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Autore: breeb    02/11/2015    2 recensioni
[I Dalton]
[I Dalton]Cosa accadde dopo la Grande Evasione del 1887? Che ne fu dei quattro fratelli Dalton, che intrapresero una estenuante fuga attraverso il deserto diretti verso una nuova vita? Qual genere di avventure e disavventure, quali esperienze umane costellarono le vite dei più temuti banditi del West? Che fu del loro bottino? A partire da Joe, i Dalton si raccontano brevemente rivelando segreti scottanti ed inaspettati.
Genere: Avventura, Drammatico, Introspettivo | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna
Note: Raccolta, What if? | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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~(…) Jack lasciò che il tabacco gli avvolgesse i polmoni e chiuse gli occhi per un attimo. 
Era il 1899. Erano trascorsi tre anni dall’acquisto del casinò; Jack aveva ampiamente riassorbito la cifra spropositata investita nella ristrutturazione dello stabile del ’96, adottando certi piccoli stratagemmi che riempirono le sue tasche. Egli, di fatto, si riserbò di continuare a truccare i giochi, le roulette soprattutto, e di aumentare il prezzo degli alcolici – che faceva allungare con acqua. Jack sentiva un sincero affetto per quel casinò e, soprattutto, per i conquibus che fruttava.
Dalton ricordava benissimo quella torbida sera in cui un uomo vestito di tutto punto s’era presentato nel suo ufficio senza nemmeno bussare, portandogli via quel luogo a lui tanto caro. L’odioso nome di quel tale, Nathan Simmons, risuonava ancora limpidamente in capo a Jack, tanto quanto le sue sgradevoli parole.
– Signore – aveva scandito Simmons con voce grave – io e lei sappiamo perché mi trovo qui.
Jack, sorseggiando un bicchierino di whisky fece segno di no con il capo.
– Non mi obblighi ad essere scortese – disse l’estraneo senza perdere la calma.
Dalton non capiva. Ma disse:– se ha perduto ingenti somme presso il mio casinò sappia che io non ne rispondo, dacché…
– Jack Dalton. Smettiamola di prenderci in giro. Lei è un galeotto evaso cui mancano anni ed anni di detenzione da scontare.
Jack quasi si strozzò con il whisky. Ma decise di mantenere la calma.
Ridacchiando rispose: – temo vi sia un malinteso. Guardi… – affermò mostrandogli qualche documento – il mio nome è Malcom Porton.
L’uomo non volle sentire ragioni: – rinunci alle scuse, Jack. Non ne vale la pena. Ora, sono qui per negoziare. Infondo, nemmeno io sono un intonso schiavo della legge. Se lei comprende, naturalmente.
Si accese una sigaretta e, sfilatoselo di tasca, posò sulla tavola un foglio, rimanendo in silenzio per un po’, lasciando che il sangue di Jack irrancidisse nelle vene. Si trattava di un’usurata taglia risalente al 1887, taglia che pendeva sui capi dei fratelli Dalton.
– So tutto. L’evasione non è passata certo inosservata, signor Dalton. Ma la gente dimentica, io no. Ciò che ora voglio da Lei, in cambio del mio silenzio, è il  suo denaro.
Jack, che ancora non aveva aperto bocca, lo guardò.
– Mi consegni tutte le sue ricchezze. Non un dollaro in più né uno in meno. So dove dimora; domattina mi presenterò presso la sua abitazione. Badi bene di non deludermi.
Jack, inizialmente colto dal panico, venne di sorpresa trafitto da un piano, un piano malefico degno del fratello Joe, che squarciò il suo buon senso facendone indistinti brandelli. Finse una certa apprensione, mostrandosi in ansia per le minacce di quel Simmons: nel frattempo pensava, intesseva silenziosamente una metodologia d’azione. In un cassetto della scrivania conservava la sua vecchia Colt, che non aveva mai abbandonato dai tempi della Grande Evasione. Non appena Simmons si voltò, Jack spalancò il cassetto, l’estrasse e sparò impietosamente alle spalle dell’uomo. Ma egli, evidentemente, non era certo uno sprovveduto e , scansatosi in tempo, sfoderò a propria volta una Dillinger 41 puntandola contro Jack.
– Non giochi con me, Jack Dalton.
Jack l’osservò intensamente e nel farlo, notò la totale assenza di proiettili nel caricatore. Si lasciò scappare un sorrisetto per l’ingenuità (o la faccia tosta) di quel tizio. Era abile, probabilmente un esperto, ma era chiaro che non avesse intenzione di sparare.
– Sono un criminale, Simmons. Dell’inganno, conosco tutti i volti.
Detto questo, facendo appello ad una freddezza attinta da chissà quale, recondito angolo della propria persona, Jack sparò in fronte all’uomo che cadde lungo disteso. Non considerò la possibilità di risparmiarlo nemmeno per una frazione di secondo e ciò, col senno di poi, lo turbò profondamente.
Dalton sprofondò sulla sedia, privo di forze. Non poteva credere di aver realmente sparato a qualcuno. Solitamente, quella Colt, serviva solo come deterrente. S’alzò immediatamente in piedi. Jack ricordava con un fremito, ancora dopo tutti quegli anni, tali istanti di terrore.
Un’ inaspettata furbizia, tuttavia, salvò la sua reputazione e la sua vita. Sapeva bene che al piano inferiore si sarebbero uditi gli spari, nonostante l’intrattenimento musicale, il vociare della clientela e la concitazione generale; ma sapeva ugualmente bene che non sarebbe risultata cosa nuova, dal momento che dall’apertura del casinò, quasi ogni sera, s’era visto costretto a far allontanare dalle guardie manigoldi dall’arma facile, picchiatori di cieca brutalità e non meno di una decina di assassini che, approfittando del trambusto generale, cercavano di eliminare obiettivi disparati.
Avvolto il cadavere dell’uomo in un sacco lercio, lo nascose in un baule, che fece caricare con tutto ciò che gli apparteneva in un carro diretto verso casa.
– Mia madre è sul punto di morte – ricordava d’aver detto ad una guardia con fasulla disperazione. L’uomo l’aveva guardato con accondiscendenza ed aveva promesso di gestire assieme ai colleghi più fidati lo stabile sino al suo ritorno. Jack cavalcò sino a Long Branch Lake ove, legatovi un masso al piede, si sbarazzò del cadavere che venne ingurgitato dalle acque.
Spese solo alcuni istanti ad osservarlo sparire, poi, terrorizzato, si diresse verso casa, ove cominciò a fare i bagagli. Sarebbe partito in breve tempo, non ebbe altra scelta.
Jack, che cominciava ad essere stanco di camminare rallentò bruscamente il passo. La sigaretta, che era oramai sul punto di terminare, l’aveva scocciato e se ne liberò. Si sistemò per l’ennesima volta la bombetta e, dopo aver controllato l’orologio da taschino, venne trafitto da un ricordo. Quella notte del febbraio 1899, il freddo pungente l’aveva accompagnato a casa.
In un angolo del capanno sul retro , fu ben lieto di ritrovare intatto quel carro che s’era portato dietro dall’Africa e che aveva fatto da spettatore alle sue avventure in compagnia del vecchio Finnegan; Jack impiegò un’intera notte a stipare dei suoi averi quelle malandate assi di legno che chissà per la benevolenza di quale divinità ancora rimanevano giunte tra loro. Solamente in seguito, si accorse che il carro non fosse sufficiente a contenere le sue “enormi fortune”, come le chiamava. Si vide costretto ad attendere il mattino per acquistarne un secondo, e nel frattempo, con gran turbamento, accumulò – badando a ben mascherarli – i beni rimasti. Parte del denaro l’avrebbe trasportata ben compressa in un baule, avvolta nei vestiti, parte, invece, in una piccola e discreta cassaforte che pareva un trasportino. Diede un ultimo sguardo all’interezza del proprio bottino: la metà non venduta del Tesoro, i poliedrici acquisti dell’ultimo arco di tempo e l’impressionante quantità di denaro lo compiacquero non poco. Ma, pungolato da quella sensazione di inquietudine, badò a non perdere troppo tempo a rimirare le proprie ricchezze.
Il mattino seguente si fece recapitare il nuovo carro ed acquistò con esso dei cavalli piuttosto giovani. Mise in vendita la casa totalmente ammobiliata, lasciandola a malincuore, e si recò al casinò per l’addio al personale. Decise che un poco di buon cuore misto a furbizia non avrebbe guastato e, salito sul palco, una volta radunati tutti i dipendenti annunciò: – miei spettabili amici. Sono trascorsi appena tre anni, ma credetemi se vi dico che sono stati incredibili. Il mio è un cuore avventuriero e per questo desidera oggi ricondurmi verso mete lontane, alla ricerca, come in passato, di nuove culture, di nuovi stimoli. Ma dacché voi mi siete tanto cari, ho deciso che l’attività cadrà in mano ad uno di voi, il cui nome sarà estratto a sorte da me, qui!, su questo palco.
Un boato di ammirazione e stupore aveva invaso la sala.
Jack aveva naturalmente programmato l’estrazione, scegliendo tra i tanti, l’uomo più adatto ad una seria conduzione dell’impresa: Clark Tomlinson, un’ex guardia che lavorava ora come computista presso il casinò e per esso dimostrava una sincera affezione.
Per evitare l’insorgere di contrasti tra gli altri dipendenti, Jack aveva provveduto ad una nutrita liquidazione per ognuno, consegnata in busta chiusa. Dalton congedò cadauno con una stretta di mano ed un sentito ringraziamento  per il lavoro svolto; si chiuse nella casa vuota attendendo che si manifestasse un nuovo inquilino e ne approfittò per controllare di averla svuotata completamente, mobili a parte. Dovette attendere una decina di giorni affinché l’acquirente tanto bramato si presentasse, ma la trattativa si concluse celermente e Jack poté lasciare la splendida villetta in riva a Lake St. Louis con qualche migliaio di dollari in tasca ed il cuore alleggerito. Si recò presso Ma’ Dalton, la quale non venne messa al corrente dell’omicidio, ma solo della celere partenza. Jack le consegnò il denaro ricevuto subito dopo aver venduta la casa ed ella quasi si commosse per la sua insolita generosità.
La notte del primo marzo 1899, Jack si recò un’ultima volta al casinò con i due carri agganciati l’un altro e, prima di partire, strinse la mano di Tomlinson facendogli i migliori auguri. Una sparatoria nella notte, tuttavia, fece sobbalzare i due uomini. Costoro, usi al perpetuo trambusto di quell’ambiente, si limitarono a farsi un sorriso, a battersi una mano sulla spalla, ignorando quattro uomini armati che parevano rincorrere una ragazzina. A Jack parve d’udire un rumore inusuale, che per un istante gli fece credere che qualcosa avesse urtato il proprio carro. Non notando nessuno gironzolarvi intorno, convenne d’esserselo immaginato. La sua seconda Grande Evasione da una vita rovinata gli lasciò l’amaro in bocca. Aveva l’impressione d’aver insozzata anche la seconda occasione che la vita gli aveva offerto, d’essere ricaduto nel medesimo errore. Ma si consolò come poté, fuggendo verso Sud, viaggiando per giorni e giorni senza concedersi un attimo di riposo. Se aveva fallito nuovamente nel ricostruirsi una vita degna, ci avrebbe riprovato.
Jack si guardò intorno: la luce diurna era quasi totalmente svanita ed egli s’affrettò a rincasare, seppur malfermo su quelle gambucce nocchiute affaticate dal tempo.
Dopo quasi mezz’ora di cammino, fece ruotare la maniglia della porta di casa e, esausto, si sbarazzò di cappotto e bombetta, abbandonandoli sull’appendiabiti. Tutti quei ricordi, quel mesto riesumare cocci rotti appartenenti al passato l’aveva prostrato; decise pertanto, sarebbe stata cosa buona e giusta versarsi da bere e tentare di distrarsi. Buttò giù tutto d’un fiato un bicchierino di whisky, poi si diresse al catino che teneva poco distante dalla porta e vi affondò le mani, portandosele dunque al viso, con la vana speranza di lavare via lo strano sentore che era germogliato attorno al suo cuore, stringendolo in una morsa feroce.  Jack osservò la propria immagine riflessa sul piccolo specchio che aveva appeso al muro. Aveva dimenticato di avere gli occhi tanto infossati. Si allentò il colletto, sentendosi soffocare. Le sue rughe d’espressione erano ben marcate, scavate nella pelle dall’impietoso scorrere del Tempo e le sue mani, che scivolavano mollemente ai lati del volto, non erano che nodosi accumuli d’ossa, velati appena di carne e vene sporgenti.
– Chi sei, Jack Dalton? – si chiese con un filo di voce.
Rimase immobile dinanzi lo specchio per qualche istante interminabile.

Erano trascorse quasi tre ore. Jack, per tutto quel tempo, se n’era rimasto seduto sul divano con un’espressione impassibile in volto ed un turbolento vorticare di pensieri in capo. Stufo, s’accorse di desiderare intensamente della musica. Così s’alzò e, caricato il grammofono, lasciò che le note di “ Dancing with Tears in My Eyes” riempissero l’aria.
Quando la morbida voce di Nat Shilkret cominciò ad insinuarsi dentro di lui, Jack chiuse gli occhi per evitare di cedere agli effetti di sentimentalismo alcuno.
Come se non l’avesse già fatto a sufficienza, riavvolse mentalmente la propria vita ancora per una volta, come si trattasse della pellicola di un film. Tutto sommato, la sua non era stata una brutta avventura; forse a tratti turbolenta, increspata da qualche significativa problematica, ma a conti fatti degna d’essere ricordata con rispetto. Certo, nel suo personal caso, non si poteva parlare di “ rispetto” in senso stretto, canonico, e Jack badò tra sé a specificarlo, come fosse una sorta di dovere morale nei propri confronti. Egli era stato un criminale, ciò risultava innegabile, tangibile, limpido e noto. Ma si concesse in quell’istante, quel giorno, quella sera rabbuiata dallo zelo dell’incombente autunno, di ammirare con rispetto quella sua capacità di rialzarsi dinanzi alle avversità, di reinventarsi ogniqualvolta la vita, od egli stesso, si sarebbe presa l’ingrata premura di metterlo nei guai.  
Jack quasi morì di paura quando, inaspettatamente, una mano si posò morbidamente sulla sua spalla destra. Quando egli si voltò, il viso dolce di Temperance, visibilmente stanco, gli sorrise gentilmente.
Con sorpresa, Dalton ci impiegò un poco a riconoscerla, forse a causa della stanchezza, dell’affaticamento cui, consciamente e scioccamente aveva scelto di andare incontro quel giorno.
– Oh!, Temperance, per la miseria! – borbottò accomodandosi la giacca.
La donna gli sorrise, senza dire momentaneamente nulla ed accompagnando il suo silenzio, il grammofono si zittì bruscamente.
Ella mormorò: – Jack…cosa ci fate ancora in piedi a quest’ora di notte? Non siete stanco? Lavorate intensamente tutto il giorno eppure, giunto a sera, sembrate non trovare pace.
Dalton s’appropinquò all’enorme finestra che, seppur chiusa, si apriva su quella magnifica notte, mostrando un cielo spettacolarmente ricamato delle stelle più lucenti.
– Ho voluto fare una passeggiata, tutto qui. Sono rincasato ed ho perduto qualche istante immerso nella musica. Faccio fatica, ultimamente, a prender sonno. – spiegò l’uomo senza abbandonare con gli occhi lo spettacolo naturale che gli si manifestava dinanzi.
– Mi sono soffermato a pensare…ed il tempo è scorso più velocemente di quanto ricordassi fosse abile di fare – aggiunse con un sospiro.
– Pensate un po’ troppo, di questi tempi, Jack – asserì Temperance con un risolino.
– Ed invece… – proseguì dopo qualche istante.
– Dovreste lasciarvi andare un po’ di più. – concluse dopo essersene saltata giù dalla finestra che aveva aperta. Allorché tese una mano in direzione di Jack, il quale, dopo aver creduto di morire d’infarto, gracchiò: – non penserai io ti segua nei tuoi folli funambolismi! Mi conosci e sai bene quanti acciacchi tormentino la mia quotidianità.
Temperance scosse il capo: – voi siete troppo tragico, mio caro. E poi, guardate, non si tratta che di poco meno di un metro! Non mi direte di temere l’altezza sino a questo punto!
– Misericordiosa pazienza! – borbottò Jack passandosi con compunta disperazione entrambi i palmi in volto.
Scavalcò dunque la finestra con non trascurabile preoccupazione e proprio quando posò il primo piede a terra, la donna disse: –  lo vedete? Non è stato poi tanto tragico. Infondo, avete poco più di cinquant’anni, non siete certo un vecchierello incartapecorito.
Jack precisò: – a dire il vero, ne ho quasi sessanta, di anni, matta d’una donna.
 – Anno più, anno meno! – minimizzò Temperance.
E gli propose di fare una passeggiata nei dintorni, “viste le bellezze che aveva a disposizione in quella casa esageratamente grande per un uomo solo”.
Dopo aver protestato d’essere stanco e stufo di camminare, dal momento che l’aveva fatto per tutta la giornata, Jack non poté far altro che seguire la donna, che pareva non sentire ragioni.
Temperance ed un claudicante Jack si diressero verso il meraviglioso ponticello che sovrastava lo stagno interno all’enorme giardino, ponte che Dalton aveva fatto erigere una quindicina d’anni prima, stufo di dover ogni volta camminarvi attorno.
Improvvisamente Dalton sbottò: – dimmi come diavolo fai, Temperance.
La donna, rimasta di sale, domandò con garbo a cosa alludesse ed egli ribatté : – ad essere tanto vitale a trentott’anni suonati. Insomma, non sei certo più una ragazzina, né si può dire tu sia nel fiore degli anni. Eppure te ne saltelli con emozione qui e là come una sorta di…fanciulla spensierata sul punto di fare la conoscenza della vita vera. Tutto ciò è una burla biologica di dimensioni spropositate, uno smacco!
Temperance rise sonoramente: – così mi offendete!
–  Oh. No, non è questa la mia intenzione. Solo mi domando come tu ci riesca. Io per contro…
Lasciò la frase in sospeso, con una punta di malinconia nella voce.
– Sapete cosa penso? Penso che la colpa del vostro malessere sia imputabile soltanto a voi. Che vi lagnate troppo, ecco la verità.
– Diretta come sempre, mia cara – ridacchiò Jack.
– Sapete che non sono il genere di donna che si tiene tutti i propri pensieri in bocca. Non lo sono, proprio per nulla. Devo dirvelo, e se lo faccio è perché di bene ve ne voglio tanto. Devo dirvelo – ripeté – che voi piagnucolate molto e non vedete quanto ben d’Iddio possedete e quanto, tutto sommato, la vostra salute non sia poi malaccio. Certo, avete un’anca che spesso fa la birbona. Certo, il vostro polso vi duole e più di qualche volta ve ne andate in giro curvo come un qualche animale di specie indefinita…
Jack corrugò la fronte quasi sconvolto dalla sfacciataggine della donna. Ma poi ci rise su, giacché dopo tanti anni aveva appreso che in realtà ciò che ella diceva, seppur all’udirsi paresse un poco insolente, era solamente espressione del gran bene che gli voleva.
– …ma credetemi. – proseguì Temperance – ve la passate abbastanza bene. Potete lavorare, “deambulate decorosamente”, come dite sempre voi, e non dovete assumere particolari medicinali. L’unica cosa che probabilmente, realmente vi affligge è una perpetua solitudine. Che è certamente la più grave delle vostre malattie.
Calò il silenzio per qualche minuto.
Jack disse, tutt’a un tratto: – da quanti anni ci conosciamo, Temperance?
Ella sorrise: – con  quest’anno, saranno ventisei, Jack.
Dalton scosse il capo: – incredibile. E dopo ventisei anni, mi dai ancora del voi?
– Mi par chiaro, Jack. Pensate a cosa avete fatto per me.
– Sciocchezze, Temperance, sciocchezze. Dabbenaggini da donna, ecco che sono queste. Dabbenaggini – borbottò seccamente Jack.
– Il solito, Jack. Siete sempre il solito. Saranno dabbenaggini, ma la penso così.
Dopo che un buon quarto d’ora era passato tra una chiacchiera e l’altra, Temperance sibilò:- ad ogni modo, mi piacerebbe farvela io una domanda.
Senza attendere risposta, proseguì:- giacché ve ne state tutto solo facendo la spola tra casa e casinò, perché non vi mettete in contatto con i vostri fratelli?
– C’è un grande mondo, intorno a te, piccola Temperance.
– Ciò che non vedi non è necessariamente irreale…
– … solo perché sei tu a non vederlo.
Gli occhi di Temperance si spalancarono ed ella socchiuse la bocca per la sorpresa.
– Da anni intrattengo una corrispondenza a senso unico con Joe.
Temperance si illuminò: – allora l’avete trovato! Siete un villano, non mi avete nemmeno messa al corrente! Ed io sciocca, a preoccuparmi per voi!
– Gli spedisco mensilmente del denaro perché ho saputo per vie traverse che non se la cava molto bene. Ed ho ragione di supporre che il fatto di venire mantenuto lo disturbi non poco. Ma non ho intenzione di abbandonarlo a sé stesso. C’è ancora qualcosa che mi lega a lui.
Temperance disse:– non ho mai davvero capito cosa vi sia accaduto. Vi separaste e perdeste sparpagliandovi per il mondo, lasciandovi alle spalle un legame che pareva indissolubile. Sono questi i misteri dell’amore? È dunque ciò possibile? Voglio dire, è possibile che l’amore si estingua anche in contesti tanto peculiari? Non si tratta di amore passionale, senonché fraterno. Si suppone in qualsiasi novella per donne sfaccendate che se tra un uomo ed una donna l’amore possa estinguersi pur rimanendo ufficialmente effettivo grazie alle ferree imposizioni dell’inscindibile vincolo matrimoniale, tra famigliari esso rimanga perpetuamente vivo.
Jack scosse la testa: – non è questo il punto, Temperance. La differenza la fa non tanto quanto amiamo gli altri, chiunque essi siano, quanto piuttosto quanto amiamo noi stessi. Joe, nella fattispecie, è un uomo che pone in primo luogo la propria persona. Non azzarderei parlare di amor proprio, quanto piuttosto di egoismo. Il proprio orgoglio vale per lui molto più dell’amore per un qualsiasi fratello.
Calò un mesto silenzio. Dopo un po’, Jack disse: –  raccontamela ancora una volta, Temperance. Raccontami la nostra storia.
Temperance alzò gli occhi al cielo e, dopo aver scosso il capo affermò: – certo che voi non ve ne stancate mai, eh! Perché non me la raccontate voi, invece, una volta tanto!
– Hai voglia di scherzare – la rimbeccò Jack – sai bene che io non sono un abile narratore. Ma ora torniamo in casa. Per quanto tu ne dica, sono un vecchio ed i vecchi, è notorio soffrano il freddo più dei giovani.
– Come volete, come volete – rise Temperance prendendolo sotto braccio – anche se prima mi avete detto che non sono più nel fiore degli anni…!
Dieci minuti dopo, Jack sedette nuovamente sul divano dopo aver ricaricato il grammofono, mentre Temperance accendeva il caminetto borbottando che le sere cominciavano a farsi effettivamente “fastidiosamente refrigerate”.
– Dunque…volete davvero risentire questa storiella ancora una volta? – chiese la donna sedendo accomodandosi la gonna come di dovere.
– Mi par chiaro. E poi non è una storiella, via. È la nostra storia.
– Insomma…ci siamo conosciuti che ero una ragazzina...mi ero intrufolata in quel vostro carro pieno di tesori con la speranza di fuggire da quella vita sconclusionata che conducevo e quattro uomini che volevano farmi a pezzi. Viaggiaste per giorni, lo ricordo limpidamente ancora oggi, e rammento che passai ore a rimirare i vostri averi passandomene qualcheduno tra le mani. Non avevo mai visto prima tesori nostrani, figurarsi amuleti africani. In realtà, all’epoca non sapevo nemmeno che lo fossero. Pregai che voi non vi accorgeste di me ed invece, la terza notte di viaggio, vi fermaste brevemente per accendere un fuoco e cuocere una trota che avevate pescata a mani nude; volevate evitare gli acquisti ed i contatti umani per un po’, impaurito com’eravate dai vostri trascorsi, lo ricordo. Rovistaste nel carro in cui mi ero rifugiata nella speranza di trovare dei fiammiferi e vi spaventaste a morte quando sfioraste la mia gamba. Credo trascorremmo cinque minuti buoni ad urlare fissandoci negli occhi.
Temperance si interruppe ridendo.
– Mi prendeste con voi per compassione, ma inizialmente mi trattaste con gelido distacco. Un distacco rispettoso, comunque. Vi raccontai la mia brevissima storia di vita costellata di fallimenti e foste il primo che, anziché guardarmi con sdegno, rimase in silenzio, a capo chino. Non mi giudicaste mai per il mio passato vergognoso e mano a mano che il tempo passò, mi accettaste come una presenza nella vostra realtà, mi parve di venir trattata come una figlia; mi deste addirittura un’istruzione, a patto che vi tornassi utile per il nuovo progetto che stavate elaborando. Volevate aprire un rinomato casinò in California, dicevate. Volevate che fosse il più rinomato, che accogliesse il maggior numero di clienti e che vi “restituisse la serenità” che avevate perduta avendo abbandonato la precedente attività. Mi raccontaste la vostra storia solo molto dopo, forse quando capiste di potervi fidare. Si sa – disse la donna aprendo una piccola parentesi – che i poveracci le sventure della vita le conoscono meglio di chi si trastulla nelle comodità del benessere!, e che fidarsi è bene e non fidarsi è meglio! , come diceva la mia povera nonna. Al mondo ci sono tanti predatori, ma anche molti conigli.
– Non cominciare con i proverbi, ti supplico… - borbottò Jack.
Temperance lo ignorò riprendendo il discorso: – Giungemmo in California mesi dopo, successivamente ad un estenuante cammino. Poi voi ricorreste alle vostre fattucchierie da uomo d’affari e vi procuraste a pochi soldi un vecchio locale fatiscente che trasformaste in quello che oggi è il più noto Casinò nazionale. Non so come, forse infiacchita dalla vita, io finii a farvi da domestica, abbandonando gradualmente il ruolo di spalla amministrativa del casinò e voi lo accettaste. Quando l’attività cominciò a fruttare denaro, acquistaste questa villetta meravigliosa “che vi ricorda tanto la precedente” e mi deste una stanza tutta mia. Voi avete salvato la mia esistenza, Jack, senza che mai nessuno vi vincolasse, senza che foste obbligato a farlo e ciò vi rende un grande uomo.
Dalton si alzò ritto in piedi, riaccomodò il vinile affinché ripartisse “Dancing with tears in my eyes” e tese la mano verso Temperance, invitandola a ballare.
Ella, inizialmente stupefatta, sorrise poi con affetto e gli prese la mano alzandosi a sua volta.
Senza dire una parola, ballarono finché il grammofono non si zittì, lasciando che i loro cuori si sfiorassero, per poi abbandonarsi in un caldo abbraccio di benevola comprensione.

 

   
 
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