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Autore: Valerydell95    11/11/2015    0 recensioni
Una raccolta di one-shot per omaggiare uno dei miei generi videoludici preferiti: i survival horror.
Dai grandi titoli del passato alle "nuove leve" degli ultimi anni, tra atmosfere cupe e ansiogene a scenari violenti e sanguinari, un viaggio in otto one-shot su altrettanti titoli di questo grande genere. Filo conduttore: i dettagli. Per ogni gioco un dettaglio o un tema che è rimasto impresso nella mente e nel cuore di chi l'ha giocato.
I - Macchina da scrivere (Resident Evil)
"‘Non era detto’. ‘Forse’. ‘Non ne era sicuro’. Tutta quell’incertezza era soffocante, come l’atmosfera che regnava nella villa."
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(Perché diciamocelo, noi che abbiamo avuto la fortuna di conoscere i vecchi Resident Evil: quella benedetta macchina da scrivere non la dimenticheremo mai)
Genere: Drammatico, Horror, Introspettivo | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het, Shonen-ai, Crack Pairing | Personaggi: Un po' tutti
Note: Cross-over, Raccolta | Avvertimenti: Gender Bender
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Survival
 
I
 
Macchina da scrivere

 
 
Notte tra il 24 e il 25 luglio 1998, villa Spencer, tra le montagne Arklay a nord-ovest di Raccoon City, Midwest degli Stati Uniti
 
Era inevitabile: nonostante sapesse che la porta era chiusa a chiave, Toris tornava sempre a guardarla. Sapeva bene che era inutile, se una delle cose che infestavano la villa avesse provato ad entrare avrebbe dovuto sfondare la porta facendo un rumore infernale e dandogli quindi il tempo di spianare la Beretta.
E poi non era detto che riuscisse a sfondarla. Quelle cose erano forti, ma forse non abbastanza. Non ne era sicuro.
‘Non era detto’. ‘Forse’. ‘Non ne era sicuro’. Tutta quell’incertezza era soffocante, come l’atmosfera che regnava nella villa.
Che diavolo era successo lì dentro? L’intero team Bravo era sparito nel nulla pochi giorni prima. Il cadavere di Kevin Dooley, il capitano, era stato ritrovato appena poche ore prima nel bosco intorno alla villa. Era stato dilaniato a morsi. Toris non aveva mai visto niente di tanto orribile. E subito dopo un branco di dobermann inferociti –non erano normali cani da guardia, Toris ne era certo- li avevano attaccati e costretti a scappare nella villa.
Si erano dispersi. Quella magione era immensa e disabitata. Natalia e Eduard erano chissà dove, chissà in quale corridoio, stanza, piano. Toris invece era barricato in quella camera del primo piano da quelle che sembravano ore ma che probabilmente erano appena una decina di minuti, un quarto d’ora al massimo. Aveva anche perso la radiotrasmittente. Aveva soltanto la sua Beretta, due caricatori e il coltello. E da lì non poteva muoversi.
Ivan, sdraiato sul letto, diede qualche colpo di tosse. La ferita al petto non era molto grave –Toris sperava che non lo fosse- ma Ivan aveva perso parecchio sangue e non si reggeva in piedi. Toris aveva ricavato un bendaggio di fortuna facendo a pezzi il lenzuolo, ma presto avrebbe dovuto cambiarlo.
Oppure sfidare la sorte e uscire dalla stanza per cercare aiuto.
Toris si prese la testa fra le mani appoggiando i gomiti sul piano della scrivania. Avrebbe voluto piangere e sfogare la rabbia, la paura, la frustrazione, ma non ci riusciva. Aveva troppa paura che i suoi singhiozzi venissero sentiti dalle cose. Non sapeva se fossero o no nei paraggi e, se sì, quante fossero. Non sapeva cosa fossero, da dove venissero, chi o cosa le avesse create. Sapeva solo che uccidevano e che erano state persone, prima che succedesse loro qualcosa che le aveva ridotte in quello stato. Ma cosa fossero esattamente…
Il cervello gli rimandava di continuo immagini di un vecchio film horror, ‘La notte dei morti viventi’, che Toris aveva visto qualche mese prima. Ma non poteva essere. Morti risorti a causa di radiazioni emesse da una sonda… No, era impossibile, la Guerra Fredda era finita. E poi le radiazioni non potevano resuscitare i morti, quella era fantascienza. 
Toris alzò lo sguardo e vide davanti a sé una macchina da scrivere. Chissà perché, non l’aveva notata prima. Suo padre ne aveva una, quando lui era piccolo. Non pensava che avrebbe vista un’altra, non alle soglie del Duemila e con i personal computer che ormai la facevano da padroni.
Toris la avvicinò a sé. Era nera e lucida, piuttosto pesante. Sopra alla tastiera e sul sostegno per i fogli era vergato in lettere maiuscole e dorate il nome Raccoon.
Toris aprì uno dei cassetti in basso e, quasi come fosse un miracolo, trovò le altre due cose che servivano: una risma di fogli e due nastri inchiostrati. Sistemò i fogli sul sostegno e inserì il nastro.
(A che serve, Toris? E’ solo una perdita di tempo.)
No, non lo era. Doveva sfogarsi e non poteva farlo urlando, piangendo o magari prendendo a calci i mobili. Quella macchina da scrivere capitava a proposito.

 
Mi chiamo Toris Laurinaitis. Sono nato il sedici febbraio del 1975 a Vilnius, in Lituania. Mio padre, Jonas Laurinaitis, è un ingegnere minerario. Mia madre, Regina Navickiené, è un’insegnante di matematica delle scuole elementari. Non ho fratelli né sorelle. Mi sono trasferito negli Stati Uniti con la mia famiglia nel marzo del 1992, due mesi dopo il crollo dell’Unione Sovietica, quando mio padre è stato assunto dalla multinazionale Umbrella Corporation. Sono entrato nell’Alpha Team del corpo speciale S.T.A.R.S. di Raccoon City un anno fa, appena uscito dall’Accademia di Polizia. Sono finora la recluta più giovane mai assunta nel corpo. Questa è la mia prima vera missione e prego affinché non sia l’ultima.
Sono stato mandato qui a Villa Spencer per indagare su cosa è successo al Bravo Team scomparso in quest’area una settimana fa. Oltre a me ci sono i miei compagni di squadra, ovvero gli agenti Eduard Von Bock, Ivan Braginsky e Natalia Arlovskaya, sua sorella. Nel momento in cui scrivo questa lettera ignoro la posizione degli agenti Von Bock e Arlovskaya. L’agente Braginsky è con me. Ha una ferita al petto ed è in stato di semincoscienza. Non credo sia in pericolo di vita. Ho approntato un bendaggio di fortuna ma non ho forniture mediche.
La villa è infestata da cose. Sembrano zombie ma mi rifiuto di credere che lo siano. Sono lenti nei movimenti, hanno l’aspetto di cadaveri in putrefazione e credo si nutrano di carne umana in quanto attaccano ogni essere umano che si trovano davanti.
In questo momento sono barricato con Ivan in una delle stanze del primo piano di villa Spencer. Con me ho solo la pistola, due caricatori e il coltello. Non so cosa sarà di noi. Vorrei uscire a cercare i miei compagni ma

 
 
 “T-Toris…”.
Toris lasciò la macchina da scrivere e andò a sedersi sulla sponda del letto, accanto a Ivan. “Ssssh. Non parlare, non devi stancarti.”.
“D-dov’è Natasha? Sta bene?”. La voce di Ivan era debole.
“E’ con Eduard, non preoccuparti.”. Dio, fa’ che sia veramente con lui.
“Devo riportarla a casa sana e salva, l’ho promesso a Sofia…”.
“Torneremo a casa tutti quanti, te lo prometto. Ora chiudi gli occhi e riposati.”.
“Toris?”.
“Sì?”.
“Cosa… Cos’è successo qui dentro? Perché questo posto è pieno di zombie?”.
“Non sono zombie, Ivan, gli zombie non esistono.”.
“E allora cosa sono?”. Ivan aveva gli occhi lucidi. Sembrava un ragazzino.
“… Non lo so. Ma qualunque cosa… qualunque cosa siano, deve esserci una spiegazione logica alla loro esistenza.”.
Ivan sorrise. “Sì, hai ragione tu. Non esistono gli zombie. Sono come i fantasmi e le streghe.”.
Ivan aveva stupito Toris dal primo momento in cui si erano parlati. Cecchino notevole e soldato instancabile e resistente, aveva però una tanto strana quanto meravigliosa innocenza. Amava i girasoli, si stupiva vedendo un arcobaleno, era dolcissimo con i bambini. E si poneva dubbi sulla possibile esistenza degli zombie. Inizialmente Toris aveva pensato che Ivan avesse un qualche tipo di ritardo mentale ma dopo poco tempo si era accorto che non era affatto lento, né tantomeno stupido. Capiva subito quando qualcuno gli mentiva e, come i bambini, sapeva essere incredibilmente crudele quando si arrabbiava. Era l’ultima persona al mondo che Toris avrebbe voluto irritare.
Quando Toris aveva annunciato ai genitori di essere entrato nel corpo S.T.A.R.S., loro erano stati felicissimi. Qualche mese dopo, invece, Regina aveva dato di matto quando aveva scoperto che il suo unico e amatissimo figlio stava stringendo una timida amicizia con il suo compagno di squadra russo. La signora Laurinaitis aveva urlato, lanciato un vaso addosso al muro, aveva riso istericamente e pianto così forte da mettere in allarme i vicini di casa. Toris non si era mai sentito così in colpa.
E Regina nemmeno sapeva certi altri piccoli dettagli sulla vita interiore ed emotiva di Toris, che di certo non aveva intenzione di rivelarglieli. Quelle cose era meglio che restassero non dette. Era doloroso nascondere particolari tanto importanti a sua madre, che era la persona che Toris più amava e con la quale era legato a filo doppio. Ma preferiva soffrire in silenzio che farla piangere di nuovo.
Suo padre, invece, si era limitato ad elargire un silenzio carico di disappunto quando Toris gli aveva parlato di Ivan. Ovviamente neanche lui sapeva tutto, né l’avrebbe mai saputo. Non avrebbe capito, non avrebbe accettato. Toris non gliene faceva una colpa, né a lui né a sua madre. Venivano da un altro mondo, un mondo di cui lui aveva conosciuto solo gli ultimi stanchi strascichi. Sia Jonas che Regina erano molto giovani (quarantanove anni lui, quarantasette lei), dettaglio che stupiva sempre gli statunitensi con cui Toris parlava, ma loro e il figlio vivevano in due epoche diverse, troppo diverse.
“E così ti sei preso una cotta per Ivan.”.
Eduard era l’unico a cui Toris aveva avuto il coraggio di confessare ciò che provava. Aveva vuotato il sacco due mesi prima, in una piovosa serata di metà maggio, in un momento in cui nell’ufficio c’erano solo loro due. Dopo aver parlato Toris si era preparato a ricevere sguardi di disprezzo, battutacce e insulti. Non era stato così. Eduard si era limitato a scoccargli un’occhiata al di sopra degli occhiali per poi tornare a trafficare al computer.
“E… E quindi?”.
“’E quindi’ cosa?”.
“C-come? Non dici niente?”.
“Cosa dovrei dire? Per me non cambia niente, Toris. Solo spero per te che Ivan ricambi.”.
Già. Ivan. Toris non poteva lasciarlo da solo in quella stanza. Mentre lui era via, le cose avrebbero potuto sfondare la porta e…
(Non pensarci, Toris, non pensarci che se ci pensi è peggio.)

 
 
ma non posso lasciare Ivan da solo. L’unica speranza che ho è che qualcuno ci trovi.
Ho paura. Per la prima volta in vita mia ho davvero paura. Ho paura di morire, ho paura che Ivan muoia, ho paura che i miei compagni muoiano. Se muoio in questa maledetta villa mia madre e mio padre non avranno neanche una tomba su cui piangere. Se Ivan e Natalia muoiono, Sofia rimarrà sola al mondo. Se Eduard muore, sua madre sarà inconsolabile. Non possiamo morire qui dentro. Dobbiamo uscire, dobbiamo uscire tutti e tornare a casa.
Sono innamorato di Ivan. Non so se lui mi ricambi o no, non ho il coraggio di chiederglielo. L’unica persona che lo sa è Eduard. Non so se anche Natalia l’ha capito, ma spero di no. Non voglio che altri lo sappiano. Mi dispiace, mamma. Mi dispiace, papà. Avrei dovuto dirvelo ma non l’ho fatto perché non volevo farvi soffrire.
E ora sono bloccato in questa stanza. Non so se uscirò vivo da questa villa, se ne uscirò da solo o con qualcun altro. Ho paura, ho veramente tanta paura. Chiunque trovi questo messaggio: indagate. Cercate, scavate. Dovete capire cos’è successo al team Bravo, cos’è successo a noi del team Alpha, da dove vengono gli zombie, chi li ha creati. Dovete scoprire chi o cosa c’è dietro a tutto quest’orrore. E se ci sono uno o più colpevoli… Che paghino.
 
Agente Toris Laurinaitis, membro dell’Alpha Team di Raccoon City
25 luglio 1998

 
 
Il peso sul cuore di Toris svanì.
E adesso?
Toris si alzò e si sedette sul letto, accanto a Ivan. Si era addormentato, respirava piano ma in modo regolare. Gli prese la mano e chiuse gli occhi con un sospiro.
E adesso?
Restare barricato lì dentro e sperare che Eduard e Natalia li trovassero. Uscire a cercarli nella villa lasciando Ivan da solo. Uscire dalla villa e cercare un modo per contattare la centrale a Raccoon City.
Le opzioni erano tante, ma nessuna sembrava quella giusta. Non c’era alcuna sicurezza su cosa sarebbe potuto succedere. L’unica cosa certa era il dubbio.
  
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