Libri > Il fantasma dell'Opera
Ricorda la storia  |       
Autore: Elphie94    07/11/2015    1 recensioni
«Devo essere pazza per seguirti. Secondo te lo sono?» gli chiesi con voce appena udibile oltre il flusso inondante dei miei pensieri.
Si voltò verso di me – nel buio, i suoi occhi erano come stelle sulla distanza.
«Mia cara, tu sei sana di mente quanto me.»

Meg è la figlia di Madame Giry, la migliore amica di Christine Daaé, un'anonima ballerina di fila. Quando il giornalista Gaston Leroux la rintraccia trent'anni dopo gli strani accadimenti dell'Opera Garnier, lei - vedova di un barone, senza figli - gli racconta la sua versione, in cui è finalmente protagonista. Insieme a un uomo che era diverso da tutti gli altri...
[Correntemente in fase di revisione.]
Genere: Drammatico, Introspettivo, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Altri, Erik/Il fantasma
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
   >>
Per recensire esegui il login o registrati.
Dimensione del testo A A A

PROLOGO




1910, 12 Febbraio.


Il cielo aveva un bizzarro senso dell'umorismo.

Non importava quanto a lungo distogliessi lo sguardo dal finestrino: le gocce di pioggia picchiavano sul vetro così come nei miei timpani, ed era impossibile ignorarle. L'eco di un tuono risuonava in lontananza, oltre le alte guglie della città che svettavano sullo sfondo grigio acciaio – un mare di torbide nuvole arrabbiate. Il cielo sembrava proprio di cattivo umore, quel mattino, ma non ero tipo da farsi intimidire. Anche se non ero esattamente all'apice dell'entusiasmo.

Avrei dovuto esserlo, certo. Finalmente, dopo mesi e mesi di ricerche, sembrava che il rosso filo invisibile che mi legava a una vita da lungo tempo obliata mi stesse conducendo nella direzione giusta. Avevo dovuto scavare a lungo nella melma che l'aveva sommersa, spesso col rischio di ritrovarmi inzaccherato fino all'osso, ma ne ero uscito con miracolosa dignità. Ora si trattava di compiere solo gli ultimi passi, di tirare ancora un po' quel filo rosso che solo io sembravo aver scorto tra le tenebre. Mi sembrava di inseguire, per la prima volta, le tracce di un uomo di carne e sangue, non più un mero spettro senza nome né voce. La sua voce, invece... Se mi concentravo abbastanza, chiudendo gli occhi, allora forse – forse – riuscivo quasi a udirla. Non una voce – la voce.

Lanciai una rapida occhiata fuori dal finestrino. Anche se non avrei voluto – quel panorama fosco intorbidiva ancor più il mio umore già cupo – non potei farne a meno. C'era qualcosa di stranamente avvincente nella pioggia, come il ticchettio di una musica lontana.

Sospirai: quella storia alla lunga mi avrebbe fatto impazzire. Dovevo risolverla al più presto.

Se solo avessi ottenuto maggiore collaborazione dalla donna stoica e testarda da cui mi stavo recando ora...

La fiacre sobbalzò su una buca nel terreno, e così anche quel che c'era dentro il mio stomaco. Da quando ero riuscito a recuperare Memorie di un direttore di Monsieur Armand Moncharmin, avevo desiderato avidamente di poter parlare con Madame Giry, vecchia maschera del palco numero 5. Ma il tempo non era stato misericordioso: la donna era già deceduta da parecchi anni. Non ebbi neanche il tempo di covare il lutto per quella perdita significativa per le mie investigazioni che, parlando con l'attuale segretario dell'Accademia nazionale di musica, incontrai Monsieur Faure, giudice istruttore del clamoroso caso Chagny. Nella mia mente ero già riuscito a conciliare in modo verosimile certi drammatici avvenimenti che all'epoca fecero scalpore (la morte del conte di Chagny, il misterioso rapimento di Christine Daaé e persino il famoso crollo del lampadario) con l'esistenza di un individuo esterno alla famiglia Chagny, qualcuno che all'Opera veniva chiamato “fantasma”… Più difficile, naturalmente, era stato persuadere il signor giudice istruttore.

Avevo avuto la solida intuizione di collegare tra loro i vari avvenimenti che segnarono in tragedia l'anno 1881 per lo stesso istinto che mi aveva guidato nella mia lunga e fortunata carriera di giornalista. Spesso mi ero trovato in situazioni poco chiare – processi civili o penali che fossero – che ero riuscito a sbrogliare grazie a quello stesso intuito, e portato alla luce con penna tagliente e sempre precisa. C'era un motivo, d'altronde, per cui avevo avuto successo nel campo. Da ragazzo avevo lasciato la carriera d'avvocato – poco ispirata, tra l'altro – perché un richiamo irresistibile mi aveva condotto alla carta e all'inchiostro, e avevo scoperto come la penna fosse un'arma ben più affilata della spada. Colpiva in punti nascosti e pungolava incessantemente le sue vittime. Non era stato possibile rifiutare quell'invito.

E così, da mesi e mesi di incessante lavoro, mi ero immerso a capofitto in una storia ben più grande e misteriosa di me. E dire che avrei dovuto essere abituato a certe cose – ma quella era la vicenda più bizzarra del mondo.

La mia gioia era stata immensa quando Monsieur Faure mi aveva parlato di uno dei testimoni più eccentrici di quel maledetto caso Chagny: un uomo che tutti chiamavano “il Persiano”, e che all'epoca aveva fatto strane dichiarazioni a proposito del vero colpevole di quella vicenda senza capo né coda. Nessuno gli aveva dato ascolto, però: lo avevano considerato un visionario. Ma io mi ero informato bene sul conto di quell'uomo, un ex daroga alla corte dello Shah di Persia, e ne avevo tratto che era una persona onesta e incapace di inventare “sciocchezze” solo per attirare l'attenzione su di sé. Anzi, nei suoi anni di residenza a Parigi si era tenuto perlopiù nell'ombra, tanto che nessuno pareva conoscere il suo passato o persino il suo nome. Si sapeva solo che era un assiduo frequentatore dell'Opera, e niente più. Non era molto da cui iniziare, ma a me sembrava di aver scoperto un qualche maestoso tesoro nascosto.

Un altro notevole testimone di quelle vicende, che poteva chiarire alcune parti della trama che mi erano ancora oscure, era la figlia della defunta Madame Giry. Nelle sue Memorie, l'ex direttore Moncharmin non aveva certo approfondito lo strano caso del fantasma che li aveva giocati tutti, dal primo all'ultimo, e io ero sicuro che la Giry sapesse ben più di quanto sembrasse. Era pur sempre figlia della maschera del palco numero 5 – il “palco del fantasma”. Se non potevo parlare con Madame, avrei fatto una bella chiacchierata con Madamoiselle.

Solo che ora non si poteva più parlare di nessuna signorina: alla segreteria dell'Opera, in cui ormai non ero più semplice ospite, ma un visitatore assiduo e anche un bel po' ficcanaso, mi avevano informato, ahimè!, del trapasso di Madame, risalente a molti anni prima, e del fatto che la sua unica figlia, da promettente stella della danza, era divenuta baronessa di Castelot-Barzebac.

La cosa mi aveva lasciato un po' interdetto. Tuttavia, quello non era certo un caso unico. Talvolta accadeva che una semplice ballerina, étoile dell'Opera o persino umile membro del corpo di ballo, conseguisse un matrimonio facoltoso. Non avevo tardato a scoprire il domicilio della donna, appena un po' fuori Parigi, e a recarmi da lei come, d'altro canto, ero andato a far visita al Persiano. Mi ci era voluto parecchio tempo per conquistare la fiducia di quest'ultimo. Il Persiano – un uomo di un'onestà e un candore quasi infantili – mi aveva offerto non solo le prove dell'esistenza del “fantasma”, ma anche il racconto di una vita incredibile e del vero destino del visconte Raoul de Chagny e della soprano Christine Daaé. La cosa mi aveva fatto girare la testa, ma solo la corrispondenza scritta dalla stessa cantante, procuratami dal Persiano, aveva potuto dissuadermi dal tortuoso dubbio che quella fosse tutta un'enorme messa in scena. Ero vicino, così vicino... Si trattava solo di sistemare gli ultimi tasselli del mosaico.

Peccato che la suddetta baronessa non si sforzasse di collaborare granché.

Quando mi ero recato la prima volta a casa sua – una splendida villa in stile imperiale, con colonne di marmo bianco, fregi dorati e possenti architravi – mi ero stupito al pensiero che una nobile d'alto rango, benché questo titolo l'avesse acquisito dal marito, abitasse praticamente in aperta campagna, così distante dalla societé di cui avrebbe dovuto essere la créme de la créme, e senza vergogna. Il mio sospetto s'acuì quando, accolto dalla governante, mi resi conto che la maestosa abitazione era deserta. C'eravamo solo io, una esigua manciata di domestici e, naturalmente, Madame. A dire la verità, quando avevo mostrato il mio biglietto da visita, la cameriera – una giovane dal viso lentigginoso e i capelli di fiamma – mi aveva guardato senza nascondere minimamente la diffidenza.

«La baronessa non cerca fastidi, Monsieur» aveva dichiarato la fanciulla, con una tale impudenza da lasciarmi senza fiato. Ah, meravigliosa nobiltà.

«Mi dispiace recare disturbo, Madamoiselle. Vi prego di credere che non è mia intenzione. Ma in quanto giornalista, ho il dovere morale di far luce su alcune vicende misteriose avute luogo all'Opera anni fa e di cui la vostra signora può essere mirabile testimone, come d'altronde lo è l'intero staff del teatro.»

Mi fermai, ponderando le parole. Mi ero ripreso dalla brusca accoglienza. «Se Madame non accetta di ricevermi, ebbene, ne comprendo la ragione. Tuttavia la questione è seria e potrebbe interessarle.»

«E come, se permettete?» chiese la cameriera, sempre le sopracciglia aggrottate in un broncio sospettoso. «Monsieur?» aggiunse poi, come ripensandoci.

Ha strane maniere, pensai, ma non indugiai oltre. Non potevo biasimare del tutto una ragazza che voleva, a quanto pare, solo proteggere la privacy, come dicono gli inglesi, della sua padrona. Se abitava così isolata dalla città, in una dimora troppo grande per la sua solitudine, doveva pur esserci una ragione. Ma io ero ansioso di arrivare al sodo.

«Le dica che ho delle informazioni sulla scomparsa della cantante Christine Daaé, e poche, brevi domande da porre. Credo che la conoscesse, ha cantato per un certo tempo all'Opera Garnier.»

Non mi piacevano gli approcci così diretti, di solito preferivo glissare e arrivare allo scopo attraverso vie traverse e più sicure, ma quella dichiarazione sortì, come avevo previsto, l'effetto sperato. La giovane domestica non mi sembrava, d'altronde, tipa da vie traverse. Mi chiesi se valesse lo stesso anche per la sua signora. Tuttavia, se da ballerina era entrata nel mondo della nobiltà, quasi nuda sotto lo scudo della protezione del marito, non doveva essere ingenua. O perlomeno, così speravo.

Ma non era quello il momento di tergiversare. Ero a dir poco trepidante al pensiero di far finalmente luce su quel caso misterioso… Il solo pensiero dei preziosi documenti del Persiano che mi attendevano a casa, al sicuro nel cassetto della scrivania, mi riempiva di un febbrile entusiasmo che mi era familiare: lo avvertivo sempre, quando ero sul punto di scoprire un dettaglio nuovo e incredibile che potesse aiutarmi a rivelare l'enigma che avevo davanti agli occhi. E quello in cui ero immischiato ora era qualcosa che non assomigliava a nient'altro che avessi mai visto. Poteva essere il colpo della mia vita. Ma soprattutto, mi muoveva un sincero interesse nei confronti di un'esistenza messa a tacere e perduta nell'oblio del passato. Svelare al mondo la realtà celata dietro la maschera...

La mia attenzione tornò sulla giovane cameriera, che mi squadrò con un'ultima occhiata truce, ma sconfitta. Alla fine si decise a correre di sopra e riferire a Madame della visita dell'intruso – non prima di aver chiamato un'altra domestica, questa volta una donna anziana, vispa e raggrinzita, che mi fece accomodare nell'elegante soggiorno. Tutto quel lusso, per un attimo, mi accecò. Mi sedetti sul bordo di una vasta poltrona rivestita di velluto rosso, osservando con curiosità quell'ambiente aristocratico. Tra quelle mura dimorava il silenzio, interrotto soltanto dai vaghi rintocchi di un orologio Luigi XIV. Era strano, ma nonostante la bellezza di quel mobilio, gli arabeschi d'oro ricamati sulle tappezzerie, l'ordine impeccabile e il lieve sentore di tè che proveniva dalle cucine al piano inferiore, un brivido di gelo mi percorse. Sembrava che le pareti fossero fatte di polvere. Non in senso letterale – tutta la casa era perfettamente linda e ben tenuta, senza che si notassero i segni che il tempo pur doveva aver arrecato – era più un'impressione. Quasi come se quella abitazione fosse abbandonata da anni, o vi vivessero dei fantasmi...

La domestica – questa volta la giovane dalla chioma fulva e le guance spruzzate di efelidi – ritornò e mi condusse di sopra, in un altro salottino più appartato e modesto che aveva più l'aria di uno studiolo che di una sala da ricevimento.

«Madame preferisce non scendere di sotto, Monsieur. È di salute cagionevole e ultimamente non è stata affatto bene» mi spiegò sottovoce la giovane donna.

Io annuii, comprensivo, mormorando che non c'era alcun problema. La stanza era arredata nel medesimo stile del resto della casa, ma gli scaffali erano pieni di libri, le tende di pesante broccato carminio erano tirate, e le uniche fonti di luce erano qualche candela su un tavolino e un caminetto acceso. A quella vista non potei trattenere un sospiro di sollievo: cominciavano a ghiacciarmisi i piedi.

Un'altra differenza sostanziale col grande salotto al piano inferiore era che in questo più piccolo un'ombra scura e minuta occupava una poltrona di fronte al focolare, mentre in silenzio osservava le scintille crepitare tra i trucioli fumanti.

Mi schiarii educatamente la gola, notando che la figura mi faceva segno di entrare. «Prego, accomodatevi» disse con voce roca, indicando la poltrona dinanzi a sé. «Chiedo venia per la mia condotta, Monsieur. La mia salute non è più forte come una volta.»

Ripetei che non vi era alcun problema, anzi, mi scusai per il disturbo. La donna non si degnò di correggermi, cosa che mi mise leggermente a disagio: si vedeva che il mio era proprio un disturbo. Sprofondai nella poltrona, non prima di essermi esibito in un lieve inchino.

La donna in questione, come il salotto al piano inferiore, sembrava fatta di polvere, ossa e poco altro. Quando la vidi, fui invaso da un senso di pietà e comprensione che tuttavia cercai immediatamente di dissimulare. Era comunque una baronessa, e tutti i nobili sono orgogliosi, si sa.

Si trattava di una signora di mezza età, molto esile – s'intravedevano i polsi ossuti, le spalle incavate, le dita lunghe e dall'aria tanto gracile da non essere naturale. I capelli scuri, striati di grigio, erano tenuti insieme in una crocchia severa; anche il suo abito era nero, semplice ma elegante, eppure paurosamente in tinta con l'impressione macabra che dava quella vista. Incarnato bruno, occhi color pece – che un tempo non dovevano essere stati privi di attrattiva, incorniciati da lunghe ciglia nere – lineamenti duri e tirati, sguardo acuto e penetrante. Era chiaro che non era in cerca di “fastidi”, come mi aveva gentilmente informato la giovane cameriera. In ogni caso, le dovevo qualche spiegazione.

Lei mi domandò, ovviamente, come ero venuto a conoscenza del caso di Christine Daaé, e soprattutto cosa vi avessi a che fare. Capii dove voleva arrivare. Cosa ne ricavate?, sembravano accusare i suoi occhi scuri.

La informai delle mie investigazioni fin dal principio, di come fossi riuscito a rintracciare alcune testimonianze dell'epoca, tra cui quella della Sorelli, ex prima ballerina dell'Opera, che ormai da lungo tempo si era ritirata dalle scene. Le spiegai come mi ero procurato le Memorie di Monsieur Moncharmin, ex direttore del teatro, dove raccontava alcuni strani avvenimenti a cui lui e il suo collega, Monsieur Firmin Richard, avevano assistito. Non tardai a dirle che il mio interesse principale era far luce su una figura interessante che, attraverso vari indizi, avevo scoperto realmente esistita: quella del cosiddetto – e famigerato – fantasma dell'Opera.

Quando menzionai il fantasma, tutta la sua fisionomia sembrò mutare d'un tratto. I lineamenti duri e in parte inespressivi si riempirono di una strana luce che non esitai a percepire come un misto di tensione e sgomento. Era chiaro che si aspettava di tutto, eccetto che mi mettessi a parlare del fantasma. Anche se Madame Giry era purtroppo passata a miglior vita, forse, come avevo sperato, era la figlia, Marguerite de Castelot-Barzebac, un tempo nota allo staff dell'Opera come “la piccola Meg”, a sapere qualcosa su quel figuro misterioso. Tuttavia notai che il suo sguardo, improvvisamente acceso, non tardò ad acquietarsi. Mi fissò severamente, ed ebbi la netta impressione che fosse meglio non contrariarla in quel momento, qualunque cosa avesse detto.

«Tutte quelle storie su un “fantasma” che vagava nell'Opera, involuto e invisibile, non erano che sciocchezze per spaventare le piccole allieve ballerine» disse in tono fermo. Mi squadrava con una punta di altezzosità, come se mi considerasse altrettanto sciocco e infantile nel perseguire certe superstizioni. Punto sul vivo, le dissi che avevo ottenuto le prove della sua esistenza da qualcuno – di cui per ovvie ragioni non potevo fare il nome – che lo aveva conosciuto personalmente. Non si trattava di uno spettro, bensì di un uomo in carne e ossa.

«E voi dite che si divertiva a fare scherzi di cattivo gusto ai direttori e allo staff dell'Opera? Mi chiedo che razza d'uomo dovesse essere, allora» commentò lei, acida.

Annuii. «Un uomo molto... insolito, Madame. Cosa si raccontava sul fantasma, di preciso? Lo ricordate?»

La donna si agitò impercettibilmente sulla poltrona. «Si raccontavano molte cose, perlopiù assurdità. Ma non vedo come questo possa avere a che fare col rapimento di Christine.»

«Voi conoscevate Madamoiselle Daaé?»

Abbassò lo sguardo sulle mani ossute, che teneva poggiate in grembo come a cullarle. «Sì, e bene. Eravamo molto amiche, un tempo. Quando scomparve, ne fui addolorata. Ci furono delle voci... Qualcuno disse che era fuggita col visconte di Chagny – tutti conoscevano la loro storia. La cosa si tingeva di macabro se si pensa alle misteriose circostanze in cui era morto il fratello del visconte e lei era scomparsa dal palco... Ma voi tutto questo già lo sapete, vedo.»

Difatti non ero rimasto per sorpreso da quelle parole. Sapevo quello e molto di più. Ma dovevo essere cauto: c'erano ancora cose che non mi erano chiare... ad esempio, il rapporto tra il fantasma e Madame Giry. Come era arrivata ad essere la sua “collaboratrice”?

In quel momento, entrò la cameriera più anziana a passo felpato. Portava un vassoio con due tazze di ottimo Earl Grey fumante. Ringraziai con doveroso rispetto e osservai Madame che girava con aria pensosa il cucchiaino di delicata porcellana nel liquido ambrato.

«Marie e Giselle sono qui con me da molti anni. Dopo la morte di mio marito, sono rimasta sola. Ho avuto il mio momento, credo…»

Il suo sguardo si dipinse di un distacco acuto, e per un attimo mi parve che non vedesse più la mia persona davanti a sé, ma quella di qualcun altro. Si riprese, tuttavia, in un battito di ciglia.

«Ancora non capisco cosa centri questo “fantasma” con Christine. Voi dite che era un uomo e non uno spettro o un'invenzione della mente... Pensate che fosse in qualche modo coinvolto nella sua fuga col visconte?»

«Non lo credo, Madame, ne sono sicuro. E ho le prove.»

Lei alzò un sopracciglio. «Ma davvero?» disse con malcelata incredulità.

«Sì. Ho una fonte sicura. E non credo che fosse semplicemente coinvolto... Penso che tutta quella situazione fosse opera sua, soltanto sua.»

«Che cosa ardita da dire. Un fantasma che rapisce una cantante… Perché mai avrebbe dovuto farlo?»

«Vi ripeto, con grande umiltà, che ho le prove che non si trattasse di uno spettro, Madame.»

«Ma certo che non si trattava di uno spettro. Gli spettri non esistono, Monsieur, o non conoscete il sarcasmo?»

Sospirai. Era meglio ignorare quel commento.

«A voi interessa il destino di Christine Daaé, non è vero?»

Lei mi riservò un'occhiata pungente. «Sì, ma non è per fare due chiacchiere che siete qui, Monsieur... Leroux, giusto?»

Confermai con un cenno secco del capo. «No, Madame. È per conoscere certi dettagli che non riesco ancora a inquadrare nel grande mosaico. Ad esempio, se mi concedete la grazia di parlarmene, mi piacerebbe discutere del cosiddetto palco numero 5. Vostra madre ne era la maschera, non è vero?»

«Mia madre era una donna onesta, una gran lavoratrice. Era istruttrice di danza all'Opera da anni. Non ammetto che si facciano insinuazioni su una sua possibile complicità in un caso di rapimento e assassinio!»

Mi ritrassi, sconcertato da quella invettiva. «Oh, no, no, no, non era mia intenzione, stavo solo...»

«Cosa stavate implicando, Monsieur? Oh, voialtri giornalisti, sempre pronti a trarre profitto dalle disgrazie degli altri...!»

«Vi giuro che non...»

«Ebbene, come vi giustificate?»

Trassi un enorme respiro. Era strano per me vedere quella donna, quel corpo – che sembrava abitato da uno spettro aggrappato troppo a lungo a una vita a cui non apparteneva più – animarsi di un fuoco nascosto tra le ceneri della mestizia. In realtà, non si era minimamente scomposta fino a quando non avevo nominato la madre. Dovevo aver toccato un nervo scoperto e, come un chirurgo, mi conveniva essere prudente per non perdere la mia “paziente”.

«Madame, voi saprete certamente che qualcosa di molto strano accadeva all'Opera, in quel periodo. Bizzarre apparizioni, buste di migliaia di franchi scomparse nel nulla, voci senza volto, omicidi senza spiegazione... come quello di Joseph Buquet, il capo macchinista. Ve lo ricordate?»

Lei annuì, ancora rigida. Sembrava tesa come la corda di un arco pronto a colpire.

«Ebbene, io sono sicuro – ne ho le prove – che tutto questo sia riconducibile a un solo uomo, che si nascondeva dietro l'entità di “fantasma”, e che ha approfittato della vulnerabilità della vostra nobile madre per i suoi profitti... Quindi, come vedete, non è mia intenzione gettare fango sulla reputazione di Madame Giry o di Christine Daaé, né tanto meno su quelle del visconte di Chagny e di suo fratello. Mi spinge semplicemente il dovere di far luce su un mistero che ha gettato tenebra nella vita di molti.»

«Teoria interessante» commentò Madame, giocherellando coi bottoni dei polsini dell'abito. «Farà sicuramente successo.»

Non ero sicuro se fosse un'accusa o si stesse semplicemente burlando del sottoscritto. Con un sospiro e una maledizione silenziosa a tutte la baronesse inacidite e orgogliose di questo mondo, proseguii: «Madame, non vi costringo assolutamente a collaborare alle mie indagini. Non sono un pubblico ufficiale. Se trovate irrisorie le mie “teorie” o diffidate del mio lavoro, non posso del tutto biasimarvi. Mi scuso umilmente per avervi recato disturbo e onta, anche se spero che non sia questo il caso. Se non c'è altro, forse è meglio che vada, non voglio infastidirvi ulteriormente. Grazie mille per il tè e l'accoglienza.»

Posando la tazzina ormai vuota sul tavolino, feci per andarmene con un ultimo inchino, ma la baronessa mi fermò sulla soglia.

«Aspettate.»

Mi voltai, nascondendo un sorrisetto trionfante. Non era proprio il momento di fare salti di gioia.

«La mia testimonianza vi aiuterebbe a svelare il mistero di Christine?»

In realtà mi avrebbe aiutato solo a scoprire i metodi con cui il fantasma si era impadronito del palco numero 5 in modo così esclusivo, e del mirabolante trucco della “busta magica”. Ma non era il caso di dirlo.

«Sarebbe la testimonianza preziosa di qualcuno che ha assistito a quegli eventi, Madame.»

Lei posò lo sguardo sulle tende di pesante broccato, e ancora una volta sembrò non vedere nulla davanti a sé se non il frutto della sua immaginazione, magari dei suoi ricordi. Ma anche questa volta la visione durò solo qualche attimo.

Con fare meno esitante, tornai al mio posto vicino al caminetto, dove le fiamme ormai lottavano per qualche ultimo brandello di vita. La mia ospite non sembrò farci caso. Ponderava qualcosa con grande intensità: le rughe sulla sua fronte si erano contratte visibilmente, le sopracciglia unite a formare una linea severa, quasi di algida distanza. Non mi permisi di interrompere le sue elucubrazioni: da giornalista, sapevo trattare con le persone abbastanza bene da sapere che in certi casi era meglio aspettare e “prenderla con le pinze”, come si suol dire... per non rischiare di farsi male nel tentativo o di lasciarsi sfuggire la presa.

«Monsieur, io non so molto» esordì infine la baronessa. «Ma se quel poco che so può aiutarvi a svelare il mistero di Christine, ebbene, è a vostra disposizione.»

Mi aprii in un sorriso affabile. «Vi ringrazio, Madame.»




Come scoprii poco dopo, effettivamente Marguerite de Castelot-Barzebac non mi rivelò granché... Anzi. Dovetti far appello a tutta la mia pazienza (che non era molta) per non farmi saltare i nervi.

Cominciò dapprima a parlarmi della madre: di come da ballerina era divenuta insegnante di danza all'Opera, e di come, qualche anno dopo la morte del marito, si era stabilita con la figlioletta proprio in quel teatro a cui aveva donato la sua anima di artista. Continuò descrivendomi nei dettagli più minuti la vita della “piccola Meg”, come da allieva fosse divenuta ballerina di fila. Ora, a me non interessava affatto sapere quali fossero i cioccolatini preferiti di Madame Giry o come si annodavano i lacci delle scarpette da ballo attorno alle caviglie; come una bambina di nove anni imparava ad andare en pointe e delle vesciche che affliggevano quei poveri piedini inesperti... e di come spesso il dolore rimanesse anche dopo, quando quei movimenti sembravano persino più naturali del battito del cuore, impressi a fondo nel corpo della giovane ballerina come le preghiere che impariamo nell'infanzia e non dimentichiamo più.

Finsi di riempire il mio quaderno di appunti, ma in realtà mi limitavo a scarabocchiarvi sopra qualche frase incomprensibile. Non avevo intenzione di interrompere quel flusso. Più andava avanti e più ero sicuro di due cose: la prima era che la baronessa fosse un po' tocca; o che magari, non avendo più occasione di parlare con nessuno di quei primi anni all'Opera da moltissimo tempo, si stesse prontamente rifacendo a mie spese. La seconda era che sembrava stesse facendo di tutto, in modo quasi impercettibile, per evitare di arrivare al punto che sapeva interessarmi maggiormente. Era una donna di mezza età troppo sola e malata per capire quali fossero le mie priorità, o fingeva? Fu proprio questo dubbio assillante che m'impedì di terminare la conversazione seduta stante e passare a questioni più urgenti e produttive. Io stesso sapevo tergiversare molto bene e non lasciai trapelare nulla della mia crescente frustrazione. Le sorridevo nei momenti giusti e scribacchiavo qualcosa sul quaderno, ascoltando con la massima attenzione. Aspettavo che arrivasse al clou della vicenda, o perlomeno speravo ci arrivasse. Tentennavo, ma non potevo lasciar perdere senza l'adeguata ricompensa ai miei sforzi... Mi ci era voluto così tanto per trovare quella donna. E in più... c'era una tale tristezza malcelata nei suoi occhi, mentre parlava della madre, che non ebbi cuore di interromperla. Non guadagnavo niente da tutto quello, ma neanche perdevo qualcosa.

Quando me ne andai, quella sera, promettendo di ritornare l'indomani per il resto dell'intervista, ero arrabbiato con me stesso, con lei, col fantasma e... no, con nessuno in particolare. Sapevo che avrei dovuto incalzarla con un torrente di domande sullo strano rapporto “d'interesse” che, a dire di Moncharmin, si era instaurato tra Madame Giry e lo “spettro” che infestava il palco numero 5. Moncharmin nelle sue memorie aveva solamente accennato al mistero della busta scomparsa – scherzo attribuito ai precedenti direttori dell'Opera – ma io sapevo da fonti certe, quali l'ex segretario Rémy e il maestro di canto Gabriel, che gli illustri direttori si erano comportati in maniera assai strana proprio la sera dell'inspiegabile sparizione di Christine Daaé. Il direttore Moncharmin aveva solo accennato al fantasma nelle sue memorie, e con grande scetticismo. Ne aveva parlato come se fosse una sciocca superstizione da teatro, o un'enorme bufala inventata dagli ex direttori per prendere in giro lui e Richard, ma io sapevo che c'era qualcosa di più che Monsieur Moncharmin aveva tenuto nascosto per non infangare la reputazione dell'Opera e dei suoi proprietari. E sapevo che la baronessa era al corrente di più cose di quante facesse trapelare.

Nel tragitto in carrozza diretto al mio appartamento nel Marais, mi chiesi ancora una volta se non fosse davvero un po' tocca. Tuttalpiù, mi dava l'impressione di una persona molto sola. Forse era per quel motivo che mi aveva affidato certe sue memorie, anche se mi erano inutili... Magari il giorno dopo avrebbe detto di più a proposito del fantasma. Finora non mi ero arrischiato a interrogarla sul serio, perché ero certo che alla minima pressione avrebbe reagito invitandomi cordialmente a sparire dalla sua vista e a lasciarla in pace – che lei di quella storia ne sapeva giusto quel poco che le aveva rivelato sua madre, che stavo sfruttando la sua amicizia con Christine Daaé per provare a tirarle fuori cose che erano del tutto illogiche e anche offensive... No, se ero così certo che la baronessa potesse rivelarsi un valido testimone di certi avvenimenti di quella vicenda d'amore e di terrore, allora dovevo conquistarmi la sua fiducia – lentamente, con la solita cortesia… Alla fine, forse, in questo modo mi avrebbe raccontato ciò che anelavo davvero di sapere.

E se pure l'esito si fosse dimostrato insoddisfacente… Almeno ci avevo provato.




Non fu facile. Non si fidava di me, e inizialmente non aggiunse nulla alle cose che già sapevo, se non un punto di vista differente sulle voci che all'epoca circolavano tra i membri del corpo di ballo a proposito del “fantasma”. Alcuni dichiaravano di averlo visto, magro come uno scheletro e con indosso una maschera e un frac, aggirarsi tra le passerelle nelle quinte del teatro. Altri di aver udito risate macabre, sbuffi o simili provenire – o così sembrava – dalle pareti stesse. Se qualche oggetto spariva nel nulla o accadeva qualche evento strano e inspiegabile, non c'erano dubbi: era colpa del fantasma!

Nel raccontarmi tutto questo, Madame alzava spesso gli occhi al soffitto con grande scetticismo. Era evidente che per lei la stupidità di quelle affermazioni non aveva limite. Ma io, pur considerando quelle superstizioni esagerate, sapevo che nascondevano un fondo di verità. Le chiesi cosa ne pensasse lei all'epoca, dal momento che era palese che non condivideva i timori di altri membri dello staff dell'Opera. La baronessa scosse la testa, affermando che, per quanto le storie di orrore e mistero stuzzicassero la sua curiosità, per lei rimanevano solo quello, per l'appunto: storie, invenzioni della mente, e null'altro. Assolutamente impraticabili nella realtà. Per questo fin da allora aveva creduto che fossero solo leggende atte a istigare l'immaginazione dei più giovani e impressionabili (e non solo la loro).

«E lei non era giovane e impressionabile?» osai chiedere con un pizzico d'ironia.

Lei stirò le labbra in quello che sembrava una specie di sorriso distorto. «Oh, sì. Ero molto giovane e molto impressionabile, ma sulle cose sbagliate.»

Mi chiesi cosa intendesse dire in realtà, ma non indagai oltre. Era evidente che la baronessa teneva molto alla propria privacy, e non avevo acquisito ancora un livello di confidenza tale con lei da potermi permettere di ficcare il naso nei suoi affari privati. E non credevo ci sarei mai arrivato.

Mi sbagliavo. In quella settimana, mi recai ogni giorno da lei a prendere il tè e discorrere di ciò che accadeva all'Opera in quegli anni, ai tempi in cui il grande teatro era stato la sua casa. Era chiaro che non si lasciava andare a certe reminiscenze del passato da molto, molto tempo. Forse fu la mia disponibilità ad ascoltare, a notare la sua profonda nostalgia, che riuscì a farla schiudere dal suo bozzolo raggrinzito. Ma ero certo che misurasse attentamente ogni parola che le sgorgava dalle labbra, cauta e diffidente quasi quanto me. Mi venne in mente il sospetto che mi stesse valutando, e con me, ciò che sapevo. A volte il suo sguardo assumeva un'espressione vacua, un velo di polvere si posava sui suoi occhi stanchi. Di nuovo, avevo l'impressione che non vedesse me, ma qualcun altro. Forse la madre, o il marito defunto… o un'amica lontana. Magari la stessa Christine.

Il giorno dopo quella mia prima e poco fortunata visita, mi recai nella sua solitaria villa con il famoso pacchetto di lettere che mi aveva chiesto – ordinato, cioè – di farle vedere. Era ovvio che, prima di scendere nei dettagli della “collaborazione” tra sua madre e il fantasma, di cui ero assolutamente certo che fosse a conoscenza, voleva le prove che la mia testimonianza non fosse, come si suol dire, “campata in aria”. A dire la verità, le avevo portato solo parte della corrispondenza che la giovane soprano aveva indirizzato al visconte di Chagny, mettendo da parte alcune delle pagine strappate dal suo diario che raccontavano più di quanto osassi rivelare al momento.

Quando gliele mostrai, la baronessa si trovò costretta ad ammettere che quella era proprio la calligrafia della sua vecchia amica. Per darmene prova, chiese alla giovane governante, Giselle, di portare nell'appartato salottino in cui si tenevano le “interviste” un certo scrigno. Non ci fu bisogno di dare alla ragazza altre indicazioni. Era evidente che per la padrona questo forziere nascondeva qualcosa di prezioso e privato. In effetti vidi che si trattava – da quel poco che mi fu concesso di vedere – di alcuni ricordi della sua giovinezza. E, tra questi, alcune lettere che Christine in persona le aveva spedito – non tardai a riconoscerne la calligrafia minuta e ordinata. Questo risvegliò il mio interesse, e difatti da quel momento la baronessa apparve assai più disponibile a collaborare. Mi chiese da dove provenissero quelle missive, e io fui costretto a rivelarle che il misterioso personaggio che mi aveva svelato il mistero del fantasma era il Persiano, uno straniero che all'epoca frequentava spesso l'Opera.

La baronessa corrugò la fronte con aria grave, ma non apparve troppo sorpresa da quella mia bizzarra rivelazione. Ricordava il Persiano, naturalmente: i più superstiziosi tra i membri dello staff del teatro dicevano che portava sfortuna. Ridacchiammo insieme di un particolare episodio che mi narrò al riguardo e di cui io presi nota: un incidente che la piccola Cécile Jammes, allora sua compagna nel corpo di ballo, aveva raccontato con dovizia di particolari a lei e alle altre ragazze, comprese l'altera Sorelli. A quanto pareva, l'ex maestro di canto Gabriel – che eppure era un gentiluomo – nel “toccare ferro” per scongiurare la iella dopo un fortuito incontro col Persiano, era inciampato e per poco non si era fracassato il cranio! In effetti, era un avvenimento abbastanza macabro che non avrebbe dovuto farci sorridere, se non fosse stato per il fatto che Gabriel aveva affermato di essersi spaventato tanto da perdere il controllo in quel modo, rischiando persino di ruzzolare giù per le scale, poiché alle spalle del povero Persiano aveva scorto una testa di morto! A queste parole, mi feci subito più serio. Le chiesi se pensasse che fosse davvero il fantasma, ma lei rispose scuotendo il capo con decisione.

«É ridicolo, Monsieur. In realtà, quando seppi di questo piccolo incidente – che per fortuna si risolse nel migliore dei modi per Monsieur Gabriel – pensai immediatamente che il maestro di canto si fosse inventato una scusa per giustificare la sua incredibile goffaggine. Accadeva di frequente che avesse questo tipo di incidenti. E poi è davvero ridicolo» continuò con maggior scetticismo. «Come può esistere un uomo vivo… che abbia però l'aspetto di un morto? Doveva trattarsi quasi sicuramente di uno scherzo elaborato, anche se alla lunga molto seccante, lo ammetto.»

Io deglutii, non sapendo se insistere al riguardo oppure cambiare argomento. «Vi assicuro che si trattava di un uomo» decisi infine.

Lei mi puntò contro i suoi occhi scuri, d'un tratto accesi. «Un uomo che il Persiano conosceva, a quanto pare.»

«Sì, ne ha riconosciuto gli… insoliti talenti una volta che si fu messo all'opera – nel vero senso della parola.»

«E dove lo avrebbe incontrato?»

«Nella sua madrepatria. Lì quest'uomo di cui vi parlo era stato un architetto al servizio dello Shah.» Glissai abilmente sui dettagli più raccapriccianti della storia.

«Quindi voi mi state dicendo, Monsieur Leroux» incalzò la donna senza che dalla sua voce trapelasse alcuna emozione, «che un architetto persiano si divertiva a “infestare” un teatro dell'Opera e a spaventare chi vi lavorava? Davvero credibile.»

«Non era persiano, Madame, era francese» proseguii con rinnovata determinazione. M'infastidiva quella mancanza di fiducia nel mio racconto, ma d'altronde non mi aspettavo altro. Sapevo che la maggioranza della gente avrebbe scambiato il frutto dei miei sforzi per un'opera di finzione. Da un lato, forse era meglio così. Eppure, la sola idea che nessuno venisse a conoscenza dell'uomo che si celava dietro la maschera… che quell'esistenza straordinaria si perdesse definitamente nell'oblio dell'ignoranza… mi era quasi intollerabile.

«Con tutto il rispetto, Madame, vi ripeto che ho lo prove materiali della mia testimonianza. So con certezza che vostra madre si occupava dell'affitto del palco numero 5 – sapete senza dubbio che c'era un motivo se veniva chiamato “il palco del fantasma”. So anche che ha avuto dei problemi con la direzione del teatro per questo.»

Lei fece una smorfia, come se avesse ingollato un frutto particolarmente acerbo. L'accenno alla madre l'aveva punta sul vivo – alla buon'ora. Adesso dovevo giocare con prudenza le mie carte.

«Forse vi piacerebbe far luce sull'ombra che ha avuto in qualche modo a che fare con vostra madre» insinuai, e fui pronto ad aggiungere: «Perché non ci siano dubbi sulla sua lealtà. So che all'epoca qualcuno ha sospettato che…»

«Mia madre è morta da molti anni, Monsieur» m'interruppe la baronessa. «E insieme a lei, tutte le persone che mi erano care.» Il suo labbro inferiore diede in un tremito impercettibile. «Nessuno può più dire nulla su di loro che abbia valore. Non sono vivi per controbattere. E del resto, a nessuno importerebbe.» Non mi guardò negli occhi neanche per un istante. Fissava invece i resti inceneriti nel caminetto. Pensai che, con così tante perdite, la sua vita non era poi del tutto dissimile da quelle braci spente.

«Voi dite che quest'uomo, questo… fantomatico spettro ha avuto qualcosa a che fare con l'omicidio del conte Philippe de Chagny… e con la fuga di Christine e del signor visconte. In che modo questo è potuto avvenire?»

«Ho dimenticato di dirvi una cosa molto importante, Madame» iniziai con calma. Feci una pausa e inspirai profondamente. «Il fantasma era innamorato di Christine Daaé.»

Non volevo ancora svelare tutta la mirabolante storia della “voce maschile” che aveva instillato in Christine l'arte di un canto purissimo, parte del suo magnifico talento… Era troppo fantastica per essere presa sul serio, almeno per il momento.

Ottenni comunque l'effetto sperato. La baronessa sgranò gli occhi in un'espressione di indecifrabile sgomento. «Che storia è mai questa?»

«Eravate amica di Christine, non è vero? Sapevate che qualcuno le stava dando lezioni di canto?»

Lei si umettò le labbra rinsecchite con evidente fastidio misto a disagio. Poi assunse un'aura di fredda calma che mi stupì, e mi chiesi se non ne rimanesse raggelata lei stessa. «Sì, ma me lo confessò solo qualche mese prima della sua sparizione. Non mi rivelò mai il nome di quel maestro, ma… lei mi sta dicendo che l'insegnante di canto di Christine e l'uomo che secondo voi si nascondeva dietro l'identità di fantasma dell'Opera erano la stessa persona?»

«Ne ho le prove, Madame» ribadii – non mi sarei mai stancato di dirlo. «Le lettere che vi ho mostrato oggi e che, come voi avete confermato, sono state scritte da Christine in persona… ebbene, è stato il Persiano a darmele, e a lui a sua volta le aveva date il fantasma, dopo la partenza di Madamoiselle Daaé col visconte.»

Lei era allibita. «Fino a questo punto…» mormorò con un filo di voce. Io m'accigliai, non cogliendo sul momento il significato di quelle parole.

«Fino a questo punto ha agito quell'uomo per… immagino, per ottenere le attenzioni della mia vecchia amica?» aggiunse con chiaro disprezzo.

Io annuii, e lei serrò le labbra.

«Ah» si limitò a mormorare, ma mi sembrava che stesse reprimendo chissà quale fiume di parole. Possibile che non avesse mai notato nulla di strano nel comportamento di Christine? Prima di far visita alla baronessa, il Persiano mi aveva riferito che la giovane soprano e la “piccola Meg” un tempo erano state molto vicine. Qualcosa non quadrava.

«Non capisco il perché di tutta questa storia del fantasma, Monsieur» continuò Madame con aria rabbuiata. Forse non era contenta del fatto che la sua vecchia amica l'avesse tenuta all'oscuro di quell'enorme disastro. Ma io mi trovavo a condividere le ansie di Madamoiselle Daaé.

«Diciamo che quest'uomo di cui vi ho parlato, Madame, era stato uno dei capomastri al tempo della costruzione dell'Opera Garnier. Sentiva quindi di detenere una sorta di… “diritto” sul teatro» spiegai. Lei bevve ogni parola con attenzione.

«Davvero? E perché non lo ha reclamato con mezzi meno dissennati, allora, come un uomo normale?»

Non potei trattenere un sorrisetto. «Perché non era quel che si dice un uomo normale, Madame. Non lo era affatto.»

La signora impallidì. Inghiottì il suo turbamento senza dire una parola. Con un campanello chiamò la governante – questa volta quella più anziana, Marie, se ben rammentavo – perché le portasse subito una tazza di tè “molto forte”. Ignorai deliberatamente che non aveva chiesto di prepararne anche un'altra per il suo ospite.

Il mio disagio scomparve del tutto quando Madame riaprì lo scrigno e ne estrasse un'altra lettera, diversa da quelle che le aveva spedito Christine. Quando me la tese in un muto invito a leggerne il contenuto, notai che la pergamena era spessa e ingiallita dal tempo, invasa da quelli che a prima vista mi sembrarono scarabocchi. Aguzzando la vista, compresi infine che erano delle semplicissime parole, scritte con inchiostro rosso sangue, in una grafia grossolana, infantile, come di un bambino che ancora stenti a ricordare l'alfabeto. Tuttavia, la grammatica era ineccepibile.

Lessi tutto d'un fiato e, man mano che i miei occhi scorrevano sulla pagina, il mio volto si faceva sempre più bianco, probabilmente per l'emozione.


Madame,


1825. Madamoiselle Ménétrier, corifea, è divenuta marchesa di Cussy.

1832. Marie Taglioni, prima ballerina, viene fatta contessa Gilbert des Voisins.

1846. La Sota, ballerina, sposa un fratello del re di Spagna.

1847. Lola Montes, ballerina, sposa morganaticamente il re Ludovico di Baviera e diviene contessa di Landsfeld.


E così via, fino a che, al termine di quell'elenco di gloriosi connubi, si leggeva a chiare lettere:


1885. Marguerite Giry, imperatrice.


La missiva era firmata F. dell'O.

«Che cosa significa tutto questo?» chiesi, perplesso, sebbene l'identità del mandante mi fosse oltremodo palese.

«Ho esitato molto prima di mostrarvi questa lettera, Monsieur» rispose la baronessa come se non avessi aperto bocca. «Mi perdonerete se ho aspettato per valutare meglio le vostre intenzioni.» Mi rivolse un sorriso forzato.

«Questa lettera è…»

«Sì, l'ha scritta lui. A mia madre, anni e anni fa.»

«E voi come ne siete venuta a conoscenza?»

La donna assunse un'aria indifferente, come se narrasse la vicenda in un corpo che non le apparteneva. «Me ne parlò mia madre poco dopo la sparizione di Christine. Le avevo chiesto se era vero quel che si diceva, ossia che il palco numero 5, di cui era la maschera, apparteneva al “fantasma”. Io ne ridevo, ma lei mi avvertì di non parlarne a sproposito. E ora capisco il perché.»

«Quindi vostra madre sapeva che il fantasma non era uno spettro, bensì un uomo?»

«Probabilmente sì. Era una donna pratica che non avrebbe mai dato fede a certe superstizioni. Per questo mi insospettii dei suoi ammonimenti e insistetti perché mi raccontasse la verità. Lei mi fece leggere questa lettera. A quanto pare, aveva stretto un “patto” con il fantasma.»

Madame sospirò, come se tutt'ora disapprovasse le azioni della madre. Eppure, un velo di tristezza si celava oltre i suoi occhi freddi. «Lei sospettava che fosse un uomo normale… per quanto possa essere normale uno che si comporta in modo così assurdo. Ma la preoccupazione nei miei confronti vinse sul suo pur forte senso dell'onore e decise di acconsentire alle sue richieste, che d'altronde erano molto semplici. Bastava che gli riservasse il palco numero 5 e che lì lasciasse tutto ciò che i direttori avrebbero indirizzato a lui.»

«I ventimila franchi mensili…» compresi in un lampo.

«Sì, ma mia madre non sapeva che si trattasse di denaro. Né il fantasma né tanto meno i direttori la misero a conoscenza di quella truffa. D'altronde, lei non ne avrebbe comunque ricavato nulla. Il fantasma le dava qualche mancia ogni tanto… il che ci faceva comodo – non eravamo quel che si dice benestanti, anche se ce la cavavamo. E soprattutto, aveva promesso di farmi divenire imperatrice.»

Ammiccai, ancora confuso. «Imperatrice?»

«Del palco dell'Opera, s'intende. E per un po', lo sono stata.»

«E come avrebbe adempiuto a questa promessa?»

Madame sorrise – un sorriso nascosto, tra l'amaro e il divertito. «Se mi fossi mostrata degna di questo titolo, non gli sarebbe stato difficile mettere una vocina all'orecchio dei direttori e farmi promuovere, da semplice corifea, a solista e, finalmente, prima ballerina. Sospetto che sia per questo che mia madre mi faceva esercitare più delle altre ragazze del corpo di ballo. In verità era sempre stato così, ma dopo la promessa del fantasma i suoi sforzi perché raggiungessi l'eccellenza addirittura raddoppiarono. Per meritare il posto, dovevo sudare sangue. Cosa che feci… peccato che questo cosiddetto “fantasma” svanì nel nulla dopo la partenza di Christine. E se quel che mi dite è vero, ora la ragione mi è chiara.»

«Davvero? Vostra madre non ricevette più nessuna lettera da lui?»

«Nessuna. E questo ben prima che fossi promossa ad étoile. Come vedete, sono riuscita a diventare prima ballerina anche senza il suo prezioso aiuto.» Dal tono sarcastico con cui aveva parlato, era evidente che la sola idea di una raccomandazione pungeva il suo fiero orgoglio, di cui, come avevo potuto constatare, aveva una riserva infinita.

«Sapete qualcosa dell'affare della “busta magica”?»

Lei annuii, poggiando il mento sul palmo della mano come a sostenere una conversazione alquanto noiosa. La cosa avrebbe dovuto offendermi, ma ormai pendevo dalle sue labbra e non vi prestai attenzione, pronto com'ero ad appuntare tutto sul mio fedele quaderno.

«Mia madre me ne parlò qualche giorno dopo l'accaduto. Era indignata. Aveva scoperto la truffa del fantasma, ma i direttori pensavano – e ammetto che fosse una deduzione alquanto logica – che fosse sua complice. La chiusero nell'ufficio dell'amministratore Mercier per impedirle di mettersi in contatto con il fantasma. Come scoprì dopo, il furto non aveva avuto luogo... anche se per tutta la serata i due direttori avevano continuato a comportarsi in modo a dir poco bizzarro. Era proprio la malaugurata sera del rapimento di Christine. La mia amica sparì dal palco dopo un improvviso blackout, volatilizzatasi come fumo… io ero nelle quinte, e vidi tutto. O meglio, non vidi nulla, esattamente come tutti gli altri. Assistetti solo alla scena. Dopo mi misi alla ricerca di Christine, ma non riuscii a trovarla da nessuna parte. Ero molto preoccupata, e quando intravidi il visconte, ancor più disperato di me, intuii che forse lui non aveva nulla a che fare con quella messinscena… Dopo quella sera, non li vidi più. Nessuno dei due. In tutto il teatro non si faceva che parlare dell'accaduto, e della morte del conte Philippe, il cui cadavere era stato ritrovato nei recessi di Rue Scribe, vicino allo sbocco che portava al lago sotterraneo dell'Opera…»

«Sì, di questo avvenimento sono già a conoscenza.»

«E allora non abbiamo altro da dirci.» La donna emise un sospiro lievissimo, come se si fosse tolta un peso. Era evidente che il congedarmi le dava sollievo. Mi accigliai: non credevo che la mia presenza le recasse tanto fastidio.

«Se è così, vi ringrazio per la vostra testimonianza» dissi, alzandomi ed esibendomi in un lieve inchino di saluto. In seguito aggiunsi, con meno cautela di quanta avessi usata finora: «Siete certa di non sapere nient'altro sulla faccenda della “busta magica”? Nessuna idea su quale trucco abbia usato il fantasma?»

Lei mi fulminò con un'occhiata a dir poco raggelante. «Mi spiace, Monsieur» rispose in un tono che era tutto tranne che di scusa. «Credevo di essere stata chiara: io e voi non abbiamo altro da dirci.» E sprofondò in un gelido silenzio che non osai infrangere.

Quando arrivò la cameriera, Giselle, a scortarmi alla porta, compresi che la nostra conversazione era terminata. Non importava se il fango li aveva inabissati, confusi con il resto della rena rugginosa del passato… i segreti di quella donna mi sarebbero rimasti per sempre preclusi.

Con un ultimo inchino, me ne andai da quella grande casa di polvere e ricordi perduti, portandomi dietro più domande che risposte.




Mancava molto poco perché la verità venisse finalmente a galla – e con essa, dall'oblio, le memorie di una vita nella morte, un'esistenza condannata fin dalla nascita. Il mio entusiasmo raggiunse il massimo grado quando le prove di quella fantastica storia risorsero letteralmente dalla terra in cui erano state sepolte. Difatti, per la cerimonia di sepoltura delle “voci vive” – registrazioni di illustri cantanti custodite in una cella nei sotterranei dell'Opera, da cui sarebbero state richiamate alla superficie cent'anni dopo – furono trovati i resti di uno scheletro. E non uno scheletro qualunque… Io, che partecipai ai lavori di scavo, vi riconobbi quel filo rosso che mi aveva legato ad esso fin da quando il Persiano mi aveva affidato le sue memorie, e adesso mi stringeva il cuore. Non fu un mero frutto della mia immaginazione: al dito di quello scheletro – che adesso rassomigliava a tutti gli altri sepolti sotto la terra – vi era infilato un anello, una sottile fede d'oro con sopra incise due lettere: C. D. Christine Daaé, naturalmente! Era proprio quella la descrizione che mi aveva fatto il Persiano dell'anello nuziale donato dal fantasma alla giovane soprano. E quando portai la notizia a quell'uomo onesto e giusto, anche lui non poté nascondere la commozione che, malgrado tutto ciò che quella creatura sfortunata lo aveva costretto a subire, lo afferrò come me che, finalmente, vedevo realizzato il mosaico che stavo ricostruendo da così tanto tempo con lavoro certosino. Un mosaico fatto d'ossa, oro arrugginito dal tempo e voci vive…

Prima di mettere l'ultimo punto al manoscritto finale, non riuscii a non cedere alla tentazione e feci nuovamente visita alla baronessa per portarle la notizia che la mia indagine si era conclusa e che presto avrebbe conosciuto tutti i dettagli del destino della sua vecchia amica.

Giselle, la giovane governante dai capelli di fiamma, mi accolse col solito broncio e mi accompagnò nello stesso studiolo in cui, qualche settimana prima, la baronessa aveva acconsentito a ricevermi e a rispondere alle mie domande. Adesso ero io che avevo qualcosa da dichiararle.

La donna che mi si presentò dinanzi era ancora più scarna, meno viva di quella che rammentavo. Quanto rassomigliava al fantasma del mio racconto! Era chiaro che la sua salute era peggiorata: notai il livido pallore della sua pelle bruna, gli occhi cerchiati di rosso e violaceo, i polsi fragili come quelli di un'antica bambola rotta. Quasi mi dispiacque di averla disturbata nuovamente, ma d'altronde, se lei aveva acconsentito a ricevermi, una ragione doveva pur esserci.

«Monsieur Leroux.» Mi accolse con l'usuale fredda cortesia, anche se fui lieto che rammentasse il mio nome. «Mi scuso per il mio stato… Sono malata, ma anche pronta a sentire cosa avete da dire.» Era una sfida, chiaramente lanciatami per farmi capire che non importava in che condizioni fosse, era sempre abbastanza lucida da colpire a segno con le sue parole argute, il suo sguardo penetrante, la sua apparente antipatia per i giornalisti. E per le mie “cianciate” in particolare.

«Sono io a dovermi scusare, Madame. Non ero assolutamente a conoscenza del…»

«Ormai non ne è più a conoscenza nessuno, se non il mio esiguo personale di servizio. Certo che non potevate saperlo. Vi invito ad accomodarvi» disse in un tono che sembrava più perentorio che educato, quasi volesse farla finita al più presto con quella storia.

Non potevo biasimarla. Le rivolsi un breve inchino e mi sedetti al solito posto, proprio dinanzi a lei.

«Non sareste venuto qui se non aveste avuto qualcosa di importante da dirmi.»

«E difatti, Madame, sono qui per annunciarvi che presto il mio manoscritto verrà pubblicato.»

«Buon per voi.» Era chiaro che non le interessava.

«E anche che è stato ritrovato uno scheletro in una cella sotterranea dell'Opera.»

«So già anche questo, l'ho letto sul giornale. A dire la verità, io non posso più leggere, ma è la mia fedele Giselle a farlo in vece mia.» Fu colta da un attacco di tosse tanto forte che la governante, che a differenza della scorsa volta non ci aveva lasciato, accorse subito al fianco della padrona per versarle del tè e qualcos'altro da una fiaschetta, probabilmente una medicina, in una tazza che le porse subito. La baronessa tossì anche l'anima nel fazzoletto di seta ricamata e bevve avidamente. Si ricompose mentre io rimanevo sulle mie, profondamente a disagio.

«Signora baronessa, se vi sentite male…»

«Sono abbastanza in forze per stare a sentire voi e le vostre mirabolanti scoperte, Monsieur» m'interruppe lei con voce rauca, la gola e i polmoni raschiati da un dolore a me inimmaginabile. Tuttavia, sebbene provassi compassione per la sua sofferenza fisica, mi sentii offeso dall'insinuazione nelle sue parole.

«Voi credete che sia tutta una farsa, per me? Un facile metodo di pubblicità e guadagno?»

«Questa storia è talmente assurda che mi è difficile immaginare un altro motivo.»

Avvampai di rabbia. «Madame, io vi dico che quello scheletro apparteneva al fantasma dell'Opera.»

Lei s'irrigidì. «I fantasmi non hanno scheletri.»

«Questo sì. Perché era un uomo, Madame, un uomo che non assomigliava a nessun altro.» Stanco di quello scetticismo, ero pronto a vomitare tutta la tensione, le derisioni e l'incredulità che avevo provato io stesso sulla mia pelle in quelle settimane d'inferno e paradiso insieme. «Era un uomo geniale, un prodigio maledetto dalla nascita da un'orribile deformità che condizionò per sempre la sua miserabile esistenza. Nacque nei pressi di Rouen, in un piccolo villaggio dove nessuno lo capì. Ancora bambino, fuggì dalla madre che neanche riusciva a guardarlo in faccia senza la maschera che lo aveva costretto a indossare fin dal suo primo giorno di vita. Trascorse anni e anni in giro per il mondo, costretto a esibirsi come fenomeno da baraccone nei circhi e alle fiere di campagna. Presto prese il controllo dei propri talenti e si fece un nome proprio. Fu chiamato alla corte di Persia in qualità di più grande prestigiatore del mondo. Lì commise azioni che preferisco non ripetere in questa sede. Dopo pochi anni fu costretto a tornare in Francia, e qui eresse a propria tana i sotterranei dell'Opera, il suo sacrificio alla dea musica. Li ideò lui personalmente. Vi si nascose per anni, celato allo sguardo degli uomini, finché non udì una voce: la voce della vostra amica Christine. Se ne innamorò e le offrì di darle lezioni di canto. Christine, che aveva perso tutta la speranza e la gioia per la musica dopo la morte del padre, ritrovò l'anima attraverso la storia dell'Angelo del canto. Sì, egli si finse un Angelo per avvicinarsi a lei. L'antica promessa di Papà Daaé si era avverata, per Christine. Ma lui era un uomo di carne e sangue, dovete credermi, Madame. Sì, era un uomo, e si chiamava Erik.»

«Lo so» disse la baronessa in un soffio.

«Bene… No, un attimo: cosa

Rimasi attonito. Forse avevo capito male. Forse tutta quella vicenda, alla fine, mi aveva fatto impazzire sul serio.

«Ho detto che lo so» ripeté la donna. I suoi occhi avvizziti, cerchiati dalla stanchezza, erano colmi di lacrime. Le mani, posate sul velluto della gonna, improvvisamente sembravano piene di vita: tremavano, come scosse da un burattinaio invisibile. Qualcosa sembrava averla fatta risorgere dal suo stato di morte apparente.

«Come sarebbe a dire che lo sapete? Cosa significa?»

Le lacrime le striarono le gote, che improvvisamente erano d'ambra mista a chiazze color osso e rubino sulla pelle sottile come garza. Si coprì il volto con le mani.

«Madame, non capisco…» Ero talmente sbigottito che non trovai più la forza di proferire parola.

«Voglio dire» iniziò lei, con la voce che tradiva l'amarezza in un rantolo a stento trattenuto, «che lo conoscevo. So benissimo chi era… sono una delle poche persone in questo mondo a poter dichiarare una cosa simile.»

Crollai di nuovo sulla poltrona. Avevo sempre pensato che quella donna nascondesse qualcosa… ma quella reazione mi era del tutto inattesa. Non riuscii a far altro che ascoltare.

«Per tutti questi anni, ho taciuto sulla sua esistenza… Era il suo ultimo desiderio, e io lo compresi, e lo rispettai… Non mi rimase altro che questo.»

«Perché non me l'avete detto subito?» chiesi in tono appena udibile. Il mio mondo si era di nuovo capovolto. Adesso c'erano nuovi elementi da considerare, altre cose inimmaginabili… un palinsesto da riscrivere, raschiato col sangue di una vita che no, ancora non conoscevo, malgrado le mie illusioni.

«Perché, mi chiedete?» Lei scoppiò a ridere – una risata che mi gelò il sangue nelle vene. Era talmente priva di ilarità che mi parve un singhiozzo malformato. Si asciugò il volto col fazzoletto, e lì rimase, a coprirle le labbra rinsecchite. Avevo creduto che il suo cuore fosse divenuto arido a forza di perdite e mancanze… ma avevo torto, perché non sapevo quanto avesse perso e quanto ricordasse ancora.

«Non mi fidavo di voi» disse in un sussurro torbido. I suoi occhi d'uccello mi avevano fissato fin dal nostro primo incontro con grande diffidenza, ma adesso vi era qualcosa di nuovo: una preghiera. Se per se stessa o qualcuno di ormai irraggiungibile, o se diretta a me, non potevo saperlo.

L'orgoglio non aveva potuto coprire le ferite del tempo. Erano decrepite, ma ancora bruciavano; e io vi avevo gettato nuovo sale, avevo ridato loro un nome e l'avevo appuntato sul mio manoscritto.

È vero, è tutto vero. Erik era vivo. E anche questa donna lo sa.

Deglutii a fatica e mi ricomposi, come d'altronde fece anche lei.

«E adesso avete deciso di dirmi la verità?»

Il suo sguardo puntò sulla distanza, oltre la mia immaginazione. I suoi occhi erano lucidi, non più vuote crisalidi di memorie perdute. «Avete fatto di lui una descrizione accurata e sentita. Il vostro interesse è sincero… L'ho compreso solo ora. D'altra parte, non avevo scelta. La mia non è una storia per i giornali.»

«Non la pubblicherò, se è questo ciò che volete» promisi, ed ero onesto sia con lei che con me stesso. «Farò pubblicare solo il manoscritto originale… Se lo desiderate, quel che mi racconterete resterà tra noi, e solo queste mura ne saranno testimoni. Non ne farò parola con nessuno.»

Lei mi lanciò un'ultima occhiata sospetta, ma infine si arrese. «Se anche Monsieur Nadir ha affidato a voi le sue memorie, devo rassegnarmi anch'io.»

«Monsieur Nadir…?»

«Colui che voi chiamate il Persiano. Sì, conosco anche quel brav'uomo. E Christine, e Raoul, e il conte… conoscevo tutti. Sono stati parte della mia vita. E soprattutto, conoscevo lui

Strinse le dita con tanta forza che temetti di vedere le ossa scricchiolare e rompersi sotto il mio sguardo colmo d'orrore. Ma era più resistente di quanto la sua malattia palesasse.

«Sono lo spettro della ragazza che ero… ormai non mi resta più nulla, neanche la vita. Ben presto me ne andrò.»

«Non dite così» dissi in tono desolato, ormai commosso da quel discorso saturo di rimpianto. Marguerite Giry, baronessa di Castelot-Barzebac, mi rivolse un sorriso – questa volta uno vero, triste, i denti giallastri visibili oltre le labbra di carta.

«Ben presto io stessa non sarò altro che una storia. Ma non ho paura, non più. Aspetto questo momento da molto tempo, forse dalla morte di mio marito. O anche da prima.»

Emise un ultimo sospiro. Poi alzò lo sguardo e incontrò i miei occhi. Io non avrei preso nessun appunto, lo sapevo. Ero lì solo per ascoltare una storia – la sua. La loro.

«Da dove posso cominciare, Monsieur?»

Sorrisi anch'io. «Credo che l'inizio vada bene, Madame.»




Note dell'autrice: Questa è la prima storia che pubblico su EFP, ma non la mia prima fanfiction. Ne ho sempre scritte, fin da quando avevo quattordici anni. Ho già scritto quasi trenta capitoli di Mon couer, e qui ne pubblicherò uno a settimana – al massimo ogni due settimane. Quest'anno ho la Maturità classica, quindi come immaginate sarò molto impegnata, e non so se riuscirò a completarla prima della fine dell'anno scolastico, come è mio desiderio. Ringrazio autori come Alexandre Dumas (padre) e George R.R. Martin, i cui lavori mi hanno offerto ispirazione – vedrete più avanti come. Se otterrò un buon riscontro (e voglio critiche, anche se costruttive), continuerò a pubblicare i vari capitoli. Dipende tutto da voi, ragazzi!

Vorrei inoltre aggiungere che questa storia sarà maggiormente basata sul libro, anche se ci saranno importanti elementi presi dal musical di Andrew Lloyd Webber e dal Phantom di Susan Kay. Un po' un misto, diciamo. Per me è molto importante, perché finora sono riuscita a scrivere solo racconti oppure one shot (sebbene abbastanza lunghi); questa è la mia prima storia a capitoli, e sarà lunga, anche se non eccessivamente. Vi auguro buona lettura! Commentate, mi raccomando!

   
 
Leggi le 1 recensioni
Ricorda la storia  |        |  Torna su
Cosa pensi della storia?
Per recensire esegui il login oppure registrati.
Capitoli:
   >>
Torna indietro / Vai alla categoria: Libri > Il fantasma dell'Opera / Vai alla pagina dell'autore: Elphie94