Serie TV > Sherlock (BBC)
Ricorda la storia  |      
Autore: Zury Watson    08/11/2015    11 recensioni
Camminò lentamente - elegantemente, con la spina dorsale perfettamente allineata e il mento sollevato, lo sguardo fiero dinanzi a sé e un'espressione seria sul volto stanco, più meditabondo del solito, le mani giunte dietro la schiena, il tessuto leggero della camicia candida a sfiorare la stoffa liscia del gilet su misura - verso l'ampia vetrata che allagava di luce quello spazio tutto suo in cui regnavano sovrane la grande scrivania in ciliegio e le due librerie a parete, dello stesso legno pregiato, ricche di volumi di ogni sorta - dalle enciclopedie ai testi più rari, introvabili - caratterizzati tutti da rilegature preziose.
Genere: Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: Mycroft Holmes
Note: Missing Moments | Avvertimenti: nessuno
Per recensire esegui il login o registrati.
Dimensione del testo A A A
The Other One


Into The Mind Palace

Mycroft Holmes entrò nel suo studio privato e chiuse la porta a chiave anche se in casa non c'erano altri che lui.
Camminò lentamente - elegantemente, con la spina dorsale perfettamente allineata e il mento sollevato, lo sguardo fiero dinanzi a sé e un'espressione seria sul volto stanco, più meditabondo del solito, le mani giunte dietro la schiena, il tessuto leggero della camicia candida a sfiorare la stoffa liscia del gilet su misura - verso l'ampia vetrata che allagava di luce quello spazio tutto suo in cui regnavano sovrane la grande scrivania in ciliegio e le due librerie a parete, dello stesso legno pregiato, ricche di volumi di ogni sorta - dalle enciclopedie ai testi più rari, introvabili - caratterizzati tutti da rilegature preziose. In un angolo il luccichio del cristallo attirò per un istante l'attenzione dell'uomo: un caldo invito ad annegare i tormenti in un drink. In due. In tre. Fino a star male.
Mycroft non si ubriacava mai in pubblico. Suo fratello sosteneva che la scelta dipendesse dal timore di rivelare chissà quali scottanti verità sul proprio vissuto, ma sbagliava. John Watson riteneva che fosse troppo un perfezionista per una tale caduta di stile, ma sbagliava anche lui.
Mycroft era sempre sobrio quando non era solo perché, se beveva troppo, piangeva. Fino a star meglio.
Distolse lo sguardo dalla bruciante tentazione e lo volse alla fonte di tutta quella fastidiosa luminosità, nient'affatto per goderne. Non c'era nessuna ragione per cui fosse necessario risplendere a quel modo, con una tale prepotenza, con una tale arroganza. Strinse gli occhi a fessure, irritato dagli accecanti raggi del sole mattutino, mentre stringeva con ferma delicatezza un lembo della grande tenda scura. Un gesto fulmineo, ma per nulla sgarbato, e la stanza piombò in una confortante e confortevole penombra che isolò definitivamente Mycroft dal resto del mondo sebbene non da se stesso.
Abbassò le palpebre celando agli arredi occhi fin troppo comunicativi per i suoi gusti. Non c'era bisogno di guardarsi allo specchio per sapere che era così, perché non era uno sciocco ed era pienamente consapevole di ciò che si agitava nei recessi della sua anima. Sapeva di essere preda delle odiate e temute emozioni, suo nemico più grande in quella lotta contro il mondo intero che era poi più con se stesso. Sapeva bene anche questo sebbene non lo avrebbe mai ammesso a nessuno, nemmeno a Sherlock.
Non era necessario tenere gli occhi aperti per accomodarsi alla scrivania, giacché conosceva come le sue tasche quel luogo, muto testimone di lunghe introspezioni mai riconducibili ad un uomo come lui, un uomo senza sentimenti, costantemente in pena, però, per suo fratello. Un uomo che avrebbe mosso mari e monti per lui. Che avrebbe insabbiato qualsiasi cosa per lui. Che si sarebbe fatto uccidere per lui. Che sarebbe arrivato a uccidere per lui.
Sciolse nuovamente la posa da damerino soltanto per cercare il cellulare nella tasca dei pantaloni e spegnerlo. Un ultimo passo prima di cedere all'irresistibile richiamo.
Non voleva che qualcuno lo disturbasse, cosa che avveniva con una frequenza impressionante. Non voleva che qualcuno lo cercasse, il che accadeva di rado. Non voleva che qualcuno lo trovasse, eventualità questa che si verificava solo quando era Sherlock a volerlo stanare. Ma Sherlock non lo avrebbe fatto quel giorno.
Il ritmo pacato dei suoi passi sicuri era in netta contrapposizione con la tempesta che infuriava dentro di lui mentre si procurava la massiccia dose alcolica. Sebbene intendesse svuotare la scintillante bottiglia dal tappo delicato, precario - a favore di uno stile aristocratico che poco collimava con la praticità - e pesante, non mancò di procurarsi anche un bicchiere, non intendendo affatto attingere direttamente alla fonte come un ubriacone della peggior specie, e un piccolo tovagliolo quadrato. Nonostante fosse pronto a crollare, non avrebbe mai osato rovinare il pregiato legno per un moto capriccioso delle sue emozioni ormai fuori controllo. Prima di volgersi alla scrivania, inseparabile compagna di trattative e compromessi, sollevò il tappo e lasciò che il forte odore gli pungesse le narici. Inspirò profondamente e con altrettanta intensità lasciò che l'aria abbandonasse i suoi polmoni in quel silenzio quasi surreale.
Non inciampò mai nel suo vagare ad occhi ostinatamente chiusi, né esitò quando fu il momento di sedersi e accavallare le gambe.
Si versò languidamente il primo bicchiere, quasi che quel liquore fosse il suo amante segreto, abbandonò le spalle contro la morbida pelle dello schienale e si gustò il preambolo del suo personalissimo inferno di ricordi.


Aveva sedici anni, uno zigomo dolorante e il labbro spaccato.

Aveva sedici anni, le gambe malferme, la vista annebbiata e le mani tremanti.
Aveva sedici anni, era stato circondato, offeso e picchiato.
Per i suoi compagni di classe era il secchione da prendere di mira e distruggere. Per i professori era l'elemento di spicco dell'Istituto. Per i suoi genitori era un figlio modello, intelligente, educato e posato. Per suo fratello Sherlock era semplicemente Mycroft.
Cosa gli avrebbe raccontato stavolta? Come avrebbe giustificato quegli ematomi? Cosa mai avrebbe potuto dire a quel bambino che iniziava appena a scontrarsi con la dura realtà del mondo? Che era stato vittima di bullismo? No, certo che no.
«Mycroft guarda!», strillò Sherlock correndogli subito incontro quando lo sentì rientrare. Stringeva tra le mani il prezioso risultato di un piccolo, semplice ed elementare esperimento che avevano avviato insieme la settimana precedente.
Mycroft proprio non riusciva a resistere ai grandi occhi chiari di suo fratello quando gli chiedeva, anzi, lo pregava di insegnargli qualcosa di divertente che non fosse scritto nei libri di scuola.
Il bambino si irrigidì non appena scorse i segni sul volto del maggiore.
«Mycroft... Che ti è successo?», chiese con un filo di voce e gli occhi già carichi di lacrime.
Era così dannatamente emotivo quel bambino che l'unica preoccupazione di Mycroft era che potesse soccombere alla cattiveria dei coetanei.
Eppure il giovane uomo gli sorrise rassicurante, scacciando via dolore e timore. «Tuo fratello è un ragazzo così sbadato, Sherlock», sospirò usando un tono caldo, tranquillo.
«Sei caduto in palestra? Di nuovo?», azzardò Sherlock, poco convinto.

Mycroft annuì e il piccolo si offrì di prendersi cura di lui mettendo da parte l'entusiasmo per la scienza.


Un lieve tonfo decretò la fine del primo giro alcolico e metaforico, nel Palazzo Mentale. Il bicchiere era tornato sul tovagliolo e la mente di Mycroft al presente.
L'uomo sapeva che ne sarebbero occorsi parecchi, di giri, prima che si sentisse anche soltanto brillo, stordito.
Il calore dell'alcool agì sul viso imporporandolo appena mentre di nuovo le dita si allungavano verso la bottiglia in cristallo lavorato. Gli parve che l'aria uscisse più calda dalle narici, che il bordo trasparente del pesante bicchiere scottasse tra le labbra sottili mentre mandava giù il secondo bicchiere.
Al terzo l'uomo aveva il respiro leggermente alterato e il battito accelerato, ma non se ne curò. L'unica sua reale e onnipresente preoccupazione era Sherlock, il quale per l'ennesima volta si era cacciato nei guai ignorando come sempre le sue raccomandazioni, i suoi avvertimenti. L'aveva invitato apertamente a non immischiarsi nelle faccende che riguardavano Charles Augustus Magnussen e questo, Mycroft lo aveva capito un attimo più tardi, era stato l'errore più grande che avesse mai commesso. Che cosa gli era saltato in mente? Come aveva potuto dimenticare che negare qualcosa a Sherlock equivaleva ad un invito?
Sentimenti. Maledetti sentimenti. Aveva avuto paura per lui e aveva perso il controllo.
Un tremolio delle labbra annunciò che il quarto bicchiere era necessario e con in mente il volto pallido, inespressivo e immobile di suo fratello, si gettò volontariamente nel mare in burrasca preferendolo ad una realtà insopportabile.


La prima volta era successo durante l'assenza dei genitori, i quali si erano concessi un viaggio tutto per loro ora che i figli erano cresciuti e potevano badare a se stessi.

Mycroft aveva trascorso la giornata in biblioteca, gli occhi incastrati tra documenti di particolare interesse, irreperibili se non attraverso uno di quei detestabili luoghi pubblici. Con il passare degli anni, l'uomo aveva compreso che tanto più si teneva lontano dall'avere contatti - fisici o verbali che fossero - con le persone, quanto più la sua psiche ne beneficiava, perciò aveva finito per provare ribrezzo verso un qualsivoglia affollato luogo pubblico. Non prendeva mai la metro preferendo l'automobile per i suoi spostamenti. Non frequentava mai bar sebbene alle volte desiderasse poter fare colazione in una di quelle assortite pasticcerie del centro. Non rivolgeva parola ad anima viva se non era strettamente necessario. La biblioteca era l'unica eccezione, ma si era ripromesso di rimediare appena possibile a quella fastidiosa necessità arricchendo la sua futura abitazione con alte pareti ricolme di volumi, tanti da far invidia alle Università più prestigiose.
Quando aprì la porta d'ingresso si rese subito conto che qualcosa non andava perché sapeva che Sherlock sarebbe rimasto in casa - impossibile che gli avesse mentito non avendo alcun valido motivo per farlo, senza contare che suo fratello non era un bugiardo patologico - e quando lui era presente non c'era mai quel silenzio così inquietante.
«Sherlock?», chiamò mascherando la preoccupazione nella voce. «Sono tornato, prendi con me una tazza di té e una fetta di crostata?».
Nessuna risposta arrivò da nessun angolo dell'abitazione. Sherlock non avrebbe rinunciato alla crostata della mamma per niente al mondo.
Il cuore di Mycroft prese a martellare nella cassa toracica e sebbene l'uomo avesse imparato l'arte dell'autocontrollo e fosse divenuto molto abile nell'estraniarsi da qualunque tipo di emozione ritenendole tutte parecchio pericolose per se stesso, perse la calma in un batter di ciglia semplicemente perché si trattava di suo fratello. Mollò tutto in cucina e iniziò a cercarlo in tutte le stanze prima di realizzare che doveva trovarsi nell'unica chiusa a chiave, che era poi la camera da letto del ragazzo. Iniziò a bussare energicamente, convulsamente, contro la porta pesante e sigillata non ottenendo altra risposta se non un silenzio assordante.
"Pensa, Mycroft. Pensa.", si ordinò entrando metaforicamente in quello che aveva ribattezzato col nome di Palazzo Mentale - scoperto in età adolescenziale e divenuto suo rifiugio preferito - alla ricerca della soluzione che era certo di poter trovare nell'enorme biblioteca, al momento unica stanza di quella sontuosa struttura immaginaria destinata ad ampliarsi. Le camere da letto dei fratelli erano vicine, gli sarebbe bastato abbattere una parete per invadere lo spazio di Sherlock, ma a quel punto tanto valeva sfondare la porta, perciò Mycroft ritenne che non era il caso non disponendo comunque di tempo e strumenti necessari, senza contare che non avrebbe saputo come spiegare l'accaduto ai genitori. "Rifletti meglio!", ruggì contro se stesso, le dita premute sulle tempie per favorire la concentrazione. Si piegò sulle ginocchia e avvicinò le dita tremanti allo spazio tra porta e pavimento scoprendo che un soffio d'aria fresca sfuggiva dall'interno della stanza. "Niente panico. Io non ho paura. Io non provo emozioni.", continuò e, come per magia, le idee si schiarirono e la soluzione apparve limpida e semplice. Ovvia perfino.
Mycroft si fiondò nella propria camera, spalancò le imposte e uscì sul balcone comune. L'aria era gelida e gli causò un brivido mentre decideva di scavalcare la sottile striscia di muro che divideva la sua parte di balcone da quella di Sherlock. Era stato quest'ultimo a volerla per forza qualche anno addietro e benché  Mycroft ci fosse rimasto male non l'aveva mai dato a vedere.
L'uomo detestava tutto ciò che prevedeva attività fisica e avrebbe quindi evitato molto volentieri di compiere quell'impresa se un'intuizione, un sesto senso, non gli avesse urlato che qualcosa di spiacevole stava accadendo nella stanza di fianco alla sua. Sfidando le proprie attitudini e l'altezza, Mycroft oltrepassò l'ostacolo e una volta dinanzi all'ingresso esterno trovò conferma alle deduzioni formulate poco prima. Il soffio che si insinuava, incurante di ogni cosa, nello spazio angusto tra porta e pavimento proveniva proprio dalle imposte spalancate.
Mycroft non dimenticò mai ciò che vide quel giorno.
Suo fratello Sherlock, il suo Sherlock, accasciato a terra e privo di sensi. Una siringa ipodermica sul pavimento, accanto a lui.
La scena lasciava poco spazio a libera interpretazione.
«No!», urlò Mycroft.

Rimase in ospedale con Sherlock fino al suo risveglio, facendo intanto i conti con se stesso, con le responsabilità che gli competevano, con il peso dei drammi del minore sulle proprie spalle - fardello ancor più difficile da sostenere per lui che non desiderava altro che sapere Sherlock felice - e quando quest'ultimo aprì gli occhi, Mycroft impedì al sollievo di arrivare allo sguardo e per la prima volta lo fissò con la stessa freddezza che rivolgeva al resto del mondo.
«Sei uno stupido - gli disse - Mi hai molto deluso, Sherlock. Verrai dimesso tra qualche giorno. Non ho detto niente a mamma e papà». Sintentico e diretto, per apparire freddo e per controllare la voce che avrebbe certamente tremato se si fosse espresso in periodi più articolati.
Quel tono sorpese Sherlock al punto che non riuscì a parlare, permettendo così che Mycroft gli voltasse le spalle e lo lasciasse solo insieme a delle banconote da usare per chiamare un taxi e tornarsene a casa in solitudine, così come in solitudine aveva rischiato di uccidersi con un'overdose.
Da quel giorno il rapporto tra i due aveva subìto un brusco cambiamento.



Stavolta era diverso. Mycroft non era più così giovane ed era stanco, così stanco che gli era stato impossibile restare accanto a suo fratello ora che le sue condizioni si erano stabilizzate, quindi era fuggito dopo una notte di veglia lasciando che fosse John Watson ad accudire Sherlock. Quel medico, ignaro di ogni cosa - così ingenuo e fiducioso nel genere umano da non aver ancora capito che a sparare al suo miglior amico era stata sua moglie Mary che non si chiamava neanche davvero così e che aveva segreti più pericolosi di quelli degli Holmes, tanto imponenti da attirare l'attenzione di Magnussen, il quale non si era fatto scrupoli a colpire proprio John Watson per ferire la Morstan e arrivare quindi a Sherlock - sembrava avere una buona influenza sul più giovane degli Holmes, ragion per cui Mycroft aveva approvato la loro convivenza e la loro cooperazione nelle indagini. Si era sentito un po' più sicuro sapendo Sherlock affiancato da un uomo leale quale era John Watson, in grado di maneggiare senza difficoltà un'arma se necessario, ma forse si era sbagliato anche lui. Eppure con che coraggio poteva dare la colpa al medico dopo aver scorto il dolore nei suoi occhi alla finta morte di Sherlock, anni addietro?
L'uomo si rese conto che la testa gli girava, i pensieri iniziavano a divenire confusi e i ricordi parevano mescolarsi tra loro creando strani accostamenti, fondendo la fanciullezza con l'adolescenza e l'adolescenza con l'età adulta, confondendo ciò che era accaduto con ciò che sarebbe potuto accadere se Mycroft non fosse prontamente intervenuto tutte le volte. Eppure non era ancora arrivato il momento della resa.
Con mano improvvisamente incerta, l'uomo allentò il nodo alla cravatta, slacciò i primi bottoni e si versò il sesto bicchiere. O forse era il settimo? Non aveva importanza.


«Cos'è il Palazzo Mentale?», domandò Sherlock con poca gentilezza guadagnandosi la totale assenza di reazione da parte di suo fratello. Come se non avesse parlato. Come se non esistesse. Strinse i pugni, adirato, e sbatté un piede contro il pavimento per infastidire Mycroft e ottenere la sua attenzione, ma quello pareva non sentirlo affatto. «Rispondimi!», ruggì.
A Mycroft costava molto ignorarlo a quel modo, ma aveva deciso che anche manifestare affetto nei confronti di Sherlock avrebbe arrecato danni ad entrambi. Per se stesso ormai c'era poco da fare, ma forse negando attenzione a suo fratello sarebbe riuscito a salvarlo dalla devastazione causata dai sentimenti umani. Era ancora fin troppo emotivo per potercela fare ed era compito di Mycroft indurirsi per primo al fine di temprare suo fratello, prepararlo e a suo modo continuare a proteggerlo.
«Mycroft, rispondimi. Ora!», continuò imperterrito.
Allora l'uomo chiuse pazientemente il volume che stava leggendo, esercitando su se stesso un notevole autocontrollo, si volse ad incrociare lo sguardo di suo fratello e lo investì con un'occhiata crudele.
Il respiro di Sherlock si calmò e i palmi si distesero mentre attendeva.
«Sei troppo stupido per capire. E ora vattene, rechi disturbo al mio ambiente», gli rispose con tutta la freddezza di cui era capace.
Vide un luccichio negli occhi di suo fratello e sentì la colpa nascere nel proprio cuore, ma non si fece sopraffare da quel sentimento e si costrinse a guardare Sherlock voltargli le spalle in preda alla rabbia più feroce.
Era cresciuto. Era un giovane uomo. Bello e intelligente.
Mycroft aveva dovuto fare i conti con quella perdita: Sherlock non era più il suo fratellino. Era necessario lasciarlo andare anche se questo lo feriva profondamente, tanto che il dolore era insostenibile. Non c'era antidolorifico, distrazione, alcolico o droga che potesse alleviarlo.

Diversi mesi dopo quell'episodio Mycroft trovò Sherlock a gambe incrociate sulla poltrona materna, completamente immobile, immerso nei propri pensieri, e si fermò a guardarlo con la convinzione che non si sarebbe accorto della sua presenza tanto era concentrato. Invece Sherlock l'aveva sentito perché lo stava aspettando.
«Ci hai messo una pasticceria nel tuo Palazzo Mentale? A giudicare dai pantaloni cui hai fatto spostare il bottone direi di sì», mormorò senza muovere nient'altro che le labbra.
Mycroft era evidentemente stato preso in contropiede e se una parte di lui era irritata dall'infelice insinuazione di suo fratello, c'era una minuscola e rumorosa area del suo cuore che gioiva di quel momento che voleva poter dire soltanto che Sherlock aveva infine scoperto di avere lui stesso un Palazzo Mentale.
«Divertente. - commentò con sarcasmo - Al tuo sei riuscito almeno a mettere delle finestre oppure è un lurido scantinato abbandonato al caos?», lo punzecchiò.
«Posso dirti cosa non ci ho messo», replicò lui senza tradire alcuna emozione.
«Sprizzo curiosità da tutti i pori».
«Te». E la risposta fu glaciale al punto da costringere Mycroft ad andarsene senza aggiungere altro.


Mary Morstan aveva sparato senza l'intenzione di uccidere, era evidente, perché una sprovveduta non avrebbe mai braccato Charles Augustus Magnussen, lo squalo, il predatore per eccellenza, come aveva fatto lei quella notte. Mary Morstan, o chiunque essa fosse veramente, sapeva il fatto suo e sapeva che uccidendo Sherlock avrebbe ucciso John e scatenato l'ira di Mycroft che dinanzi ad una simile eventualità non si sarebbe limitato a distruggere la facciata di menzogne tirata su sapientemente da quella donna, no, Mycroft avrebbe fatto in modo che pagasse con la vita quell'affronto.
Il tonfo del bicchiere che si scontrava con il legno della scrivania fu più sonoro stavolta, così come il palmo dell'uomo - seduto ora in modo scomposto sull'elegante poltrona, in totale disarmonia con la stanza - quando urtò violentemente contro quello stesso pregiato ciliegio dando sfogo a un moto di stizza verso se stesso e quella mente fuori dal comune che si ritrovava e che a volte riteneva una maledizione più che un vantaggio. Essere in grado di vedere il mondo per la collezione di anime infelici che era, poter analizzare con metodo scientifico ogni cosa, riuscire a prevedere le mosse dei suoi rivali o di chiunque intendesse interagire con lui in un atto di pura follia, non lo esonerava mai abbastanza dalle emozioni che albergavano in lui, sebbene costantemente in catene, specie se qualcuno decideva di sparare a suo fratello Sherlock senza che lui potesse prevenirne i danni.
Sherlock l'aveva davvero escluso anche dal suo Palazzo Mentale come gli aveva detto anni prima?
Mycroft si portò entrambe le mani sul viso nel tentativo di calmarsi, di ritrovarsi nonostante tutto l'alcool che circolava inarrestabile nel suo corpo e che non avrebbe smaltito se non dopo diverse ore. Stava per cedere al fiume in piena che erano le sue sensazioni, finalmente libere di poter avere il controllo su ogni altra cosa, sui limiti autoimposti, sulla ragione, sui ricordi.
L'uomo si guardò attorno scorgendo nient'altro che un ambiente in balia delle onde, sebbene fosse cosciente del mancato senso di quell'assurda associazione come se davvero il mare o l'oceano potessero far ondeggiare un'abitazione, e accertatosi ancora una volta di essere completamente solo, toccato l'apice dell'ubriacatura, scoppiò in lacrime come forse neanche da bambino aveva mai fatto.
Lacrime calde, accompagnate da singhiozzi strazianti, perché oltre lo spesso strato di ghiaccio, oltre lo sguardo duro come una gemma e l'espressione severa, pulsava un cuore completamente umano e risiedeva un'anima sensibile più di quanto chiunque avesse mai potuto immaginare, Sherlock compreso. 
Questo era Mycroft Holmes come nessuno lo conosceva, come nessuno lo avrebbe mai conosciuto.





N.d.A.
Che dirvi? A chi è inciampato nelle mie precedenti OS sarà ormai palese il mio interesse nei confronti di Mycroft Holmes. Ancora una volta mi sono affidata a lui, ho provato ad ascoltarlo e a raccontarlo. Spero di non aver storpiato in alcun modo né lui, né Sherlock - il quale in questa storia è prima un bambino e come tale si comporta pur manifestando la sua spiccata intelligenza e poi un adolescente che affronta a suo modo i problemi che lo affliggono. Questa OS è un Missing Moment appartenente alla terza stagione della serie tv, come penso si sia compreso quando ho chiamato in causa Magnussen e Mary nei panni di "killer".
Per tutto il tempo della stesura ho ascoltato "Stillness Of The Mind", dalla colonna sonora di "A Single Man". Mi sento di consigliarvi tanto l'ascolto della traccia quanto la visione della pellicola.
Ringrazio tutti voi che siete arrivati fin qui e quanti decideranno di lasciare un segno del proprio passaggio.
Alla prossima!

   
 
Leggi le 11 recensioni
Ricorda la storia  |       |  Torna su
Cosa pensi della storia?
Per recensire esegui il login oppure registrati.
Torna indietro / Vai alla categoria: Serie TV > Sherlock (BBC) / Vai alla pagina dell'autore: Zury Watson