Sudore.
Fatica.
Il carro si incagliò, incapace di avanzare. Il terreno era troppo duro. E l’uomo non aveva più la forza di andare avanti.
Alrico si asciugò il sudore, portando lo sguardo verso il cielo,
verso quel sole caldo che ustionava la pelle e rendeva il lavoro ancora più
difficile. Un lavoro ingrato. Un lavoro i cui frutti non poteva godere. Perché
lui non era nessuno, solo un contadino costretto a lavorare quella terra per
vivere, quella terra che non gli apparteneva ma su cui gettava fatica e sudore.
Quella terra i cui prodotti appartenevano al re, non a chi curava i semi fin
dalla nascita, non a chi li faceva crescere, occupandosi di innaffiarli, di
smuovere il terreno, di ripararli dalle intemperie. No, non a lui. Al re, a chi
aveva tutto, non a chi non aveva niente.
Perché lui era solo un servo della
gleba…
Servo…
Sospirò, cercando di smuovere il carro dal
punto in cui si era incagliato.
Un rumore lo fece voltare, a quanto pareva il
principe Filippo era tornato dalla sua passeggiata
quotidiana.
La carrozza si stava dirigendo lentamente
verso il castello, e dal finestrino era possibile vedere il bel viso
dell’arrogante ragazzo.
Alrico emise un ringhio e sputò sdegnosamente
per terra.
Se solo il mondo fosse stato giusto, se solo
gli uomini avessero avuto un ruolo nella vita in base alle qualità morali. Se
solo fosse stato così quel ragazzo non sarebbe mai stato un principe, sarebbe
stato un servo, come lui. E avrebbe capito cosa significava spaccarsi la schiena
tutto il girono per qualcosa che non ti appartiene.
Servo…
Alrico sputò nuovamente per terra e poi si rimise al lavoro,
imprecando silenziosamente contro l’ingiustizia del mondo.