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Autore: Monique Namie    01/11/2015    1 recensioni
Dylia fa parte del dipartimento di trasposizione della E-Security, un ente pubblico che si occupa della sicurezza dei cittadini residenti sui pianeti di un nuovo sistema solare colonizzato dall'umanità. Un giorno le viene affidata una missione in solitaria per scongiurare un attentato a una importante stazione spaziale, ma qualcosa non va come previsto e da allora la sua vita prende una piega del tutto inaspettata...
Una storia d'amore e d'odio, di persone guidate dalla bontà e di altre accecate dal desiderio di vedetta. Una storia disseminata di ostacoli in apparenza insormontabili e intrighi legati allo spionaggio che portano i protagonisti del racconto a fare i conti con situazioni complicate, in cui i concetti stessi di "bene" e "male" tendono a confondersi.
{Il primo capitolo ha partecipato a "Boom! Il contest che vi lascerà con il fiato sospeso!" indetto sul forum di EFP}
Genere: Avventura, Sentimentale, Suspence | Stato: completa
Tipo di coppia: Het, Crack Pairing
Note: nessuna | Avvertimenti: Tematiche delicate
Capitoli:
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Incertezze



Cap.7 - Finché c'è amore...


Il tassista inchiodò di colpo nel mezzo dalla strada deserta, come se avesse visto all’ultimo momento un ostacolo da evitare. Davanti a loro, tuttavia, il cammino era libero; il manto stradale era dissestato e in alcuni punti si era avvallato seguendo le depressioni del terreno, ma niente impediva all'auto di proseguire compiendo un'elementare manovra.
«Non posso proseguire oltre», disse l'uomo al volante.
«Non può? o non vuole?», chiese Dylia aspramente.

«Non ci tengo a farmi tagliare la gola da una banda di criminali.»
«Non sarebbe una gran perdita», borbottò la ragazza. Quell’irascibilità un tempo estranea alla sua persona, ultimamente riaffiorava sempre più spesso.
Dylia incrociò lo sguardo corrucciato del tassista attraverso lo specchietto retrovisore e gli sorrise maliziosamente. Fece scorrere la carta di credito sullo schermo dietro la testiera del sedile anteriore, poi aprì la portiera e scese seguita da Oliwar.
L’auto fece inversione e tornò verso la città, abbandonandoli in un paesaggio brullo, silenzioso e costellato di rovine.
«Mancano appena due chilometri», intervenne Oliwar con il solito tono privo d'emozione. «Possiamo farli a piedi.»
«Direi che non ci resta altra soluzione. Il problema sarà tornare indietro. Se dovessi stancarmi troppo mi porterai in braccio, vero?»
«Certamente, Dylia.»

«Prima o poi dovrò installarti un cip per l’ironia», concluse la ragazza.


Proseguendo il cammino verso la loro meta, passarono davanti a edifici fatiscenti e mucchi di macerie che un tempo dovevano essere abitazioni e negozi.
Ad ogni angolo della strada dominava l’impressione che occhi sfuggenti spiassero i loro movimenti. I rumori sinistri che si udivano attraverso spaventose crepe sui muri e fenditure deformate di finestre, potevano essere causati semplicemente dal vento o dalla più rara presenza di un animale selvatico. Dylia, tuttavia, camminava tenendo un braccio infilato sotto al trench, le dita vicino alla fondina agganciata alla cintura. Naturalmente era solo un bluff, visto che il suo taser era ancora in mano a Shulik, ma un eventuale assalitore che non era a conoscenza di questo dettaglio, ci avrebbe pensato due volte prima di tentare uno scontro diretto.
Quando gli edifici cominciarono a farsi più sporadici Oliwar, seguendo il segnale del suo GPS interno, deviò verso la campagna. Non cresceva quasi nulla su quei terreni, se non qualche isolato ciuffo d’erba rinsecchito. Sembrava incredibile che delle persone si fossero adattate a vivere in mezzo a quel deserto.
Un boschetto d’alberi fossilizzati, piantati decenni prima durante un tentativo di bonifica, impediva di vedere l’orizzonte verso cui il robot si stava dirigendo.

«Sei certo che sia la direzione giusta?», chiese la ragazza.
«Ne sono certo, Dylia. L’unico margine di errore potrebbe essere causato dalla taratura della mia bussola.»
«La tua bussola?»
«Sì. Tuttavia stimo che, per una percentuale pari al 99,7%, il tecnico che ha eseguito l’ultimo controllo su di me se ne sarebbe accorto subito. Di conseguenza c’è solo uno 0,3% di possibilità che la bussola mi stia tradendo.»
«Questo mi rassicura moltissimo», disse Dylia, riparandosi gli occhi dal sole con una mano sulla fronte e cercando di guardare oltre quell'ammasso di alberi pietrificati verso cui si stavano avvicinando sempre più.
Dall’altra parte dei tronchi, anneriti e duri come la roccia, si nascondeva una struttura con il tetto ricurvo e le pareti grigie e ammuffite.
«Il posto è questo», disse Oliwar.


Il pavimento in cemento dell’hangar era umido. Il perenne clima autunnale, verso sera, creava uno strato di vapore condensato sui muri scrostati e imbrattati di strani disegni. Shulik attraversò a piedi scalzi il suo rifugio dalla branda fino all’angolo opposto, in cui aveva nascosto sotto a un telo la sua personale navicella: quella che aveva rubato nel suo primo furto con hacheraggio. Con un gesto secco, strappò via la copertura rivelando una carrozzeria in metallo scintillante. Da un po’ meditava sul fatto che sarebbe stato meglio andarsene da lì, per cercare un nuovo posto in cui rifugiarsi. Da quando era entrato in confidenza con quella sbirra, la sua vita si era notevolmente complicata. L’ultima cosa che desiderava era farsi arrestare, anche perché se avessero voluto punirlo per tutti i reati di cui si era macchiato, avrebbero dovuto ucciderlo più di una volta. Sorrise nervosamente a quel macabro pensiero.
Spingendo un pulsante sulla parete, attivò un complicato meccanismo di funi e pulegge che sollevò a qualche metro da terra la navicella. In quel modo i due rotori principali del mezzo risultavano esposti; avvicinò e aprì una scala libretto e, dopo essersi arrampicato fino in cima, poté controllare i rotori e apportare le ultime modifiche. Sì, sarebbe partito verso nord. Anche là il clima non era dei migliori, ogni tanto nevicava, ed era una neve chimica di colore grigio quella che ricopriva le strade e i palazzi delle nuvole. Oh, sarebbe stato meraviglioso far saltare uno di quei palazzi. Erano stati costruiti prima della legge che imponeva un’altezza massima predefinita per tutti gli immobili. I palazzi delle nuvole sembravano lunghe dita che fuoriuscivano dal terreno in cerca dell'infinito. Piazzando un ordigno alla loro base, sarebbero venuti giù come castelli di carte.
I suoi pensieri furono bruscamente interrotti dal rumore di un allarme proveniente da computer. Si precipitò a controllare e notò che si trattava di un movimento anomalo registrato da una delle telecamere disposte nel perimetro esterno.
Due esili figure, provenienti dai resti della zona bonificata, erano in avvicinamento verso il suo rifugio. Zoomò e li riconobbe: Dylia e il suo robot Oliwar camminavano con circospezione facendosi strada tra le sterpaglie e i relitti di vecchie auto arrugginite. Shulik disattivò l’allarme e rimase per qualche istante a osservare il monitor con espressione accigliata. Aveva appena qualche minuto per decidere se andarsene o aspettare.


«Ferma! Non fare un passo in più!»

Dylia aveva appena varcato la soglia del portone dell'hangar, quando sentì la voce di Shulik. Provò subito un certo sollievo: non aveva ancora abbandonato il rifugio. Questa era una buona occasione per trattare, però lui le aveva appena dato un ordine e questo la disturbava.
«Perché? hai per caso disseminato il pavimento di trappole?», chiese con incuranza.
«Ti consiglio di girare al largo da quel punto.»
La ragazza abbassò la testa. Il pavimento era in cemento, totalmente privo di piastrelle, ma davanti a sé c’era una porzione quadrata che presentava una sfumatura più chiara. Una botola, forse? O un meccanismo di morte? Si allontanò da lì e individuò Shulik, arrampicato tra le impalcature che sorreggevano una vecchia navicella che sembrava essere uscita da un museo.
«Non mi aspettavo di trovarti ancora qui. Sapevi che stavo arrivando, vero?»
«Mi piace guardarti attraverso gli occhi del tuo uomo di latta mentre dormi. Questo non vuol dire che abbia controllato tutte le ricerche che gli hai affidato.»
«Non lo vuoi ammettere», disse Dylia con tono malizioso.
Shulik saltò giù con agilità dalle impalcature e le si avvicinò: dal suo volto traspariva una certa irritazione. La ragazza non gli lasciò il tempo di parlare.
«Ti ho riportato il DSZ
. Prendi!»
Non lo aveva mai tolto dalla tasca del trench da quella sera al parco. Glielo lanciò e lui lo afferrò al volo. Aveva il viso sporco di olio per motori, il che lo rendeva ancora più in sintonia con il ruolo che aveva deciso di impersonare: un trasandato criminale sull’orlo della disperazione.

«Cosa ti fa credere che ti restituirò il taser?»
«I fuorilegge come te spesso si aggrappano all’onore.»
«Questo discorso non vale per me. Se rivuoi la tua arma, cercatela.» Prima di voltarsi per tornare al lavoro, gettò distrattamente lo sguardo verso un tavolo poco distante accostato alla parete, e a Dylia non servì altro per capire dove cercare. Ormai riusciva a captare ogni minimo segnale che lui le inviava.
Nel momento in cui tornò in possesso della sua arma, si sentì per un attimo come si era sentita quando l’avevano trasferita ufficialmente al dipartimento di trasposizione. Ripercorse mentalmente tutto ciò che aveva vissuto in quell’ultimo periodo, poi si girò verso Shulik che la stava tenendo d’occhio appoggiato alla scaletta.
«Ora sembriamo quasi due buoni amici. Io ho un'arma in mano, tu sei ricercato dalla polizia mondiale, eppure non ho nessuna intenzione di fermarti…»
«Lo so, sono troppo affascinante», scherzò lui.
Dylia rise. «Con quella faccia sporca di olio e con quegli abiti schifosi? Sembri il superstite di una qualche sciagura spaziale.»
«Se non ti piaccio, perché saresti venuta fin qui senza l’intenzione di arrestarmi? Solo per riportarmi il DZS?»
Touché.

Dylia non cercò nemmeno di trovare una giustificazione. Ormai era chiaro che entrambi erano attratti uno dall’altra, lo erano stati fino dalla prima volta, da quando si erano ritrovati faccia a faccia in quella camera d’albergo. Allora, oltre all’attrazione c’era anche paura e sospetto, ma ora no. Sembrava che le loro anime si fossero date appuntamento ogni notte in un luogo segreto e, all’insaputa dei loro corpi, avessero trovato un accordo pacifico per funzionare in modo complementare.
Dylia ripose l’arma nel fodero e si avvicinò a Shulik. Ebbe un attimo di esitazione, poi sollevò una mano e gli accarezzò piano il viso; percorse con delicatezza i quei lineamenti che trovava irresistibili, fece scorrere le sue dita dalla tempia al mento, e lui la lasciò fare. Come un cieco che cerca di vedere con il tatto il volto dell’amato, Dylia, con quel gesto, cercava una conferma: voleva saggiare fisicamente realtà di ciò che stava vivendo.
Forse sarebbero andati oltre, se l’allarme del computer non avesse ricominciato a suonare insistentemente, segnalando l’avvicinamento di qualche altro intruso. Shulik corse a controllare, seguito dallo sguardo della ragazza.
«Sbirri dei servizi segreti! Avevi architettato tutto fin dall’inizio!»
«Cosa?! No, non mi è mai passata per la mente l’idea di tenderti una trappola! Mi hanno seguita senza che me ne accorgessi!»
Shulik scosse la testa con nervosismo.
«Guardami!» Dylia cercò di tirarlo a sé. «Che cosa vedi? Una bugiarda?»
Shulik serrò i denti, cercando di calmarsi. Gettò un’occhiata distratta alla donna che lo stava fissando con insistenza. «Vedo una stupida. Ti stai mettendo nei casini, vattene finché sei in tempo!»
«Sono già nei casini, quindi tanto vale che ti dia una mano a uscire di qui.»
L’unica possibilità di salvezza era la navetta attualmente in manutenzione. Shulik cercò di raggiungere la scaletta, ma in quello stesso momento tre uomini corazzati e con il volto coperto da un casco con visiera oscurata, sfondarono un lucernario sul soffitto e, scendendo agilmente con delle corde, gli si piazzarono davanti con le armi puntate. Altri tre entrarono per il portone principale, da dove era arrivata anche Dylia. Uno di loro era Saati.
La ragazza si ritrovò con mille pensieri contrastanti in testa, una tempesta di emozioni, alcune guidate dal cuore e altre dalla mente: non riusciva a separale e a distinguerle. Incrociò lo sguardo di Shulik e nei suoi occhi vide quelli di tutte le sue vittime, sentì il suo dolore quando da bambino fu sottoposto al processo di decontaminazione radioattiva, provò rabbia, affanno, sentì la solitudine di una vita vuota, colmata da relazioni instabili e malate, intrattenute con i delinquenti nei sobborghi più malfamati. Si portò le mani in testa e pregò che tutto ciò smettesse perché non lo avrebbe sopportato a lungo. Come faceva lui a resistere?
«Alza le mani e non muoverti!»

Uno degli uomini che erano scesi dal tetto si stava avvicinando con cautela a Shulik, pronto a fare fuoco in caso di una mossa avventata dell'altro. Shulik non sembrava intenzionato a ubbidire all’ordine, né minimamente toccato dalla pericolosità dell’arma con la lucina rossa del puntatore direzionata all'altezza del suo cuore.
«Fottuto bastardo, metti le mani sopra la testa o sparo!»
Senza quasi rendersene conto, Dylia si ritrovò tra il poliziotto e il criminale, la testa ancora dominata dalla confusione di emozioni di pocanzi.
Oliwar, che fino a quel momento era rimasto in disparte, alla vista della sua padrona in pericolo, intervenne con un tono pacato del tutto fuori luogo rispetto alla situazione.
«Percepisco un alto livello di stress. Ragazzi, vi prego, abbassate le armi e discutetene civilmente.»
«Allontanati lattina, ho ti faccio saltare il cervello!»
Oliwar non ascoltò l'agente che aveva parlato e si portò vicino a Dylia.
La ragazza s’infuriò. «Ve la prendete anche con un robot adesso? Complimenti! Non siete tanto meglio del criminale che volete arrestare! Bastardi!»
Oliwar continuò: «Non fa niente, Dylia. La priorità va agli esseri umani. Vi prego di abbassare le armi prima che qualcuno si faccia male.»
Mentre si svolgeva questa scena surreale, Shulik valutò varie possibilità di fuga. Attorno a lui c’erano sei agenti armati, tre dei quali erano ancora piazzati sulla soglia del portone, intenzionati a sbarrare ogni possibile via di fuga: come soluzione primaria avrebbe potuto fingere di prendere Dylia in ostaggio e salire nella navetta, ma disgraziatamente non aveva con sé nemmeno un taglierino per far sembrare la minaccia credibile. L’altra possibilità era far avanzare uno degli sbirri sopra il meccanismo segreto posto davanti l’entrata. Optò per quella soluzione e si rivolse ai tre vicino al portone principale.
«Non c’è bisogno di scaldarsi, sono disarmato. Arrestatemi pure…» Portò le braccia in avanti mostrando i polsi pronti a ricevere le manette; Saati e gli altri due avanzarono fino al punto in cui Shulik sperava. «… Sempre se ci riuscite», concluse, facendo un cenno d'intesa alla ragazza.
Un complicato meccanismo scattò sotto il peso degli uomini, attivando una leva che fece scorrere via metà del tetto, lasciando entrare i raggi accecanti del sole. Due delle travi portanti dell’edificio si accasciarono ai lati rendendo la struttura pericolante.
Nella confusione, Shulik cercò un varco per salire sulla navetta e Dylia lo seguì facendogli scudo mentre uno dei poliziotti sparava verso di loro. L’ultimo a salire sulla navetta fu Oliwar, poi il portello si richiuse e Shulik adoperò tutta la sua maestria per uscire dal tetto dalla struttura, mentre questa si accartocciava su se stessa.

«Poteva andare peggio, no?», disse. Non ricevendo risposta, distolse lo sguardo dai monitor di comando e cercò gli altri due nel retro. Dylia era seduta a terra con la schiena appoggiata a una parete e Oliwar era piegato su di lei.
«Che succede? come va laggiù?»
«Non bene», rispose il robot. «Ferita da arma da fuoco.»
Shulik imprecò. Inserì le coordinate per il nord, poi impostò il pilota automatico e si precipitò verso i due per valutare la gravità della situazione.
«Non è nulla», disse Dylia, ma il suo volto sofferente lasciava intendere l’opposto. Un proiettile l'aveva colpita alla spalla, fortunatamente lontano da organi vitali, tuttavia stava perdendo molto sangue. Oliwar, che tra i vari programmi, aveva installato anche quello per il primo soccorso, creò delle fasciature per tamponare la ferita, strappando strisce di stoffa dai suoi abiti.

«Quei figli di...»
«È colpa mia», bisbigliò la ragazza «mi sono messa in mezzo.» Con quella frase sembrava quasi voler giustificare il collega che le aveva sparato, il che lasciò Shulik interdetto.
Anche il robot era stato colpito; una macchia di liquido blu fosforescente si espandeva nel petto sopra la sua maglia.
«Ho fatto dei calcoli
sulla direzione del proiettile», disse rivolto a Shulik, «e posso affermare con certezza che Dylia ti ha salvato la vita.»
L'uomo non disse nulla ma, sopraffatto da un moto di rabbia, sferrò un pugno sul pavimento della navetta. Poi prese una mano della ragazza e la strinse a sé. Provava qualcosa di indecifrabile. Nessuno aveva mai rischiato la vita per lui. Dopo tutto quello che aveva fatto, non credeva di meritarsi quella fortuna, non credeva nemmeno che esistesse una persona pronta a sacrificare la propria vita per quella di un altro. Tutte le sue congetture stavano crollando, come un castello di sabbia le cui fondamenta sono divorate dalle placide onde dell'oceano.
Aveva dimenticato come ci si sentiva ad essere amati...
Adesso era certo di provare per Dylia qualcosa in più di una semplice attrazione fisica, ma un'emozione di una tale intensità non l'aveva mai sperimentata prima, quindi non sapeva come definirla. Poteva essere amore? Di qualunque cosa si trattasse, la sua mente non riusciva a pensare che ad un'unica cosa: non può finire così.


Note autore:
Se tutto va bene, questo dovrebbe essere il penultimo capitolo! Quasi non ci credo nemmeno io!
Sono un po' in ritardo con la pubblicazione, perché mi sono iscritta a qualche contest che mi sta portando via più tempo del previsto.
Che ve ne pare di questo capitolo? Le critiche costruttive sono sempre beneaccette.
So già che alla volta dell'ultimo capitolo sentirò la mancanza dei miei affezionati personaggi: non sopporto i finali! Mi consolo pensando che potrei sempre scrivere un sequel!
Alla prossima! :)


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"Inverse Transposition" di Monique Namie
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