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Autore: Darth Curunir    07/11/2015    1 recensioni
[Nosferatu, il Principe della Notte]
La vita e la non-morte del Principe della Notte, il Signore dei Vampiri, il Nosferatu. La lunga agonia di un essere demoniaco, che tuttavia è condannato a vivere per l'eternità, senza gioia, senza amore, senza luce.
P.S. La storia della vita del Conte Dracula è quella di Vlad Tepes III, dunque è pura storia. Il resto, ossia il racconto della non-morte di Dracula, si rifà al film del 1979 con Klaus Kinski.
Genere: Drammatico, Horror, Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: Missing Moments | Avvertimenti: nessuno
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Memorie di un vampiro
LA VITA E LA NON-MORTE DEL RINCIPE DELLA NOTTE
 
 
 
 
 
 
 
 
 
Incredibile quante cose si pensino nell’istante in cui si sta morendo. Sembra impossibile, ma basta un secondo per rivivere decenni (nel mio caso secoli) di vita… io l’ho provato due volte, ed è la seconda volta che ho impresso (o meglio, sto imprimendo) queste mie memorie, i ricordi della mia vita maledetta.
La mia nascita (nel senso che gli Uomini danno a questo termine) risale al 1431, a Sighisoara, in Transilvania. Ricordo che mio padre era il principe di Valacchia Vlad II Draculea, noto in tutta la Transilvania per essere un voltafaccia. Il suo compito era quello di difendere i suoi domini dai Turchi, e lui cosa fece? Passò dalla parte del sultano turco, offrendogli come garanzia di fedeltà nientemeno che i suoi due figli: Vlad (io stesso) e Radu.
Così, io e mio fratello crescemmo alla corte del sultano. Lì imparai due cose: la tortura è l’unico metodo per governare fermamente e senza opposizioni; la felicità nella nostra vita non esiste: esiste solo il dolore, ed esso è indispensabile per la formazione del carattere.
Alla corte del sultano vidi tutti gli oppositori turchi finire uccisi con i metodi più cruenti: segati in due, dati in pasto alle belve, e anche impalati. Il metodo dell’impalamento restò particolarmente impresso nella mia mente: si legava il condannato a un palo, e lo stesso peso dell’uomo faceva sì che questi penetrasse nella punta, che lo scorticava lentamente. Giurai che anch’io, se fossi diventato re, avrei governato col pugno di ferro.
Inoltre, scoprii che non è nella natura umana essere felici. Ricordo che quando ero giovane mi innamorai di una bellissima ragazza vista all’harem del sultano. Ma un giorno, passando per una piazza, vidi che la stavano impalando. Non sapevo che colpa aveva commesso, e piansi. Ma poi la mia tristezza si dissipò, e promisi a me stesso che non avrei più provato gioia, amore, felicità.
Poi, in un anno che non ricordo (cos’è un anno in una esistenza lunga come la mia?), mio padre e mio nonno vennero uccisi da un condottiero ungherese, Janos Hunyadi, che intendeva liberare la Valacchia dai Turchi e dai sostenitori di questi ultimi.
Così, io desiderai ardentemente diventare principe di Valacchia. Il sultano mi inviò in Transilvania per liberarla dalle forze di Hunyadi, e io li cacciai tutti, diventando il principe Vlad III Draculea. Ma poco tempo dopo, Hunyadi tornò di nuovo, e le mie truppe furono sconfitte.
Fu allora che accadde qualcosa in me, qualcosa che non saprei nemmeno spiegare. Iniziai a desiderare il sangue, il sangue degli schifosi Ungheresi che stavano usurpando il mio trono e il mio regno.
Ma accadde una cosa strana. Il figlio del sultano, di nome Maometto II, stava arrivando in Ungheria per raderla al suolo. Allora, lo stesso Hunyadi mi permise di rientrare in Transilvania, a patto che lo aiutassi contro i Turchi. Ricordai che mio padre aveva spesso svolto una politica opportunistica, e così decisi di combattere contro i miei vecchi alleati.
Riconquistai col sangue il trono di Valacchia, uccidendo, massacrando, bruciando, eliminando tutti i miei oppositori. E scoprii la gioia perversa dell’assassinio.
Una volta salito al trono, decisi di punire tutti coloro che mi avevano ostacolato e mi ostacolavano. Li massacrai uno per uno, impalandoli davanti alla mia residenza, il castello di Bran. In breve, una foresta di pali e corpi morti ricoprì la valle di Bran, e io diventai sempre più temuto e rispettato dalla popolazione. Mi fu affibbiato il soprannome di “Tepes”, l’Impalatore.
Un giorno, per liberarmi di alcuni cortigiani e nobili infedeli e inetti, li invitai a un banchetto. Ma non avevo fatto preparare un pranzo, e nella sala c’erano solo un lungo tavolo al quale ero seduto io, e una foresta di pali. Li feci tutti impalare. Tuttavia, dopo provai il bisogno di mangiare qualcosa, e decisi di provare un gusto nuovo. Ordinai di portarmi la carne degli impalati. E scoprii il gusto del sangue, il sangue caldo che scorre nelle vene… ingoiato dalla mia avida bocca. Fu una sensazione unica e… sublime.
Ebbi quattro mogli e molti figli di cui tre legittimi, ma non provai mai l’amore. Più volte giacqui accanto a una donna, ma fu sempre solo sesso. Mai vero amore. Dopo le crude esperienze che avevo vissuto, il mio animo non poteva provarlo.
Nessuno, nessuno!, era al sicuro in mia presenza. La gioia del sangue e la mia infanzia travagliata mi avevano reso il più crudele uomo del mondo, e tutti coloro che mi offendevano o mi mancavano di rispetto finivano puntualmente impalati.
Nonostante questo, non fui un regnante ingrato. Ammisi fra le mie cerchie più strette anche plebei e contadini che si erano meritati la mia fiducia, dimostrandomi lealtà.     
Fu anche grazie a questa mia disponibilità verso i giusti che riuscii per anni a tenere gli invasori Turchi lontani dalla Valacchia, e mi ritrovai ad affrontare anche mio fratello Radu, che combatté a capo dell’armata turca.
Ma purtroppo, il mio esercito fu sconfitto, e fui costretto a chiedere aiuto a Mattia Corvino, re d’Ungheria. Questi, tuttavia, rifiutò di appoggiarmi, e mi accusò di voler passare dalla parte dei Turchi. Ciò era assolutamente falso, ma non nego di aver pensato di mettere ancora una volta a frutto la mia politica opportunistica e di passare dalla parte di Maometto II.
Comunque, fui arrestato e imprigionato in Ungheria. Ricordo quei tristi momenti passati in cella, in cui mi sentivo un mostro, avrei voluto uccidere tutti, Ungheresi e Turchi. Sognavo con desiderio il loro sangue, che colava da pali acuminati e da corpi squartati… e ancora una volta ebbi fortuna.
Il nuovo papa Sisto IV  decise di intraprendere una nuova crociata contro i Turchi, e chiese la mia liberazione, cosicché io potessi guidare l’esercito cattolico.
Fu con una perversa gioia sanguinaria che scesi in battaglia contro i Turchi, uccidendone a migliaia. Persino quello schifoso di Mattia Corvino acconsentì al mio ritorno sul trono della Valacchia.
All’inizio, quando ridiventai principe, le cose andarono bene, e migliaia di Turchi finirono sconfitti dal mio esercito e dalla mia ferocia. Tuttavia, alla fine del 1476, il mio potere iniziò a vacillare, i miei soldati vennero sconfitti in parecchie battaglie, e gli Ottomani mi presero prigioniero.
In pochi sanno la verità sulla mia morte. Fui tenuto prigioniero da Maometto II per mesi, quando, un giorno, fui impalato. Ricordo quel momento: fui denudato, condotto in cima a un palo acuminato e, sotto agli occhi di centinaia sporchi Turchi, il mio ventre fu squartato dalla punta aguzza.
Ah, come esprimere ciò che provai in quell’istante? Dolore, sì, ma avvertii un presentimento. Sarei tornato. Sarei tornato dopo la mia morte, e avrei continuato a saziarmi di sangue umano, poiché nella mia vita avevo superato limiti che una comune mente umana non avrebbe mai osato superare.
Così, mentre sentivo il mio cuore smettere di battere, risi, risi di una gioia perversa, e giurai al mondo, a Iddio, al Demonio e agli Uomini che sarei tornato, vendicandomi senza pietà, scatenando la mia cieca furia omicida su chiunque sarebbe capitato innanzi a me.
E poi… buio.
Buio.
Buio.
Buio.
Non ricordo niente dei giorni, mesi, anni, decenni, secoli che seguirono. Ero morto, in fin dei conti.
Ma poi… tornai alla vita. Non vidi una luce, al contrario di quanto si potrebbe pensare. Forse la mia anima era stata troppo malvagia per vedere ancora la luce. Però sentii che stavo aprendo gli occhi. Ero in una bara, riempita di terra impura e sconsacrata. Mi osservai le mani, bianche e dalle lunghe dita ossute, e feci forza sul coperchio della bara per aprirla.
Ero sottoterra. Quando venni alla superficie scoprii che era notte, e che ero nel cortile di uno dei miei vecchi castelli, il castello di Ordog, come era chiamato. Di certo i Turchi, disgustati dal mio corpo, mi avevano gettato in quel cortile senza riti funebri.
Entrai nel castello, e mi guardai allo specchio. Non vidi nulla. Ma cosa ero? Ricordavo di essere stato Vlad Tepes III Draculea, e ricordavo di essere morto impalato. Ma allora perché ero di nuovo vivo?
E poi mi ricordai.
“Ritornerò, sì!, ritornerò! E allora, in tutto il mondo la gente mi temerà, temerà il malvagio essere che diventerò, e mi sazierò del sangue di tutti i miei nemici. E tutti gli Uomini saranno miei nemici!”, questo avevo urlato prima di morire.
Allora era vero. Ero risorto.
Mi tastai il volto. I miei lunghi capelli e i miei baffi erano spariti. Dovevo essere un uomo calvo e bianco come un cadavere, immaginai. Poi sentii di avere qualcosa di strano ai denti… li tastai. I miei incisivi erano lunghi e aguzzi. E poi la avvertii.
Quella inspiegabile, dannata, schifosa sete di sangue. Volevo un collo, sì, un collo giovane e pieno di sangue da succhiare, da assaporare, da bere. E allora capii: ciò che avevo giurato si era realizzato. Ero tornato dalla morte, e avrei bevuto il sangue umano per l’eternità.
Uscii dal castello, avvolto dalle stesse vesti nere con le quali ero stato sepolto, e girai per i villaggi contadini della Transilvania. Ricordo la mia prima vittima da non-morto. Era una ragazza, di appena vent’anni, dai lunghi capelli biondi e il collo bianco e morbido. Dormiva nella sua stanza, in una piccola casa contadina, con la finestra aperta.
Desideravo salire fino alla stanza di quella ragazza che vedevo dalla finestra, e prima che potessi finire di pensare, sentii che il mio corpo si stava comprimendo, come trasformando. Poi mi guardai e… ero un pipistrello.
Volai fino alla stanza, e poi tornai a essere non-morto. Mi avvicinai al collo, e conficcai i denti nella carne viva. Sentivo il sangue caldo salirmi in bocca, colarmi in gola, nello stomaco. E mi sentii vivo, più vivo di quanto ero mai stato. Era quello tutto ciò di cui avevo bisogno.
Morsi altre due persone quella notte. Poi, quando i primi raggi del sole iniziarono a fare capolino all’orizzonte, mi colse un timore verso quella luce. Ero come spaventato. Trasformatomi in pipistrello, tornai al mio fatiscente castello, portai la bara nelle segrete e mi addormentai in essa. In realtà non dormivo, ero morto. Ma sapevo che la notte dopo sarei tornato ancora.
Per sempre.
Così passò il primo secolo della mia non-vita (o non-morte). Ogni notte mi svegliavo dal mio sonno tombale, e provavo lo stesso incontrollabile desiderio di sangue. Poi, dopo aver saziato la mia sete, tornavo nella bara. Col tempo scoprii che l’anno in cui mi ero risvegliato dalla morte era il 1623, e che la Transilvania era tornata a essere indipendente dopo esser stata per anni soggiogata dall’Austria.
E col tempo notai anche che tutti coloro che mordevo si trasformavano lentamente in vampiri, anche se meno pericolosi e meno assetati di sangue di me. Man mano che il tempo passava e io bevevo il sangue delle persone, fra i transilvani e i rumeni iniziò a divampare la paura dell’essere che li perseguitava bevendo il loro sangue. Iniziarono a chiamarlo vampiro, e a chiamare il misterioso “principe della notte” con l’epiteto di Nosferatu, il non-spirato.
Inoltre, capii che potevo riposare, durante il dì, solo in bare piene di terra sconsacrata transilvana. Qualsiasi altro luogo mi risultava odioso.
Più volte mi capitò di ospitare vagabondi e viandanti nel mio castello, e io li accoglievo presentandomi come Conte Dracula (una storpiatura dall’antica casata dei Draculea da cui discendevo). Ma gli ospiti non resistevano più di una notte: la mattina dopo, Nosferatu si era già saziato del loro sangue.
Una notte morsi tre sorelle transilvane, che obbligai poi a diventare mie schiave al castello. Di giorno stavano rinchiuse in uno scantinato nascosto, e non si facevano mai vedere nemmeno di notte.
Ma poi, credo che fosse già il XVIII secolo, iniziai a riflettere sulla mia esistenza, e capii quanto essa fosse sbagliata. Perché ero tornato? Perché non avevo potuto godere di quel meritato riposo eterno che agli Uomini spetta dopo una vita di dolore? Per vendicarmi? Ma vendicarmi di chi? Di un’umanità che in realtà non mi aveva mai perseguitato in vita, ma che invece IO avevo davvero perseguitato. Perché mi era toccata quella sorte? A Dio (se mai esiste un Dio buono in questa vita d’orrori) non erano bastate le carneficine che avevo compiuto in vita? Voleva che le continuassi anche dopo la mia morte? O forse voleva vendicarsi di me e della mia crudeltà, negandomi quell’unica nota di benevolenza concessa agli Uomini che è la morte.
Ah, stolidi umani! Non capite, non capirete mai!, quanto sia brutto il non morire. O ancora peggio, morire e ogni notte tornare. Tornare, inesorabilmente, incessantemente, indiscutibilmente alla vita! Perché, perché gli Uomini desiderano tanto vivere in eterno? Per dominare? Per non lasciare il mondo? Ah, se voi solo sapeste cosa significa davvero non morire mai. E tornare, tornare, tornare… per secoli e secoli.
Capii, in quegli anni, che avevo davvero sbagliato, che non aveva senso uccidere, torturare, distruggere. Capii che il tempo è un abisso, profondo come lunghe, infinite notti, e che esistono cose peggiori della morte: non avere la capacità di provarla.
Decisi che avrei smesso, avrei smesso di perseguitare l’Uomo, avrei smesso di succhiare la loro linfa vitale, la loro già scarsa felicità.
Così, una notte, mi svegliai come sempre nella mia bara, e giurai che non avrei mai più rovinato vite e famiglie. E poi, eccola salire alla gola! Quella maledetta, incontrollabile sete di sangue. Non riuscivo, non potevo resistervi! Ahimè, morsi ancora, e bevvi ancora sangue.
Da allora il mio supplizio si fece insopportabile. Ero pentito, pentito per quello che avevo fatto prima e dopo la morte, ma ormai era troppo tardi. Ero stato inghiottito dalla tremenda voragine del tempo, e ormai ero troppo a fondo per tornare alla superficie, a una morte normale.
Quando non ero colto dalla mia sete di sangue, che fortunatamente mi lasciava attimi di tregua, contemplavo l’oscurità e le ombre della notte, e udivo la musica di lupi, gufi e assioli, i figli della notte. Mi sentivo quasi bene, solo con le ombre e i miei pensieri, e sentivo che anch’io appartenevo a quell’oscurità.
Il ‘700 passò, lento come tutti i secoli che dovetti sopportare, e infine arrivò il XIX secolo. Poi, nel 1838, decisi di trasferirmi, di lasciare per sempre quell’orrido castello in cui trascorrevo la mia non-morte. Desideravo, inoltre, nuove vittime, nuovo sangue, nuovi non-morti. Così viaggiai sotto forma di pipistrello e giunsi a Wismar, in Germania. Qui, mi impossessai della mente di un proprietario immobiliare, di nome Renfield, affinché mandasse da me in Transilvania un suo impiegato che mi facesse acquistare una casa lì, a Wismar.
Renfield, ormai divenuto mio servo, mandò al mio castello transilvano il giovane agente immobiliare Jonathan Harker. L’uomo arrivò in una fredda notte di maggio, e io lo accolsi nel castello offrendogli la cena che le mie serve avevano preparato. Harker era piuttosto terrorizzato da me e dal mio castello, e intuii che certamente aveva ascoltato le voci che giravano nel villaggio vicino sul misterioso Conte Dracula che forse era il principe della notte, Nosferatu.
Durante la cena, Harker si tagliò con il coltello, e io non seppi resistere: gli leccai il sangue. Scoprii il dolce e intenso sapore del suo sangue, e desiderai berlo. Ma mi decisi a non farlo, in modo tale che mi parlasse della casa a Wismar.
Passarono i giorni. Il dì, io stavo chiuso nella mia bara, e di notte mi svegliavo, facendo compagnia a Harker mentre mangiava ciò che le serve avevano preparato.
Poi, un giorno, Harker mi parlò della casa a Wismar, che era vicina alla sua. Mentre tirava fuori dalla tasca il contratto, prese per sbaglio un ciondolo, che raffigurava una ragazza bellissima dai capelli neri.
Ah, che collo! Non avevo mai provato una simile voglia di mordere, di bere sangue! Ma sono certo che ci fosse dell’altro dei miei pensieri. Per secoli non avevo mai provato amore, e questo mi aveva reso triste e derelitto. Ma adesso sentivo una nuova sensazione, quasi amore, forse, che mischiata alla voglia di saziarmi del sangue della fanciulla creava un sentimento sublime e insieme terrificante.
Ella era Lucy Westenra, la giovane moglie di Harker. Decisi di firmare il contratto, disposto a spendere tutto l’immenso patrimonio che possedevo pur di vedere quella ragazza.
Quella notte non seppi resistere. Jonathan Harker era nel suo letto, in cima alla torre del castello. Entrai furtivamente nella stanza e lo morsi. Succhiai il suo sangue, e lo assaporai. Avvertii che sarebbe diventato un non-morto molto potente, potente quasi quanto il suo creatore.   
Per il resto della notte riflettei. Sarei dovuto partire al più presto per Wismar, dove avrei potuto uccidere la ragazza e renderla vampira. Ma Harker iniziava a essere un ostacolo: come avrei potuto partire senza essere visto da lui?
Fino alla notte seguente dormii nella mia bara. Ma, al tramonto del giorno successivo, vidi che il coperchio di pietra della mia tomba era aperto. Harker mi aveva certamente visto.
Così, quella stessa notte, chiamai una carrozza e dissi al cocchiere di portare al porto un carico di bare piene di “terra da giardino per esperimenti botanici”, che sarebbero state portate nella mia nuova casa a Wismar via mare. Uscii dal castello chiudendolo a chiave per non far uscire Harker, poi caricai sul carro le bare piene di terra infestate di topi appestati. Fatto questo, entrai in una bara: sarei andato a Wismar in nave.
Durante il lungo viaggio nel Mar Nero, morsi quattro marinai e il secondo, un marinaio e il cuoco. Di notte uscivo dalla mia bara, liberando i topi infetti per la nave, e mordevo chiunque mi capitasse innanzi per saziare la mia sete di sangue. L’ultima notte, il capitano, ultimo sopravvissuto, si legò al timone, ma io lo morsi ugualmente, uccidendolo.
Il vascello arrivò a Wismar un giorno dei primi di giugno, mentre io ancora dormivo in una bara. La notte, scaricai dalla nave tutte le bare piene di terra, e le portai nella mia nuova casa, un’antica dimora in rovina. La città era invasa dai topi infetti che erano nascosti nelle mie bare, che ora stavano diffondendo la peste in giro.
La notte seguente, una volta uscito dalla mia bara, mi diressi verso casa Harker. Dalla finestra vidi l’interno della casa. Jonathan era pallido e smunto, consumato dal morso che gli avevo inferto. E poi… eccola. Non lontano dal suo amato marito c’era Lucy, bella e pallida come un giglio, triste per la situazione di Jonathan.
Dopo che ebbero finito di cenare, Lucy si ritirò nel bagno. Trasformatomi in pipistrello, entrai in casa e la raggiunsi in bagno.
Ebbi con lei un breve colloquio. Le spiegai che ero il Conte Dracula, ma lei sapeva attraverso i diari di Harker che personaggio misterioso e oscuro io ero. Cercai di farle comprendere il mio dolore, il dolore della mia esistenza infelice e solitaria, priva di amore e amicizia. Cercai di convincerla a passare dalla mia parte, a diventare vampira, per amore mio e di Jonathan. Ma lei non capiva, e, scostati i lunghi capelli neri dal collo, mostrò una collana con un crocefisso. I simboli sacri avevano il potere di accecarmi, di allontanarmi. E così, fuggii.
La sera seguente fui raggiunto da Renfield. L’influenza nefasta che avevo avuto su di lui lo aveva reso pazzo, era stato imprigionato, e ora era evaso. Lo inviai a Riga, per portare la peste nel mondo, e uccidere quell’umanità che ero destinato a perseguitare per l’eternità.
Passai il giorno seguente nella bara. Poi, quella notte, girai per la città contaminata per saziare la mia sete di sangue. Quando, verso l’alba, tornai alla catapecchia dove avevo nascosto le bare, le trovai tutte coperte di frammenti di ostia consacrata, tranne una. Certamente, Lucy doveva aver tentato di uccidermi per sempre.
Riposai nella bara sconsacrata e, la notte dopo, mi decisi: avrei morso Lucy, e l’avrei resa la mia consorte vampira.
Quella notte, entrai nella sua stanza. Era sveglia. Mi chinai sul suo candido collo, e lei non oppose resistenza. Mentre bevevo il suo sangue, toccavo il suo giovane corpo perfetto, sentivo fra le dita la sua pelle candida. Mordevo quel collo morbido e fiorente.
Non riuscivo a staccare i denti da quel collo. Sapevo che, se le avessi bevuto tutto il sangue, non sarebbe potuta vivere dopo la morte. Ma lei mi tirava a sé, e la tentazione fu troppo forte; anche quando vidi che il sangue nel suo corpo stava terminando, continuai a morderla per tutta la notte, incessantemente.
E poi… sentii il canto del gallo. Sentii il campanile che batteva le ore. Vidi la stanza illuminarsi poco a poco. E capii.
Lucy si era sacrificata per il bene dell’Uomo, per distrarmi. Aveva donato la sua vita affinché io mi dimenticassi dell’alba, e venissi annientato dalla luce del sole. E io ero cascato nella trappola.
Mi sentii in pericolo per la prima volta dopo la mia cattura da parte dei Turchi quasi quattrocento anni prima. Dovevo uscire da quella casa, tornare nella mia bara. Ma come potevo uscire senza imbattermi nella luce del sole? Ero spacciato.
Andai alla finestra, tenendo lo sguardo basso. Ma un raggio di sole mi colpì in volto.
La vista mi si offuscò, il respiro rallentò, il cuore smise di pulsare. Caddi a terra, pietrificato.
Ero morto, come quando dormivo nella mia bara. Ma inspiegabilmente, c’era ancora qualcosa di vivo in me. Udivo le voci e i rumori attorno a me, percepivo ciò che accadeva.
Pochi minuti dopo salì in camera un uomo, il dottor Van Helsing. Questi disse “Ora so tutto… oh, Dio!      , se l’avessi ascoltata prima! Presto, un paletto e un martello! Devo togliere di mezzo questo mostro per sempre!”
Van Helsing tornò poco dopo con un paletto di frassino e un martello. Fu allora, quando si chinò su di me, che osservai l’unica cosa che ancora mi rasserenava in quella stanza, il cadavere di Lucy. E in quegli occhi, io impressi ciò che pensavo, tutto quel turbine di pensieri che mi vorticò in mente.
È così che sono nate queste memorie, impresse negli occhi del cadavere dell’unica donna che io abbia mai amato. E anche se io presto scomparirò per sempre dalla faccia di questo mondo infame che ho oltraggiato e mi ha oltraggiato, lo spirito dell’inestinto Nosferatu non morirà, abitando il corpo di Jonathan Harker, e queste memorie sopravvivranno, fino a che il corpo di Lucy Harker sopravvivrà.
Ecco che Van Helsing si avvicina col suo paletto. Presto avrò finalmente… pace…
 
   
 
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