pensavo…potresti conservarci il ritratto di tua madre” propose Stefano, al che gli occhi azzurri della figlia scintillarono di commozione all’idea di avere sempre con sé qualcosa che le ricordasse sua madre. Le venne consegnata una miniatura del ritratto di Cassandra, piccola a sufficienza da poter essere inserita all’interno della collana e una volta che fu riposta Rosaspina strinse il monile come se contenesse il suo tesoro più prezioso.
 
 
 
In occasione del sedicesimo compleanno di Rosaspina il principe Filippo e re Uberto si sarebbero recati a Stormwind. La principessa era in trepidante attesa dell’arrivo del suo futuro sposo, fantasticava sul suo aspetto, sul suo carattere, immaginando un radioso futuro insieme.
L’abito confezionato per l’occasione era di raso rosso sangue, l’esatto colore del monile da cui non si separava mai, stretto in vita per mettere in risalto i fianchi rotondi, aveva maniche lunghe a sbuffo e una scollatura ampia. Un po’ troppo per i gusti della principessa abituata ai suoi abiti accollati da fanciulla ma non fece storie e si lasciò abbigliare in silenzio, i capelli furono intrecciati in una treccia con gemme preziose di ogni genere.
“Principessa siete incantevole” la lusingò una serva che si trovava da poco alle sue dipendenze “Il principe non avrà occhi che per voi” continuò gustandosi l’attenzione che le veniva prestata.
“Dici davvero?”
“Certo. Anzi potreste aggiungere questo alla vostra acconciatura” azzardò estraendo dal cofanetto di Rosaspina un fermaglio tempestato di zaffiri. Fece per sistemarlo fra i capelli quando la mano della balia la bloccò “Sciocchezze. E’ abbastanza agghindata e appariscente, non occorre imbellettarla ulteriormente. E portate via quella cipria è troppo giovane!” gridò rivolta ad un gruppo di servette che scapparono via strillando.
“Sciocche galline” commentò inacidita. Strinse fra le mani il visino della principessa che aveva da poco assunto il sembiante di una giovane donna, le pareva ieri che accorreva nella sua stanza atterrita dal Primo Sangue “Ma guardatevi, siete il ritratto di vostra madre”
“Spero tanto di piacergli balia” mormorò occhieggiando il proprio riflesso nello specchio.
“Sarebbe sciocco se non vi amasse” Rosaspina si mordicchiò le labbra. Quella era una speranza che non si era data il lusso di esprimere ad alta voce, ma in cuor suo desiderava essere amata allo stesso modo in cui Stefano aveva amato Cassandra.
Uno squillo di trombe annunciò che re Uberto e suo figlio erano giunti.
Rosaspina corse ad affacciarsi al balcone in marmo della sua camera. Sbirciò dall’alto i vessilli rossi e gialli del regno che un giorno avrebbe governato al fianco del principe Filippo. Sentì le gambe farsi molli per l’emozione (o forse era dovuto al corsetto che le toglieva il respiro, difficile distinguere la differenza) dopo un paio di richiami da parte di Abrianna si decise ad allontanarsi, soprattutto perché per quanto si sporgesse non riusciva a scorgere la figura del principe.
Si affrettò a scendere le scale per farsi trovare al fianco di Stefano. Incrociò strettamente le braccia dietro la schiena per impedirsi di grattare la nuca, non voleva che al suo primo incontro col principe lui la vedesse grattarsi con furia come fosse infestata dai pidocchi.
Re Uberto varcò il portone seguito dal figlio. Uberto a differenza di Stefano possedeva una figura tozza, con un pancione prominente e il viso rubicondo con un’espressione austera. Il principe Filippo era un giovane alto, dal fisico prestante, i capelli color fuliggine ed un velo ad opacizzargli gli occhi castani che la principessa non seppe decifrare.
Uberto porse i suoi ossequi a Stefano per poi concentrare la propria attenzione su Rosaspina “E voi dovete essere la principessa Rosaspina, i racconti sulla vostra bellezza non vi rendono giustizia” mormorò con uno sguardo che mise la giovane a disagio, si tese tutta come la corda di un violino mentre avvertiva lo stomaco in subbuglio come la volta in cui bambina si era intrufolata nelle cucine facendo indigestione di torroncini.
Si avvicinò al padre “V-vi ringrazio” balbettò in soggezione,
Uberto assestò una poderosa spinta al figlio che rischiò d’inciampare. Rosaspina inorridì dinanzi a quelle maniere rudi augurandosi che il figlio non le possedesse in egual misura.
Il principe le prese la mano inchinandosi e vi lasciò un casto bacio, le labbra erano leggermente umide e la fanciulla rabbrividì per il disgusto “Principessa Rosaspina è un vero piacere conoscervi” mormorò atono.
Non si direbbe proprio! Pensò con stizza Rosaspina.
“Stefano col tuo permesso mio figlio gradirebbe accompagnare la principessa in giardino per una passeggiata” disse Uberto. Filippo in realtà non ardeva dal desiderio di trascorrere del tempo solo con la principessa, sarebbe volentieri fuggito il più velocemente possibile nella direzione opposta a quella di lei se suo padre non lo avesse privato della via di fuga piazzandosi alle sue spalle.
Assunse una smorfia che nelle intenzioni voleva essere un sorriso e porse il braccio alla principessa.
Rosaspina colse al volo l’occasione: magari lontano dalla supervisione paterna avrebbe mostrato di possedere una personalità travolgente, suscitandole le medesime emozioni di cui bisbigliavano le servette quando credevano di non venir udite.
Spesso parlottavano di incontri notturni con i loro innamorati avvenuti all’insaputa dei genitori e di come lasciassero che i giovani si prendessero qualche libertà, concedendo abbracci o baci.
Sfortunatamente per Rosaspina i minuti trascorsero in un silenzio intollerabile finché non decise di prendere la parola “Voi…cosa amate fare nel vostro tempo libero?”
“Prego?”
“Quali sono i vostri passatempi”
“La caccia. L’unico svago che un principe possa concedersi. Sono convinto che ogni altro tipo di piacere sia un ostacolo che impedisce di forgiare adeguatamente il carattere di un futuro sovrano”
La caccia?! Inorridì la fanciulla. Le rare volte in cui per sfinimento aveva convinto Stefano a portarla con lui per una battuta di caccia nascostamente aveva fatto scattare i trabocchetti piazzati e prodotto schiamazzi tali che gli animali erano fuggiti.
La sua ultima battuta si era conclusa con lei che faceva fuggire un grosso cervo e suo padre che a seguito della perdita le intimava di non azzardarsi mai più a chiedergli di  accompagnarlo.
“Oh” vedendo il roseto di Cassandra espresse un desiderio “Cogliereste un fiore per me?” sbatté le ciglia, una mossa che le aveva assicurato l’appagamento di ogni capriccio.
“Certo che no! Principessa i principi non si trastullano cogliendo fiori, inoltre mi trovo costretto ad ammettere che mi provocano una sgradita reazione che mi costringe a letto”
Rosaspina s’imbronciò. Non stava andando esattamente come si era figurata, come inizio di giornata si dimostrava deludente, ma essendo il suo compleanno era intenzionata a rendere quel giorno speciale ed indimenticabile. Si sforzò di portare avanti la conversazione, sfoggiando un’eloquenza che non le apparteneva, fornendo al principe più occasioni per prendere in mano la conversazione ma lui si mostrava chiuso in un ostinato mutismo.
Passeggiare col principe si era rivelato un supplizio ma mai quanto i pochi minuti trascorsi con re Uberto, nonostante a pochi passi da loro ci fosse la figura rassicurante di balia Abrianna. Il sovrano aveva uno sguardo lascivo mentre parlava di ciò che ci si sarebbe aspettato da lei una volta regina, che le percorreva la figura soffermandosi più di quanto fosse consono in alcuni punti del suo corpo, quasi fosse svestita come una di quelle donnacce di cui aveva udito parlare talvolta dai cavalieri, facendole avvertire il bisogno di coprirsi col mantello. Per fortuna non durò troppo a lungo e il banchetto le rese il buon’umore. La sala dei banchetti illuminata dalle candele possedeva un aura quasi magica grazie alla luce delle fiammelle e dal lucore delle innumerevoli gemme incastonata nei candelieri, dal gigantesco candelabro che calava dal soffitto scendevano i vessilli blu di Stormwind, sulla tavola il servizio d’argento era stato sostituito da quello d’oro, le posate erano contenute in astucci di cedro intagliati. Appena la principessa fece il suo ingresso i nobili si inchinarono finché non fu accomodata al suo posto.
Seduta al tavolo al fianco di suo padre, Rosaspina si mostrò amabile come al solito ottenendo consensi e complimenti a profusione che migliorarono di molto il suo umore: alcune dame lodarono il suo aspetto ricordando la defunta Cassandra emettendo sospiri nostalgici, altre ancora la maniera in cui mangiava come ‘Un piccolo uccellino’. I regali certo contribuirono in buona parte a rallegrarla e quando Stefano le donò la corona che un tempo era appartenuta a Cassandra gli occhi le divennero lucidi. Si adombrò invece quando scorse il principe Filippo conversare divertito con un gruppo di giovani nobili.
Non riesco a crederci, con me sembrava sul punto di scappare e adesso ride e scherza spensierato.
Un tuono risuonò fragoroso nella sala e il vento entrò prepotente dalle finestre spegnendo un buon numero di candele, facendo strillare spaventate le dame. Rosaspina nell’oscurità si dileguò ansiosa di poter ammirare il temporale impetuoso che riteneva un dono, un presente per il suo compleanno da parte della natura. Non avrebbe potuto recarsi al cimitero come suo solito né distendersi al suolo fingendo d’essere parte della tempesta, ma nel salottino dell’ala est del castello avrebbe potuto ammirare il tutto indisturbata.
Corse impaziente verso il salottino, spalancò la finestra lasciando che il vento le spruzzasse il volto di pioggia, arricciò il naso e ridacchiò deliziata. Si grattò energicamente la nuca ancora in preda al prurito, in quegli anni aveva sperimentato ogni genere di unguento e balsamo nel tentativo di placare l’orticaria ma nessuno si era dimostrato efficace.
Il botto sordo della porta che veniva chiusa le fece schizzare il cuore in gola, sobbalzò bruscamente e scese giù dal divanetto che aveva utilizzato come rialzo.
“Re Uberto!” esclamò sorpresa esibendosi in un’elegante riverenza nonostante il tremore alle gambe. “Cosa… fate qui? Non sta bene che una fanciulla rimanga sola con un uomo che non sia il padre” ricordò, come se quella frase bastasse a far uscire il re dal salottino. Non voleva rimanere sola con lui, oltre ad essere indecoroso le provocava una paura irrazionale serpeggiante dal cuore allo stomaco in cui le sembrava si fosse formato un nodo. “Ma tu sposerai mio figlio, questo fa di me un membro della famiglia” affermò prendendo a girarle intorno. Rosaspina girò di riflesso per non dare mai le spalle all’uomo “Siete davvero bella” mormorò fissandole il seno messo in mostra dalla scollatura “Non ho potuto evitare di osservarvi per tutto il banchetto” proseguì spingendo Rosaspina in un angolo. Nella sua mente prese a plasmarsi l’immagine della principessa alla sua mercé, nuda sotto di lui, finalmente soli senza altri scomodi invitati che pretendessero la sua attenzione. La principessa si appiattì quanto più poteva contro il muro, atterrita come mai in vita sua, il cuore batteva furioso tra i seni, respirava affannosamente mentre osservava la mano grossa del re avvicinarsi a lei per attrarla a sé e saggiare la morbidezza della vita “Vostra Maestà vi prego non…”
“Padre!” il principe Filippo spalancò la porta, s’irrigidì visibilmente quando scorse la principessa rannicchiata in un angolo con l’imponente figura del genitore a sovrastarla. Tentennò per qualche istante finché davanti allo sguardo ammonitore di Uberto non cedette, e tornò al banchetto richiudendo cautamente la porta dietro di sé.
Rosaspina osservò sgomenta, annichilita, la ritirata del principe che l’aveva abbandonata in balia di quel re rozzo e senza scrupoli. Non era uno di quei nobili principi di cui narrava la sua balia pronto a salvare principesse in pericolo. Era un vile senza spina dorsale.
“Non essere delusa piccola, non c’è nulla che io non possa darti al posto di mio figlio. Filippo non si dispiacerà se gioco un po’ con la sua sposina, vedi lui ha gusti particolari preferisce i fanciulli alle fanciulle graziose come te. Ma non prendertela a male penserò io a riempirti di attenzioni” sibilò prima di afferrarla rudemente per un lembo dell’abito tirandole qualche ciocca di capelli.
Rosaspina rovinò al pavimento nel tentativo di fuggire facilitando il compito del suo assalitore.
Una mano enorme e sudaticcia le coprì il viso, si dimenò come un animale preso in trappola mugolando contro l’arto che le toglieva il respiro, l’altra mano le sollevava le gonne frugando impietosamente ignorando i suoi lamenti.
Rosaspina continuò a dibattersi finché non avvertì un dolore, fortissimo, crudele, spietato mozzarle nuovamente il fiato e levarle ogni energia, le lacrime si accumularono agli angoli degli occhi e colarono giù. Infine li chiuse attendendo la fine.
“Non dire niente a nessuno principessina. Tanto attribuiranno la colpa a te” quella frase fu l’ultimo ricordo che le si impresse a fuoco nella memoria.
 
 
 
Rosaspina trascorse giorni seguenti barricata nelle sue stanze. Le tende tirate a portare l’oscurità, la porta chiusa con la chiave infilata nella toppa e un mobile a sbarrarla.
Non ricordava di averlo spostato di peso davanti alla porta, né di essersi trascinata nella sua camera e cambiata d’abito o d’essersi messa a letto. Solo il giorno successivo, destata bruscamente dalla voce della balia che non riusciva ad entrare, aveva preso coscienza di tutto e comprendeva  il cuscino umido. Riprese a piangere. Non capendo il perché del torto subito, di quel male che non meritava. Nata e cresciuta in quella reggia non conosceva altra realtà se non una modesta porzione dei boschi di Stormwind. Disperandosi, maledicendo il suo triste destino.
Prese a nutrire il cuore di pensieri che mai le avevano sfiorato la mente prima di allora, accresceva il suo odio mentre si grattava furiosamente la nuca, inventava nuovi modi per vendicarsi mentre mordeva il cuscino per soffocare le grida.
Dal balcone due corvi osservavano la scena. Il momento era giunto, gracchiarono di cupa fierezza nell’osservare l’operato della loro antica signora. La nuova signora era bella quanto la prima e destinata ad essere ancor più crudele. Ne avvertivano i pensieri neri e deliziati ne gioivano.
Ben svegliata principessa, ben svegliata bella addormentata, ben svegliata Rosaspina.
Ben svegliata nostra padrona.
Il lungo sonno si è spezzato, benvenuta alla realtà.
Nella notte infuriava il temporale e dopo giorni rinchiusa nelle sua stanze la principessa avvertiva la sete ed i morsi della fame. Uscì di soppiatto dalla stanza, i piedi nudi sul gelido pavimento di pietra, la camiciola bianca come unico riparo. Non aveva più nulla che potessero sottrarle.
La nuca prudeva, si era procurata graffi grattandola con rabbia, ne avvertiva le strisce ruvide in cicatrizzazione contro i polpastrelli.
Gira il volto principessa. Gira il volto nostra padrona, segui il tuo destino.
Attratta dal richiamo dei corvi (un gracchiare che tuttavia ai suoi orecchi era comprensibile) Rosaspina voltò il capo verso un corridoio mai percorso, mai visto in quell’ala del castello. Due corvi dal piumato nero lucidissimo e i becchi affilati, immobili la osservavano coi loro occhi piccoli e scuri, l’attendevano gracchiando.
Si mosse verso di loro lasciandosi guidare in quel corridoio apparso dal nulla, come ipnotizzata.
Vieni a noi nostra padrona, vieni nell’antro della strega, abbraccia il tuo destino.
Appena imboccato il corridoio il muro si richiuse alle sue spalle (intrappolandola?) estromettendo i curiosi. Conduceva a stanze che mai aveva visto e la polvere e le ragnatele erano la prova inequivocabile del loro abbandono. Una camera da letto decadente con un letto a baldacchino con lenzuola che al tatto si rivelarono di seta, uno specchio dal cui centro di diramavano innumerevoli crepe sfaccettando il proprio riflesso in mille figure incomplete, nell’armadio abiti dalle tinte cupe un po’ sfacciati agli occhi di una fanciulla nubile.
L’altra stanza aveva tutto l’aspetto di un antro di streghe: i libri polverosi sistemati uno di fianco all’altro da titoli incomprensibili, un pentolone per le pozioni, boccette in cui liquidi dalle colorazioni inusitate stagnavano chissà da quanto.
Uno dei corvi fece cadere al suolo un tomo di notevoli dimensioni.
Studia mia padrona, apprendi mia signora, coltiva il tuo potere.
Rosaspina uscì dal suo isolamento volontario. Per tutti la causa era un malore. Per balia Abrianna più sospettosa addusse come scusa il sangue mensile. Al mattino si sforzava di essere affabile e buona come suo solito. Ma nonostante l’impegno, la balia che l’aveva cresciuta e la conosceva da quando era neonata si accorse di come i suoi modi fossero più freddi e scostanti e i suoi sorrisi più affettati. Di notte si recava nel corridoio per studiare la magia oscura, il prurito alla nuca in quei momenti si presentava insopportabile e si grattava talmente tanto che oramai cicatrici rosate e spesse l’attraversavano. I corvi l’attendevano su un trespolo e l’osservavano studiare, volavano nel cielo vigilando dall’alto i suoi spostamenti e la guidavano nella foresta per svelarne i segreti e le vie. Rosaspina scoprì che gli alberi non erano tutti uguali, che ogni arbusto, ogni pianta possedeva un odore caratteristico, una conformazione che lo differenziava dalle altre. Coglieva le erbe per le pozioni, le distillava, le essiccava e attendeva di sperimentarle
Studia e cresci nostra signora, coltiva il male nel tuo cuore, sazia la tua vendetta, versa sangue
Un anno trascorse dal giorno della tragedia, un anno dall’iniziazione della principessa alla magia. I corvi erano i suoi occhi e per lei spiavano il castello di re Uberto e chiunque iniziasse a trovare sospetto il suo atteggiamento.
Il momento è giunto nostra signora, la tua vendetta sta per compiersi.
Spargi sangue nostra padrona, esigi il tuo tributo.
Re Uberto e il principe Filippo erano sulla strada per Stormwind. Sarebbe stato l’ultimo incontro prima del matrimonio. Rosaspina indossò l’abito viola ricamato d’argento, dalla linea semplice che ripercorreva fedelmente le linee del corpo, prese il mantello nero che l’accompagnava da sempre e tese una mano verso i corvi. Un invito, un ordine.
I volatili sul braccio gracchiarono esultanti, i secoli erano grigi e vuoti senza che un po’ di rosso ne vivacizzasse l’apatia. La padrona lisciò loro le piume sul capo “Miei Diletti, cercate la carrozza dagli stendardi rosso e oro, indicatemi il percorso” mormorò prima di levare il braccio verso la finestra. Era il suo castello e sapeva come uscire senza esser vista, il mantello la mimetizzò nei boschi e seguì il gracchiare dei corvi che si soffermarono in volo formando cerchi concentrici in un punto poco percorso della foresta.
Vieni, vieni nostra signora. Vieni, vieni nostra padrona.
Versa il sangue che è tuo di diritto, versa il tributo in cambio del tuo sangue.
Prima bianco poi nero. Muta il tuo essere, accresci il potere.
Quando la carrozza si arrestò Uberto venne sbalzato in avanti picchiando la testa contro il tettuccio della carrozza. Filippo si destò dal suo sonnecchiare.
“Che combini dannato incapace?!” gridò contro il cocchiere. Ma lui non prestò ascolto troppo preso dalla figura incappucciata immobile sul sentiero accidentato “Stupido bastardo vuoi  muoverti?” inveì. Ma improvvisamente il cocchiere si accasciò al suolo, senza un lamento, come una marionetta a cui erano stati recisi i fili, sul petto un vuoto intriso di sangue. Nei suoi occhi il bianco della morte.
Ecco il peccatore nostra signora, ecco il profanatore nostra padrona.
Estrai il suo cuore nostra signora, fai scorrere il suo sangue marcio.
Uberto non ebbe il tempo di capire come, che una forza invisibile lo strappò all’interno della carrozza. Finì sul terreno umido e melmoso.
E’ quello il suo posto nostra signora, prostrato ai tuoi piedi nostra padrona.
Il mondo si inchinerà alla tua potenza.
Quando si alzò riconobbe in Rosaspina la sposa di suo figlio. Ma l’aspetto era diverso, più crudele e selvatico. Il ghigno macabro sulle labbra era diverso. La principessa dal cuore puro era una strega.
“Puttana del Demonio” sputò fuori dalle labbra “Una bellezza simile poteva essere solo il frutto di un patto con Satana” non ebbe tempo di dire altro che la principessa gli affondò le unghie nel petto. A fondo, sempre più in profondità sino a raggiungere il cuore e poi…lo strappò brutalmente dal petto. Il principe Filippo osservò atterrito la scena acquattato in un angolo della carrozza, spaurito come un bimbo che aveva perduto la strada di casa. Guardò Rosaspina infilare il cuore grondante sangue e ancora palpitante in un sacchetto affisso alla vita per poi dirigersi verso di lui.
“T-ti prego. Io non ti ho fatto niente”
“E’ questa la tua colpa” sibilò Rosaspina “Tu non hai fatto niente” e il cuore del principe non fu più nel petto.
Ben svolto nostra signora, ben fatto nostra padrona.
Cuore nero, strega oscura versa il sangue degli indegni.
Strappa i cuori, conservali con cura. Un giorno ne abbisognerai.




Angolo Autrice: Ciao a tutti! Questo è il prologo di una storia che ho iniziato a scrivere mesi fa, è un piccolo esperimento per vedere se riesco a cimentarmi nel genere dark ed essendo Halloween quale giorno migliore per pubblicarla?
Oltre alla Bella addormentata inserirò favole come Cappuccetto rosso, la Sirenetta, la Regina delle Nevi, la Bella e la Bestia e Tremotino. Almeno per il momento queste sono le mie intenzioni potrebbero aumentare perché della storia ho ideato solo i canovacci il resto è ancora molto nebuloso e tutto potrebbe subire variazioni.
Spero che il prologo vi abbia incuriositi o perlomeno l’abbiate trovato decente, fatemi sapere cosa ne pensate se vi è piaciuto o se non vi è piaciuto e perché, ogni parere è ben accetto :)
In ultimo vi preannuncio che il prossimo capitolo si collocherà temporalmente trecento anni dopo ( si lo so, è un bel po' di tempo dopo ma ha un suo perché)
Detto questo spero che quando pubblicherò il primo capitolo vogliate leggerlo in caso contrario vi ringrazio ugualmente per aver dato a questa storia un’opportunità.
Ciò detto buon Halloween, non fate indigestione di dolci e a presto,
Vostra Phoebe
  
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