Into
The Mind Palace
Mycroft Holmes entrò nel suo studio
privato e chiuse la porta a chiave anche se in casa non c'erano altri
che lui.
Camminò
lentamente - elegantemente, con la spina dorsale perfettamente
allineata e il
mento sollevato, lo sguardo fiero dinanzi a sé e
un'espressione
seria sul volto stanco, più meditabondo del solito, le mani
giunte dietro la schiena, il tessuto leggero della camicia candida a
sfiorare la stoffa liscia del gilet su misura - verso l'ampia vetrata
che allagava di luce quello spazio tutto suo in cui regnavano sovrane
la grande scrivania in ciliegio e le due librerie a parete, dello
stesso legno pregiato, ricche di volumi di ogni sorta - dalle
enciclopedie ai testi più rari, introvabili - caratterizzati
tutti
da
rilegature preziose. In un angolo il luccichio del cristallo
attirò per un istante l'attenzione dell'uomo: un caldo
invito ad
annegare i tormenti in un drink. In due. In tre. Fino a star male.
Mycroft non si ubriacava mai in pubblico. Suo fratello sosteneva che la
scelta dipendesse dal timore di rivelare chissà quali
scottanti verità sul proprio vissuto, ma sbagliava. John
Watson
riteneva che fosse troppo un perfezionista per una tale caduta di
stile, ma sbagliava anche lui.
Mycroft era sempre sobrio quando non era solo perché, se
beveva troppo, piangeva. Fino a star meglio.
Distolse lo sguardo dalla bruciante tentazione e lo volse alla fonte di
tutta quella fastidiosa luminosità, nient'affatto per
goderne.
Non c'era nessuna ragione per cui fosse necessario risplendere a quel
modo, con una tale prepotenza, con una tale arroganza. Strinse gli
occhi a fessure, irritato
dagli accecanti raggi del sole mattutino, mentre stringeva con ferma
delicatezza
un lembo della grande tenda scura. Un gesto fulmineo, ma per nulla
sgarbato, e la stanza piombò in una confortante e
confortevole
penombra che isolò definitivamente Mycroft dal resto del
mondo sebbene non da se stesso.
Abbassò le palpebre celando agli arredi occhi fin troppo
comunicativi per i suoi gusti. Non c'era bisogno di guardarsi allo
specchio per sapere che era così, perché non era
uno
sciocco ed era pienamente consapevole di ciò che si agitava
nei
recessi della sua anima. Sapeva di essere preda delle odiate e
temute emozioni, suo nemico più grande in quella lotta
contro il
mondo intero che era poi più con se stesso. Sapeva bene
anche
questo sebbene non lo avrebbe mai ammesso a nessuno, nemmeno a Sherlock.
Non era necessario tenere gli occhi aperti per accomodarsi alla
scrivania, giacché conosceva come le sue tasche quel luogo,
muto
testimone di lunghe introspezioni mai riconducibili ad un uomo come
lui, un uomo senza sentimenti, costantemente in pena, però,
per suo fratello. Un uomo che avrebbe mosso mari e monti per lui. Che
avrebbe insabbiato qualsiasi cosa per lui. Che si
sarebbe fatto uccidere per lui. Che sarebbe arrivato a uccidere per lui.
Sciolse nuovamente la posa da damerino soltanto per cercare il
cellulare nella tasca dei pantaloni e spegnerlo. Un ultimo passo prima
di cedere all'irresistibile richiamo.
Non voleva che qualcuno lo disturbasse, cosa che avveniva con una
frequenza impressionante. Non voleva che qualcuno lo cercasse, il che
accadeva di rado. Non voleva che qualcuno lo trovasse,
eventualità questa che si verificava solo quando era
Sherlock a
volerlo stanare. Ma Sherlock non lo avrebbe fatto quel giorno.
Il ritmo pacato dei suoi passi sicuri era in netta contrapposizione con
la tempesta che infuriava dentro di lui mentre si procurava la
massiccia dose alcolica. Sebbene intendesse svuotare la scintillante
bottiglia dal tappo delicato, precario - a favore di uno stile
aristocratico che poco collimava con la praticità - e
pesante,
non mancò di
procurarsi anche un bicchiere, non intendendo affatto attingere
direttamente alla fonte come un ubriacone della peggior specie, e un
piccolo tovagliolo quadrato.
Nonostante fosse pronto a crollare, non avrebbe mai osato rovinare il
pregiato legno per un moto capriccioso delle sue emozioni ormai fuori
controllo. Prima di volgersi alla scrivania, inseparabile compagna
di trattative e compromessi, sollevò il tappo e
lasciò che il forte odore
gli pungesse le narici. Inspirò profondamente e con
altrettanta
intensità lasciò che l'aria abbandonasse i suoi
polmoni
in quel silenzio quasi surreale.
Non inciampò mai nel suo vagare ad occhi ostinatamente
chiusi, né esitò quando fu il momento di sedersi
e accavallare le gambe.
Si versò languidamente il primo bicchiere, quasi che quel
liquore fosse il suo amante segreto, abbandonò le spalle
contro
la morbida pelle dello schienale e si gustò il preambolo del
suo
personalissimo inferno di ricordi.
Aveva sedici anni, uno zigomo dolorante e il labbro spaccato.
Aveva sedici anni, le
gambe malferme, la vista annebbiata e le mani tremanti.
Aveva sedici anni, era
stato circondato, offeso e picchiato.
Per i suoi compagni di
classe era il
secchione da prendere di mira e distruggere. Per i professori era
l'elemento di spicco dell'Istituto. Per i suoi genitori era un figlio
modello, intelligente, educato e posato. Per suo fratello Sherlock era
semplicemente Mycroft.
Cosa gli avrebbe
raccontato stavolta?
Come avrebbe giustificato quegli ematomi? Cosa mai avrebbe potuto dire
a quel bambino che iniziava appena a scontrarsi con la dura
realtà del mondo? Che era stato vittima di bullismo? No,
certo
che no.
«Mycroft
guarda!», strillò Sherlock correndogli subito
incontro quando lo
sentì rientrare. Stringeva tra le mani il prezioso risultato
di
un piccolo, semplice ed elementare esperimento che avevano avviato
insieme la settimana precedente.
Mycroft proprio non riusciva a resistere ai grandi occhi chiari di suo
fratello quando gli chiedeva, anzi, lo pregava di insegnargli qualcosa
di divertente che non fosse scritto nei libri di scuola.
Il bambino si irrigidì non appena scorse i segni sul volto
del maggiore.
«Mycroft... Che ti è successo?», chiese
con un filo di voce e gli occhi già carichi di lacrime.
Era così dannatamente emotivo quel bambino che l'unica
preoccupazione di Mycroft era che potesse soccombere alla cattiveria
dei coetanei.
Eppure il giovane uomo gli sorrise rassicurante, scacciando via dolore
e timore. «Tuo fratello è un ragazzo
così sbadato,
Sherlock», sospirò usando un tono caldo,
tranquillo.
«Sei caduto in palestra? Di nuovo?»,
azzardò Sherlock, poco convinto.
Mycroft annuì
e il piccolo si offrì di prendersi cura di lui mettendo da
parte l'entusiasmo per la scienza.
Un lieve tonfo decretò la fine del primo giro alcolico e
metaforico, nel Palazzo Mentale. Il bicchiere
era tornato sul tovagliolo e la mente di Mycroft al presente.
L'uomo sapeva che ne
sarebbero occorsi parecchi, di giri, prima che si sentisse anche
soltanto brillo, stordito.
Il calore dell'alcool agì sul viso imporporandolo appena
mentre
di nuovo le dita si allungavano verso la bottiglia in cristallo
lavorato. Gli parve che l'aria uscisse più calda dalle
narici,
che il bordo trasparente del pesante bicchiere scottasse tra le
labbra sottili mentre
mandava giù il secondo bicchiere.
Al terzo l'uomo aveva il
respiro leggermente alterato e il battito accelerato, ma non se ne
curò. L'unica sua reale e onnipresente preoccupazione era
Sherlock, il quale per l'ennesima volta si era cacciato nei guai
ignorando come sempre le sue raccomandazioni, i suoi avvertimenti.
L'aveva invitato apertamente a non immischiarsi nelle faccende che
riguardavano Charles Augustus Magnussen e questo, Mycroft lo aveva
capito un attimo più tardi, era stato l'errore
più grande
che avesse mai commesso. Che cosa gli era saltato in mente? Come aveva
potuto dimenticare che negare qualcosa a Sherlock equivaleva ad un
invito?
Sentimenti. Maledetti sentimenti. Aveva avuto paura per lui e aveva
perso il controllo.
Un tremolio delle labbra annunciò che il quarto bicchiere
era
necessario e con in mente il volto pallido, inespressivo e immobile di
suo fratello, si gettò volontariamente nel mare in burrasca
preferendolo ad una realtà insopportabile.
La prima volta era successo durante
l'assenza dei genitori, i quali si erano concessi un viaggio tutto per
loro ora che i figli erano cresciuti e potevano badare a se stessi.
Mycroft aveva trascorso
la giornata
in biblioteca, gli occhi incastrati tra documenti di particolare
interesse, irreperibili se non attraverso uno di quei detestabili
luoghi pubblici. Con il passare degli anni, l'uomo aveva compreso che
tanto più si teneva lontano dall'avere contatti - fisici o
verbali che fossero - con le persone, quanto più la sua
psiche
ne beneficiava, perciò aveva finito per provare ribrezzo
verso
un qualsivoglia affollato luogo pubblico. Non prendeva mai la metro
preferendo l'automobile per i suoi spostamenti. Non frequentava mai bar
sebbene alle volte desiderasse poter fare colazione in una di quelle
assortite pasticcerie del centro. Non rivolgeva parola ad anima viva se
non era strettamente necessario. La biblioteca era l'unica eccezione,
ma si era ripromesso di rimediare appena possibile a quella
fastidiosa necessità arricchendo la sua futura
abitazione con alte pareti ricolme di volumi, tanti da far
invidia alle
Università più prestigiose.
Quando aprì
la porta
d'ingresso si rese subito conto che qualcosa non andava
perché
sapeva che Sherlock sarebbe rimasto in casa - impossibile che gli
avesse mentito non avendo alcun valido motivo per farlo, senza contare
che suo fratello non era un bugiardo patologico - e quando lui era
presente non
c'era mai quel silenzio così inquietante.
«Sherlock?»,
chiamò mascherando la preoccupazione nella voce.
«Sono
tornato, prendi con me una tazza di té e una fetta di
crostata?».
Nessuna risposta arrivò da nessun angolo dell'abitazione.
Sherlock non avrebbe rinunciato alla crostata della mamma per niente al
mondo.
Il cuore di Mycroft prese a martellare nella cassa toracica e sebbene
l'uomo avesse imparato l'arte dell'autocontrollo e fosse divenuto molto
abile nell'estraniarsi da qualunque tipo di emozione ritenendole tutte
parecchio pericolose per se stesso, perse la calma in un batter di
ciglia semplicemente perché si trattava di suo fratello.
Mollò tutto in cucina e iniziò a cercarlo in
tutte le
stanze prima di realizzare che doveva trovarsi nell'unica chiusa a
chiave, che era poi la camera da letto del ragazzo.
Iniziò a bussare energicamente, convulsamente, contro la
porta
pesante e sigillata non ottenendo altra risposta se non un
silenzio assordante.
"Pensa, Mycroft. Pensa.", si ordinò entrando metaforicamente
in
quello che aveva ribattezzato col nome di Palazzo Mentale - scoperto in
età adolescenziale e divenuto suo rifiugio preferito - alla
ricerca
della soluzione che era certo di poter trovare nell'enorme
biblioteca, al momento unica stanza di quella sontuosa struttura
immaginaria destinata ad ampliarsi. Le camere da letto dei fratelli
erano vicine, gli sarebbe bastato abbattere una parete per invadere lo
spazio di Sherlock, ma a quel punto tanto valeva sfondare la porta,
perciò Mycroft ritenne che non era il caso non disponendo
comunque di tempo e strumenti necessari, senza contare che non avrebbe
saputo come spiegare l'accaduto ai genitori. "Rifletti
meglio!", ruggì contro se stesso, le dita premute sulle
tempie
per favorire la concentrazione. Si piegò sulle ginocchia e
avvicinò le dita tremanti allo spazio tra porta e pavimento
scoprendo che un soffio d'aria fresca sfuggiva dall'interno della
stanza. "Niente panico. Io non ho paura. Io non
provo emozioni.", continuò e, come per magia, le idee si
schiarirono e la soluzione apparve limpida e semplice. Ovvia perfino.
Mycroft si fiondò nella propria camera,
spalancò
le imposte e uscì sul balcone comune. L'aria era gelida e
gli
causò un brivido mentre decideva di scavalcare la sottile
striscia di muro che divideva la sua parte di balcone da quella di
Sherlock. Era stato quest'ultimo a volerla per forza qualche anno
addietro e benché
Mycroft ci fosse rimasto male non l'aveva mai dato a vedere.
L'uomo detestava tutto ciò che prevedeva attività
fisica
e avrebbe quindi evitato molto volentieri di compiere quell'impresa se
un'intuizione, un sesto senso, non gli avesse urlato che qualcosa di
spiacevole stava accadendo nella stanza di fianco alla sua. Sfidando le
proprie attitudini e l'altezza, Mycroft oltrepassò
l'ostacolo e
una volta dinanzi all'ingresso esterno trovò conferma alle
deduzioni formulate poco prima. Il soffio che si insinuava, incurante
di ogni cosa,
nello spazio angusto tra porta e pavimento proveniva proprio dalle
imposte
spalancate.
Mycroft non dimenticò mai ciò che vide quel
giorno.
Suo fratello Sherlock, il suo Sherlock, accasciato a terra e privo di
sensi. Una siringa ipodermica sul pavimento, accanto a lui.
La scena lasciava poco spazio a libera interpretazione.
«No!», urlò Mycroft.
Rimase in ospedale con Sherlock fino al suo risveglio, facendo intanto
i conti con se stesso, con le responsabilità che gli
competevano,
con il
peso dei drammi del minore sulle proprie spalle - fardello ancor
più difficile da sostenere per lui che non desiderava altro
che
sapere Sherlock felice - e quando
quest'ultimo aprì gli occhi, Mycroft impedì al
sollievo di arrivare allo sguardo e per la prima volta lo
fissò
con la stessa freddezza
che rivolgeva al resto del mondo.
«Sei
uno stupido - gli disse - Mi hai molto deluso, Sherlock. Verrai dimesso
tra qualche giorno. Non ho detto niente a mamma e
papà». Sintentico e diretto, per apparire freddo e
per controllare la voce che avrebbe certamente tremato se si fosse
espresso in periodi più articolati.
Quel tono sorpese
Sherlock al punto
che non riuscì a parlare, permettendo così che
Mycroft
gli voltasse le spalle e lo lasciasse solo insieme a delle banconote da
usare per chiamare un taxi e tornarsene a casa in solitudine,
così come in solitudine aveva rischiato di uccidersi con
un'overdose.
Da quel giorno il rapporto tra i due aveva subìto un brusco
cambiamento.
Stavolta era diverso. Mycroft non era più così
giovane ed
era stanco, così stanco che gli era stato impossibile
restare
accanto a suo fratello ora che le sue condizioni si erano stabilizzate,
quindi era
fuggito dopo una notte di veglia lasciando che fosse John Watson ad
accudire Sherlock. Quel
medico, ignaro di ogni cosa - così ingenuo e fiducioso nel
genere umano da non aver ancora capito che a sparare al suo miglior
amico era stata sua moglie Mary che non si chiamava neanche davvero
così e che aveva segreti più pericolosi di quelli
degli
Holmes, tanto imponenti da attirare l'attenzione di Magnussen, il quale
non si era fatto scrupoli a colpire proprio John Watson per ferire la
Morstan e arrivare quindi a Sherlock - sembrava avere una buona
influenza sul più giovane degli Holmes, ragion per cui
Mycroft aveva approvato la loro convivenza e la loro cooperazione nelle
indagini. Si era sentito un po' più sicuro sapendo Sherlock
affiancato da un uomo leale quale era John Watson, in grado di
maneggiare senza difficoltà un'arma se necessario, ma forse
si
era
sbagliato anche lui. Eppure con che coraggio poteva dare la colpa al
medico dopo aver scorto il dolore nei suoi occhi alla finta morte di
Sherlock, anni addietro?
L'uomo si rese conto che la testa gli girava, i pensieri iniziavano a
divenire confusi e i ricordi parevano
mescolarsi tra loro creando strani accostamenti, fondendo la
fanciullezza con l'adolescenza e l'adolescenza con l'età
adulta,
confondendo ciò che era accaduto con ciò che
sarebbe
potuto accadere se Mycroft non fosse prontamente intervenuto tutte le
volte. Eppure non era ancora
arrivato il momento della resa.
Con mano improvvisamente incerta, l'uomo allentò il nodo
alla cravatta, slacciò i primi bottoni e si versò
il sesto bicchiere. O forse era il settimo? Non aveva importanza.
«Cos'è il Palazzo Mentale?»,
domandò Sherlock con poca gentilezza guadagnandosi la totale
assenza di reazione da parte di suo fratello. Come se non avesse
parlato. Come se non esistesse. Strinse i pugni, adirato, e
sbatté un piede contro il pavimento per infastidire Mycroft
e
ottenere la sua attenzione, ma quello pareva non sentirlo affatto.
«Rispondimi!», ruggì.
A Mycroft costava molto ignorarlo a quel modo, ma aveva deciso che
anche manifestare affetto nei confronti di Sherlock avrebbe arrecato
danni ad entrambi. Per se stesso ormai c'era poco da fare, ma forse
negando attenzione a suo fratello sarebbe riuscito a salvarlo dalla
devastazione causata dai sentimenti umani. Era ancora fin troppo
emotivo per potercela fare ed era compito di Mycroft indurirsi per
primo al fine di temprare suo fratello, prepararlo e a suo modo
continuare a proteggerlo.
«Mycroft, rispondimi. Ora!», continuò
imperterrito.
Allora l'uomo chiuse pazientemente il volume che stava leggendo,
esercitando su se stesso un notevole autocontrollo, si volse ad
incrociare lo sguardo di suo fratello e lo investì con
un'occhiata crudele.
Il respiro di Sherlock si calmò e i palmi si distesero
mentre attendeva.
«Sei troppo stupido per capire. E ora vattene, rechi disturbo
al
mio ambiente», gli rispose con tutta la freddezza di cui era
capace.
Vide un luccichio negli occhi di suo fratello e sentì la
colpa
nascere nel proprio cuore, ma non si fece sopraffare da quel sentimento
e
si costrinse a guardare Sherlock voltargli le spalle in preda alla
rabbia più feroce.
Era cresciuto. Era un
giovane uomo. Bello e intelligente.
Mycroft aveva dovuto
fare i conti con
quella perdita: Sherlock non era più il suo fratellino. Era
necessario lasciarlo andare anche se questo lo feriva profondamente,
tanto che il dolore era
insostenibile. Non c'era antidolorifico, distrazione, alcolico o droga
che potesse alleviarlo.
Diversi mesi dopo
quell'episodio
Mycroft trovò Sherlock a gambe incrociate sulla poltrona
materna, completamente immobile, immerso nei propri pensieri, e si
fermò a guardarlo con la convinzione che non si sarebbe
accorto
della sua presenza tanto era concentrato. Invece Sherlock l'aveva
sentito perché lo stava aspettando.
«Ci
hai messo una pasticceria nel tuo Palazzo Mentale? A giudicare dai
pantaloni cui hai fatto spostare il bottone direi di
sì»,
mormorò senza muovere nient'altro che le labbra.
Mycroft era evidentemente stato preso in contropiede e se una parte di
lui era irritata dall'infelice insinuazione di suo fratello, c'era una
minuscola e rumorosa area del suo cuore che gioiva di quel momento che
voleva poter dire soltanto che Sherlock aveva infine scoperto di avere
lui stesso un Palazzo Mentale.
«Divertente.
- commentò con sarcasmo - Al tuo sei riuscito almeno a
mettere
delle finestre oppure è un lurido scantinato abbandonato al
caos?», lo punzecchiò.
«Posso
dirti cosa non ci ho messo», replicò lui senza
tradire alcuna emozione.
«Sprizzo
curiosità da tutti i pori».
«Te».
E la risposta fu glaciale al punto da costringere Mycroft ad andarsene
senza aggiungere altro.
Mary Morstan aveva sparato senza l'intenzione di uccidere, era
evidente, perché una sprovveduta non avrebbe mai braccato
Charles Augustus Magnussen, lo squalo, il predatore per eccellenza,
come aveva fatto lei quella notte. Mary Morstan, o chiunque essa fosse
veramente, sapeva il fatto suo e sapeva che uccidendo Sherlock avrebbe
ucciso John e scatenato l'ira di Mycroft che dinanzi ad una simile
eventualità non si sarebbe limitato a distruggere la
facciata di
menzogne tirata su sapientemente da quella donna, no, Mycroft avrebbe
fatto in modo che pagasse con la vita quell'affronto.
Il tonfo del bicchiere che si scontrava con il legno della scrivania fu
più sonoro stavolta, così come il palmo dell'uomo
-
seduto ora in modo scomposto sull'elegante poltrona, in totale
disarmonia con la stanza - quando urtò violentemente contro
quello stesso pregiato ciliegio dando sfogo a un moto di stizza verso
se stesso e quella mente fuori dal comune che si ritrovava e che a
volte riteneva una maledizione più che un vantaggio. Essere
in
grado di vedere il mondo per la collezione di anime infelici che era,
poter
analizzare con metodo scientifico ogni cosa, riuscire a prevedere le
mosse dei suoi rivali o di chiunque intendesse interagire con lui in un
atto di pura follia, non lo esonerava mai abbastanza dalle emozioni che
albergavano in lui, sebbene costantemente in catene, specie se qualcuno
decideva di sparare a suo fratello Sherlock senza che lui potesse
prevenirne i danni.
Sherlock l'aveva davvero escluso anche dal suo Palazzo Mentale come gli
aveva detto anni prima?
Mycroft si portò entrambe le mani sul viso nel tentativo di
calmarsi, di ritrovarsi nonostante tutto l'alcool che circolava
inarrestabile nel suo corpo e che non avrebbe smaltito se non dopo
diverse ore. Stava per cedere al fiume in piena che erano le sue
sensazioni, finalmente libere di poter avere il controllo su ogni altra
cosa, sui limiti autoimposti, sulla ragione, sui ricordi.
L'uomo si guardò attorno scorgendo nient'altro che un
ambiente
in balia delle onde, sebbene fosse cosciente del mancato senso di
quell'assurda associazione come se davvero il mare o l'oceano potessero
far ondeggiare un'abitazione, e accertatosi ancora una volta di essere
completamente solo, toccato l'apice dell'ubriacatura,
scoppiò in
lacrime come forse neanche da bambino aveva mai fatto.
Lacrime calde, accompagnate da singhiozzi strazianti, perché
oltre lo spesso strato di ghiaccio, oltre lo sguardo duro come
una
gemma e l'espressione severa, pulsava un cuore completamente umano e
risiedeva un'anima sensibile più di quanto chiunque avesse
mai
potuto immaginare, Sherlock compreso.
Questo era Mycroft Holmes come nessuno lo conosceva, come nessuno lo
avrebbe mai conosciuto.
N.d.A.
Che dirvi? A chi è inciampato nelle mie precedenti OS sarà ormai palese il mio interesse nei confronti di Mycroft Holmes. Ancora una volta mi sono affidata a lui, ho provato ad ascoltarlo e a raccontarlo. Spero di non aver storpiato in alcun modo né lui, né Sherlock - il quale in questa storia è prima un bambino e come tale si comporta pur manifestando la sua spiccata intelligenza e poi un adolescente che affronta a suo modo i problemi che lo affliggono. Questa OS è un Missing Moment appartenente alla terza stagione della serie tv, come penso si sia compreso quando ho chiamato in causa Magnussen e Mary nei panni di "killer".
Per tutto il tempo della stesura ho ascoltato "Stillness Of The Mind", dalla colonna sonora di "A Single Man". Mi sento di consigliarvi tanto l'ascolto della traccia quanto la visione della pellicola.
Ringrazio tutti voi che siete arrivati fin qui e quanti decideranno di lasciare un segno del proprio passaggio.
Alla prossima!