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Autore: Marghe    09/03/2005    0 recensioni
"Been runnin' away / so long from the day / Into the strange night of stone / To fade away / As the light is gently / Bleedin' out of my soul / Penetratin' the evening / As I ride / On this endless road"
Genere: Dark | Stato: in corso
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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To the Dawn.

Been runnin' away
so long from the day
Into the strange night of stone
To fade away
As the light is gently
Bleedin' out of my soul
Penetratin' the evening
As I ride
On this endless road

But you can't turn back the time
It always gonna wait on the line


(the 69 Eyes - Wasting the Dawn)

 

 

Qualcosa di luminoso e voluttuoso si dibatteva nel buio come un serpente, fuori dal finestrino sudicio. Il treno barcollava a rotta di collo sui binari. Avevo gli occhi lacrimanti di sonno, abbagliati e disturbati dalla luce biancastra e intermittente del vagone poco affollato.

Dietro di me sentivo qualcuno che russava. Nel blocco di posti accanto al mio c’era un gruppetto di militari con l’aria più che annoiata, sembravano scocciati, addirittura nauseati.

Il più nauseato ero io. Con un blocco di vomito alla bocca dello stomaco, e non riuscivo a buttarlo fuori. Avevo in bocca un saporaccio, e non sarei stato in grado di parlare, tanto la lingua mi si era impastata nella saliva; era come avere in bocca una placca di fango.

Avrei potuto addormentami; non mi ricordavo nemmeno da quante ore ero in viaggio, senza mangiare e senza mai alzare il culo dal mio posto. Non mi ero mai mosso. Eppure qualcosa mi impediva di dormire. Appena abbassavo le palpebre, le sentivo bruciare e tremare come se le avessi calate su un mucchio di tizzoni.

C’era un pessimo odore che aumentava soltanto la nausea. Era un misto di sigari e sigarette, e il pessimo alito di qualcuno che da mezz’ora non faceva altro che ruttare. L’uomo che russava – mi auguravo francamente che non si trattasse di una donna – faceva più casino di una segheria.

Ricordavo vagamente una lingua che mi si muoveva in bocca, simile a un pesce guizzante, ricordavo il pessimo sapore di quella bocca e di quell’alito. Erano sensazioni che mi si erano attaccate al cervello e stavano aggrappate con tutte le loro forze, mentre si dissolvevano in fumo. Da molto ormai, non so da quanto, mi rigiravo in gola, senza parlare, ma mugolando, quella stessa parola, e la buttavo giù come un sorso di grappa, amara, ma che faceva caldo, e accendeva quella fiammella nelle viscere. Ormai non sapevo più neanche che parola era, ne perdevo il controllo, e il significato.

Fermate questo treno. Fermate questo cazzo di treno.

Stava andando veloce, stava andando troppo veloce, e non lo sopportavo. E non lo sopportavo neanche quando si fermava, facendo entrare gente orripilante insieme con una mazzata di freddo che arrivava vorticando a squamare la pelle.

Una vecchia ricurva come un tronco d’ulivo, con uno scialle intorno alla testa e al collo che le ricadeva sulle spalle lurido e consumato, lurido e consumato come la vecchia. Con un grande sforzo tesi le gambe per sdraiarle sui sedili che avevo accanto. Non volevo che la vecchia si andasse a sedere proprio lì. Forse l’avrei schifata se avessi iniziato a ruttare e biasciare saliva, e non si sarebbe seduta nemmeno sui sedili che avevo davanti.

Infatti la vecchia se n’era andata.

Con lo smarrimento di un mezzo affogato, com’ero, girai la testa per cogliere quell’increspatura nella luce dei neon ronzanti, e incontrai un viso bianco come il marmo ciondolante su due spalle magre.

Non ricordavo che il viso di lei fosse così cascante. Avevamo fatto tutto il viaggio insieme, io e quella ragazza che mi stava seduta davanti, ma non l’avevo ancora vista così distrutta. Non avevamo mai aperto bocca, lei non mi aveva mai guardato. Io la fissai in quel momento, mentre dormiva, con due mezzelune scavate sotto gli occhi e ombre pesanti in ogni piega del suo viso, stranamente mostruoso in quel sonno malato.

Non mi era mai sembrata così. Mai così squallida in quella gonna cortissima rossa e lucida, con quegli stivali dai tacchi alti sui quali le sue gambe magre non sapevano stare in equilibrio. La tinta rosso fuoco sulle labbra sembrava una macchia di sozzura, come il trucco pesante sulle palpebre. I capelli si erano appesantiti, e sembravano giallastri. Non avevo fatto caso a tutto lo sporco che aveva sotto le unghie, che si intravedeva sotto lo smalto sbeccato.

Il sapore della sua lingua ora mi sembrava disgustoso. Poi mi resi conto di averlo solo sognato. Probabilmente durante il viaggio mi ero addormentato. Immaginai quella ragazza che non conoscevo che alzava lo sguardo sotto le palpebre appesantite da tutto quel nero, e guardare le mia figura ancora più squallida e sgraziata della sua, mentre dormivo, col collo moscio e la testa sballottata dai movimenti del treno.

Il treno che saltava e galoppava per quello scenario orrendo che c’era fuori.

Fermate questo stupido treno.

Quanto avesse corso quel treno non me ne rendevo conto. Avevo visto il sole ancora alto mentre ci salivo, e quando dopo qualche ora mi ero reso nuovamente conto di esistere, quando avevo ricominciato a non fare più caso al mio respiro, erano precipitate le ombre. E quella striscia di luce che mi si agitava serpentina negli occhi, insieme con tutte quelle macchie, verdi, viola, rosse, bluastre.

Sopra una grande città una cupola di cielo era colore del fuoco, e si distinguevano i fumi, la nebbia. Intorno c’era soltanto una landa di erba rinsecchita, rada e corta, e si distinguevano ogni tanto i campi coltivati come toppe sulla pianura, squadrate col righello.

Tutto mi saltava addosso con l’impeto di una bestia e poi mi galoppava via sgusciandomi accanto, e le immagini mi venivano strappate via di dosso come rami di edera, perché il treno andava troppo veloce

(fermatelo)

e non lasciava tempo di guardare niente, di abituarsi a niente.

Avrei potuto rimanere lì una vita. E forse anche lei sarebbe rimasta lì una vita.

Forse tutti sarebbero rimasti su quel treno in eterno, nessuno aveva voglia di scendere, nessuno stava andando da nessuna parte, e alla fine il treno sarebbe andato a finire nel baratro dove cascano tutti i treni, e tutti noi saremmo scomparsi come scomparivano le periferie e le strade, in una frazione di secondo.

Magari prima che tutto questo succedesse la puttana avrebbe aperto gli occhi, mi avrebbe guardato per caso e forse avrebbe aperto bocca, e avremmo parlato. La immaginavo senza vestiti addosso, col vento che le scompigliava i capelli, magari quello stesso vento ingrato che stava senz’altro soffiando fuori come una tempesta di chiodi. Immaginavo come fosse il suo corpo sotto quei vestiti grossolani, con uno strano disgusto, perché lo immaginavo imperfetto, con la pelle giallastra, le gambe e le braccia ruvide, le mani secche come uno scheletro rivestito a mala pena solo di pelle. Lo sguardo che non ispirava affatto amore o nient’altro che gli assomigliasse, nemmeno desiderio, e la bocca che sembrava una macchia di sudicio sul viso. Era giovane, ma mi sembrava una vecchia. Eppure magari era solo l’effetto della nausea, del treno, di tutta quella serie di cose. Se le avessi lasciato il tempo di scendere, di farsi una doccia, cambiarsi e pettinarsi, sarebbe stata un’altra persona, senza quel fondotinta che le colava dal viso raggruppandosi in grumi sulle guance e sul collo. Era più sfinita di me, e un corpo stanco assume la bruttezza di un corpo vecchio, che poi è esattamente la stessa cosa.

Me la immaginavo rifiorire, quella ragazza, ma la immaginavo simile a una perla quando fosse sorta la luce argentina dell’alba. La luce dura come un sasso, dopo la flaccida notte.

Una consistente parte del mio cervello invocava il sonno, ma l’altra parte non poteva fare a meno di guardare quella ragazza che dormiva - così diversa dagli altri che dormivano su quel treno e che sembravano morti – lei sembrava sul punto di svegliarsi da un momento all’altro e di ritornare bellissima, fresca come una rosa.

La dimenticai presto.

Probabilmente mi addormentai, e quando mi risvegliai il cielo era viola, probabilmente vicino all’alba. Non sapevo dov’ero. E il treno non si era ancora fermato, e ora sembrava di correre nel nulla, dove non c’erano città o paesi intorno, ma soltanto praterie deserte, senza un campo né una bestia al pascolo. Ora dovunque mi girassi vedevo solo occhi chiusi, bocce incollate e secche come un unico strato di pelle, e corpi flosci che si muovevano soltanto quando il treno li agitava qua e là. Avevo caldo, un piacevolissimo caldo, anche se velato dal solito senso di nausea. Non mi sarei mosso da quella posizione, ormai era come se il treno di fosse mosso e mi si fosse avvinghiato intorno, e credevo di sapere come si sentono i bambini nella placenta della madre. Io mi trovavo nel ventre di quella specie di lombrico sotterraneo che strisciava scavando nelle tenebre con la forza di un trapano, senza che niente potesse fermarlo e senza che io potessi in alcun modo influire sui suoi movimenti.

Niente mi aveva mai fatto sentire così impotente.

Avrei voluto girare quel treno e farlo ritornare indietro, fargli rimangiare tutto quello che aveva travolto, e in quel modo forse tutto sarebbe ritorno a posto, e io sarei stato di nuovo a casa, sobrio e rilassato, nel mio letto in quella mattina in cui non mi ero ancora svegliato e non avevo ancora deciso che era finita.

Il treno non tornava indietro

(fermate questo treno!)

e da qualche mi aspettava ancora quel dannato baratro.

La ragazza davanti a me era scomparsa, e aveva lasciato al suo posto una specie di buco nero. Non so se abbia barcollato da qualche parte alla prima fermata, dopo che era riuscita ad alzarsi in piedi, e si era rinchiusa in un cesso pubblico a vomitare tutte le lacrime e il sangue che aveva. Era la fine che mi sembrava appropriata per lei. Col risveglio ero diventato duro come un sasso; non mi veniva più in mente la visione di lei che rifioriva, semplicemente perché era scomparsa, e me la immaginavo morta più che in casa sua a rimettersi in sesto dopo un viaggio simile.

Il mio viaggio invece non era ancora finito e sapevo che non sarebbe finito mai. Quel treno ormai non si sarebbe fermato più. Io sarei andato avanti all’infinito. Ma il fatto che l’alba era vicina mi terrorizzava. Il fatto che prima o poi un’onda di luce mi avrebbe seccato le lacrime sugli occhi e avrebbe fatto emergere il lombrico dalle viscere della terra, dove sarebbe bruciato vivo, mi terrificava e mi riempiva di un’attesa tanto spasmodica da non poterla quasi sopportare. Avrei voluto scappare dalla luce del giorno che mi inseguiva pronta a bruciarmi il culo, ma ormai facevo parte del ventre del lombrico e nonostante il mio corpo tremasse e si stesse facendo gelido, non sarei mai riuscito ad andarmene.

Per scappare dove, poi? Il lombrico non capiva niente, non sapeva che l’oscurità sarebbe finita e il sole gli avrebbe bruciato gli occhi e poi l’avrebbe carbonizzato. Continuava a correre e a mangiarsi terra su terra. Non potevo fermarlo né girarlo in modo che fuggisse dalla luce.

Ero in trappola. Sepolto vivo là sotto, in attesa che divampassero le braci del forno crematorio in cui il lombrico stava andando ad imbucarsi.

Scava, scava, torna più sotto.

Torna più sotto.

Ma il treno non si fermò mai.

 

  
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