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Autore: Euachkatzl    15/11/2015    4 recensioni
La vita non è cattiva.
La vita dona e non smette mai di donare.
Tutto sta nel modo in cui noi sfruttiamo i suoi doni.
Storia scritta per il contest Love behind bars.
Genere: Drammatico, Introspettivo, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Parallelo

STORIA SCRITTA PER IL CONTEST LOVE BEHIND BARS

 

 

 

Mi voltai e vidi Brian, in piedi dietro di me, sorridermi impacciato.

Alzai un sopracciglio, attendendo un segno da parte di quell'uomo, che continuava imperterrito a sorridere timidamente e guardarsi intorno.
"Hai bisogno di qualcosa?" chiesi indispettito: avevo parecchie cose da fare, quella mattina in ufficio, e non potevo permettermi di perdere troppo tempo.

Ad un tratto, il mio capo apparve sull'uscio, spiegandomi frettolosamente che quell'uomo avrebbe condiviso l'ufficio con me, da quel momento in poi, e che gli avrei dovuto presentare l'azienda e spiegare il lavoro. Sbuffando e rimpiangendo il letto caldo che avevo dovuto abbandonare quella mattina, mi alzai dalla sedia e uscii dalla stanza, seguito a ruota da quel tizio, del quale non sapevo nemmeno il nome.

Durante il tragitto attraverso gli infiniti e asettici corridoi dell'edificio, quell'uomo mi parlò di tutto un po', mentre io avrei volentieri preferito rimanere in silenzio, e venni a scoprire che aveva appena pochi anni in meno di me, ma che aveva deciso di trovare un posto fisso solo qualche giorno prima perché per parecchio tempo aveva preferito viaggiare ed esplorare il mondo; aveva perso tempo a fare tutte le stupidaggini che sognano le persone infantili e illuse, insomma. Mentre io mi rompevo la schiena a furia di lavorare, sperando in una promettente carriera, lui vagava senza una meta, assaggiando baguette e scalando l'Everest. Ma la cosa che mi faceva arrabbiare di più era il sapere che lui aveva raggiunto la mia posizione con un semplice colloquio di mezz'oretta, mentre io avevo dovuto guadagnarmela a forza di straordinari e notti insonni.

 

Mi voltai e vidi Brian un uomo identico a Brian, in piedi dietro di me, sorridermi impacciato.

Lo guardai storto per quelli che mi sembrarono anni, aspettando che si muovesse, o almeno dimostrasse di non essersi addormentato in piedi, ma lui continuò a mantenere quel finto sorriso in faccia e a guardare incuriosito i muri ammuffiti della cella.

"Che vuoi?" gli domandai, tentando di riportare quel tizio tra i vivi e sperando che mi rispondesse e si levasse il più velocemente possibile.

Tutto d'un tratto, una guardia apparve dietro all'uomo, sempre fermo immobile sull'uscio.

"Ci sono problemi?" mi chiese, indispettita.

"Chi è questo tizio?" domandai in risposta, indicando l'uomo con un cenno del capo e sperando che non fosse il mio nuovo compagno di cella, cosa purtroppo molto probabile.

La guardia sbuffò e se ne andò senza degnarmi di una risposta. Non tentai nemmeno di inseguirla e insistere, perché sapevo che mi sarebbe arrivato un richiamo nel giro di cinque secondi. Sbuffai e ordinai all'uomo di togliersi dall'uscio e sistemare le sue cose, spiegandogli che il suo lato della cella era il destro e che non avrebbe dovuto per nessuna ragione entrare nella mia parte, toccare le mie cose o anche solo parlarmi. Lui annuì, sorridendomi, si avvicinò al suo letto e iniziò a sistemare quelle poche cose che aveva con sé.

Guardai tutta la scena con la coda dell'occhio, tentando di non farmi notare. Quasi mi mancava il fiato nel vedere quanto quell'uomo fosse simile a Brian, sia nella corporatura asciutta che nei modi frettolosi ed entusiasti di fare le cose, sia nella pelle pallida in contrasto con i capelli neri che nella voglia di vivere che sembrava sprigionare ad ogni movimento.

Mi chiesi quanto tempo avrebbe impiegato quell'aura allegra a morire, costretta tra le quattro mura di quel carcere.

“Tra dieci minuti c'è l'ora d'aria” dissi distrattamente “Ti devo portare a fare un giro di questo posto, sono le regole quando hai un nuovo compagno di cella”

Una regola senza senso, inventata dal direttore del carcere per favorire la socializzazione, almeno a suo dire. Dato che il numero di suicidi stava salendo vertiginosamente, lui aveva deciso di fornirci un compagno, nonostante in quel carcere non ci fosse neanche un cane e potessimo permetterci due celle a testa, tanto grande e vuoto era quel posto. Il direttore si era però convinto che il problema principale fosse la scarsa conversazione tra detenuti, e si era inventato quella stupida regola, così ci saremmo garantiti almeno un amico.

L'unico effetto che quella disposizione ebbe fu il tramutarsi dei suicidi in omicidi, resi estremamente semplici dall'instabilità dei detenuti e dalla semplicità del soffocare silenziosamente il proprio compagno con un cuscino.

 

Durante l'ora d'aria, mi limitai a vagare per i corridoi di cemento grigio e nudo della prigione, mostrando all'uomo quella che sarebbe stata la sua casa. Una gran bella casa, considerando i coinquilini con continui attacchi di violenza incontrollata, la cucina che puzzava di marcio e lasciava penetrare l'odore in sala da pranzo, il bagno dove l'acqua calda era un miraggio e la camera da letto, dove bisognava dormire con un occhio aperto, attento al proprio 'amico'. Sicuramente quella prigione non era a norma, ma dopotutto chi si sarebbe mai curato di far rispettare le regole e garantire una migliore condizione a persone che avevano distrutto delle vite, facendo di conseguenza a pezzi anche le esistenze di familiari, amici e conoscenti? Nessuno ci avrebbe mai considerati migliori nemmeno delle bestie, noi per primi. Nessuno lì provava un po' d'amor proprio; eravamo la sezione degli ergastolani, ci lasciavamo andare alla deriva in attesa che la morte arrivasse come una liberazione.

L'unico che sembrava aver ancora un po' di voglia di vivere, in quella sezione, era proprio il mio compagno di cella, che nel suo primo giorno di detenzione osservava incuriosito ogni angolo della prigione, come se fosse stato in gita scolastica.

“Finalmente anche Bowers è uscito” commentò un tizio, Denbrough, non appena misi piede in quel quadrato d'erba secca che era il giardino.

“Devo portarlo in giro” risposi stizzito, indicando il mio compagno con un cenno del capo “Di sicuro non sono uscito per vedere un cazzone come te”

L'uomo strinse i pugni, ma si trattenne dal picchiarmi perché in quel momento si avvicinò una guardia, che ripeté la frase che mi era appena stata detta da lui, ma in modo più gentile. Effettivamente era un evento vedermi fuori, dato che preferivo di gran lunga passare le giornate in cella, chiudendomi nel mio mondo ed evitando qualsiasi contatto umano.

“Speriamo di riuscire finalmente a sentire la tua voce un po' più spesso” concluse la guardia. Si allontanò dopo aver fatto un cenno a me e all'altro detenuto, ma ignorando completamente il nuovo arrivato.

“Dove eravamo rimasti?” mi chiese Denbrough, ancora alterato, ma preferii ignorarlo e tornare all'interno dell'edificio: avevo passato abbastanza tempo fuori, quel giorno.

“Questo è abbastanza, il resto lo scoprirai da solo” borbottai mentre tornavo in cella. Un altro detenuto mi guardò storto quando mi sentì parlare, tanto era rara la cosa, ma lo ignorai e rientrai in quella che era la mia camera da letto, volendo essere ottimisti e ignorando il fatto che sarei stato costretto in quella stanza per il resto dei miei giorni. Brian Quell'uomo identico a Brian continuava a seguirmi.

“Guarda che puoi anche andare in giro da solo, non devi per forza starmi attaccato al culo” gli feci notare. Lo guardai in faccia e vidi che aveva ancora quel sorriso stampato, che sembrava ricordare a tutti che la vita era bellissima, e che c'erano dei motivi per continuare a viverla. Ignorai quell'ottimismo e quella ventata d'aria fresca che portava il mio compagno e mi rintanai di nuovo nella nuvola di buio che mi ero costruito attorno dopo due anni e mezzo di carcere.

La cosa che mi irritava di più di quell'uomo, in realtà, era che sembrava essere in pace con sé stesso, nonostante fosse appena entrato in quella sezione del carcere, e che ostentava una sicurezza e un autocontrollo che io avevo raggiunto solo dopo un anno, passando attraverso tentativi di suicidio e risse insensate con altri detenuti.

 

 

 

 

Mi accorsi di vedere Brian con altri occhi dopo qualche mese passato con lui giorno dopo giorno ad osservare i suoi movimenti, che sembravano infondere quella felicità della quale avevo bisogno.

Mi accorsi che effettivamente vivevo molto più serenamente, non mi alzavo dal letto irritato e non vedevo l'orario d'uscita dall'ufficio come l'unico traguardo da raggiungere. Avevo trovato una ragione per svegliarmi tutte le mattine, e quella ragione sembrava essere proprio Brian. Spesso mi capitava di osservarlo e tentare poi di imitare quello che faceva, la spontaneità delle sue parole e l'entusiasmo dei suoi movimenti. Brian mi stava lentamente cambiando a sua insaputa, e io mi stavo completamente lasciando contagiare dalla sua allegria e dalla sua voglia di vivere.

 

Mi accorsi di vedere Brian quell'uomo identico a Brian con altri occhi dopo qualche mese passato con lui giorno dopo giorno ad osservare i suoi movimenti, che sembravano infondere quella felicità della quale avevo bisogno.

Non che quell'uomo mi avesse ridonato uno scopo nella vita, dato che la mia vita sarebbe stata tra quelle quattro mura e trovare uno scopo che fosse realizzabile era davvero dura. Ogni volta che mi trovavo a riflettere su cosa avrei potuto fare della mia esistenza, in quei rari momenti di estrema pace con me stesso, la depressione calava come una nuvola nera e rabbuiava tutto, facendomi tornare a brancolare nel buio. In quel buio fitto e infinito, mi trovavo a fronteggiare tutte le difficoltà e le amarezze che la vita mi avrebbe riservato, e a sbattere violentemente contro di loro. Ogni volta che mi voltavo, cercando una luce verso la quale correre, urtavo contro qualcosa che mi impediva di andare avanti e sperare in qualche cosa di buono. Così mi ritrovavo ad osservare quella luce da lontano, ad immaginare di poter correre verso quel corridoio d'uscita da tutto il buio che mi circondava, ad aggrapparmi alla vana speranza che un giorno avrei visto quel fulgore che sembrava essere la vita fuori dalle mura.

Nei mesi che passai con Brian quell'uomo identico a Brian ricominciai ad uscire all'aria aperta, che sembrava dissipare l'ombra attorno a me. Non tentai mai di fare conversazione con gli altri detenuti, ma iniziai a parlare con il mio compagno, a volte per pochi minuti, a volte per ore intere.

Gli parlavo la notte, in cella, quando il buio non si dissipava semplicemente uscendo da sé stessi, quando ogni cosa attorno a me era buio e io mi sentivo soffocare. Gli parlavo in pieno giorno, in quel cortile morto che per me era la cosa più animata in quella prigione che vedevo come la mia tomba. Ogni volta che parlavo con quell'uomo mi sentivo bene, più leggero, nonostante lui non rispondesse mai. Non mi disse mai una parola, ma i suoi sorrisi mi facevano vivere, esprimendo più di quanto ogni frase potesse dire. Lui non fece mai un discorso con me, le nostre chiacchierate si limitavano a miei monologhi, osservati con sguardo confuso e quasi spaventato dagli altri detenuti. Con un'occhiata, quell'uomo sapeva farmi stare bene, riusciva a dissipare il buio e a spingermi un po' più verso la luce, che però si allontanava nuovamente quando lui sembrava distaccarsi da me, lasciandomi solo con le mie parole che premevano per uscire ed essere ascoltate.

 

Una mattina, mi svegliai al solito suono della sirena ma, voltandomi, notai il letto del mio compagno senza lenzuola, vidi che il suo cappotto non era appeso al solito attaccapanni e che gli oggetti che aveva sparso per il comodino erano scomparsi.

Balzai in piedi, sbattendo ripetutamente gli occhi per accertarmi che non fosse tutto frutto della mia immaginazione, ma le figure restavano sempre le stesse: un materasso vuoto e freddo, addirittura un po' impolverato, come se nessuno vi si fosse coricato per mesi, un attaccapanni arrugginito, un comò bianco e inutilizzato, anch'esso polveroso.

Uscii dalla cella di corsa, venendo prontamente bloccato da una guardia dopo appena qualche passo.

“Qual è il problema?” mi chiese, pregustando l'idea che fossi finalmente impazzito, così da potermi portare in psichiatria, che per le guardie appariva come il bidone dell'immondizia dove gettare casi umani particolarmente problematici.

“Dove l'avete portato?” urlai, disperato: stavo iniziando a soffocare, il nero ricominciava ad addensarsi attorno a me e a chiudermi in una bolla nella quale non riuscivo più a distinguere le cose chiaramente, nella quale tutto era angoscia e disperazione. Iniziava a girarmi la testa. Quella guardia continuava a urlare, a fare domande che rimbombavano nella mia mente senza smettere di rimbalzare da un punto all'altro, sommandosi e riempiendomi completamente, schiacciando agli angoli qualsiasi pensiero calmo e razionale tentassi di elaborare.

“Dov'è?” continuavo a ripetere, a voce sempre più bassa e trascinando le parole. “Dove l'avete portato?”

Un paio di robuste braccia mi afferrarono e mi trascinarono lungo il corridoio a forza. Quando mi lasciarono, cedetti sotto il peso della mia paura senza riuscire nemmeno a muovere un passo. Altri detenuti, che guadavano la scena dalle loro celle, risero nel sentire le mie ginocchia scontrare contro le piastrelle bianche e ruvide del pavimento, mentre io iniziavo a soccombere. Non sentii il dolore di quella caduta, il terrore che ormai mi aveva preso mi impediva di sentire alcunché, se non qualche risata ovattata e qualche voce che mi urlava contro. Sentivo che la mia bocca continuava a muoversi, ma non capivo cosa stessi dicendo; tentavo di impartire ordini al mio corpo, mentre qualcuno mi prendeva e mi trascinava nuovamente, ma nulla voleva rispondere: era come se non avessi più un corpo mio, era come se tutto venisse controllato da una forza esterna, e che fosse la paura a guidarmi.

Venni buttato malamente su una superficie morbida, e solo quando riuscii ad aprire gli occhi e rivedere le cose chiaramente mi resi conto che mi avevano semplicemente riportato nella mia cella. Nulla però ebbe più importanza quando vidi che il mio compagno era chinato su di me e mi scrutava preoccupato, guardandomi negli occhi. Improvvisamente ogni nuvola si dissipò e tutta la nebbia attorno a me svanì velocemente; mi dimenticai pure che quella nebbia c'era stata, e che mi aveva agguantato e rinchiuso tra le sue grinfie, dalle quali sembrava impossibile uscire.

Quel giorno, mi accorsi che non riuscivo più a sopportare un solo momento senza quell'uomo, e quello stesso giorno mi accorsi che non era la prima volta che incontravo una persona della quale non potevo fare a meno.

 

Brian era stato per mesi e mesi il mio punto di riferimento, era stato la roccia alla quale aggrapparsi mentre scivolavo nel baratro, ed era stato sempre presente, pronto in ogni momento a farsi investire dai miei problemi. Brian era riuscito a farmi amare le chiacchiere, a farmi uscire le parole di bocca e a non farmelo pesare, era l'unica persona alla quale parlavo senza sentirmi un fardello.

E allo stesso modo, quell'uomo mi faceva aprire e stare bene, potevo parlargli per ore ed essere in grado di continuare ancora.

Il giorno in cui mi resi conto di quanto quell'uomo fosse uguale a Brian nell'anima oltre che nel corpo, fu il giorno in cui decisi che non si sarebbe più allontanato da me.

 

 

 

 

Nonostante avessi capito cosa sentivo per Brian, passarono lunghi mesi prima che riuscissi ad ottenere finalmente l'unica cosa che speravo da tempo: sentirlo mio e di nessun altro.

Fu una cosa molto veloce, tanto rapida che quasi non me ne resi conto. Mi ritrovai in qualche secondo in una situazione completamente nuova per me, e non nego che all'inizio ne fui spaventato.

Semplicemente, una mattina Brian mi prese da parte, mi fissò a lungo, e mi disse chiaro e tondo che non mi vedeva solo come un amico. Ricordo ancora che in quel momento ebbi solo il tempo di capire il significato delle parole ma non quello della frase, e che quando finalmente collegai tutto Brian era già scappato, impaurito da una possibile conseguenza negativa delle sue parole.

 

Nonostante avessi capito cosa sentivo per Brian quell'uomo identico a Brian, passarono lunghi mesi prima che riuscissi ad ottenere finalmente l'unica cosa che speravo da tempo: sentirlo mio e di nessun altro.

Dovevano essere trascorsi circa sei o sette mesi da quando quell'uomo era entrato nella mia vita, anche se non ne ero così sicuro: quando ero appena arrivato in carcere, mi sforzavo di tenere il conto dei giorni, ma ormai era tutto così grigio e opaco che le giornate avevano perso la loro consistenza, e a me non poteva importarne di meno di che giorno fosse. Sapevo solo che l'estate doveva essere iniziata da tempo, complice l'abbronzatura delle guardie e il loro umore, decisamente più allegro di quello che erano solite tenere: tutto sembrava più leggero, i richiami si erano rarefatti e così anche i malumori tra noi carcerati. Pareva di essere in uno stato idilliaco, in estate, e nonostante il caldo asfissiante nella cella e l'odore di sudore che aleggiava perennemente nell'edificio, quella stagione era la mia preferita, anche se nella mia vita precedente non l'avevo mai amata.

A me piaceva l'inverno. Mi piacevano il freddo e i maglioni di lana, il caffè bollente tra le mani e il caminetto acceso. Mi piacevano l'aria calda che si respirava in casa e la sicurezza che infonde lo sprofondare tra le coperte morbide.

Brian, invece, amava l'estate. Lui era estate. Lui sprizzava estate ogni volta che si muoveva. Mentre io sembravo portare gelo e cieli scuri ogni volta che passavo, lui regalava a tutti calore e colore. Aveva sempre un sorriso per ognuno e una parola dolce da dire, per ammorbidire i commenti acidi che io ero solito distribuire.

Anche il mio compagno di cella sembrava dello stesso avviso di Brian, nonostante non avesse mai spiccicato parola; iniziavo a pensare che fosse muto, ma non ebbi mai la sfrontatezza di chiederglielo o di fargli notare che non avevo mai sentito la sua voce: a me la situazione andava più che bene così, mi andava bene tirare avanti a monologhi e nulla di più. E poi, lui non aveva bisogno di parole, se solo con uno sguardo riusciva a rigirare completamente il mio modo di pensare. Se solo sorridendo era riuscito a migliorarmi la vita.

 

Il giorno in cui il nostro rapporto cambiò era un giorno come tutti gli altri. Le cose andavano avanti a rilento, com'è solito quando sei in carcere: il tempo sembra dilatarsi, quei sessanta secondi passare più lentamente, come se consigliassero di godersi al meglio lo stralcio di vita che rimane. E' così frustrante, il sapere di avere così tanto tempo e non poterlo sfruttare come si deve. Nella mia vecchia vita, avrei letto un libro, avrei cucinato, avrei guardato Brian muoversi elegantemente per l'ufficio. Invece, in carcere, i libri sembravano solo ricordarti come sarebbe potuta essere la tua vita, se tu non te la fossi rovinata con le tue mani, la cucina era inavvicinabile e Brian… Brian non c'era e basta. Tuttavia, man mano che passavano le giornate, il mio compagno di cella sembrava sempre più simile a lui, e ormai ero arrivato ad un punto in cui stavo iniziando a chiedermi se avessi potuto aspirare ad un po' di felicità anch'io, nonostante mi trovassi in carcere. Ero arrivato a chiedermi se fosse possibile rivivere tutto, magari non proprio fino alla fine: mi sarebbe bastato riassaporare qualche stralcio delle emozioni che mi aveva donato Brian.

Il giorno in cui il nostro rapporto cambiò capii che la risposta a tutti quei quesiti era 'Sì', e che non avrei rivissuto solo qualche misero frammento di sensazione, ma che tutte erano già pronte ad investirmi ed annegarmi come la prima volta.

Il giorno in cui il nostro rapporto cambiò, fu tutto talmente veloce che non me ne resi nemmeno conto. A dirla tutta, mi sembrò addirittura irreale, ma dentro di me una voce continuava ad urlare che era tutto vero, e io mi decisi ad ascoltare quella voce ed ignorare le altre. Era la stessa voce che gridava che quell'uomo era così simile a Brian, che pretendeva di oscurare ogni altra opinione e farmi abbandonare completamente a quella folle idea che Brian fosse tornato.

 

Il mio compagno di cella si era reso conto che lo stavo fissando già da un bel po', quando si decise a voltarsi e venire verso di me. Eravamo in giardino, nell'ora d'aria, e io ero seduto, abbandonato con la schiena contro il muro, ad osservare quell'uomo e crogiolarmi nei ricordi, con un sorriso malinconico stampato in faccia. Denbrough, che amava complicarmi la vita, convinto che dopo due anni in carcere fossi ancora il novellino che ero appena entrato, si era già avvicinato a me un paio di volte, chiedendomi insistentemente cosa stessi guardando. All'inizio tentai di ignorarlo, di non rivolgergli nemmeno la mia classica occhiata scocciata, ma dopo l'ennesima domanda gli chiesi gentilmente di levarsi dal cazzo. Per tutta risposta, Denbrough si sedette affianco a me e iniziò a parlottare, commentando con battute piuttosto pesanti ogni singola cosa facessi, anche se non era che stessi facendo granché: fissavo Brian quell'uomo identico a Brian, in modo apatico e meccanico.

“Ma si può sapere cosa c'è di tanto interessante?” sbottò Denbrough ad un certo punto, probabilmente stizzito per non aver ancora ottenuto nessuna reazione da parte mia.

“Tutto” sussurrai, rapito da quella figura che si muoveva. Nonostante non ci fosse nulla in quel prato morto e arido, dove l'erba era soffocata dal calore estivo e dal continuo camminare degli altri carcerati.

“Tu non ci stai con la testa” commentò l'uomo, prima di alzarsi e andarsene “Resta a guardare le tue margherite”

Fu in quel momento, quando Denbrough se ne andò, che Brian quell'uomo identico a Brian si voltò e mi guardò, sorridendo nel notare che mi ero perso a fissarlo. Mi appuntai mentalmente di non farlo più, dato che sembravo una maledetta checca, e distolsi lo sguardo, puntandolo sulla rete metallica che ci divideva dalla libertà, così sottile eppure così dannatamente robusta.

Vidi la mano del mio compagno di cella appoggiarsi sulla mia spalla. Fu strano, estremamente strano, perché non lo avevo sentito arrivare, né avevo sentito le sue dita appoggiarsi su di me; le avevo solo viste. Mi convinsi che era successo perché ero troppo preso dalla scia di pensieri che mi avevano improvvisamente affollato la mente, ma le mie preoccupazioni scemarono quando, inspirando, sentii il debole profumo della pelle dell'uomo. Era fresco. Nonostante facesse caldo, nonostante non vedessimo una doccia da due sere prima, lui profumava di fresco. Quella fragranza mi solleticò le narici e mi solleticò la mente, riportandomi a pensare alla pelle di Brian, agli abbracci di Brian, al collo di Brian, al sangue di Brian.

Scossi la testa e cacciai le immagini che si assiepavano veloci, impedendomi di vedere ciò che avevo davanti. Fissai l'uomo con uno sguardo un po' inebetito, attendendo qualcosa. Non sapevo cosa, di preciso, ma avevo una vaga idea, o almeno una speranza. Lui sorrideva, come sorrideva sempre e come non avrebbe mai smesso di fare. Improvvisamente, capii. Capii che non poteva esprimersi a parole, ma che come al solito stava cercando di dirmi tutto con uno sguardo. E quando lui vide la luce che passò velocemente nei miei occhi si ritrasse, quasi spaventato, quasi in colpa per quello che aveva appena espresso. Si ritrasse e se ne andò, e io non ebbi nemmeno il tempo per spiegargli che quello sguardo, quel sorriso, io lo stavo aspettando da mesi.

Con Brian, tutto accadeva così velocemente e così repentinamente che poche volte mi accorgevo di cosa stesse davvero succedendo; mi lasciavo trasportare dagli eventi, fidandomi ed affidandomi a quell'uomo.

La prima volta che sfiorai le sue labbra sentii un'esplosione. Un'esplosione dentro di me, che aspettavo quel momento da tanto tempo, un'esplosione in lui, che forse si era stupito che io avessi preso una decisione di testa mia. Il fatto era che proprio lui era riuscito a cambiarmi così in profondità che l'uomo che in quel momento lo stava baciando era completamente diverso dall'uomo che aveva conosciuto, mesi prima, in quel bianco e anonimo ufficio.

Giusto per confermare la repentinità di ogni situazione, il cambiamento e lo spirito intraprendente che si era fatto largo in me, quella volta non mi limitai a baciare le sue labbra. Sentivo che non mi bastavano, sentivo che volevo toccare tutto di Brian, ogni parte del suo corpo, sentivo che dopo tutta quell'attesa un po' me lo meritavo.

Non riuscii a fermarmi e Brian non me lo impedì, rendendomi le cose più facili come suo solito. Fu tutto così armonioso e naturale che quasi sembrava non fossimo destinati ad altro, io e lui. Nulla sembrò fuori posto, nessuna sbavatura si presentò a rovinare il corso degli eventi.

Brian mi lasciò fare, seguendo con delicatezza le mie mosse, ma senza incertezza né esitazione: pareva tutto studiato, o tutto atteso da anni, ripassato a memoria prima di metterlo in pratica.

Brian mi lasciò entrare in lui, nel corpo e nell'anima, e in quel momento mi sentii di colpo completo, e temetti che tutto sarebbe potuto finire. Sentivo dentro di me che quell'uomo aveva portato a termine i suoi compiti, e che se ne sarebbe andato presto.

Fu in quel momento che il rapido crescendo in cui ero stato trascinato si arrestò bruscamente, per lasciare spazio ad una profonda voragine, in cui caddi senza neanche accorgermene. Caddi, guardando verso l'altro, verso l'orlo di quello strapiombo, verso il mondo felice che stava velocemente allontanandosi da me. E vedevo Brian, con uno sguardo preoccupato, osservarmi impotente dall'alto, incapace di far qualcosa contro il buio e la paranoia che non si erano mai eclissate davvero, nella mia mente.

 

Con Brian quell'uomo identico a Brian, tutto accadeva così velocemente e così repentinamente che poche volte mi accorgevo di cosa stesse davvero succedendo; mi lasciavo trasportare dagli eventi, fidandomi ed affidandomi a quell'uomo.

Era notte, quando finii di racimolare tutto il coraggio che avevo avuto una sola volta nella mia vita, anni prima. Sentii che ero pronto, che se non l'avessi fatto in quel momento non ci sarei più riuscito e che me ne sarei pentito per il resto dei miei giorni.

Mi rigirai nel letto duro e scomodo, incappando nello sguardo del mio compagno di cella, sveglio all'altro capo della stanza. Era seduto a terra, con la schiena appoggiata contro il letto, intento a torturarsi le mani riflettendo su Dio solo sapeva cosa. Sollevò la testa nel sentire i miei movimenti impacciati, e quando incrociai quegli occhi scuri mi trovai rispecchiato in quelle stesse grandi iridi che mi fissavano perse mentre cadevo nel vuoto. Non mi sarei mai abituato alla sua somiglianza con Brian, ma soprattutto non sarei mai riuscito a concepire che quell'uomo avesse i suoi stessi occhi. Erano loro. Erano identici. Erano gli occhi di Brian, gli occhi che amavo e che avrei solo voluto ammirare da vicino un'altra volta ancora. E in quel momento che l'occasione sembrava propizia la colsi al volo.

Scesi dal letto e mi avvicinai velocemente a quell'uomo, gattonando e producendo un lieve fruscio di tessuto smosso. Mi bloccai solo quando fui abbastanza vicino da sentire nitidamente il suo profumo fresco; gli accarezzai le guance, senza perdere di vista nemmeno per un momento quegli occhi meravigliosi e curiosi, che mi scrutavano come a chiedermi cosa stesse succedendo. A dirla tutta, nemmeno io sapevo cosa stessi facendo: non rispondevo più delle mie azioni, mi stavo semplicemente lasciando guidare dall'istinto e dai ricordi. Stavo riproponendo esattamente le stesse mosse che avevo fatto anni prima, e quell'uomo sembrava fare lo stesso, tanto da farmi credere che Brian fosse tornato da me e che tutto fosse ricominciato.

Durò solo un secondo; durò tutta la mia vita. Sentii di nuovo le labbra di Brian contro le mie, riassaporai la morbidezza e il sapore di quella bocca sottile, vissi per una seconda volta tutti i brividi, lasciando che mi invadessero e mi devastassero dall'interno. Non avrei mai pensato di poter rivivere un'altra prima volta: ero solo un peccatore come tutti gli altri, ero anzi il peggiore tra i peccatori, e vedere che Dio mi donava quella possibilità mi fece rivalutare per un attimo tutta la mia vita e i valori su cui avevo deciso di basarla.

Non mi lasciai sfuggire quell'occasione e agii d'impulso, seguendo ogni singolo movimento che avevo compiuto anni prima. Ricordavo tutto alla perfezione, tanto ero stato segnato da quell'esperienza; dalla prima volta in cui avevo sfiorato le labbra di Brian, dalla prima volta in cui le mie mani avevano accarezzato la sua pelle calda e dalla prima volta in cui mi ero sentito in lui, formando una cosa sola. Molte erano le prime volte che avevo vissuto con Brian, molti i brividi che quelle prime volte avevano causato, e nessuno mi era mai passato di mente. Li avevo custoditi tutti gelosamente, rinchiudendoli in cassette dorate e decorate, ma sigillate.

Quell'uomo così simile a Brian, tuttavia, era riuscito a forzare le loro serrature, facendone scappare il contenuto, riempiendomi la mente e il corpo di quelle sensazioni che mi ero già rassegnato a lasciar marcire per sempre.

“Cosa succede qui?” mi colse di sorpresa una guardia, ferma sull'uscio della cella. Presi istintivamente le distanze dall'uomo e annaspai all'indietro, boccheggiando. La guardia scosse la testa, borbottando qualcosa. Riuscii solo a sentire qualche parola appena accennata, ma una fu talmente chiara che mi rimbombò nella mente: psichiatria. Entrò nelle mie orecchie e continuò a ripetersi, in un'eco infinita e ciclica, costante e monotona. Non avrei dovuto darci troppo peso, non era la prima volta che sentivo sputarmi contro quella parola, ma in quel momento mi scosse. Il mio sguardo passò dalla guardia a Brian quell'uomo identico a Brian, e capii che magari mi ero spaventato così tanto perché, se mi avessero allontanato, non avrei più potuto rivedere lui, i suoi occhi e i suoi sorrisi. Ero completamente soggiogato a quell'uomo.

“Resta pure per terra a pulire il pavimento” mi sputò addosso la guardia, per poi andarsene con una faccia scocciata, stanca di tutta la monotonia, che veniva resa un po' più allegra giusto da qualche richiamo contro un malcapitato carcerato.

Se ne andò e non fece minimamente caso al mio compagno di cella, che come me stava 'pulendo il pavimento'. Non gli disse nulla, semplicemente aveva borbottato contro di me e poi se n'era andata. Quel comportamento da parte delle guardie non lo capivo: sapevo che non ero certo la persona migliore della terra, ma nemmeno il mio compagno lo era. In fondo, pure lui era in quella sezione del carcere, pure lui ci si era gettato dentro con le proprie mani. Pure lui aveva ucciso un uomo.

Mi chiesi cosa avesse mai fatto il mio compagno per finire nella situazione in cui si trovava. Io non ce lo vedevo, ad uccidere. Lui che riusciva a guarire tutto con un sorriso era arrivato al punto da spezzare una vita.

Le mie domande si arrestarono bruscamente prima di ottenere una risposta. Ci fu bianco nella mia testa, quando incrociai nuovamente gli occhi di Brian quell'uomo identico a Brian, e quando il mio sguardo scese su quelle labbra, delle quali sentivo di conoscere ogni centimetro e di voler comunque esplorarle ancora; non pensai più alla psichiatria, o alle guardie, o all'irrazionale paura che avevo di allontanarmi da lui. In quel momento ero lì, in quella cella sporca e tanto odiata, ma ero vicino a lui, ero di nuovo con Brian, con quell'uomo che ero convinto non avrei mai più rivisto, e quella convinzione mi bastava per trovare pace.

Non dovetti più pensare, mi lasciai trasportare: le mie mani sapevano a memoria il percorso da seguire su quel corpo asciutto, sapevano su che punti scorrere e su che punti indugiare; la mia bocca sapeva che punti mordere e che punti baciare; il mio cuore sapeva che, di lì a poco, tutto si sarebbe arrestato, tutto l'entusiasmo sarebbe svanito e che quella gelosia morbosa che aveva posto fine alla vita di Brian sarebbe tornata prepotentemente a farla da padrona.

Mi godetti ogni secondo, respirai ogni centimetro della pelle di quell'uomo, mi aggrappai ai più piccoli brandelli di serenità che andavano dissipandosi troppo velocemente nella mia mente.

 

Dal momento in cui divenne mio e solo mio, Brian mi rovinò la vita.

Non lo fece di sua volontà, fui io a designarlo come il colpevole di tutto, probabilmente per alleggerire la mia coscienza da un peso troppo grande da sopportare. Sta di fatto che non vissi più serenamente, che la gelosia che avevo sempre covato in me esplose e mi inghiottì senza nemmeno darmi il tempo di accorgermene. Mi ritrovai a venire consumato da quel sentimento, ogni giorno sempre di più, costantemente e senza interruzione alcuna. Mi ritrovai con un vuoto dentro di me, scavato dalla gelosia. Mi ritrovai ad attaccare Brian, mosso dall'irrazionale paura di voltarmi e non trovarlo più.

 

Dal momento in cui divenne mio e solo mio, Brian quell'uomo identico a Brian mi rovinò la vita.

Vaghe immagini già viste e sfocate situazioni già vissute si addensarono nella mia mente, formando una solida e insormontabile cortina di ricordi, quando sentii l'anima di quell'uomo infrangersi sotto un mio schiaffo; e tutto sembrava schiarirsi sempre di più ad ogni colpo.

Eravamo in biblioteca, quella piccola oasi di pace che avevo da poco scoperto, ma dove nell'ultimo periodo passavo la maggior parte del mio tempo. Mi piaceva il silenzio che aleggiava lì, mi piaceva perdermi tra le righe stampate di un libro e fingere che la mia vita non esistesse, avevo riscoperto la lettura e mi chiedevo perché l'avessi sempre considerata una sofferenza. Finché leggevo, finché vivevo nel mondo di qualcun altro, tutto sembrava essere a posto, e i problemi non esistevano.

Il mio compagno di cella era con me, seduto al mio stesso tavolo, a torturarsi le mani come suo solito. Lo trovavo spesso in quella situazione, apatico e perso, ma non lo avrei mai interrotto: sapevo quali erano i pensieri che ti affollano la mente per il primo anno di carcere, e sapevo che parlarne avrebbe solo dato loro la forza necessaria per farti soccombere, perché esprimendo le cose ad alta voce le si rende vere. Le si rende pubbliche, le si lascia fuggire dalla propria anima per permettere loro di esistere nella vita reale.

Quel giorno, il mio compagno si alzò e si allontanò da me. Era una cosa che non faceva mai: era praticamente sempre al mio fianco, qualsiasi cosa facessi, e mai si era allontanato di propria spontanea iniziativa. L'unica volta che l'aveva fatto era stato nel giorno in cui mi aveva fatto capire che era tutto cambiato, che era tutto iniziato.

La mia mente non impiegò molto tempo per trarre le somme dei miei ragionamenti: se la prima volta che se n'era andato era l'inizio, quella doveva essere la fine. Mi alzai trafelato, seguendo l'uomo nella direzione che sembrava aver preso in mezzo agli scaffali. Girai e svoltai, e tutto sembrò ingrandirsi, gli spazi diventare più ampi ma allo stesso tempo più soffocanti. Sentii che il mio respiro si stava facendo sempre più affannoso e le mie gambe sempre più intorpidite, mentre cercavo disperatamente di correre, mentre speravo di vedere il mio compagno ogni volta che voltavo lo sguardo.

Infine, lo trovai appoggiato contro una libreria, intento a scorrere le pagine di un romanzo che teneva tra le mani.

“Che cazzo fai?” ruggii, senza curarmi degli altri presenti nella biblioteca, che già erano sembrati allarmati dalla mia corsa tra gli scaffali all'angosciata ricerca del mio compagno.

Lui, ovviamente, non rispose, ma mi guardò e mi sorrise, chiudendo il libro, come a dire che non era successo nulla. Nulla. Io avevo smesso di vivere e per lui non era successo nulla.

Quella fu la goccia che fece traboccare il vaso, e che fece andare in pezzi la mia sanità mentale.

Violai con grandi falcate lo spazio che mi separava da lui e, non appena gli fui vicino, un violento ceffone partì da me per colpire il suo viso, il tutto sotto gli occhi turbati e spaventati dei presenti.

Sbattei Brian quell'uomo identico a Brian contro gli scaffali, e mi lasciai andare. E lo sentivo piegarsi sotto ogni colpo, e ogni gemito e ogni lamento mi facevano sentire meglio. Tutto quel potere mi faceva sentire meglio. La consapevolezza di essere in grado di spezzare un uomo mi faceva sentire meglio.

Ogni volta in cui mi ero ritrovato a picchiare Brian, non mi ero mai curato di cosa stesse provando, principalmente per il fatto che non lo sentii mai lamentarsi sonoramente, non lo vidi mai piangere, non lo udii mai pregarmi di smettere. Le preghiere di Brian erano state liberate solo nel momento della fine, ed erano state una coltellata ben più forte e letale di quella che gli avevo inflitto io.

Ogni volta in cui mi ero ritrovato a picchiare Brian, tutto ciò che mi interessava era fargliela pagare, insegnargli cosa succedeva ad osare troppo e a volersi spingere oltre. In realtà, ragionando a mente fredda, realizzai che Brian non aveva mai osato davvero oltrepassare i limiti, ma che la mia anima cieca aveva posto paletti troppo vicini a lui, paletti che addirittura si avvicinavano ad ogni passo falso, e che con il tempo erano arrivati a toccarlo, a stringerlo, a soffocarlo.

Ogni volta in cui mi ero ritrovato a picchiare Brian mi ero sentito bene. Mi ero sfogato, mi ero comportato da animale, frantumando ogni regola di decenza, ma non avevo mai smesso: quella sensazione di potere mi aveva ormai assuefatto a lei, e non potevo più farne a meno. E ogni volta che mi trovavo a viverla ne volevo di più, sempre di più, ed ero così arrabbiato, così arrabbiato di non poterla soddisfare pienamente. E intanto gli occhi di Brian si riempivano di lacrime che lui ricacciava dentro di sé, così come i gemiti e le urla che colmavano la sua gola.

 

Quel giorno, in biblioteca, mi fermai solo quando le nocche mi facevano troppo male per continuare. Mi facevano talmente male che mi sembrava di averle sbattute contro un pezzo di legno, più che contro un uomo, ma non mi importava più di tanto: davanti a me c'era il mio compagno di cella, che dai segni sul suo volto sembrava aver capito le conseguenze dell'allontanarsi da me e dell'abbandonarmi.

In quel viso livido rividi Brian, e capii che quella non era affatto la fine: era solo il suo inizio.

 

Quando mi resi davvero conto che quella gelosia morbosa che tenevo in me, assopita per la maggior parte del tempo ma sempre pronta a ridestarsi per distruggermi, si era mossa per uccidere tutto quello che avevo messo in piedi, decisi che era meglio porre fine a tutto. Non mi sarei trasformato di nuovo nel mostro che ero stato con Brian; non mi sarei azzardato a ripetere tutto, a togliere ad un'altra persona ogni speranza ed ogni possibilità di felicità. Perchè era quella, la cosa che più mi pesava, la cosa che mi provocava fitte indicibili ogni volta che tornava prepotentemente alla mia mente: io avevo impedito a Brian di essere felice di nuovo. Gli avevo brutalmente strappato ogni singola opportunità di gioia, avevo spento il suo sorriso e zittito la sua risata; gli avevo impedito di salutare tutti un'ultima volta, di rivedere sua madre e suo padre, di farfugliare qualche scusa per ogni piccolo peccato; lo avevo costretto a vivere nel mio inferno, prima di lasciarlo assaporare il suo piccolo angolo di paradiso.

Ma quella volta era diverso. Quella volta avevo la possibilità di conoscere le conseguenze, e di poter fermare la travolgente corrente che mi spingeva impetuosa verso di loro.

E l'unico modo per fermare la corrente era fermare me.

Non sapevo di preciso in quanti modi si potesse porre fine alla vita di un uomo, e in particolare alla vita di sé stessi. Contando poi che la maggior parte di quei modi non erano fattibili in una prigione, non avevo che vaghe e nebulose idee su come avrei dovuto procedere.

A dirla tutta, avevo anche paura. Mi pareva strana, l'idea della paura, paura di porre fine ad una vita che non valeva la pena di essere vissuta – ma comunque una vita. Quel gesto significava rinunciare a tutto, e non ero sicuro di essere pronto, nonostante in quel momento non avessi niente se non una ripida discesa davanti a me, che mi avrebbe condotto ad un epilogo che conoscevo fin troppo bene.

 

Era mattina presto, quando aprii bruscamente gli occhi e capii che ero pronto, e che se avessi indugiato non sarei più riuscito a racimolare abbastanza coraggio quanto ne avevo in quel momento. Feci scivolare una mano tra il materasso ed il muro freddo, tastando alla cieca per un paio di secondi prima di incontrare un liscio e freddo pezzo di vetro, accuratamente nascosto da me giorni prima, inizialmente per dare una lezione particolarmente efficace a Brian, in seguito per impartire a me l'insegnamento meglio riuscito della mia vita. Ottenerlo era stato alquanto facile, quasi una casualità, un macabro segno del destino.

Mi ero ritrovato a picchiare Brian quell'uomo identico a Brian per l'ennesima volta. Eravamo di nuovo in biblioteca, eravamo esattamente nello stesso punto, era nuovamente capitata la scena di settimane prima: il mio compagno si era alzato e se n'era andato, facendomi sprofondare in acque scure e vischiose.

Sentii il legno della libreria scricchiolare dopo l'ennesimo colpo, oltre al mio compagno di cella, che stanco di tutto sembrò lasciar spirare l'ultimo esile brandello di forza che gli era rimasto. Si accasciò su di me, e io lo spinsi bruscamente contro gli scaffali, gli scaffali che sembravano sempre sul punto di rompersi, esattamente come l'uomo che tenevo in ostaggio.

Appoggiai una mano su uno dei ripiani e mi avvicinai al viso dell'uomo; mi avvicinai alla sua bocca ansimante, inspirai e tenni dentro di me i suoi respiri veloci e affannati, prima di dare un violento scossone alla libreria, per sfogarmi, per rimproverare me stesso per essermi nuovamente fatto controllare dalla gelosia. Nello scuotere quegli scaffali di legno chiaro, sentii un rumore di vetri infranti all'altro lato della libreria e, dopo averla aggirata, notai come il fato mi aveva servito su un piatto d'argento la via più veloce per porre fine a tutto: a terra giaceva, infranto, un piccolo vaso di vetro, i cui pezzi taglienti e letali annegavano in un liquido ambrato. La prigione era piena di alcol di contrabbando, trovato chissà dove e penetrato nell'edificio per le vie più impensabili, perciò non mi stupii più di tanto della mia scoperta. Lesto, sperando che nessuno mi notasse, mi preoccupai di raccogliere uno dei pezzi più grandi e nasconderlo nella maglia, prima di tornare dal mio compagno di cella e trascinarlo via.

 

Strinsi la mano attorno al pezzo di vetro e lo estrassi dal suo nascondiglio, sentendo il leggero bruciore di un taglio che mi stavo procurando a causa della spasmodica stretta che mi ostinavo a tenere. Ma non me ne importava. In fondo, di lì a poco ogni dolore si sarebbe addormentato, per non tornare mai più.

Mi sedetti sul letto, in poche mosse impacciate, tenendo gli occhi chiusi. Io non volevo rivedere quello che stavo per perdere. Io non volevo rivedere quell'uomo, che stavo salvando. Io non volevo rivedere nulla, tutte le immagini che avevo nella testa bastavano e avanzavano per farmi tentennare e far vacillare la decisione che avevo preso.

Inspirai profondamente, sussurrando a me stesso che lo stavo facendo per Brian e per quell'uomo identico a Brian. La mia mano iniziò a tremare quando una serie di dettagli bussarono alla mia mente, facendomi notare in primis che non sapevo il nome di quell'uomo, e che se avessi messo fine a tutto mai l'avrei saputo; facendomi notare che stavo rifiutando l'ultima possibilità di rivedere Brian, di rivedere i suoi occhi e sentire le sue labbra sulle mie; facendomi notare che io avevo troppa voglia di vivere per morire.

Aprii gli occhi. Senza poterle controllare, le mie palpebre si sollevarono, e il respirò mi si mozzò in gola nel vedere il mio compagno di cella seduto a terra, la schiena appoggiata al letto, lo sguardo puntato su di me. Mi stava osservando. Mi stava osservando puntarmi contro un pezzo di vetro maledettamente tagliente e non stava facendo assolutamente nulla per impedirmelo. Sapeva che stavo per lasciarlo andare per sempre e lo stava vivendo serenamente.

Tutto quello fu peggio di qualsiasi coltellata.

Allentai la stretta sull'arma, rendendomi conto di aver aperto completamente la mano solo quando un brusco rumore spezzò il silenzio nella stanza con un suono tanto straziante quanto un urlo in una chiesa, quanto le suppliche di Brian e i miei singhiozzi sulla sua tomba. Un rumore che mi fece sobbalzare, ma che non mi fece distogliere lo sguardo da quegli occhi inespressivi a qualsiasi cosa succedesse. Non si mossero nemmeno quando mi gettai a terra e mi precipitai su di lui, letteralmente assalendolo.

Fu solo quando mi trovai a pochi centimetri da lui, quando sentii il suo profumo e il calore della sua pelle, che non riuscii più a trattenere tutto. Le bugie che mi ero creato per convincermi ad abbandonare la mia vita si infransero silenziosamente, e oltre quel muro si fece strada il sollievo per essere ancora in grado di respirare, vivere e sperare. Per essere ancora in grado di guardare quell'uomo.

Piansi. E lo baciai. E piangevo mentre lo baciavo, e lo baciavo mentre piangevo; e gli accarezzavo le guance sorridendo euforico, con dentro di me la tempesta che coglie le persone che sentono di essere sopravvissute e di avere una vita completamente nuova davanti a sé.

In realtà, avevo solo imboccato una scorciatoia verso la fine.

 

Vedere la vita di Brian scivolare via da lui non mi fece sentire nulla; tutto quello che provai sul momento fu un senso di pace e incredibile soddisfazione. Tutto era finito, e l'angoscia non sarebbe tornata mai più.

 

La mia lingua accarezzò le labbra del mio compagno di cella, assaporandole e violandole, tentando di uccidere quel maledetto sorriso che non voleva uscire dai miei pensieri. E più mordevo quella carne, e più l'immagine di quella perfetta curva si faceva più vivida, impedendomi di pensare e controllarmi.

 

Spinsi Brian contro la parete del mio ufficio, quel luogo dove ci eravamo conosciuti, facendo aderire il suo petto al muro pallido. Il suo respiro si era già fatto più affannoso, i suoi muscoli più rigidi. Probabilmente aveva capito che non sarebbe stata una strigliata come le altre; era sempre stato intelligente e intuitivo, lui.

 

Accarezzai la pelle di quell'uomo, la graffiai, lasciai scorrere le dita in un delicato soffio sui punti dove sentivo i lividi gonfi, per poi affondare di nuovo le unghie quando trovavo un punto che non era ancora stato violato dalle mie mani dannate.

 

Appoggiai il mio corpo contro quello di Brian, affondai il mio viso nell'incavo del suo collo, respirando a fondo il suo profumo, cercando di immagazzinarne il più possibile nei polmoni e nella mente, per non correre il rischio di dimenticarlo.

 

Baciai avidamente il mio compagno di cella, morsi bramoso il suo collo, ingordo delle sensazioni che quella pelle e quel profumo erano in grado di provocarmi. E graffiavo, e mordevo, e leccavo, e accarezzavo.

 

Feci scorrere il coltello sulla nuca di Brian e lo sentii rabbrividire. Premetti più forte, man mano che la mia rabbia e la mia frustrazione aumentavano ripensando a tutto quello che lui mi aveva fatto, e lo sentii gemere. Allontanai la lama da lui e lo sentii sospirare.

 

Chiusi le palpebre e ringraziai mentalmente chiunque mi avesse dato la possibilità di rivedere gli occhi di Brian una seconda volta, riflessi in quelli dell'uomo che era piombato di colpo nella mia cella, nella mia vita, nella mia anima.

 

Respirai e appoggiai il coltello sulla gola di Brian.
“Jeremy” lo sentii sussurrare, con il fiato corto. Il mio nome, che suonava così diverso dal solito, mi fece esitare. Lo stare immobile di Brian, così inerme, mi fece esitare.

 

Tremavo. Sentivo ogni singola fibra del mio corpo fremere, come per impedirmi nei movimenti ed intralciare i miei piani. Tentai di mantenere la calma ma non riuscivo a controllarmi, tanta era la tensione che i miei muscoli e la mia mente avevano accumulato.

 

Provai a zittire Brian, provai a picchiarlo nuovamente, ma ormai era talmente abituato ai miei colpi che non ci fece poi tanto caso.

Jeremy”

Sentii le sue lacrime, come se avessero fatto rumore. Come se fossero state in grado di colpirmi e atterrarmi.

Jeremy, io non voglio morire così”

 

Sentivo quell'uomo tremare insieme a me – eravamo uno più spaventato dell'altro. Ma nonostante tutto, lui si ostinava a tacere, a non piangere, a non mostrare il minimo segno di reazione.

 

Stremato da quell'ansia, decisi che l'avrei finita in fretta. Agguantai la camicia di Brian e, in una brusca mossa, lo feci cadere schiena a terra sul pavimento. Gli si mozzò il respiro, probabilmente batté la testa, ma quello shock gli permise di risvegliarsi e di iniziare a lottare.

 

Non volevo essere vittima di quei tremiti e di quei pensieri così devastanti per un secondo di più, perciò mi staccai dal mio compagno e indietreggiai. Le mie mani perdevano la presa sul pavimento non appena le appoggiavo a terra, continuavo a scivolare in modo ridicolo, annaspando alla ricerca di quell'arma improvvisata, nella quale il destino mi aveva fatto incappare per uno scopo ben preciso.

 

Brian riuscì a rialzarsi in fretta, prima che io avessi il tempo di bloccarlo, e provò a venirmi addosso. Scioccamente, poi, dato che scappare sarebbe stato più intelligente e logico. Mi venne addosso e io, senza sapere cosa fare, non lo respinsi. Mi ritrovai ad allargare le braccia e accoglierlo per un'ultima, struggente volta.

 

Il vetro, nella caduta di poco prima, si era rotto in due. Due perfette metà, l'anima che si separava dalla carne, la razionalità che si separava dalla mente. Afferrai uno dei due pezzi senza mai perdere di vista quegli occhi, destinati a non essere mai più ammirati da nessun altro uomo.

 

Fu molto veloce, come tutte le cose che riguardavano Brian. Non mi servì nemmeno molta forza – in un certo senso fui fortunato.

Accolsi Brian tra le mie braccia, inspirai il più possibile il suo profumo e mi riempii i polmoni di lui, morsi le sue labbra e mi riempii la bocca di lui, osservai le sue iridi nocciola e mi riempii la mente di lui.

Poi alzai la mano e in un brusco movimento lo accoltellai.

 

Mi avvicinai nuovamente all'uomo, strisciando sulle ginocchia, con le lacrime a rigarmi il volto. Lui stava zitto, calmo, mi aspettavo addirittura un sorriso da un momento all'altro, tanto era irreale la situazione. Stavo piangendo perché non volevo ucciderlo, nonostante continuassi ad avvicinarmi a lui per porre fine alla sua vita. Non volevo toccarlo ma sentivo la travolgente certezza di doverlo prendere consumarmi dall'interno e invadermi.

 

Un verso strozzato scappò dalla gola di Brian che, incapace di reggersi sulle proprie gambe, crollò a peso morto su di me, scivolando poi inerte ai miei piedi, per non aver trovato un appiglio. Si accasciò in una posizione scomposta, ma poco impiegò a ritrovare un minimo di controllo sulle sue gambe e portarsele al petto, mentre un'inquietante e macabra macchia scura si espandeva sulla sua camicia all'altezza delle reni.
Stanco e improvvisamente colto dalla consapevolezza, da quella brutta bestia che arriva sempre troppo tardi, mi lasciai cadere sulle ginocchia, e guardai nuovamente da vicino quel viso che si faceva sempre più pallido, e quegli occhi che perdevano sempre più luce.

Jeremy” ripeté Brian “Jeremy, io ho paura”

 

Non potevo sopportare quell'ansia un momento di più. Non potevo farmi torturare da quegli occhi per un istante ancora. Mi lanciai contro quell'uomo con rabbia ed esasperazione, con addirittura una punta di sollievo, dato che quella devastante situazione stava per concludersi.

Piegai il braccio in modo da arrivare ad un'altezza sul corpo dell'uomo che ritenevo essere appena sotto le costole, ma quando sentii il vetro affondare leggermente nella carne mi bloccai. Mi costò uno sforzo immane, ma una prepotente domanda era appena arrivata a farla da padrona nella mia mente e avevo bisogno di una risposta.

“Come ti chiami?”

 

Brian non aveva paura di me. Brian aveva paura di morire. Di morire da solo.

Gli afferrai la mano, sentendola raffreddarsi mano a mano che il tempo passava e pure la stanza si congelava, pure la mia anima diventava di ghiaccio. Di tanto in tanto, appoggiavo due dita sul suo polso, e il sentire che diventava sempre più debole mi urlava a pieni polmoni che tutto quello era reale. Quell'uomo si stava restringendo mano a mano che la pozza di sangue sotto di lui si allargava, quasi a volerlo prendere.

Jeremy” mi chiamò per l'ultima volta. E io per l'ultima volta mi scontrai contro quelle iridi nocciola, contro quel sorriso che riuscì a dedicarmi in punto di morte. Aveva appena dedicato il suo ultimo sorriso al suo sporco assassino.
“Jeremy, io sarò sempre con te”

 

“Brian”

In un colpo secco, la mia mano ritracciò la curva che aveva descritto pochi secondi prima, ma questa volta non si fermò appena entrata nella carne.

 

Due guardie mi presero per le spalle e mi trascinarono via, mentre guardavo apatico la scena di una cella, la mia cella, vuota e linda.

Venni sbattuto pesantemente su una sedia di plastica, venni ammanettato e tenuto sotto controllo per tutto il tempo che un dottore, dall'altra parte della scrivania scura, mi parlava.

“Qual è il tuo nome?” mi chiese, incrociando le dita e osservandomi da sopra gli occhiali tondi, appoggiati sulla punta del naso.

“Jeremy Bowers”

“Sai perché ti trovi qui?”

“Perchè ho ucciso il mio compagno di cella”

Mi pareva ovvio. Io lo avevo ucciso e mi avevano perciò portato in psichiatria. Perchè ero violento o perché avevo infine perso il senno.

Ci fu silenzio. Un verso di sgomento appena accennato di una delle guardie interruppe la calma, ma fu prontamente soffocato. Il medico sospirò e guardò la scrivania, senza più avere la forza di sostenere i miei occhi.

“Jeremy, tu non hai mai avuto un compagno di cella”

 

Mi voltai e vidi Brian un uomo identico a Brian, in piedi dietro di me, sorridermi impacciato.

Urlai.

 

 

  
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