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Autore: albelia    04/11/2015    0 recensioni
"Mi piace stare sveglia nell’alba. Guardare il giorno che nasce. Starmi a vedere nascere anche io, ogni mattina.
L’erba è fredda, ho rugiada ovunque. Vorrei che fosse una bella cosa, ma non ne sono sicura. Forse è solo acqua che mi bagna i vestiti e i capelli, non ha niente di poetico nel mezzo.
C’è odore di fiori e di pioggia.
Tutta quella che è venuta ieri sera, e un pezzo di stanotte.
La musica rimbomba lontana. Come un tuono arrabbiato. Fa un po’ paura.
Sento delle macchine che vanno via, delle macchine che vanno.
Chissà, magari qualcuno sta andando adesso.
Non so se mi sento bene. Fisicamente sicuramente no.
Ho vomitato dietro quell’albero spudoratamente in piedi. Io e l’albero. Non so se sarò ancora in grado di camminare normalmente. Ho dei lividi sparsi per le gambe e i sentieri che non portano da nessuna parte. Non mi ricordo come siamo arrivati qua. Non mi ricordo come siamo arrivati dalle luci stroboscopiche, se con la nostra macchina, con la macchina di chi."
Genere: Introspettivo, Malinconico, Song-fic | Stato: completa
Tipo di coppia: Het, Shonen-ai
Note: nessuna | Avvertimenti: Incompiuta | Contesto: Contesto generale/vago
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Siamo un po’ messi male.
Non più del solito, ma comunque male.
Fa male, in qualche parte del corpo (come il collo e la schiena e il braccio destro e qualche dito del piede sinistro) fa molto male.
Vedo lontani i lampeggianti di un auto o le scorie sfinite di una festa che voleva arrivare sino all’alba e ci sta riuscendo in modo triste.
Ascolto il respiro della terra. Ascolto il nostro respiro.
È un respiro tranquillo e affannato insieme.
Siamo calmi e agitati.
Loro dormono.
Io no.
Mi piace stare sveglia nell’alba. Guardare il giorno che nasce. Starmi a vedere nascere anche io, ogni mattina. L’erba è fredda, ho rugiada ovunque. Vorrei che fosse una bella cosa, ma non ne sono sicura. Forse è solo acqua che mi bagna i vestiti e i capelli, non ha niente di poetico nel mezzo.
C’è odore di fiori e di pioggia. Tutta quella che è venuta ieri sera, e un pezzo di stanotte.
La musica rimbomba lontana. Come un tuono arrabbiato. Fa un po’ paura.
Sento delle macchine che vanno via, delle macchine che vanno. Chissà, magari qualcuno sta andando adesso.
Non so se mi sento bene. Fisicamente sicuramente no. Ho vomitato dietro quell’albero spudoratamente in piedi. Io e l’albero. Non so se sarò ancora in grado di camminare normalmente. Ho dei lividi sparsi per le gambe e i sentieri che non portano da nessuna parte.
Non mi ricordo come siamo arrivati qua. Non mi ricordo come siamo arrivati dalle luci stroboscopiche, se con la nostra macchina, con la macchina di chi.
Saranno le cinque, le sei.
Mi sembra di aver visto una vita lunga una notte. O forse una notte lunga una vita.
Per ora non voglio fare niente se non rimanere qui, immobile. Aspettando che qualcuno mi tiri su e mi porti a letto. Che mi metta il pigiama e mi lavi i denti. È strano.
Mi piacciono le cose strane. Sento una mano fredda e screpolata con la mia mano destra. Un paio di pantaloni pieni di fango e vomito e cenere di sigaretta con la mano sinistra. Mi rassicura il fatto di poter ancora sentire le cose. Mi fa sentire viva. E anche un po’ felice.
«Andiamo a casa?» chiedo. Ho bisogno che qualcuno si prenda le responsabilità di dirmi di sì. Di trascinarci via da questo limbo, da questo sonno, o incantesimo. Nessuno mi risponde.
«Dobbiamo andare a casa».
Mi alzo in piedi. Ho ancora i piedi.
Sono lì. Improvvisamente vuoti e indifesi ora che non ci sono più io in mezzo a loro. Come due bambini che si sono addormentati in un parco, dimenticati dalle loro madri degeneri. Li amo più della mia stessa vita. Non in modo diverso. Non uno di più e uno di meno. Lo stesso amore che si può avere per due figli. Anche se non ne ho e per ora non voglio averne. Due figli che hanno mille cose in comune e un milione di motivi per cui non c’entrano niente l’uno con l’altro. Due figli soggettivamente meravigliosi, oggettivamente chi lo sa. Troppo magri magari. Un po’ stupidi, a volte. Con un senso dell’umorismo non di rado triste e avvilente. Ma come puoi non amarli, come. Con la mia montagna di vizi e difetti che va a scontrarsi con l’oceano di tutte le loro cose odiose, i loro demoni, le cose cattive, le battute antipatiche. I giorni neri, le mattine nere, i pomeriggi grigi e le notti bianche. Le sveglie perse e le albe collezionate insieme alle radio d’epoca e i giornali degli anni Novanta. Quel dimenticarsi le cose, il vivere nel passato, il ricordare momenti mai avvenuti e stare intere settimane a pensare a un volto già visto, una canzone già ascoltata. Gli strumenti che non impareremo a suonare, i libri che non scriveremo, i film di cui non saremo i registi, i figli di cui non saremo i genitori. I disegni appesi ai muri, le canzoni brutte, i cibi scadenti, i ristoranti di periferia che poi sono autogrill ma a noi piace darci delle arie. I biglietti fatti a pezzi e incollati al frigo. I magneti usati come portafortuna. Le chiavi di casa perse mille volte e non ritrovate neanche una. Non potrei mai fare a meno di tutto questo.
“Tutto questo” che poi non è altro che un gran casino.
Trucchi sbavati e smalti smangiati e una nausea perenne. Che siamo noi che cerchiamo il modo più indolore per vivere una vita dolorosa.

Tutto era cominciato con me e Paul.
Una sera d’estate, una discoteca sulla spiaggia.
Non avevo bevuto niente, ma non mi ricordavo comunque dov’ero o cosa dovessi fare. Qualcuno mi aveva lasciato in balia del caso e delle persone intorno, delle televisioni al plasma che trasmettevano in diretta qualche partita dell’Italia all’altro capo del mondo, delle scarpe che mi pestavano i piedi nudi. Mi trascinavano e non mi opponevo, cercavo di ricordarmi con chi fossi andata lì e non mi veniva in mente. Stavo semplicemente in piedi in mezzo alla musica e ai bicchieri che si muovevano su e giù. Guardavo le cose, guardavo il mare lontano ma non tanto lontano.
Poi (ed è l’unico modo in cui mi viene da descrivere quello che è successo) qualcuno è arrivato e mi ha salvato. Così. Anche se non lo conoscevo e di certo non glielo avevo chiesto. Non chiedevo mai aiuto a nessuno, perché non era il caso. Fu una conversazione surreale esattamente come lo eravamo noi e come lo siamo ancora adesso che mi sto ricordando queste cose.
Abbiamo parlato del cielo, dei week-end lavorativi, dei libri senza immagini, dei tatuaggi piccoli che costano comunque un sacco, degli zaini rotti, delle relazioni finite male perché non finite, di quelle stupende mai iniziate. C’era qualcosa. L’ho capito subito, e la cosa mi lasciò un po’ spiazzata. Camminammo avanti e indietro per tutta la spiaggia, per tutte le spiagge della città e del mondo. Ci guardavamo con occhi stanchi e questo ci faceva sentire un po’ più vivi di quello che eravamo in realtà. Era biondo e aveva la barba, una camicia di jeans abbottonata fino al collo. Gli occhi color dei prati pieni di siccità, prati secchi.
Mi guardava spesso e per troppo tempo. Finì anche per inciampare su una pietra che non aveva visto. Io non risi e lo aiutai a rialzarsi, mi piaceva il fatto che non se ne fosse imbarazzato. Posso dire che da quel momento non ci siamo più lasciati. Ma potrei sembrare melodrammatica.

Poi Alebert.
Alebert che mi e ci ha fatto capire che quando pensi che tutto sia normalmente bello, in realtà esiste qualcosa di più perfetto. Io e Paul eravamo in un bar. Seminterrato, buio, pieno di fumo. Sembrava il ritrovo di qualche setta di un college americano. Intorno a noi solo cospiratori e sigarette accese, sguardi furtivi. Avevamo litigato per qualcosa, non saprei dirti cosa di preciso. Erano tre anni che eravamo qualcosa, e ci amavamo.
Lo amavo più di quanto amassi me stessa in certi giorni. Lo odiavo anche, per la maggior parte del tempo. E mi sentivo dire spesso che come coppia facevamo vomitare. Ai miei stupidi “perché?” la gente mi rispondeva alzando le spalle, scuotendo la testa, con un lasciarmi al mio destino. Lo accettavo.
In quel momento guardavamo ai lati opposti della sala. Io pensavo che era ora l’ora di finirla. Che facevamo acqua da tutte le parti e saremmo affondati prima di notte, dell’alba. Che c’era qualcosa che dannatamente ci mancava. Non lo avevamo cercato perché non avevamo mai capito di cosa si trattasse. Forse un cane, forse una casa più grande, magari un figlio. Ma non erano discorsi da fare. Non erano progetti compatibili con noi e la nostra vita. Riuscivamo a malapena a sopravvivere giorno per giorno. Riuscivamo a malapena a non affogare ogni pomeriggio in una vasca mezza vuota e una doccia piovosa. Non potevamo farci carico di qualcuno totalmente dipendente da noi. Non ne eravamo in grado, perché eravamo due bambini. Immaturi, codardi, ribelli, noiosi fino all’eccesso, testardi. Vivevamo sempre alla giornata, pensando che qualsiasi cosa fosse successa saremmo comunque morti. Non che fosse una filosofia di vita da prendere come modello, ma era quello che avevamo deciso di appenderci sopra al letto. Litigavamo un giorno sì e l’altro anche, poi facevamo pace perché non avevamo alternative. Non pensavo che senza di lui sarei morta, no. Pensavo solo, che qualsiasi fosse stato il nostro destino, avrei voluto averlo per sempre nella mia vita. Una vita senza di lui mi appariva impossibile. Così come lo sarebbe stata con lui. Era difficile, ero difficile. Era un cercarsi che non portava da nessuna parte, un trovarsi che faceva male e a volte lasciava insoddisfatti. Erano giornate di pioggia e tramonti luminosi.
Poi abbiamo conosciuto Alebert. E abbiamo capito cosa ci mancava.
Era più giovane di noi. Avrà avuto venticinque, ventisei anni. Era alto e magro, con i capelli castani. Era bello. Penso fu un colpo di fulmine. Diverso da come era stato con Paul, con cui avevo dovuto parlare un’intera notte prima di capire una valanga di cose che mi sono portata dietro per anni.
La cosa andò che Paul e Alebert cominciarono a parlare. Alebert era lì con degli amici, tra i tanti cospiratori di cui non ricordo le fisionomie o le voci. Mi stupii di come i due andassero d’accordo. Di come si guardassero. Mi sembrò impossibile e assurdo. Mi inserii nella conversazione. ù
Fu una notte eterna, eterna notte.
Non ne abbiamo discusso subito.
Non ci siamo detti di come ci fossimo innamorati. Perché era anormale e ci faceva paura. Ci sentivamo deviati, passabili di carcere o per lo meno di una denuncia. Una multa. Qualcosa.
Poi Alebert si è trasferito nella nostra casa piccola, con dei colori assurdi e le tende troppo lunghe o troppo corte, il frigo che non funzionava mai, la lavatrice che ci allagava sempre il bagno, le finestre più grandi della stanza, i cani del piano di sopra che abbaiavano. Se dicessi che le cose andarono bene sin da subito, mentirei.
Non andarono bene sin da subito.
Ci furono diversi problemi a proposito di diverse cose. Cose stupide come chi doveva fare la spesa, cose più serie come con chi dormire e dove e perché e con che frequenza. Il momento peggiore fu scoprire che Paul e Alebert, quando io non c’ero, andavano in giro per mano e dicevano a tutti di essere fidanzati. Era una cosa che non potevo sopportare. Era insensato, era una contraddizione, ma non potevo farci niente. Ero gelosa della loro intesa, del loro guardarsi quando io non guardavo. Ero gelosa che si capissero sempre al volo, che avessero così tante cose in comune. Benché fossi sicura che mi amassero entrambi, e che senza di me probabilmente non sarebbero mai durati come coppia. Benché lo sapessi, benché me lo avessero detto così tante volte che una sera finì che Alebert lo scrisse sul muro.
Benché tutto questo, non ci credevo davvero. Non ci credei davvero per un certo periodo di tempo. Poi le cose si sistemarono da sole. Raccattai in giro pezzi di sicurezze, racimolai certezze agli angoli della strada, sbattei giù dalla finestra tutte le gelosie immotivate e le notti insonni. Mi abbandonai alla corrente, come quella sera in discoteca. Smisi semplicemente di preoccuparmi, capii realmente che non ce n’era ragione. Se tutto accadeva per un motivo, se ciò che è non può essere altro che quello che è, se un sacco di proverbi e frasi fatte, l’unica cosa su cui avevo compreso di poter mettere la mano sul fuoco era il rapporto tra noi tre. Sconclusionato e confuso e simbiotico e pieno di errori. C’erano giorni in cui non ci capivamo, non riuscivamo a parlare, provavo a dire anche solo una parola e scoppiavo in lacrime.
A volte ci odiavamo.
A volte facevo le valigie e aspettavo che tornassero, per affrontarli e fargli sapere che me ne andavo. Dove non era importante. Di non cercarmi, assolutamente, ma che se non lo avrebbero fatto sarei andata io a cercarli e li avrei annegati in un pozzo. O sepolti vivi in un tombino. A volte mi chiedevo perché non avevo scelto una vita migliore, una vita normale. Come se ne vedono ovunque. Come se ne parla e se ne scrive. Chissà se mi sarebbe andata bene. Chissà se sarebbe andata bene.
Poi però c’erano i pomeriggi che fuori pioveva e noi ci mettevamo in sala. Seduti per terra a mangiare roba e fumare altra roba. A parlare di film visti, partite non viste, libri letti, libri orrendi. Parlare di noi, di quello che avremmo fatto una volta diventati grandi davvero. Dei progetti per il week-end, per Capodanno, per l’estate, per la cena. Andare a far la spesa, lavare i piatti, ritinteggiare i muri e informarsi su dove poter comprare un cane che non avremmo comprato. Guardavamo programmi notturni assurdi, film che danno solo alle tre di notte perché sono improponibili. Le sere che uscivamo alle nove e tornavamo la mattina dopo. Senza ricordarci nomi facce case vestiti parenti passati vari.
«La realtà è che noi stiamo bene» ha detto qualcuno un giorno.
«La realtà è che noi stiamo bene, ma non sempre» ho risposto io.
«Saremmo morti, se fosse così».
   
 
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