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Autore: Naco    22/02/2009    1 recensioni
Un incontro, assolutamente casuale. E la ruota del destino comincia inesorabilmente a girare.
Genere: Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Universitario
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- Questa storia fa parte della serie 'Mara e i suoi amici'
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Una premessa, prima di iniziare…
Salve a tutti. Quella che vi apprestate a leggere è una fanfiction. Non nel senso che ci sono personaggi creati da altri (altrimenti non starebbe in questa sezione, no?), ma una storia fantastica che non ha alcuna pretesa se non quella di far sognare me e tutti coloro che come me, amano il Sol Levante e sognano di incontrare il proprio attore/cantante con gli occhi a mandorla preferito. Sì perché, mi sono accorta, di Notting Hill et similia ce ne sono tanti, ma pochi pensano a noi che abbiamo gusti un po’ più particolari.
Ed è da questo presupposto che nasce questa storia. Probabilmente, non avrà chissà che spunti originali e infatti non vuol certo essere un’opera con sì alte pretese; l’unico mio desiderio è che questa storia possa divertire voi, lettori, come ha divertito me, mentre la scrivevo.
Se avete visto il film da cui ho tratto il titolo, state tranquilli: con quell’opera, non c’entra assolutamente niente; anzi, io non l’ho nemmeno mai visto! XD Quindi se trovate qualche riferimento è assolutamente casuale e non voluto. Il perché l’ho scelto, non posso dirvelo però: leggete e capirete. ^^
Ah, un’ultima cosa, prima di smetterla di scocciarvi: i luoghi qui presenti, le materie qui insegnate esistono veramente; non però i personaggi, che non c’entrano assolutamente nulla con quelli reali. Quindi, non prendetevela con me, se ritrovate qualcuno che conoscete sul serio, ok? XD
Bene, credo sia ora di piantarla con queste introduzioni inutili: buona lettura!


Si ricorda che questa storia è protetta da .

UN GIORNO, PER CASO

I

Non avevo mai creduto a concetti come il destino e robe simili. Fin dall’infanzia, ero sempre stata convinta che tutto è semplicemente frutto del caso e che il destino non esiste. Se un giorno incontro qualcuno che ho sognato la notte precedente, non è colpa del destino; è solo un caso. Se sto pensando a qualcosa, è questo si avvera dopo poco, il destino non c’entra assolutamente niente; è semplicemente un caso. C’è chi dice che un evento può essere casuale, ma quando le coincidenze iniziano ad essere troppe, non possiamo più parlare di accidentalità. Sciocchezze. Due coincidenze sono due coincidenze; tre coincidenze sono tre coincidenze. Non esiste alcuna mano che guida le nostre azioni, né esiste alcun Dio che agisce dall’alto. Ne ero sempre stata convinta, e avrei continuato ad esserlo.

Fu quindi soltanto un caso se, proprio quella mattina, il telefono avesse iniziato a squillare con una certa insistenza.
“Si può sapere chi è che rompe le palle fin dal primo mattino?” sbraitai a nessuno in particolare, mentre buttavo via le lenzuola e correvo alla ricerca della mia borsa che conteneva ancora il mio cellulare acceso dalla sera precedente. Mentalmente mi maledii: ero solita spegnerlo, prima di andare a letto per evitare sgradevoli risvegli, esattamente come era avvenuto quel giorno, e qualcuno aveva pensato bene di cogliere al volo l’unica occasione che gli sarebbe mai capitata, proprio quando, più del solito, non avevo voglia di sentire nessuno.
“Pronto?” chiesi, la voce ancora impastata dal sonno.
“Oh, Stella, finalmente! Ma quanto ci metti a rispondere?”
Stella. Odiavo essere chiamata con quell’assurdo soprannome da mia madre. L’avevo sempre detestato e, a ventiquattro anni suonati, cominciava a risultare assolutamente irritante.
“Mamma, dormivo. Si può sapere che c’è a quest’ora?”
“Ma se sono le otto!”
Peccato che per me le otto è presto, pensai, soprattutto quando sei riuscita ad addormentarti meno di tre ore prima, ma preferii tenere questo pensiero per me e troncare la discussione sul nascere.
“Allora, cosa dovevi dirmi di così urgente?”
“Ehm… Stella mia, ho saputo di quello che è successo ieri. Mi dispiace tanto, Stella mia, ma vedrai che presto…”
Click.
Stizzita, chiusi la chiamata e spensi il cellulare. Certo che le voci corrono in fretta, pensai, nonostante ci separassero quasi duecento chilometri. Dovevo fare i complimenti a mia madre: avrebbe potuto fare concorrenza alla CIA, indubbiamente. Se era già a conoscenza di quello che era accaduto neanche dodici ore prima, sicuramente c’era lo zampino di Ilaria, che quanto a pettegolezzi e a complotti era seconda solo alla mia genitrice; del resto, era lei l’unica persona che oltre a mia madre sapeva.
Scossi la testa con forza. No, non era quello il momento di rimuginarci. Dovevo cercare di allontanare quel pensiero che si era affacciato alla mia mente, e in fretta anche. Se ci avessi ripensato, probabilmente non mi sarei più ripresa. E non era quello il momento di crollare. Non me lo potevo permettere. Assolutamente.


Avevo pensato di evitare di andare all’università, quel giorno. Non ero proprio dell’umore adatto per seguire le lezioni e vedere i miei compagni di corso e certamente il mio comportamento ne avrebbe risentito, portando gli altri a chiedermi cosa mi fosse successo. Tuttavia, l’idea di andare in ateneo, che la sera prima mi era sembrata così improponibile, in quel momento mi solleticava non poco: forse, seguire sarebbe stato più salutare che restare chiusa fra quelle quattro mura con quello spettro che avrebbe continuato a tormentare i miei pensieri per tutto il giorno e anche dopo.
Oddio. Non è che l’aria di una città dove c’erano più automobili che essere umani possa essere definita così buona da mettermi in sesto, ma probabilmente avevo così bisogno di vedere vita intorno a me che persino lo smog cittadino avrebbe potuto essere un ottimo toccasana. Dovevo stare davvero male, accidenti.
“Buon giorno, signorina.”
La voce di Marcello, il portinaio, mi fece sobbalzare. All’inizio, ero stata tentata di far finta di non averlo visto e di tirare dritto; ma dato che quell’uomo era stato sempre così buono e disponibile con me fin da quando mi ero trasferita lì dal mio paesino dell’entroterra per completare gli studi, che un simile comportamento mi sembrò una cattiveria gratuita. E poi, non ero stata proprio io a voler uscire di casa perché volevo vedere gente?
“Buon giorno, signor Marcello.”
“Va’ a lezione, vedo”, disse indicando la mia borsa sorridendo.
Risposi al sorriso e la mia mente corse alla prima volta che l’avevo incontrato. Ero appena rientrata dall’università, la borsa di Hello Kitty che mi avevano regalato per la maturità i miei amici, piena di libri appena acquistati in una mano, la spesa nell’altra. Ero talmente immersa nei miei calcoli su quanto avessi speso, che non mi ero minimamente resa conto di aver appoggiato la mia borsa sul piede di una persona, una volta entrata in ascensore.
“Ahia!” si lamentò infatti una voce accanto a me.
Mi voltai e dei capelli brizzolati e un paio di baffi dello stesso colore mi sorrisero divertiti: la mia faccia rossa per la vergogna doveva essere un vero spettacolo a vedersi.
“Mi scusi tanto!” biascicai, spostando velocemente il mio pesante bagaglio.
“Non si preoccupi, signorina. Tuttavia, sarei curioso di sapere cosa contiene: un paio di mattoni?”
Risi. “No, sono solo alcuni libri dell’università.”
“Oh, allora dunque è lei la studentessa universitaria che si è trasferita qui da poco!”
Annuii. “Sì, mi chiamo Mara Facchetti, lieta di fare la sua conoscenza.”
L’uomo si piegò in avanti, in un maldestro tentativo di inchino, reso ancora più incerto dall’abitacolo troppo stretto dell’ascensore: “Io sono Marcello, il portinaio. Per qualsiasi problema, non esiti a rivolgersi a me o a mia moglie. Abitiamo al primo piano”.
Era iniziata così la mia amicizia con il signor Marcello e con sua moglie: ogni domenica, nei primi mesi dopo il mio trasferimento, i coniugi mi avevano invitato a pranzo da loro e mi avevano reso partecipe della storia di tutti gli abitanti del palazzo e della loro famiglia; ogni tanto, quando la signora preparava qualche pietanza particolarmente ricercata o che magari sapeva non avevo mai assaggiato, me ne portava una porzione e io cercavo di ricambiare così tanta gentilezza come potevo, con qualche faccenda di casa o facendo la spesa anche per lei.
“Sì, ho lezione alle nove.”
“Allora buona lezione.” mi disse a mo’ di saluto e si allontanò verso il suo posto di lavoro.
“Ah, signorina…?”
Sarei mai riuscita a fargli capire che poteva anche darmi del tu, come faceva sua moglie?
“Mi dica.”
Abbassò un po’ lo sguardo, imbarazzato. “Lucia… mia moglie stasera per cena ha intenzione di preparare il polpettone. So che le piace molto, perciò, se le va…”
Non ebbi neanche il tempo di rispondere che già aveva aperto il gabbiotto e si era posizionato su quella sedia che ormai occupava da più di trent’anni. Il cuore mi si strinse. Anche se non avevo raccontato niente di cosa mi fosse capitato, aveva capito subito che qualcosa era successo; tuttavia, invece di fare domande indiscrete, che sapeva potevano infastidirmi, come invece aveva fatto mia madre, preferiva lasciarmi il tempo di metabolizzare il tutto e di scegliere da sola il momento in cui avessi voluto parlare – se avessi voluto; il tutto semplicemente standomi accanto e facendomi sentire sempre la benvenuta da loro.
Era stato sempre così. Quanto ero stata bocciata ad un esame particolarmente difficile, quando avevo litigato con Ilaria… chissà come, la signora, proprio quella sera, avrebbe cucinato qualche mia pietanza preferita.
“Grazie” dissi a bassa voce, ma non ero sicura che l’avesse sentito.

Sin da piccola, ho sempre amato i treni.
Viaggiare in un vagone, a contatto con gente sconosciuta che, per una, due, tre ore della sua vita intreccia la sua esistenza con la tua, ha un che di meraviglioso: guardare il paesaggio che ti scorre accanto, mentre tu sei seduta intenta a leggere, ad ascoltare musica, o semplicemente ad origliare le conversazioni di quel vicino di posto che probabilmente non incontrerai mai più, ma che forse ha una storia così simile alla tua, che più volte ti viene la tentazione di interrompere il suo cicaleccio per guardarlo negli occhi e dire “Anche io mi sento così. La capisco perfettamente.”…
Erano queste le piccole cose che rendevano ogni mio viaggio in treno un piacevole diversivo. Per fortuna però mia madre non l'aveva ancora capito, altrimenti si sarebbe chiesta come mai non tornassi a casa più spesso, visto che per me un viaggio lungo non è un peso così grande da sopportare. E infatti era convinta che la mia decisione di vivere in un paese, lontano dalla città venti minuti di treno, fosse più dovuto a una sorta di agorafobia più che ad altro. Non che avesse tutti i torti, e io lasciai che rimanesse con questa convinzione.
C'era un solo lato negativo nel viaggiare in treno. I ritardi. E io odiavo i ritardi. Per fortuna avevo sempre un buon libro con me, a farmi compagnia. Così, diciamo, quello spiacevole inconveniente poteva essere tollerato.
Tuttavia quel giorno, il mio livello di sopportazione doveva essere ai minimi storici, perché, dopo cinque minuti dacché il treno si era fermato, avevo iniziato a tamburellare sul libro che avevo in mano, impaziente.
“Qual è il problema?” non riuscii a trattenermi dal chiedere appena intercettai un controllore.
“Pare che ci siano delle manifestazioni, oggi, e alcuni dimostranti hanno bloccato i binari a qualche chilometro da qui.” ci spiegò l'uomo.
Ovvio. Che domande stupida avevo fatto. Mancavano pochi chilometri alla stazione centrale, ed eravamo ormai in città. C'era un solo binario, quindi non era un problema di coincidenze; perciò o qualcuno aveva deciso di porre fine alla propria vita in quel tratto, o qualche cretino aveva deciso di bloccare il binario per chissà quale altra stupida ragione. Quanto a me, avrei preferito il suicidio: al massimo, la polizia poteva spostare il corpo da qualche altra parte, senza tanti problemi, mentre in questo caso avrebbe dovuto convincere delle persone a cambiare i propri piani. E se uno sta scioperando per qualcosa, non credo che si affretti a seguire una simile direttiva, no?
Mi fermai un attimo. Davvero speravo che qualcuno fosse morto piuttosto che aspettare una soluzione che non contemplasse necessariamente la dipartita di una persona? Da quando ero diventata così cinica?
Scossi la testa. Non era il momento di pensarci.
“E non potremmo scendere qui?” chiesi, già sapendo la risposta. E infatti: “Mi spiace signorina, ma è vietato. Se dovesse succedere qualcosa ai passeggeri, la responsabilità sarebbe comunque nostra.”
“Allora riportateci alla fermata precedente e fateci scendere lì, no?” propose un altro signore.
“Ma noi...”
Un altro ma e l'avrei fatto fuori. Così decisi di improvvisare.
“Senta.” lo fissai gelida, gli sguardi di tutti fissi su di me “Io ho un esame importante a cui devo necessariamente presentarmi puntuale. Qui c'è gente che lavora e che ha un orario in cui deve presentarsi in ufficio. Sappiamo tutti benissimo che in questo tratto c'è solo un binario e che quindi nessun treno può passare se noi siamo fermi qui. Se torna indietro, quindi, non c'è alcun pericolo. Il treno successivo dovrebbe essere qui solo fra un'ora – sempre se ci sarà -, perciò non vedo dove sia il problema.”
Il mio ragionamento non faceva una grinza, e tutti lo sapevano. Il controllore distolse lo sguardo e si diresse verso la sala macchina “Vedrò che posso fare” concluse.

Dieci minuti dopo, il treno si fermò in stazione. Non era la nostra fermata, ma bastava farsi una camminata di una decina di minuti per arrivare al capolinea; in alternativa, si poteva sempre prendere un pullman cittadino e ridurre quel tempo ad appena tre minuti. Tuttavia, quel giorno decisi di scegliere la prima possibilità: non avevo voglia di dover dirottare un pullman per poter arrivare finalmente a lezione. E qualcosa mi diceva che avrei davvero corso quel rischio.
Mi guardai intorno: la zona del policlinico non era lontana dall'ateneo, eppure mi sembrava di mancarci da anni: le vetrine dei negozi erano già tutte addobbate a festa e i fiorai mostravano orgogliosi i frutti del proprio lavoro a coloro che dovevano scegliere il mazzo più idoneo per il proprio laureato.
Da quanto tempo non facevo una passeggiata come quella, fermandomi davanti alle vetrine dei negozi? Mesi, probabilmente. Avevo avuto troppo da studiare, tra lezioni, esami e lavoro e ed era arrivato novembre senza che me ne fossi resa conto. La mia vita mi scorreva davanti senza che io riuscissi a fermarla per un attimo e chiedermi se valesse davvero la pena darsi così tanto da fare. Non lo sapevo, e avevo paura che la risposta sarebbe stata negativa.
Mi fermai davanti ad un negozio di articoli per la casa e mi soffermai sugli oggetti esposti senza prestare veramente attenzione a quello che avevo davanti. I miei occhi incontrarono quelli della ragazza riflessa nella vetrina e per un attimo mi chiesi se fossi davvero io: avevo lo sguardo perso nel vuoto, come se non sapessi neanche chi fossi ed ero più pallida del solito. In quel momento, mi chiesi se davvero fosse la cosa giusta andare a lezione in quello stato. Avrei sicuramente fatto preoccupare tutti.
Staccai gli occhi da una tazza raffigurante un Winnie the Pooh che sembrava chiedermi che diavolo stessi facendo, e ripresi il mio cammino, questa volta un po' più speditamente: mancavano dieci minuti all'inizio delle lezioni e non era mia abitudine arrivare in ritardo.

Ancora oggi mi chiedo se quel giorno non fossero successe troppe coincidenze perché potessi continuare a considerarle tali. E, soprattutto, se più che caso, non dovessi iniziare a chiamarla sfiga.
“Ciao Mara.”
“Che succede?” chiesi, senza neanche salutare. Ero tre minuti in ritardo e i ragazzi erano ancora fuori dall'aula. Il professor Giacobelli era un maniaco della puntualità e tre minuti, per lui, erano equivalenti a un ritardo di un'ora per una persona comune.
“Pare che oggi non ci siano lezioni”, mi rispose Luca.
No. Stavo sognando. Doveva essere un incubo. Assolutamente.
“Sembra che anche gli insegnanti abbiano deciso di partecipare alla manifestazione di oggi”.
La manifestazione che aveva bloccato il treno. Che stupida, come avevo fatto a non pensarci? Eppure ne avevano parlato anche i telegiornali da almeno una settimana.
“Ma i docenti non avevano detto che loro non partecipavano?” chiese un'altra.
“Pare che ieri ci sia stato un Consiglio di Facoltà del Senato Accademico e l'abbiano deciso all'ultimo momento.”
Fantastico.
“E quindi tutte le lezioni di oggi sono sospese?”
“Così sembra”.
Luca era sempre portatore di buone notizie, indubbiamente.
Ci guardammo senza sapere bene cosa fare: alcuni decisero di scegliersi un luogo tranquillo per studiare in pace; altri preferirono riprendere il treno per tornare a casa. Io, invece, non ero né dello spirito giusto per mettermi a studiare, né tanto meno potevo tornare a casa, visto quel che era successo in stazione. E poi, che figura ci avrei fatto se quel controllore mi avesse riconosciuta? La soluzione più giusta sarebbe stata farmi un giro in centro.
All'improvviso mi venne in mente che quella sera ero stata invitata a cena dal signor Marcello e pensai sarebbe stato carino presentarmi da loro con un piccolo regalo come ringraziamento per tanto disturbo. Probabilmente, l'attesa non sarebbe stata vana.

Forse è proprio vero che non tutto il male viene per nuocere, mi trovai a pensare mentre entravo in quel negozio di articoli per la casa che avevo visto appena una mezz'ora prima. Non che non conoscessi altri luoghi più vicini all'università per poter cercare qualcosa di veramente carino, ma, mentre mi dirigevo fuori dall'ateneo, pensando a qualche negozio dove poter trovare quello che cercavo, la mia memoria era corsa veloce a quello che avevo visto in vetrina e a cui, in quel momento, non avevo prestato molta attenzione; tuttavia, il mio cervello doveva aver registrato inconsciamente quel particolare perché mi tornò subito in mente.
Senza ulteriore indugio mi diressi verso la cassa e chiesi se potevano mostrarmi quel set di tazze per il caffé in esposizione.
Non dovevano essere molte le ragazze della mia età che si recavano in quel negozio, decisi quando la commessa mi squadrò da capo a piedi, prima di decidersi a prendere ciò che le avevo chiesto.
“E' un regalo?” mi chiese.
“Sì. Per favore, potrebbe farmi un pacchetto?”
La donna annuì, ma continuò a fissarmi di sottecchi. Che diavolo avevo di tanto strano? Sì, forse non ero nella mia forma migliore, ma non era molto educato farmelo notare in quel modo!
“Scusi, signorina...”
“Sì?”
La signora mi guardò ancora un attimo, prima di trovare il coraggio di pormi la domanda fatidica “Ma lei è passata già di qui una mezz'oretta fa?”
Arrossì: dunque mi aveva notata?
“Ehm... sì. Mi ero fermata un attimo a guardare questa vetrina, perché queste tazzine mi avevano colpito molto.”
“Ah, ecco. Sa, aveva un'aria così strana che stavo per chiederle se non si sentisse bene, ma è andata via prima che potessi farle alcuna domanda.”
Oh. Prima il signor Marcello, poi questa signora. Per un attimo pensai che anche il controllore avesse eseguito la mia richiesta perché gli facevo una sorta di pena. Molto confortante.
“Capisco. La ringrazio molto, ma sto benissimo. Ero solo, ehm... soprappensiero.”
La signora sogghignò e mi si avvicinò, come se dovesse svelarmi un segreto importantissimo: “Scommetto che c'entra un ragazzo. Deve incontrare i genitori del suo ragazzo e non sa come fare!” decise, sicura di aver indovinato. Non sapevo se ridere o sentirmi offesa.
“E cosa glielo fa pensare, scusi?”
“E' raro che una ragazza della sua età venga in un negozio del genere. Di solito, si tratta sempre di giovani che devono fare un regalo a qualche suocera, o ai genitori.”
“E perché ha pensato subito ai suoceri allora?”
“Beh, perché di solito quando una ragazza viene accompagnata da un ragazzo, il regalo è sempre per i suoceri...”
Ragazzo? Quale ragazzo? Nella mia vita, se c'era un problema che non avevo, erano appunto i ragazzi. Non ne avevo, e non ne volevo, almeno per il momento.
“Quale ragazzo, scusi?”
La signora arrossì e parve finalmente rendersi conto della gaffe che aveva fatto. “Oh, mi scusi. Pensavo che... ecco... c'è quel ragazzo, lì fuori che ha l'aria di aspettare qualcuno e pensavo stesse aspettando lei...”
Mi voltai seguendo il suo indice e per un attimo non seppi che dire: davanti ai miei occhi, c'era la copia esatta di Matsumoto Shin’ichi, cantante e doppiatore giapponese.


Nota dell’autrice
Ovviamente io non conosco nessun Matsumoto Shin’ichi che sia attore o doppiatore; anzi, ho fatto una ricerca su internet, proprio per evitare di beccare qualcuno che si chiamasse davvero così. XD La scelta del nome del personaggio non è comunque casuale: Shin’ichi è un nome che io adoro (Nodame Cantabile vi dice niente? XD) e Matsumoto è il cognome di uno dei componenti degli Arashi, Matsumoto Jun, appunto, cantante e attore di dorama.
   
 
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