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Autore: Hermione Weasley    04/11/2015    2 recensioni
“Non siete il primo che è venuto a vedere la strega,” alluse, il sospetto vivissimo.
“Io non credo alle streghe,” non poté fare a meno di sottolineare, vagamente risentito dall'essere stato accomunato ai superstiziosi babbei del villaggio.
“Però siete venuto a vederla comunque,” la ragazza non voleva proprio mollare il colpo. Si sentì messo alle strette, innaturalmente indispettito.
“Ero curioso.”
“Quindi ci credete.”
“No, che non ci credo. Questo posto è piccolo e gli estranei sono sempre fonte di curiosità, non vi pare abbastanza?”
---
XVIII secolo. La vita di Clint Barton, figlio adottivo dell'eccentrico lord Phillip Coulson, cambia radicalmente quando una presunta strega viene ad abitare nel bosco vicino alla villa della famiglia. Clint dovrà fare i conti con la superstizione, gli obblighi, le responsabilità e forze in gioco molto più grandi di lui.
[1700 AU] [Clint/Natasha] [apparizioni di tutti gli Avengers + alcuni personaggi di Agents of Shield] [COMPLETA]
Genere: Avventura, Introspettivo, Storico | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Agente Phil Coulson, Clint Barton/Occhio di Falco, Natasha Romanoff/Vedova Nera, Steve Rogers/Captain America, Un po' tutti
Note: AU | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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Capitolo 11

~

 

Barney era vivo. O forse era lui ad essersi riscoperto morto.

Clint non riusciva a riordinare i pensieri in modo che avessero un qualche senso logico. Continuava a pensare al viaggio con Natasha, alla trappola che gli aveva teso, al momento in cui l'aveva consegnato nelle mani di suo fratello senza guardarsi indietro una sola volta.

Eppure la rabbia per essersi fatto giocare tanto stupidamente era solo un pulsare distante e flebile, come una lucciola in estate, un puntino luminoso che si accende e si spegne. Placido. I suoi sensi si erano azzerati e ridotti a quell'unica, incredibile consapevolezza.

Barney era vivo.

Era lì, accanto a lui, se lo teneva vicino mentre attraversavano l'arcata di pietra delle mura di recinzione dell'abbazia. Clint sapeva che stava parlando, ma le parole gli scivolavano addosso senza che avesse il tempo, la forza o la concentrazione per registrarle. Gli fischiavano gli orecchi, sudavano le mani, la lingua si era fatta di velluto... solo la vista resisteva. Acuta e ostinatamente puntata sull'unico parente che gli era rimasto. L'unico legame di sangue che valesse la pena mantenere e che – Clint realizzò con un tuffo al cuore – aveva lasciato marcire per mancanza di iniziativa.

Lo condusse all'interno della costruzione, compatta e massiccia, brulicante di uomini impegnati in occupazioni diverse. Non si concesse di indugiare a lungo su quegli sconosciuti, giusto il tempo di rendersi conto che l'edificio poteva essere stata un'abbazia, una volta, poi riconvertita in qualcos'altro. Il quartier generale di un centinaio di uomini sporchi e dagli sguardi ostici che avevano l'aria di addomesticarsi solo quando Barney rivolgeva loro un cenno.

Addentrarsi nel cuore della cittadella era come sprofondare in un baratro, come compiere i pochi, fatali passi in direzione della forca; eppure Clint provò un moto d'irrazionale ammirazione per suo fratello, il capo rispettato di una fazione di avanzi di galera tanto terribili da essersi fatti terra bruciata attorno. Perché non doveva essere un caso che la regione fosse a tal punto deserta: i campi erano stati lasciati incolti, ma la terra non era infertile. Gli abitanti delle aree circostanti erano stati costretti ad abbandonare la loro vita di sempre pur di metterla in salvo.

Una sensazione ridicola che si estinse un attimo dopo, retrocedendo nei recessi della sua mente per permettergli di sondare il bizzarro mondo che gli girava attorno.

Barney lo scosse bruscamente per riportarlo all'attenzione.

“Sembri diventato improvvisamente scemo, fratellino,” lo rimproverò sottilmente mentre imboccavano delle strette scale di pietra per il piano superiore.

“S-Solo...”

“Oh, l'abbazia può avere quest'effetto.” Il tono continuava ad essere gelido – una consolazione solo formale.

Decise di starsene zitto finché non raggiunsero una camera di medie dimensioni, dotata di un piccolo balcone che dava un'ottima visuale sul portone d'ingresso. Gli oggetti sparsi per la stanza sembrarono affiorargli alla coscienza come relitti in un mare mosso e furibondo. Un letto ordinatamente rifatto nell'angolo più distante dalla finestra senza vetri; un vecchio scrittoio, una sedia e alcune cassette vuote adibite a sedile; sul tavolo una mappa arrotolata, lettere e fogli sparsi; dietro un paravento sgangherato si intravedevano un baule aperto, una brocca e un vaso da notte appoggiati sopra e sotto un comodino traballante.

“Benvenuto nella mia umile dimora, Clinton,” annunciò solennemente. Lo invitò a sedersi con un ampio gesto delle braccia; poi, prima di raggiungerlo, si sporse attraverso la soglia e nel corridoio, richiamando l'attenzione di qualcuno.

“Portaci del vino, un po' di frutta,” dispose mentre richiudeva la porta.

Gli si sedette di fronte, accomodandosi scompostamente contro lo schienale della sedia con un sospiro di finta stanchezza.

Del ragazzino tredicenne con cui aveva girato il regno non erano rimasti che i capelli – rossi e spettinati proprio come i suoi – e il sorriso aperto, costantemente in agguato sul viso. Ma la spontaneità che Clint ricordava, la sfacciataggine con cui aveva affrontato il mondo, se n'era andata, lasciando posto a qualcos'altro. Non avrebbe ancora saputo dire cosa, ma non gli piaceva. Si sentì come se un estraneo dalla corporatura muscolosa, il collo e la fronte rigati di cicatrici, un orecchio mutilato, avesse preso possesso del corpo di suo fratello per installarvisi comodamente con una nuova personalità.

“Pensavo saresti stato più contento di rivedermi,” pronunciò dopo un lungo attimo di silenzio. Gli sorrise di nuovo, mettendo in mostra la dentatura irregolare, ma sana – Clint ripensò a tutte le volte in cui si era lamentato per la consistenza del dentifricio quando toccava a lui prepararlo. La madre aveva insegnato loro come fare, con qualche erba e un po' d'acqua o vino; non avevano mai perso l'abitudine, neanche dopo la sua morte.

“Credevo fossi morto,” ammise, il disagio profondo e quasi soffocante.

“Non hai neppure provato a cercarmi.” Una luce sinistra gli balenò per un istante negli occhi insieme all'accusa, neppure tanto velata, prima di sparire e essere riassorbita dalle iridi grigio-verdi che rispecchiavano le sue.

“Non sapevo da dove cominciare.” Tentò di non farla suonare come una giustificazione, ma non ci riuscì granché bene. Intuì, come un fulmine a ciel sereno, che Barney era andato a colpire proprio dove sapeva che avrebbe potuto far male. Il senso di colpa si ripresentò più vivido e feroce che mai, intrecciandosi a quello che provava per lord Phillip; per Kate, piantata in asso senza mezzo ripensamento e per se stesso, per essersi lasciato ingannare da Natasha come un completo imbecille.

Io ti ho trovato,” obiettò tranquillamente, ma non c'era niente di pacato nei suoi modi. Di represso, piuttosto, come di una rabbia fluida e costante a malapena tenuta a bada da pericolanti barriere di protezione. Clint trattenne il respiro mentre Barney lo fissava dritto negli occhi, quasi avesse voluto aprirlo in due per assicurarsi che ci fosse effettivamente qualcosa in quella testaccia vuota. Poi parve scuotersi improvvisamente, scrollarsi di dosso l'intensità e ricominciare da capo con quella sua voce fintamente pigra, artificiosamente confidenziale.

“Bè, la donna ti ha trovato,” si corresse. “Le ho solo dato un paio di indicazioni e voilà – il mio fratellino è di nuovo tra noi.”

Quindi non era capitata al villaggio per pura coincidenza. Che cosa le aveva detto per metterla sulla strada giusta?

“E' davvero sorprendente cosa riesce a fare quella gente,” distolse lo sguardo, facendolo vagare per la stanza. Vacuo, perso chissà dove. “L'addestramento è talmente duro che quasi la metà degli adepti ci rimette la vita. Ma come segugi... sono imbattibili.”

Adepti. Il marchio a forma di clessidra. La Stanza Rossa, l'aveva chiamata.

“Mi dovevano un favore, o non mi sarei immischiato con quelli spostati,” spiegò per la seconda volta, come per fargli capire il perché non se ne fosse occupato personalmente. “E poi appena l'ho vista, ho capito che non avresti resistito.”

Rifocalizzò l'attenzione su di lui, sfoderando l'ennesimo sorriso.

“Non perché fosse attraente,” specificò non richiesto, quasi avesse intuito la sua obiezione. “Mi ricordo la faccia che facevi tutte le volte che incontravamo un cane affamato... o un vecchio, o un bambino...” si strinse nelle spalle, “non hai mai saputo resistere a un randagio.”

Clint si sentì come schiaffeggiato da quella considerazione. Aveva scelto Natasha perché sapeva che avrebbe sentito il bisogno di aiutarla? Di ronzarle attorno come l'ape col miele?

“E poi è caduta in disgrazia... la candidata ideale,” si era rifatto assente, impegnato in una lenta conversazione con un interlocutore fantasma. “Bisogna guardarsi bene dal farli incazzare, quelli là. Pessima, pess-”

Barney fece uno scatto improvviso, appoggiando le mani sul tavolo con rapidità animalesca. Clint si irrigidì e gli ci volle un attimo – durante il quale fissò le pupille ingigantite del fratello – per capire che era stato il leggero bussare alla porta a fargli perdere le staffe.

Un ragazzino dall'aria cenciosa si affrettò ad entrare a capo chino, un vassoio di rame tra le mani tremanti. Trasferì la brocca di vino, due bicchieri di legno e una ciotola di frutta sullo scrittoio prima di arretrare e sparire da dov'era venuto.

“Pezzenti,” sibilò Barney, il petto ancora scosso dall'impeto di rabbia immotivato. “Non sanno come comportarsi.”

Rimasero in silenzio a lungo, il tempo necessario perché il fratello riemergesse dalle profondità in cui era precipitato, qualunque esse fossero. Poi di nuovo quel sorriso pungente che avrebbe dovuto rassicurarlo, ma che gli dava invece la misura esatta di quanto del vecchio Barney fosse andato perduto.

“Non credere che abbia smesso di pensarti,” tenne a sottolineare. “Sei stato un chiodo fisso. Ancora lo sei.” Versò del vino in entrambi i bicchieri prima di invitarlo a servirsi. “Dopotutto avevo promesso alla mamma di prendermi cura di te.”

L'immagine della donna sul suo letto di morte gli avvampò improvvisamente davanti agli occhi. Il volto scavato dalla malattia che l'aveva fatta somigliare più ad un teschio che ad una persona in carne ed ossa; la pelle annerita, le labbra secche e aride, dischiuse e avide di un'acqua che non l'avrebbe dissetata. Il ricordo del tanfo invivibile che ne circondava il corpo venne dopo, costringendolo a pensare ad altro.

“Che ti è successo dopo l'incendio?” Clint parlò pur di non doversi trattenere sulla memoria troppo vivida della madre.

“Sono contento che tu me l'abbia chiesto,” rispose con aria professionale.

Gli fece venire in mente il notaio di lord Phillip, quando arrivava a villa Coulson con tredici bauli pieni di pergamene, pennini e boccette di inchiostro; il modo in cui si sedeva dietro la scrivania della stanza verde degli ospiti sistemandosi l'occhialetto sulla punta del naso aquilino.

“Dopo...” sembrò voler dire qualcos'altro, ma scosse il capo come ad abbandonare quell'ordine di idee. “Sono tornato a cercarti,” riprese e parve più soddisfatto del nuovo attacco, “e tu non c'eri.”

La cicatrice sulla fronte si corrugò lentamente, come a segnalargli tutta la sua delusione per quel mancato ricongiungimento.

“Allora mi sono infilato nel bosco per trovarti.” Abbassò la voce, mentre lo sguardo gli scivolava sulla frutta disposta nella ciotola. “Ti ho chiamato per ore,” sottolineò, “credevo di essere finito in un incubo. Non per il fuoco, né per la gente che mi moriva attorno come mosche, no...”

Perché suo fratello, l'unica cosa che avesse al mondo, si era volatilizzato nel niente, incenerito e sparso dal vento come i resti della compagnia. Lasciò la frase in sospeso mentre si distraeva con la mela gialla e ammaccata che aveva sollevato dalla fruttiera.

“Tanto ho urlato che i gendarmi mi hanno sorpreso là in mezzo. Sono stato arrestato e gettato in un buco fetido...” Le pupille si dilatarono di nuovo, gli occhi fissi sul frutto. “Per settimane, mesi... forse anni.”

Clint avrebbe voluto chiedergli come aveva fatto ad evadere, ma gli sembrò di non aver più fiato in gola. Qualsiasi cosa gli fosse successa, suo fratello non c'era più. Non come lo ricordava.

“Mi sono ingraziato uno dei gendarmi. Diceva che di ragazzini sani in quel posto ne capitava raramente.” Fece ruotare la mela tra le dita. “Iniziò a portarmi vino, frutta... più tardi persino dolciumi. Confetti all'anice – i miei preferiti.”

Un principio di nausea, sordo e insistente, gli serrò la bocca dello stomaco in una morsa insopportabile. Da qualche parte nella sua testa aveva già capito dove sarebbe andato a parare, e non era sicuro di voler ascoltare.

“Quello che voleva in cambio...” l'ennesimo sorriso, soltanto accennato, si tramutò in una smorfia orrenda. Di nuovo la luce sinistra negli occhi e poi il tonfo sordo con cui sbatté il frutto sul tavolo, infilzandolo col fermacarte estratto da chissà dove sotto la mappa.

Clint trasalì, la testa che minacciava di girargli, i sensi di abbandonarlo. Ma si trattenne. Non voleva fare la figura del coglione. Non era più il ragazzino magro e scarno che trotterellava alle spalle di Barney, sicuro che nessun problema e nessuna situazione – per quanto spinosi – sarebbero stati irrisolvibili per il fratello dalle mille risorse.

“Mi riterrai un debole,” sibilò, tenendo il pugno stretto sul manico dello stiletto d'argento, “ma non avevo altra scelta. Non ce l'avevo.” Bisbigliò qualcosa sottovoce, un'imprecazione che nascondeva un odio verso se stesso dolorosamente evidente.

Sentì il bisogno di smentirlo, assicurargli che non l'avrebbe mai giudicato, che sopravvivere significava mettere in campo tutti gli strumenti a propria disposizione, anche quelli che non si pensava d'avere. Ma qualcosa lo bloccò nel suo proposito. Il disgusto che gli lesse nello sguardo, forse, o il modo in cui la mano poggiata sullo scrittoio tremava impercettibilmente.

Barney tornò finalmente a guardarlo, rivolgendogli uno sguardo vuoto, due pozze scure che minacciavano di inghiottirlo, di coinvolgerlo nell'inferno che gli ardeva al di là delle pupille. Una cosa senza rumore, aveva detto Natasha. Aveva ragione.

“Era un uomo gentile,” sussurrò. “Ma mi fece rimpiangere papà.”

Clint rabbrividì bruscamente e un sospiro distorto gli abbandonò le labbra. Le mani ruvide, gli archi terrosi che definivano ogni unghia, l'alito pesante d'alcool, le guance ispide di barba appuntita, il respiro disarticolato e stentato... tra tutti i suoi ricordi, quello era il più vivido, il più reale. Era sconcertante la facilità con cui il fantasma di Harold prendeva forma davanti ai suoi occhi, più vero delle cose presenti e concrete, più vero di tutto il resto. Nei momenti peggiori, quando la reminiscenza prendeva il sopravvento, Clint si ritrovava a chiedersi se suo padre fosse mai realmente morto. A ipotizzare che tutta la sua vita dal giorno in cui il colera se l'era portato via non fosse stata altro che un sogno. Che il ragazzino che non riusciva a tenere la bocca chiusa si fosse immaginato tutto per sfuggire ad una quotidianità troppo orrenda per essere affrontata a viso aperto. Che non fossero esistiti né il circo, né villa Coulson.

Non aveva mai pensato che ci potessero essere cose peggiori e adesso Barney – Barney che l'aveva difeso e raccattato quando la furia del padre si abbatteva su di loro, che non gli aveva insegnato a non farlo arrabbiare, ma a rispondere ai suoi pugni, quel Barney che era stato la sua unica ancora di salvezza in un mondo spietato – gli stava confessando di aver desiderato di ritornare a quei giorni, che li aveva rimpianti.

La voglia di vomitare si fece schiacciante.

“Sapevo che eri là fuori,” il fratello fissava avidamente, come alla ricerca di qualcosa sul suo viso, nella sua espressione. “E ho fatto di tutto per uscire e venirti a cercare. Qualsiasi cosa che mi ridesse la libertà.” Qualsiasi.

E allora intuì con estrema chiarezza il processo per il quale Barney si era lasciato smontare pezzo per pezzo, compromettendosi una briciola alla volta pur di riscattare la propria libertà, finché non ne fu rimasto poco o niente. Ci era morto, in quella prigione, giorno dopo giorno, e chiunque ne fosse uscito non era altro che la copia sbiadita e incompleta di suo fratello.

“Mi chiedevo se fossi nella mia stessa s-situazione,” non c'era commozione nella sua voce, solo una rabbia cocente e a stento imbrigliata. “Impazzivo ogni minuto di ogni giorno a pensarti nelle mani di qualche viscido pervertito e speravo con tutto me stesso che fossi diventato a-abbastanza scaltro da cavartela anche da solo.”

Prese a muovere il tagliacarte nella mela, cominciando a farla a pezzi con movimenti calibrati e scattanti.

“Quando sono uscito sono venuto a cercarti. E' la prima cosa che ho fatto.” Gli sembrò, improvvisamente, che le parole si stessero accartocciando sotto il peso del rancore che si portavano dietro. “I-Immaginati la mia s-sorpresa quando ho scoperto che facevi il gran signore, che te ne andavi in giro a viaggiare come un nababbo insieme al tuo nuovo protettore.”

“Barney, non er-”

Quello non è il mio nome.”

Il tono sferzante strozzò la giustificazione che aveva stupidamente sentito il bisogno di azzardare. Il senso di colpa era un terremoto che gli batteva in petto a più riprese, sconquassandolo fin nei recessi più remoti della sua persona, amplificandosi in una sensazione talmente sgradevole e terrificante da togliergli il respiro.

“N-Non sapevo neanche da dove cominciare,” riprovò imperterrito.

Si era risvegliato nel bosco dopo la notte dell'incendio, mezzo nascosto da un cespuglio di rovi che gli si erano conficcati un po' dappertutto, la testa che ancora pulsava per il colpo infertogli da Jacques. Era tornato indietro a cercarlo, ma sul luogo dell'accampamento aveva trovato solo carcasse annerite di cose e persone, lo spesso odore della carne bruciata a riempire l'aria, insieme al calore dei fuochi non ancora estintisi del tutto. Aveva girato in tondo per un giorno intero, spostandosi alla cieca e senza alcun criterio nella speranza di rintracciarlo da qualche parte. Non aveva pensato di controllare nella prigione più vicina, neppure gli era passato per l'anticamera del cervello che suo fratello potesse essere stato arrestato. E poi le ore si erano tramutate in giorni, i giorni in settimane, le settimane in mesi. Non ricordava neanche come si chiamasse il villaggio in cui era stato accusato del furto che l'aveva spedito dritto dritto in gattabuia in attesa di una morte rapida ed indolore. L'ingiustizia divina si sarebbe abbattuta su di lui se lord Phillip non fosse intervenuto a salvarlo con un'insperata ed insperabile botta di fortuna che l'aveva addirittura portato a vivere in una villa nobiliare.

“Pensavo che te ne fossi andato apposta,” aggiunse, dissipando a forza le nebbie di quei ricordi confusi.

“Sei sempre la solita testa di cazzo,” fu la risposta contrita e aggressiva del fratello.

“Ero solo un peso per te e tu lo sai,” tentò di ribattere.

Perché in fondo era questo che aveva pensato, che Barney non volesse essere trovato, che in fin dei conti era stato solo un peso per lui, una fastidiosa zavorra che gli aveva impedito di esprimere a pieno le sue abilità. Clint l'aveva sempre visto come un eroe, potenzialmente invincibile e temibile se solo quell'inutile fratellino gli si fosse tolto dai piedi.

“Sei uno stupido!” Si era alzato con tanta foga da far cadere la sedia all'indietro. Aveva estratto il tagliacarte dalle mela e gli si era scaraventato addosso attraverso il tavolo, afferrandolo per la camicia e puntandogli la lama sottile al collo. “Sei un fottuto idiota, ecco cosa sei.”

Gli occhi sembravano bruciargli di una rabbia antica e resiliente che, col tempo, si era tramutata in ossessione, follia. Inorridì mentre scendeva a patti col fatto che Barney era impazzito. Il rancore l'aveva logorato e consunto fino a tramutarlo in qualcos'altro; il compromesso l'aveva smontato e riplasmato ad immagine e somiglianza di un perfetto sconosciuto.

“Tu e il tuo stupido senso di colpa! Per tutto! Per tutti! Sei un maledetto masochista, un codardo che piuttosto che affrontare i suoi problemi se ne sta in un angolo con la coda tra le gambe a piangere miseria!” Gli vomitò addosso parole furibonde, gli occhi assenti ma accesi di un'ira tremenda che sembrava minacciare di sopraffarlo.

“Mi fai schifo,” sibilò disgustato. “E ti odio. D-Dio...” tremò e fu costretto a lasciarlo andare. “Ti odio,” ripeté come se il sentimento fosse sul punto di diventare incontenibile.

Il tagliacarte cadde a terra con un rumore metallico, il vino rovesciato gocciolava su una gamba dello scrittoio e giù sul pavimento di pietra. Barney scattò alla porta e si mise ad urlare. Poco dopo quattro uomini massicci entrarono nella stanza e, seguendo le sue istruzioni, sollevarono Clint di peso per trascinarlo fuori.

Le grida furibonde di suo fratello lo accompagnarono finché l'udito glielo concesse, per poi essere mantenute in vita dal battito impazzito del suo cuore, dai pensieri sconnessi e rapidi come saette che gli balenavano nel cervello senza alcun controllo. Scesero e scesero nelle viscere dell'abbazia, dove il buio si fece pressoché totale.

Lo abbandonarono in una cella stretta e angusta. C'era solo l'oscurità a fargli compagnia, ma era quella dentro di lui a spaventarlo davvero.

 

*

 

Capì ben presto che nel buio le paure, le afflizioni, il senso di colpa e i fantasmi del passato si ingigantivano a dismisura, assumendo dimensioni imponenti e spaventose. Non seppe per quanto tempo fosse rimasto immobile in quell'antro cieco, gli occhi pieni della furia di Barney e il cuore come svuotato di qualsiasi sensazione che non fosse la disperazione più nera.

L'indifferenza, il grigiore che aveva minacciato di soggiogarlo per tanto tempo a villa Coulson, era in agguato da qualche parte, pronto a subentrare al dolore sordo che gli faceva tremare le mani. Avrebbe voluto invocarlo su di sé, quel disinteresse tanto obnubilante e onnicomprensivo da travolgere tutto. Un mare piatto e freddo capace di sommergere e livellare, di rendere tutti i colori uguali gli uni agli altri, di allontanare le emozioni fino a mutarle in oggetti inanimati dall'aria bizzarra di cui non capiva più l'utilità.

Lo sentiva premere dentro di sé, un bisogno tanto intenso da dargli l'impressione di essere sul punto di spaccarsi in due come un frutto, per rivelare un nocciolo inerte e appassito. C'era il dolore, però, a tenerlo sveglio e presente. Un dolore melmoso e appiccicoso che si ripresentava ad onde continue – c'erano momenti in cui pensava se ne fosse andato per sempre, momenti di beata insensibilità; ma erano solo brevi illusioni che si spezzavano sotto l'effetto dirompente di una marea che non tardava a smentirlo.

Rimase in quello stato di catatonia, in un mondo ridotto a squittii lontani e al battito furibondo del proprio cuore per una quantità di tempo indefinita. Potevano essere passate ore o giorni quando tre ombre scure arrivarono a prenderlo, trasportandolo di peso su per scale di pietra che i suoi occhi, assuefatti all'oscurità, non riuscivano a vedere. La luce, anche la più tenue, gli risultò insopportabile.

Lo condussero in un'ampia stanza fresca e dai soffitti bassi che aveva l'aria di essere stata, negli anni di attività dell'abbazia, un refettorio. Non c'erano tavoli, però, solo un folto gruppo d'uomini – macchie informi – disposti lungo tutto il perimetro rettangolare. Doveva essere notte, ma numerose torce punteggiavano le pareti, proiettandovi ombre sinistre. Giurò che un tipo tarchiato e senza collo avesse il suo arco e la sua pistola agganciati goffamente alla cintura, ma forse stava delirando.

Suo fratello era in piedi al centro della sala: aveva l'aria di aspettarlo. Clint avvertì un malore improvviso afferrargli lo stomaco quando se lo ritrovò davanti, ma non disse niente. Si accorse di potersi reggere a malapena in piedi solo quando i suoi carcerieri l'abbandonarono accanto a Barney e lui si sentì barcollare pericolosamente. Aveva fame e sete e una gran voglia di chiudere gli occhi e dimenticarsi di tutto, di suo fratello, dell'abbazia, di se stesso.

“Clinton,” Barney l'accolse con le solite maniere cameratesche che gli aveva riservato al suo arrivo. Ormai sapeva che era solo una facciata e che, se anche fossero state sincere, non lo mettevano al sicuro dall'anima straziata del fratello, pronta a riemergere per vendicarsi in ogni momento. Perché – ormai ne era sicuro – era questo che voleva: vendetta. Un conto in sospeso che andava saldato. Il Barney che conosceva lui non avrebbe mai fatto niente del genere, ma quel Barney non esisteva più.

“Sono contento che tu sia qui,” mentì, “stavo giusto per illustrare ai miei amici, qui, cosa succederà a breve.”

Clint fece fatica a sostenere il suo sguardo, ma annuì comunque. Si sarebbe spinto al punto di ucciderlo?

“Vedi, tra poco lasceremo l'abbazia per reclamare il posto che ci spetta.”

La stanchezza, la gola arida e gli occhi pesanti aggravarono la confusione che gli riempiva la testa con maggior insistenza ad ogni secondo che passava.

“Non sai di che sto parlando, vero?” Rise e gli scompigliò i capelli in un gesto automatico, solo il fantasma di un'abitudine antica e dimenticata, ma il cui ricordo gli era sceso nelle ossa, come un patrimonio indelebile che ora riaffiorava senza il suo permesso. Non parve turbarsi, però, e si divertì a canzonarlo per la sua stupidità.

“Il mio fratellino non è un tipo molto sveglio. Se lo prendessi a cazzotti, rimarrebbe a farsele dare di santa ragione.” Gli tirò un pugno sulla spalla – non era un colpo leggero, scherzoso, ma un affondo convinto e carico di risentimento. Clint rischiò di perdere l'equilibrio, ma si mantenne miracolosamente in piedi. Non voleva che tutti quegli sconosciuti ridessero di lui, e allo stesso tempo sentiva di meritare le loro ingiurie e vi si sarebbe sottoposto volentieri se avessero potuto cancellare le sofferenze di Barney.

“Ah, andiamo, stavo solo scherzando,” lo rassicurò, afferrandolo per un braccio e riportandoselo vicino. “Sai che giorno è oggi?” Gli chiese.

Clint scosse il capo, a dirgli che non lo sapeva.

“Non importa. Non mi stupisce che tu non lo sappia, hai un aspetto terribile.” Qualcuno rise alla considerazione del fratello, ma Barney non sembrò accorgersene. “Te lo dico io: manca esattamente una settimana alla festa della corona.”

Le informazioni gli arrivavano ovattate e incomprensibili, come se gli stesse parlando in una lingua sconosciuta.

“E sai che succede durante la festa della corona?” Lo scrollò violentemente, contrariato dalla sua mancanza di vitalità. “Festeggiamenti dispiegati per tutta la capitale, fiere, processioni, persino fuochi d'artificio!” Esclamò. “E' il giorno in cui il nostro buon re si presenta alla folla con tutta la sua benevolenza, per raccogliere il consenso dei suoi sudditi adoranti.”

Clint colse i vaghi cenni di assenso di alcuni dei presenti.

“E' anche il giorno in cui il re morirà,” lo informò, il tono che si faceva di colpo solenne.

Come faceva a sapere che il re sarebbe morto durante le celebrazioni? E perché gli importava, comunque?

Gli ci volle un secondo di troppo per capire che Barney gli stava rivelando i piani per un attentato. Il fratello dovette aver colto la consapevolezza nei suoi occhi, perché sembrò rallegrarsi di quell'improvviso e insperato segno di vita.

“Le cose si fanno interessanti, non trovi?” Lo interrogò di nuovo. “Vedi, sono anni ormai che alcuni dei gruppi più influenti del regno sono insoddisfatti dall'operato del nostro amato sovrano. E nonostante qualche mente illuminata abbia tentato di indicargli la retta via, l'adorato padre della patria non ha voluto sentirne.”

Al grido di morte al re! la folla raccolta nella stanza esplose in canti furiosi, volgari e blasfemi indirizzati al sovrano e alla famiglia reale.

“Certo non aiuta che l'unico figlio maschio sia una completa delusione,” continuò Barney, apparentemente impassibile di fronte allo scoppio rabbioso dei suoi uomini. “Sarebbe come abdicare in tuo favore, Clinton: il senso di colpa diventerebbe crimine punito per legge e il regno andrebbe in malora dopo una settimana al massimo. Tornei di autoflagellazione!”

Altre risate, altri insulti, occasionali starnuti, colpi di tosse, sputacchi sul pavimento.

“Non possiamo permettere che il potere cada nelle mani di persone deboli.” Lo strale era ancora tutto per lui – lo colpì in pieno, ridestando lo spettro dell'amor proprio che credeva di aver abbandonato nelle segrete dell'abbazia.

“Il re deve morire.” Una sentenza di morte talmente definitiva che Clint si aspettava di vedere il sovrano condotto lì, nell'antico refettorio, pronto a subire la pena capitale.

“Perché te ne importa?” Gli uscì detto. Si era aspettato di pentirsene, ma sostenne invece lo sguardo infuriato del fratello senza batter ciglio.

Era vero che Barney non era più quello di una volta, ma neanche lui era rimasto lo stesso. La rivelazione lo colpì come una secchiata d'acqua gelida che ebbe l'effetto di risvegliarlo, di renderlo più vigile e presente, di riportarlo a galla in quel mare di stanchezza e confusione.

“Che vuoi dire?” Il volto del fratello si era contratto in una smorfia disgustata. “E' di giustizia che stiamo parlando.”

“No, stai delirando di uccidere il re,” lo corresse. E rieccola quella boccaccia insolente che gli era valsa un'infinità di botte da parte del padre. Era così, Clint: nei momenti più drammatici lasciava che la sfacciataggine prendesse il sopravvento, balsamo e condanna insieme.

Barney lo colpì con un cazzotto in pieno volto che lo costrinse ad indietreggiare. Si sentì come se qualcuno l'avesse infilato dentro una campana prima di cominciare a suonarla, i rintocchi a riverberargli fin nelle viscere, scombussolandogli sensi e pensieri. Si portò una mano alle labbra, ritrovandosi le dita sporche di sangue.

“E' questo quello che fai, adesso? Picchi tuo fratello?”

Gli occhi gli si accesero di una rabbia incontenibile, un fuoco impazzito e inestinguibile che lo divorava lentamente, giorno dopo giorno.

“Ti saresti dovuto ricordare prima, d'avere un fratello,” l'accusò. “Ma suppongo che la vita da riccone ti abbia ammorbidito più di quanto già non avesse fatto la tua smidollatezza.”

“Se non altro ho ancora il cervello a posto.”

Fu un attimo – Barney schioccò le dita e due uomini si fecero avanti, portando arco e faretra. Imbracciò il primo e incoccò una freccia con velocità sorprendente. Lo teneva sotto tiro, adesso.

“Ti tremano le mani,” constatò Clint, facendosi sempre più coraggioso e spericolato. Il tremito, infatti, si era propagato alla corda.

“Sta' zitto,” gli intimò l'altro.

“Se è la vendetta che vuoi, dillo subito. Del re non me ne frega un cazzo.”

Qualcuno accennò a farsi avanti per suonargliele di brutto, ma Barney gridò di stare indietro, pena una freccia sepolta tra gli occhi prima che potessero anche solo accorgersene.

“Non è la vendetta che voglio,” sibilò allora, tenendogli lo sguardo puntato addosso.

“Cosa, allora?”

“Vorrei che fossi morto durante quel fottuto incendio. Vorrei che non mi avessi tradito.” Abbassò la voce e, per un solo istante, gli sembrò ritornato il ragazzino tredicenne nelle cui mani aveva riposto tutta la propria fiducia. “Vorrei che non mi avessi abbandonato.”

Era come se qualcuno si stesse divertendo a punzecchiargli la carne viva con un ferro bollente. Una tortura muta e silenziosa che minacciava di annientarlo. L'inferno è una cosa senza rumore. Forse si meritava di morirci, in quel mondo infernale, forse glielo doveva.

“Barney...” mormorò, ma bastò quello a farlo ritornare vigile, ossessionato, consumato dalla sua stessa ossessione.

“Il mio nome è Trickshot,” lo corresse, il respiro affannato e disarticolato.

Gli ritornò in mente l'uomo alto e slanciato che aveva insegnato loro a tirare con l'arco durante la permanenza nella compagnia di saltimbanchi. Si chiamava Trick Shot e aveva da subito mostrato interesse nei confronti di Clint, troppo più rapido e veloce del fratello per non richiedere un'attenzione pressoché esclusiva. Era l'unica cosa in cui fosse più bravo di Barney, l'unico campo in cui poteva vantare superiorità su di lui. Forse era per questo che aveva deciso di chiamarsi così, per raddrizzare una stortura del passato, correggere un errore imperdonabile.

“Non devi far altro che scoccare quella freccia, Barney.”

Clint gli rivolse un sorriso spontaneo, inaspettato, che ebbe il potere di farlo vacillare.

La corda tremò più insistentemente e poi Trickshot la lasciò andare.

 

 

Note: il colpo di scena è che Barney è un tantino schizzato ù_ù premetto che tutte le mie conoscenze su Trickshot o Trick Shot che dir si voglia vengono da Wikipedia. In origine era l'arciere che ha addestrato Clint, poi ad un certo punto non so in che universo Barney ne ha assunto l'identità in veste di super cattivo... mi sono ispirata (sì a Wikipedia XD) a questo per la storia. Abbiamo scoperto un po' del passato di Barney e anche di quello di Clint, sprazzi su quello di Natasha e persino un'anticipazione degli eventi che occuperanno i restanti due terzi della storia. Ma adesso tocca aspettare per la risoluzione del cliffhangerone (proprio -one).
Intanto ringrazio chi legge e commenta, soprattutto Fake_Brit, Ragdoll_Cat e ovviamente la sociabeta Eli a cui mando un bacio di pronta guarigione :* (o magari te lo manda Clint, vedi te!)
Alla prossima settimana!
(◡‿◡✿)
  
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