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Autore: cartacciabianca    24/02/2009    3 recensioni
Desmond le viene strappato via all'improvviso e Giorgia non sa di che rispondere alle minacce dei misteriosi rapitori, i quali la costringono al silenzio attraverso una messaggistica segreta: e-mail, telefonate anonime, bigliettini nei posti più impensabili... Non resta alto che aspettare, aspettare che nessuno venga a prendere anche lei o minacci oltremodo di uccidere il suo ragazzo.
Otto mesi più tardi la sparizione del suo amato, gli stessi strambi tizi la contattano annunciandole che Desmond tornerà presto a casa.
Su di loro cadde un silenzio pieno di sottintesi. C’erano tanti punti da chiarire, tante domande da farsi prima di abbandonare le proprie speranze nelle mani altrui.
Desmond dipendeva da Altair e Altair dipendeva da Desmond. Ognuno nel tempo dell’altro, se la sarebbero vista con i problemi quotidiani di due vite l’una molto differente dall’altra.
-E così- rise Altair. –Me la ritrovo nuda, la tua ragazza…- bofonchiò.
Desmond sorrise. –Qualcosa mi dice che non ti dispiace affatto!-.
L’assassino condivise la sua gioia. –Vedrò di… trattenermi- fece malizioso.

Gli effetti collaterali al trattamento possono assumere diverse sfumature su ciascun paziente. Il soggetto 17 soffre di "sdoppiamento di personalità". La coscienza del suo antenato si capovolge alla propria nei momenti meno opportuni così da creare situazioni drammatiche ed imbarazzanti. Ma quando il gioco diventerà una triste realtà ci sarà un ultimo viaggio, e poi i tasselli del puzzle resteranno scambiati per molto allungo. Comincia la caccia ai farmaci che l'Abstergo custodisce nei suoi laboratori, unici medicinali che possono riportare tutto alla normalità. Giorgia, accompagnata dalla coscienza di Altaïr che ha preso piede nel corpo di Desmond, dovrà vedersela con un addetto alla sicurezza senza scrupoli e i suoi scagnozzi. Alex Viego farà di tutto per proteggere la segretezza del progetto, ma Giorgia lotterà con le unghie per riavere il suo Desmond. [CONCLUSA]
Genere: Azione, Mistero, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: Altaïr Ibn-La Ahad , Desmond Miles , Lucy Stillman , Nuovo personaggio
Note: AU, OOC, What if? | Avvertimenti: nessuno
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Andata e ritorno












Il sole entrava dalla finestra violento, ignorando le tende che mi ero dimenticata di arrotolare per bene. Il silenzio di quella stanza era diventato fastidioso, ma a rallegrarmi giunse alle mie orecchie il miagolio di Finger. Il gatto nero si lamentava affamato strusciandosi contro la porta accostata della camera da letto. Guardai all’orologio sul comodino che segnava le 8 di mattina e sorrisi.
Mi stiracchiai tra le coperte, allungando un braccio nel vuoto alla mia destra. Accarezzai le lenzuola candide e fresche, sfiorai il cuscino senza pieghe, strinsi il piumone tra le dita. Da lì a poche ore non avrei più sofferto: mi eri mancato tanto. Mi erano mancati il tuo sorriso, la tua allegria, le tue battutine la mattina e il tuo orribile caffè. Da lì a poche saresti tornato da me, tra le mie braccia, e avrei rivisto il tuo corpo perfetto riflettersi nello specchio del bagno, mentre ti facevi la barba. Dio, mi ero sentita dilaniare in quegli ultimi mesi. Parlare con i nostri amici e sentirmi chiedere come stavi, o dove fossi finito. Ma io non potevo rispondergli.
Mi sollevai col busto, sedendo a gambe incrociate sotto le coperte. Guardai il cielo azzurro fuori dalla finestra, ammirai il panorama di New York e contai i suoi mille grattacieli luminescenti.
Quale sarebbe stata la tua espressione nello scrutare la strada chiassosa sulla quale affacciava il nostro appartamento?
Chissà se ti saresti ancora lamentato di quanto il materasso fosse duro, ma l’avevamo scelto insieme, tu mi avevi assecondata nel dirti che lo preferivo così; e il mio animo spartano ti era sempre piaciuto. Tu mi amavi, tu eri il mio piccolo grande eroe, il mio barista preferito, la nocciola caduta nel cioccolato della mia vita.
-Miao- piagnucolò Finger, e subito dopo balzò sul letto infilandosi tra le mie gambe accavallate.
Lo accarezzai fino alla punta della coda. Era il nostro gatto. Si chiamava Finger perché mia zia aveva chiamato suo fratello James Bond. Gold Finger era suo fratellino minore, ora il nostro gatto nominato Finger per approssimazione. Una grattata dietro le orecchie: il pelo lucido e nero, i baffi stirati e lucidi, gli occhi giallo elettrico e le sue fusa infinite. Soffriva anche d’asma ogni tanto, e mi ricordavo bene di come ti piacesse prenderlo a calci quando tossiva palle di pelo nella stanza da letto. Nella nostra stanza da letto.
Strinsi il gatto a me e scivolai sul bordo del letto. Poggiai i piedi scalzi a terra e mi sollevai sulle mie gambe con la bestiaccia poggiata su una spalla.
Finger si divincolò dalla stretta e si lanciò sul pavimento di legno chiaro, scappando verso il salotto.
Sospirai, osservando il mio riflesso sul vetro della grande finestra.
I capelli ondulati, castano scuro, mi cadevano sulla schiena. Non erano molto lunghi, ed eri stato tu a suggerirmi di tagliarmeli. Sì, me li ero tagliati, ma otto mesi prima… ora erano ricresciuti. Le mie labbra chiare e allungate in un sorriso malinconico, i miei occhi stanchi che ti immaginavano lì al mio fianco, che mi stringevi a te. Mi mancavi tanto… poche ore, mi ripetevo, potevo resistere.
Il mio corpo sentiva la tua mancanza peggio del mio animo. Sì, scommetto che lo senti anche tu, pensai: le tue carezze timide sul mio collo, le tue labbra sulle mie. Ragazzo, quanto mi mancavi! Lo gridai in me tante volte, l’avevo gridato tante volte. Ma tu non potevi sentirmi, chiuso nella stanza in cui ti tenevano prigioniero.
Andai in bagno. La tavoletta del gabinetto era abbassata. Risi, perché ricordavo ti piacesse indispettirmi lasciandola apposta alzata. I tuoi asciugamani erano rimasti gli stessi e dove li avevi lasciati senza utilizzarli per otto mesi, raggruppati sulla mensola in modo casuale e disordinato.  Un’occhiata alla doccia. Potevo sentirla scrosciare di quando c’eri tu dentro ed io ti preparavo la cena in cucina. Mi ricordai di quanto ti piacesse girare per casa con solo l’asciugamano allacciato alla vita a coprirti. Ti vantavi dei tuoi muscoli e mi ronzavi attorno come se stessi tentando di abbordarmi come la prima volta. Che stupido, ero stata io a sudare per farmi notare da te, che prima d’incontrarmi eri così altezzoso e con la testa tra le nuvole, sognando roba da ragazzini come una macchina lussuosa e tante donne. Io ero la tua unica donna, la tua ragazza preferita, e tu con me avevi condiviso tutto, ogni parte di te e di quello che la tua ignota famiglia ti aveva lasciato. Io, in cambio, ti avevo trascinato in casa un gatto che scattava al miagolio sulla mezza notte circa.
Finger saltò sul lavandino e cominciò a fissarmi con le sue pupille sottili. M’implorava di dargli da mangiare, ma non si aspettava che lo facessi: ero molto stronza, a riguardo. Eppure, ero certa che la sua ciotola in cucina fosse ancora piena di croccantini. E l’umido costava un botto di soldi.
C’era il tuo spazzolino accanto al mio, e avevi la mania di usare il mio stesso dentifricio costringendomi ad usare il tuo quando il nostro prediletto finiva. Quanto eri stupido, ed erano i tuoi atteggiamenti trasandati e ottusi che mi facevano impazzire di te. Mi mancavi.
Perché non riuscivo a sentirti vicino quando sapevo che tu percepivi lo stesso di me? Perché le nostre menti erano così distanti, nonostante entrambe fossero in astinenza dall’altra? Eravamo come i gemelli.
Cominciai a spogliarmi della canottiera nera e dei pantaloni bianchi del pigiama, ripiegando tutto per bene.
Entrai nella doccia… l’acqua calda chiamava il dolce ricordo di quando l’avevamo fatto in quello stretto spazio chiuso da due pareti di plastica. La violenza del getto mi pungeva la pelle, la condensa oscurò lo specchio e Finger scappò nel corridoio di corsa.
Terminato il lavaggio, mi avvolsi nell’asciugamano bianco e raggiunsi la cucina.
Misi l’acqua calda sul fuoco, preparai la tavola per uno afferrando una tazza dagli scaffali in alto, accanto ai fornelli. Quando il bollitore prese a fischiare, mi stavo asciugando i capelli col phon nella nostra stanza da letto. Staccai la spina poco soddisfatta della pettinatura, e corsi a prepararmi il the.
Immersi la bustina nell’acqua calda che avevo versato nella tazza e accompagnai la colazione con alcuni biscotti.
Finger balzò sul tavolo, avvicinandosi al biscotto vicino al mio gomito. Annusò con cautela prima di allungare la lingua, ma lo fermai in tempo gridando: -Micio! No!-.
Il gatto fuggì dietro al divano del salone.
Che silenzio assurdo. Avevo voglia della tua presenza, un gatto o un cane non mi bastavano! Era come desiderare un videogioco nuovo…
Mi guardai attorno. Ti desideravo seduto su uno dei due divani sistemati ad U accanto alle vetrate e davanti alla televisione. Oppure a giocare alla play station tranquillo e sorridente. Ed io avrei voluto essere lì a sfidarti a Resistence. Erano otto mesi che non toccavo joistik, spazzavo regolarmente le ragnatele, ma quando fossi tornato avrei dovuto regalarti l’ultima uscita Sony. Ormai la nostra console sapeva di vecchio.
L’ingresso, oltre il quale erano passati pochi corpi incluso il mio. Avevo cercato di consolarmi invitando quanti più conoscenti abitavano ancora questo distretto della città. Ero finita per deprimermi al meglio, perché senza di te non c’era mai stata la vera festa. Anche quando organizzavi dei party al pub e tu eri quello che si era sentito male la sera prima. Io ti restavo accanto, come un’infermiera, ma ricevevo chiamate continue dei nostri amici che si lamentavano di quanto il servizio al bar fosse scadente senza di te. Loro ci scherzavano, ci ridevano quando ti portavano i loro saluti mentre tu eri sdraiato a letto con la febbre. Sì, mio caro, sapevamo bene entrambi che ti piaceva uscire con indosso solo il tuo giubbotto anche a –20°. Eri un folle, eri la mia pazzia.
Che tristezza mi facevano quei quadri della mia famiglia. Guardarli senza i tuoi commenti sfacciati sul volto del mio trisavolo era come fissare il vuoto dell’oceano. Mi ci perdevo, negli occhi della mia famiglia, come mi perdevo nelle foto sui mobili. Mi arrampicavo su di esse scivolando da un ricordo ad un altro della nostra adolescenza che non sarebbe mai finita. In quelle foto, dove c’eravamo solo io e te, amavo perdermi, ma con te affianco. Eri un tipo superficiale, non davi certo ascolto alle mie parole di scrittrice di romanzo quando rovesciavo dalla prosa la nostra vita. Amavo rinfacciarti l’aspetto poetico del nostro amore e tu, come tuo solito, sbuffavi; per poi abbracciarmi e baciarmi con voracità.
Avevo voglia dei tuoi baci, dei tuoi tocchi rabbiosi su di me quando ti facevo arrabbiare. Sì, sì. Era deciso: non appena fossi tornato a casa, ti avrei fatto incazzare di brutto. tu mi avresti gridato contro, ma saremmo comunque finiti a farlo sul tappeto del corridoio.
Terminata la silenziosa bevuta e la raccolta della mia vita, mi alzai, gettando la tazza nel lavandino e allungandomi verso la nostra stanza.
Mi vestii in fretta, notando che tirando un pensiero dopo l’altro si erano già fatte le 11 di mattina.
Ripiegai il letto con cura. Quella notte mi sarei addormentata su di te, cosa che in quegli ultimi otto mesi non avevo fatto altro che sognare.
Sbattei i cuscini e spiegai per bene il copri letto, accertandomi che non ci fosse alcuna piega se non quelle che causò Finger accoccolandosi sul tuo cuscino.
Corse letteralmente nel corridoio. Una volta all’ingresso, mi avvolsi del mio cappottino nero e presi le chiavi di casa cacciandomele nella tasca dei jeans scuri assieme al cellulare.
Quante volte avevo provato a chiamarti ma non mi era stato concesso parlarti? E perché? Oggi avrei saputo la verità su di te e su cosa ti era successo, giurando sulla mia fedina penale e la mia stessa vita che non avrei rivelato nulla a nessuno.
C’era un biglietto di cartoncino bianco sopra la posta. Conoscevo bene quel biglietto, e anche il marchio argentato che vi era sopra.
Lo strinsi tra le dita, girandolo.



02/04/2013
Ore 12.30
Freedom Way (NY)
Ti ridaremo il ragazzo



Ero spaventata.
Freedom Way, davanti a Liberty Island. C’era un parcheggio, l’avevo visto su google maps. Era piuttosto lontano, ma mi ero studiata per bene la strada di andata e ritorno.
Uscii di casa, battendomi nervosamente il cartoncino sulla coscia.
Quei pazzi mi avrebbero ridato il mio Desmond.

Mi parcheggia attenta tra le strisce bianche. Arrestai il motore, e fui certa che anche il mio cuore aveva perso un colpo.
C’era un’auto nera parcheggiata lontano da tutte le altre vetture, compresa dalla mia. Era una 4x4 spaziosa dai finestrini oscurati.
Scesi e chiusi la portiera nel più silenzio possibile. Il cartoncino nella tasca dei pantaloni mi pareva stesse prendendo fuoco per quanto ero terrorizzata.
Mossi i primi passi in quella direzione, sotto il sole cocente del mezzogiorno. Dei bambini facevano il giro del quartiere in bicicletta, un gruppo di adulti si stavano fumando una sigaretta ciascuno appoggiati al muro dell’edificio alle spalle mie spalle.
Per te avrei fatto qualunque cosa, anche puntare contro ai tuoi rapitori un’arma. Perché non ci avevo pensato prima?! C’era una 9 millimetri nel cassetto del comodino accanto al tuo lato del letto. Desmond, sto venendo a prenderti, a mani nude, ma sto venendo e vorrò sapere tutto quello che ti è successo, così da far bollire in me il doppio della rabbia che ho tenuto dentro in tutti questi mesi.
La porta del passeggero della jeep si aprì, ne uscì un uomo in giacca e cravatta nera che venne verso di me con una valigetta stretta nella mano.
Indietreggiai, spaurita.
L’uomo indossava degli occhiali da sole, le scarpe linde ed impeccabili. Mi porse la valigetta e io l’afferrai tremante. –Alex Viego?- domandai in un sussurro.
L’uomo annuì, e mi strinse l’altra mano. –Nella valigia troverà i suoi effetti personali. Desmond Miles è stato utile al Paese, Signorina Forks- sorrise.
-Dov’è?- lanciai un’occhiata alle spalle di Alexander.
-Oh, il mio assistente gli sta illustrando le ultime novità- disse. –Pazienti ancora qualche istante-.
Non diedi ascolto alle sue parole, piuttosto feci scattare le serrature della valigia.
Dentro il piccolo bagaglio c’erano dei quaderni, dei libri, qualche penna e dei fogli scarabocchiati. Se il mio Desmond si era messo a leggere, voleva solo dire che si era annoiato parecchio.
C’era una foto che riconobbi bene, buttata lì come gli altri oggetti e stropicciata. Eravamo noi sull’ingresso del tuo bar, con i nostri amici attorno. Tu sorridevi stringendomi sotto braccio. A quel tempo non stavamo ancora insieme, ma eravamo grandi amici. I migliori amici…
Mi vennero le lacrime, ma cercai di trattenermi, richiudendo la valigia di fretta.
Voltandomi, mi luccicarono gli occhi.
Eri tu, che venivi verso di me e il signor Viego con il tuo solito passo neutrale. Il tuo viso scuro, il tuo mento perfetto e il naso che più volte aveva sfiorato il mio si avvicinavano. Oh, Desmond, vederti sorridere nel notarmi mi fece fare un tuffo in Paradiso. Indossavi gli abiti con cui ti avevo visto l’ultima volta: la felpa bianca, candida e i tuoi soliti jeans. Per otto mesi con gli stessi vestiti, non m’importava quanto avrei dovuto strofinarti la schiena per farti tornare pulito!
Mi lasciai scivolare di mano la valigia e ti corsi incontro trattenendo il fiato.
A pochi passi da te, spiccai un balzo e mi appiccicai al tuo collo.
Colto alla sprovvista, facesti un passo indietro riacquistando l’equilibrio.
Sospirai quando le tue braccia si strinsero attorno ai miei fianchi e le tue mani mi accarezzarono la schiena. Mi erano mancate quelle mani.
Profumavi, e mi avvinghiai con più forza a te facendo aderire completamente il mio corpo al tuo. Immersi il viso accaldato nell’incavo del tuo collo, inspirando a fondo l’odore della tua pelle. –Desmond…- sussurrai il tuo nome nelle lacrime, affondando le unghie nella stoffa della felpa. Riuscii a crederci a stento.
-Ciao, piccola- dicesti tu, spingendo la tua guancia contro la mia fonte. –Mi sei mancata- aggiungesti, e ascoltai la tua voce tremare dalla commozione almeno quanto la mia.
-Anche tu!- e a quel punto scoppiai a piangere, davanti a te e a quel certo Alex Viego che si allontanava verso la macchina. L’uomo rimontò in sella e la 4x4 scomparve su Freedom Way. Già… la via della libertà.
-Sono libero!- gioisti tu guardandomi negli occhi. –E… voglio raccontarti ogni cosa- t’incamminasti e raccolsi la valigia con i tuoi effetti personali.
Mi passai la manica della giacca sul volto, asciugando l’acqua che calava sul mio volto. –Sì, lo vorrei tanto!- sbottai in un misto di divertimento e paura.
Tu mi stringesti ancora, fin quando non ci accertammo entrambi che quello non fosse un sogno.
Mi tenesti sottobraccio nel raggiungere la mia macchina, e ti accomodasti al volante.
-Otto mesi di merda- borbottasti, ed io pensai la stessa identica cosa nel guardarti mettere in moto.
I tuoi occhi incontrarono ancora i miei, ma avevi un atteggiamento diverso, uno sguardo che non seppi decifrare. Cosa volevi intendere fissandomi così? Perché durante tutto il tragitto verso casa non mi rivolgesti più la parola? Stavi forse mettendo in ordine le idee? Come avrei potuto aiutarti? Desmond, io volevo sapere cosa ti era capitato! Ma soprattutto, sapevo che dopo quello che ti era successo saresti radicalmente cambiato. Nonostante ciò, avrei lottato con le unghie per riaverti come ti ricordavo e come ti avevo amato. Desmond, non voglio allontanarmi da te a causa di questo ignoto Progetto Animus di cui so poco e niente. Desmond, raccontami! Ma tu non dicesti nulla, neppure quando salimmo nel nostro appartamento e tu ti guardasti attorno come non riconoscendo dove ti trovavi.
Sperduto come un bambino che cammina per la prima volta, ti aggiravi per la casa tentando di riacquistare familiarità coi sapori di dolcezza che avevamo passato assieme tra quelle mura.
Io ti osservai in silenzio, appoggiata alla parete del corridoio con  le chiavi e il cellulare ancora nella tasca dei pantaloni, ripensando al cartoncino che il giorno seguente avrei bruciato per strada.
Finger venne a strusciarsi sulla tua gamba, e tu lo issasti tra le tue braccia. Lo accarezzasti poco e lo riappoggiasti a terra.
-Ti prego- ti venni vicino. –Ora devi dirmi tutto. La notte non chiudevo occhio e ogni giorno, pesandoti lontano quando il sole brillava nel cielo, la mia paura cresceva. La gente implicata in queste storie non ne esce mai viva!- balbettai, e la mia pena ti fece avvicinare a me, così che il tuo corpo avvolse ancora una volta il mio.
-Fai bene ad avere paura di questa gente- mi sussurrasti all’orecchio. –Per tornare qui ho dovuto… fare quello che non credevo possibile-.
Io mi scansai da te lentamente, colpendoti col mio sguardo confuso.
Tu proseguisti: - Avrebbero potuto uccidermi, ma non l’anno fatto. Al posto della mia vita, li ho messo nelle mani quella di qualcuno più importante. Una spia infiltrata nel progetto. Lavorava come segretaria all’uomo che si occupava di me e di quello a cui servivo. Si chiamava Lucy. Lei non aveva nessuno, io avevo te. Raccontando che Lucy era il pezzo grosso di un’associazione… clandestina, quelli del progetto l’hanno presa e sbattuta chissà dove se non ammazzata. È stata lei a chiedermelo, è stata lei ad offrirmi la libertà. Le dobbiamo tutto questo entrambi…- dicesti serio.
Restammo in silenzio, perché non c’era molto da dire. Forse domandare oltre non era una buona idea, mi dissi, perché il mio ragazzo mi sembrava stanco.
-Ora scusa, davvero…- mi dicesti sfiorandomi la guancia appena. –Non… mi sento… bene- andasti verso la stanza da letto, muovesti dei passi verso le lenzuola e ci crollasti sopra di schiena. Ti sfuggì un sospiro di sollievo, come se le tue giovani gambe da bambino non fossero più in grado di portarti oltre. Desmond, avrei voluto che mi dicesti di più, ma potevo capirti bene. Eravamo sconvolti, entrambi, e questo avrebbe pesato per sempre sulla nostra vita che non sarebbe più stata la stessa.
-Vuoi- mi appoggiai all’ingresso della camera, e tu sollevasti poco il viso verso di me.
-Hmm?- domandasti con gli occhi.
-Vuoi che ti prepari qualcosa da magiare? O un the… insomma, ti vedo… sciupato- ti confessai e tu, per mia sorpresa, annuisti, dandomi l’ordine di andare in cucina e lasciarti da solo.
Eri alla mia portata, e non volevo di già allontanarmi da te! Desmond, eri davvero capace di farmi questo? Non mi leggevi nel corpo e nell’animo che avevo bisogno di molto di più! Ed io, egoista, non avevo pietà di nessuno di noi. Ti prego, perdona la mia impazienza, ma da lì a poche ore sarebbe accaduto molto altro.

   
 
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