Storie originali > Giallo
Segui la storia  |       
Autore: Lilmon    08/11/2015    0 recensioni
Su un pianeta molto lontano dalla Terra, un gruppo autoctono di seguaci di una dea oscura chiamata Xanfer commette una serie di delitti che apparentemente sembrano essere del tutto scollegati. Starà al protagonista districarsi in questo groviglio di vicoli ciechi, per giungere infine a un'atroce conclusione.
Genere: Mistero, Science-fiction, Thriller | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
 <<    >>
Per recensire esegui il login o registrati.
Dimensione del testo A A A

II.

 

“Esperbar Ellasser karendemer,
esper dademer, esper kademer"

"L'unico ci ha concesso la Vita,
una ci diede, una ci tolse."

Quel versetto era inciso ormai già da quindici rivoluzioni nella sua testa, e da dieci vite umanoidi era stato cesellato nella nuda pietra da mani esperte che lo avevano curato in ogni minimo tratto e ricciolo. Riluceva dorato e trionfante sul bordo superiore di quella che doveva essere un'effige del dio. Lo sguardo torvo del vecchio custode sembrava spogliarlo di ogni antico misticismo, mettendolo completamente a nudo, come fosse poco più che un bimbo scrutato dagli occhi della saggezza. Egli lo analizzava, lo smembrava e ne assimilava anche le più piccole sfumature, come avrebbe fatto un matematico dinnanzi all'equazione della sua vita. Lo scrutava ormai da così tanto tempo che gli pareva di maneggiarlo meglio delle posate, che con mano tremante portava alla bocca. Ma di tutti i versetti che costellavano la sala ovale, di tutte le parole dei padri che erano incise su quei vecchi muri, quelle erano di sicuro le sue preferite. La tavola ovale di legno su cui aveva appoggiato mollemente i propri gomiti si estendeva per decine di metri sino alle due porte che sigillavano la stanza come volessero trattenere anche i più oscuri segreti che si celavano oltre alla loro mole. Quasi in fronte a lui sedeva il sacerdote, le sue cadenti carni traboccavano dallo scranno tanto che pareva si stesse sciogliendo su di esso. Era un umanoide di una settantina di rivoluzioni, vestito della classica tunica bianca sacerdotale, la quale non riusciva a celare l’abbondanza di quel corpo deforme. Sotto il suo naso adunco, la bocca sembrava dibattersi violentemente come un serpente reciso nel mezzo del corpo: il comportamento che Uxtor aveva mostrato al consiglio quel pomeriggio non era certo ammissibile ed egli non poteva permettere che la sua figura di mantenitore dell’ordine fosse messa nuovamente in discussione da quel vecchio custode rognoso. Perciò decise di abbandonare le posate sul tavolo e, dopo aver inspirato profondamente ingigantendo così la cassa toracica, si decise a parlare forte della sua grandiosità.
-Uxtor, ora che i fuochi degli animi si sono estinti e spenti sono anche i desideri delle carni, non riesco a trattenermi dal rimembrare ciò che è accaduto nel pomeriggio. Con rammarico sento di dover chiudere la questione ricordandoti che la tua condotta è stata biasimevole da parte dei tuoi confratelli e oltraggiosa verso i voti che concedesti agli dei-. Il sacerdote, nel proferire tali parole, cercava con lo sguardo il consenso dei consiglieri seduti al suo fianco, le cui bocche erano tese in una smorfia si scherno per il vecchio custode e di muta accondiscendenza per ciò che stavano udendo. -Pertanto, mio caro confratello, ti chiedo di scusarti con tutti noi, qui, cosicché anche gli dei possano constatare il tuo mutamento d’opinione e possano apprezzare la tua sofferta penitenza-. E concludendo così il suo discorso, tese l’indice destro verso il soffitto arioso della stanza, chiamando così gli dei a testimoni delle sue parole. I due consiglieri annuirono soddisfatti.
Quando poi fu calato il silenzio sui custodi, sembrò a tutti che il vecchio Uxtor non avesse colto nemmeno una singola parola del discorso del sommo sacerdote. Egli continuava a mangiare tranquillamente la minestra portandosi lentamente il cucchiaio alla bocca; le sue ispide sopracciglia erano aggrottate, ma pareva che non lo fossero più del solito. Di tutti e ventisette i confratelli, Uxtor era l’unico che si atteggiava in maniera tranquilla e disinvolta; in tutta la sala rimbombava il risucchio della sua bocca e, a seguire, il tintinnio metallico del cucchiaio sulla stoviglia. Vestar, il più anziano dei due consiglieri del sacerdote e quello che sedeva sempre alla sua destra, non riuscì a sopportare oltre l’arroganza del vecchio e, tutto tremante e infervorato d’ira, iniziò a parlare con un tono di voce molto alto e duro.
-Non è ammissibile. Non è ammissibile che un semplice custode possa proferire tali obiezioni alle regole secolari del nostro consolato. Dati i suoi precedenti era evidente che sarebbe accaduto! Mi vedo costretto a ripetere che sono ancora contrario alla sua ammissione a questo collegio, e mi chiedo come possa essere l’Astro così cieco. Anche alla sua somma benevolenza dovrà pur esserci un limite-. Vestar, sul finire del discorso, s’era alzato in piedi e brandiva minacciosamente il coltello nella mano destra, roteando la punta verso il vecchio custode. Il sacerdote dovette intervenire repentinamente con un gesto improvvisato, chiedendo al consigliere di abbassare la posata. Uxtor aveva finalmente smesso di sorseggiare la sua minestra, ma nonostante ciò non distoglieva lo sguardo dal piatto; stava infatti giocando con il liquido scuro, raccogliendolo con il cucchiaio, per poi farlo ricadere nel piatto.
Al suo fianco, sulla destra, sedeva Gardor, un piccolo personaggio, che tutto impaurito prese a parlare sottovoce, dopo essersi avvicinato un poco al custode.

-Uxtor, te lo dico perché ti sono amico: stai giocando con il fuoco. Io... Girano alcune voci sul tuo conto...-.
Quelle poche parole, sospirate a fatica, sortirono un più grande effetto sul vecchio umanoide che tutti gli altri discorsi intrisi di furore accademico. Egli si girò infatti verso il suo compagno e disse seccatamente a voce alta, -Quali voci Gardor?-. Tutti gli altri confratelli abbassarono docilmente lo sguardo.
A questa ennesima beffa da parte del confratello, il sacerdote Enderbar si vide costretto ad alzarsi in piedi, per evitare che Vestar potesse prendere qualsiasi iniziativa che sarebbe risultata pressoché bellica. Quando la sua mole fu libera dal giogo dello scranno, ergendosi come un monolite di pietra e guardando con aria severa il vecchio dalla sua cima maestosa, prese a dire -Uxtor, il tuo comportamento e le tue parole sono inammissibili in questa sede. Ti prego pertanto in nome di tutti i nostri carissimi confratelli di calmare i tuoi bollenti spiriti e di pentirti, altrimenti-, ma le parole del sacerdote furono bruscamente interrotte dal vecchio che finalmente si decise a rispondere -Altrimenti cosa?-.
Le vene del collo di Vestar sembravano sul punto di esplodere, in un effluvio vermiglio, e i suoi occhi parevano non trovare più dimora all'interno delle cavità del suo volto. Egli prese ad urlare -Non permetterti più di interrompere il sommo sacerdote! Altrimenti- ma il suo discorso fu nuovamente interrotto dalla stessa identica frase, ma ripetuta con un tono di voce assai più alto della volta precedente, -Altrimenti cosa?-. Uxtor si era alzato in piedi e aveva appoggiato entrambe le mani alla tavola, sporgendosi verso il suo interlocutore.
Enderbar si era alzato dal suo scranno e aveva preso a battere le mani e a ripetere –Calma! Calma!- affinché tutti i suoi confratelli quietassero i loro ardenti spiriti. Riconquistata dunque la pace all’interno dell’imponente sala da pranzo, egli riprese a parlare, dicendo -Uxtor, caro custode, sai anche tu che, nonostante l’asprezza dei termini utilizzati dal reverendo Vestar, egli ha pienamente ragione e con lui io non posso che trovarmi in accordo. Dall’alto delle tue ottantaquattro rivoluzioni mai mi sarei aspettato di udire parole così vili contro gli dei padri e soltanto in questa triste circostanza inizio a intuire la causa del tuo interminabile girovagare di gilda in gilda, cui nemmeno l’Astro riesce a porre fine-. Nella pausa in cui il sacerdote dovette riprendere fiato, dal fondo della tavola ovale si levò una voce indistinta che affermò –Il tempo logora le carni, ma lo spirito rimane spesso saldo-. Così il sacerdote si voltò verso destra, lanciando occhiate di fuoco quali nemmeno il generale degli inferi avrebbe potuto aspirare; poi riprese –Disonorando gli dei, hai anche disonorato i patriarchi del nostro ordine e le sacre e fondanti scritture di teologia su cui i nostri precetti si fondano. In migliaia di rivoluzioni i custodi del cielo che ti hanno preceduto hanno sondato l’infinità dello spazio che Ektabar e Plessofer ci donarono per volere stesso dell’Unico all’inizio della creazione. Nonostante le immense difficoltà e gli sconfortanti insuccessi incontrati in questo lasso di tempo immemore, la nostra confraternita non ha mai smesso di puntare gli occhi al cielo notturno, anelando alla vista della dea. E per tali ragioni, forte dei tuoi voti, come loro anche tu non dovresti demordere dalla ricerca ma anzi, procedendo con spirito saldo e con mente lucida, essere piuttosto pronto al sacrifico della tua vita per il bene ultimo del nostro credo-.
Quando Enderbar ebbe finito il suo discorso di rimprovero, Uxtor s’era già seduto sulla sua seggiola e pareva meditare silenziosamente fissando il vuoto. Ma ad un tratto, con un gesto rapido, egli alzò la testa e, guardando il sacerdote negli occhi, disse –Non la troverete mai, non perché non esiste, ma semplicemente perché lei è tra noi-. Il volto del vecchio custode non avrebbe potuto sembrare più sereno.
Vestar accolse queste parole come una nuova e scintillante effige di guerra e, alzatosi dalla sedia in preda a una risata isterica, disse a gran voce rivolgendosi ai confratelli –Egli dunque afferma ora che Arwafer è “tra noi”. Intende dunque che la dea è una semplice mortale? O peggio, forse che ella è una Tork, paragonabile più a una bestia che a un umanoide. Non riesco nemmeno a pronunciare tali scempiaggini, perché, al contrario suo, io serbo somma reverenza verso gli dei padri. Ebbene, confratelli, io dico che costui è pazzo e che dobbiamo proteggerci allontanandolo dalla nostra gilda, come altri d’altronde hanno già fatto, prima che il seme della follia si sparga su questo suolo e germogli, portando rovina in questa confraternita-. Gli sguardi dei confratelli sembravano appoggiare mutamente le parole dell’anziano Vestar, il quale aveva mutato l’espressione isterica in una che lasciava trapelare una certa soddisfazione.
Ma Uxtor non volle lasciare che quella soddisfazione invadesse l’animo del vecchio trasformandosi lentamente in una consapevolezza di vittoria; perciò, raccolte le idee, disse –Reverendo Vestar, sommo sacerdote, ammettiamo che io mi sia sbagliato accecato dello sconforto; permane comunque la questione secolare delle dimensioni, su cui nemmeno i patriarchi sembrano concordare-.

A quelle parole la sala ammutolì del tutto, la questione delle dimensioni di Arwafer era un problema che rimaneva aperto e irrisolto dal principiò della civiltà. Dalla scrittura degli “Arwaferna Kapor”, letteralmente “I Libri della Vita”, nessuno era mai stato in grado di argomentare appieno le sue teorie e affermazioni, soddisfacendo così il panorama culturale della sua epoca storica. I primi patriarchi, infatti, dopo attente osservazioni astronomiche, condotte con lo scopo di determinare la forma di Pumbar, traducibile come “il Padre”, conclusero che esso doveva possedere senza ombra di dubbio le sembianze di un’enorme sfera. Essi infatti trassero le loro conclusioni semplicemente dallo studio degli altri corpi celesti che li circondavano: manifestandosi Manfer, la Madre, come un disco luminoso perso nel cielo e i suoi due figli Esperfer, la Prima, e Derbar, il Secondo, come due dischi di cristallo che risplendevano di una luce più fioca di quella della madre; i patriarchi conclusero che anche Pumbar, appartenendo a quella stessa progenie divina, dovesse anch’esso dunque manifestarsi sotto le sembianze di un disco a cui Arwafer aveva concesso in dono la vita. Ma gli studi astronomici non si conclusero ed essi si accorsero presto che il volto che le due lune mostravano loro pareva non solo mutare con l’avanzar del tempo, ma possedere anche una sua periodicità ciclica. Il primo ad accorgersi di questa bizzarria fu il patriarca a cui i Kapor assegnano il nome di Elpor, un umanoide originario delle cosiddette Lande Desertiche; sulle sacre scritture è infatti riportato che egli fu il primo tra la stirpe degli umanoidi ad accorgersi della vera natura di Pumbar e della sua. Si tramanda infatti che egli iniziò a osservare anche il mutare temporale delle ombre che Esperfer proiettava su Derbar in alcuni particolari giorni della rivoluzione di Pumbar; attraverso una serie di disegni che sono ancora oggi minuziosamente riportati sui Kapor, concluse che nessuna forma discoidale avrebbe mai potuto proiettare ombre così perfettamente circolari se colpita di sbieco da una fonte luminosa, poiché l’ombra sarebbe risultata alquanto deformata, non avendo il disco uno spessore importante. Perciò egli si vide costretto dall’evidenza della realtà circostante ad ammettere che quelle divinità celestiali si presentassero ai suoi occhi sotto forma di sfere eternamente roteanti. Nei testi sacri è inoltre riportato che alla follia che venne contestata alla sua scoperta egli rispose ”Non è discorrere spinoso affermare che la divin progenie di forma sferica sia; qual forma è più perfetta e imperitura di codesta?”. Questo riportano i Kapor sulla forma del pianeta, del suo sole e delle sue lune, e proprio da questa scoperta nacque il secolare problema delle dimensioni della dea Arwafer.

I patriarchi dunque, analizzando il primo libro dei Kapor, iniziarono a chiedersi quale aspetto avessero gli dei primogeniti, questione di cui non si faceva pressoché menzione nel primo libro. Ad esso infatti seguitava un secondo libro, ben più dettagliato, che probabilmente era stato redatto in tempi successivi a quelli del primo; esso narrava appunto dei quattro giganti nati dall’effusione dello spirito di Arwafer con le antiche macerie del padre Ordubar, della progenie divina che costei diede in custodia a Pumbar e delle guerre per la supremazia che costoro condussero alla famiglia di ospiti. Essi perciò conclusero che gli dei potevano essere distinti in due categorie: i giganti, o titani, di cui facevano parte gli dei primogeniti, e gli umanoidi, ovvero la progenie di Arwafer che aveva preso dimora su Pumbar. Il motivo di tale distinzione è scritto nei libri finali dei Kapor, in cui i patriarchi scrissero:

“Due nature la matrice divina s’impose
godendo i primi dello spirito di Esperbar
e della loro diretta discendenza per nascita,
paragonabili in dimensioni furono per vicinanza:
Ektabar, Plessofer, Ellasser, Ordubar, Xanfer

e Arwafer, che di entrambi possedeva tratti.
Gli altri che succedettero, lontani si posero
dalla sua luce divina e in ragion di tal accordo
costretti in più minuti corpi ebbero gli animi
che poco più di frammenti dell’unico1 erano.”

1.      “dell’unico”: in alcune edizioni tradotto anche con “Esperbar”.

E infatti il corpo dei Kapor, essendo stato scritto in epoche differenti, distanti anche decine e decine di rivoluzioni l’una dall’altra, spesso è fonte di innumerevoli contraddizioni. In un passo dello stesso Elpor Arwafer non sembra essere equiparabile agli altri dei primogeniti; egli argomenta così la sua affermazione:

            “Assumendo che costei possa in dimensioni essere paragonabile agli altri dei che prima di lei mosser lor passi nel freddo universo; causa le dimensioni titaniche di cui necessita Ordubar affinché di sua discendenza siano Pumbar e sua progenie, si deve dunque postulare che per costei paragonabili a granelli di sabbia dovettero esser i quattro ospiti. Come avrebbe mai potuto scorgerli nell’universo? E ancor, dar loro vita e progenie simile a noi nella forma? Per non sembrar matto il mio favellare, devo dunque ammetter che Arwafer ha solo la seconda natura caduca.”

Mentre è assai famoso il passo in cui il patriarca Alkor, delle Montagne del Nord, elogia la matrice divina della dea. Egli infatti scrive:

            “Quantunque costei non discese per linea retta da Esperbar, respira il suo stesso fiato e della sua mente fulgida i pensieri percepisce. Più focoso dev’esser dunque l’animo in lei di qualsiasi altro dio e paragonabile a lui dev’essere senza dubbio anche per forma corporea.”

In questa pericolosa discussione, che affondava le sue radici nelle sabbie del tempo, si erano dunque addentrati i confratelli, i quali parevano essere una ciurma in un mare in tempesta che, presa dall’invidia e dai dissapori, non s’accorge dell’affondare della sua nave.

            Il silenzio regnava ormai da alcuni minuti nella sala da pranzo, solo gli occhi del reverendo Vestar sembravano voler prorompere in un urlo d’ira che avrebbe di certo lacerato gli animi dei commensali. Il Sacerdote Enderbar, che pareva aver rimuginato sull’intera esistenza in quel tempo esiguo, fu il primo a prendere parola, sebbene sembrasse non credere nemmeno lui a ciò che stava per dire.
–Carissimi confratelli; perché dovremmo farci questo? Proprio noi, che siamo legati da patti indissolubili, incatenati alla sacralità del nostro sangue. Perché dovremmo iniziare una così burrascosa discussione, e sprofondare in questioni rimaste irrisolte persino agli occhi rivelatori dei patriarchi?-.
A queste parole seguì la risposta pronta e salda del vecchio custode; pareva infatti che in quell’istante la tempesta che poco prima gli sconquassava il petto si fosse placata. Egli disse –Nobile Enderbar, la risposta è semplice-. A queste parole Vestar trasalì e proruppe urlando –Fatelo tacere! O, sommo Esperbar!-. Ma Uxtor, come non fosse accaduto nulla, continuò –I patriarchi si sbagliarono. E voi tutti state facendo lo stesso errore: abbagliati dalle vostre credenze, o piuttosto certezze, fondanti su un terreno arato, rivoltato e rimestato da secoli e secoli, non vi rendete nemmeno conto che tutto ciò che è stato seminato, tutto questo marasma di nozioni e di precetti, non ha portato ad alcun frutto, poiché il terreno su cui coltivate la vostra mente è avvelenato e nulla vi può sopravvivere, se non menzogne e false verità-.
Tutti i commensali si pietrificarono all’udire un tale discorso, ma il Sacerdote Enderbar fu pronto a rispondere prima dell’anziano Vestar, che non avrebbe certo potuto rispondere delle sue parole. Egli rispose -Uxtor, ciò che tu hai affermato è molto grave, non solo hai insultato i Patriarchi, ma hai insultato tutti noi, tutta la gilda, tutto l’ordine e non solo, tutta la confraternita. Hai deriso le parole dei sacri Kapor e il meticoloso lavoro e la sapiente ricerca compiuta dai tuoi confratelli in centinaia e centinaia di rivoluzioni-. Vestar non poté sopportare oltre la docilità di quelle parole e proruppe –Sarai giudicato e sarai cacciato da questa gilda e da tutte le restanti appartenenti a qualsiasi ordine della nostra confraternita, sarai un reietto e solo allora il nostro credo sarà al sicuro da te e dalle tue immonde parole. Non ti sarà più permesso di infangare l’immagine degli dei. Io te lo giuro!-.
Mentre tutti i suoi confratelli parevano esser diventati nulla più di sagome scenografiche, Uxtor sorrise amaramente, nonostante i pesanti sguardi di Enderbar e di Vestar, e rispose –Anche ora non riuscite ad ascoltare le mie parole. E badate bene, non ho detto sentire, ma ascoltare. Tutto ciò che riuscite a cogliere è unicamente l’apparenza di ciò che vi si para d’avanti agli occhi, mentre il suo aspetto intrinseco rimane celato alla vostra vista. Per centinaia di rivoluzioni avete cercato tra le stelle, affinché i vostri occhi fossero colmati dalla sagoma della dea, mentre non riuscite ancora oggi a scorgere la verità tra le righe di vecchi libri zeppi di miti. Ma è anche vero che questo è proprio ciò che permette alla verità di essere al sicuro da sguardi ciechi come i vostri.-

Il Sacerdote era ammutolito, come il resto della sala, e solo Vestar pareva sorreggere il peso di quelle parole. Nonostante si fosse già diffuso tra tutti il presentimento, egli solo, al contrario degli altri, serbava nell’animo l’oscura verità a cui si aggrappava saldamente; e infatti solo grazie a essa riusciva a fronteggiare quello che ormai ai suoi occhi appariva, non più come un confratello, ma piuttosto come un nemico. Tutti gli altri erano dunque destinati a soccombere all’oscurità, aspettando che il presentimento si mutasse in verità; e proprio per tale ragione, per la salvezza della gilda, il venerando Vestar infranse il suo giuramento e, lasciando che i suoi pensieri si traducessero lettera per lettera in parole, disse –Maledetto separatista-.

  
Leggi le 0 recensioni
Segui la storia  |        |  Torna su
Cosa pensi della storia?
Per recensire esegui il login oppure registrati.
Capitoli:
 <<    >>
Torna indietro / Vai alla categoria: Storie originali > Giallo / Vai alla pagina dell'autore: Lilmon