Lo trovate qui, in ebook,
ma se preferite la carta c'è anche quella.
Un bacione!
«E
io sono Raksha, la Diavola, che ti risponde.
Il
Cucciolo d’Uomo è mio, Lungri, e non
sarà ucciso.
Vivrà
e caccerà col Branco e stai attento,
cacciatore
di cuccioli nudi,
mangiatore
di ranocchi, ammazzapesci,
perché
alla fine egli darà la caccia anche a te.
Adesso
vattene, bestia bruciata della Giungla,
altrimenti per il cervo che ho ucciso
— io non mangio le
bestie morte di fame —
tornerai
da tua madre più zoppo
di
quando venisti al mondo!»
Rudyard
Kipling, Il Libro della Jungla
I
fratelli di Mowgli
1.
Era caduta
la neve durante la
notte.
L’alba
era ancora solo un
pallido annuncio nel cielo dell’est, e una luna tardiva
tramontava dietro la
Cresta dell’Orso. Tutto, là fuori, era blu scuro e
silenzioso e freddo.
Avvolta nella sua coperta preferita, la donna accanto alla finestra
cercava i
primi segni del sole che ritornava. Sarebbe stato un giorno limpido e
senza
vento, un giorno perfetto per la caccia.
Purtroppo.
–
Non abbiamo bisogno della
carne di quel cervo.
–
E dai, moglie. Me lo dici
ogni volta.
–
Non serve a niente, a quanto
pare.
Neena dal sangue nativo, figlia e nipote di sciamani, avrebbe tenuto il
muso
agli uomini per tutto il giorno; sia che i due tornassero umiliati a
mani
vuote, sia — a maggior ragione — che comparissero
trascinando la carcassa dalle
corna gloriose. Avrebbe pianto per il cervo, si sarebbe graffiata le
braccia
per lui. Si sarebbe rifiutata di vederlo e toccarlo; cucinarlo, poi,
nemmeno a
parlarne. La sera avrebbe spedito Isaias a dormire sul divano e non
l’avrebbe
svegliato, il giorno dopo, con il profumo del caffè caldo.
Al figlio, invece,
che in quel momento caricava il Weatherby, avrebbe perdonato tutto
molto
velocemente. Come al solito.
Isaias
osservava le mani abili
del ragazzo, le sue mosse già sapienti.
–
Ah-ha, figlio. Solo due
pallottole.
–
Una per la caccia, una per
difenderci, no? Lo dici sempre.
–
Appunto: due. Una tu, una io.
–
Due tu, due io. Se succedesse
qualcosa? Se fossimo divisi?
L’occhiata
feroce di Neena
costrinse Isaias ad accettare. La foresta d’inverno non era
un parco giochi.
–
D’accordo, due a testa. Ma
una sola in canna. E se sbagliamo…
– …torniamo a mani vuote, lo so. Come al solito.
–
Non è vero. L’anno scorso ne
abbiamo preso uno.
La canna del Weatherby Magnum 257 scintillava, lucida e pulita, pronta
per sua
la prima caccia. Il ragazzo sbuffò. Chiuse la giubba e
alzò il bavero attorno
al collo, poi si chinò per legare il fucile allo zaino.
L’aveva strofinato con
olio la sera prima, anche se l’arma era nuova di zecca.
Era il regalo per il suo sedicesimo compleanno.
Il guardacaccia si chinò per baciare la moglie, ma lei
girò il viso dall’altra
parte.
–
Non capisco il senso.
–
Perché non sei un cacciatore.
Le dita nervose tra i fili ribelli della treccia, Neena rimase dietro
la
finestra, a guardarli mentre si allontanavano tra gli alberi. I suoi
due uomini
avevano gambe forti come giovani alberi, ma arrancavano nella neve
appena
caduta. Le racchette li avrebbero aiutati, certo, ma sarebbero comunque
tornati
da lei esausti.
Avrebbe preparato un bagno caldo per il suo ragazzo. Quanto a Isaias il
guardacaccia, l’uomo che aveva scelto perché amava
i boschi quanto lei, gli
avrebbe fatto trovare cuscino e coperta già pronti sul
divano. L’avrebbe
perdonato solo la notte successiva, nel loro letto. Come ogni volta.
Sotto gli
alberi la neve era
più bassa. Il padre stabilì che sarebbero
avanzati meglio senza racchette, così
si fermarono per toglierle. Il figlio legò le sue allo
zaino, accanto al
fucile, e slacciò il primo bottone della giubba. I capelli
neri, corti sulla
nuca, erano umidi di sudore.
Proseguirono senza parlare, in salita. Il respiro era regolare ma
più rapido e
frequente; non c’era spazio per le parole, ma non ve
n’era la necessità. I due
camminavano e il figlio pensava solo ai suoi passi, uno dopo
l’altro, al modo
in cui gli scarponi lasciavano tracce azzurre sulla neve e ai versi dei
corvi
nel cielo sopra di loro. Onorato dal peso del Whetherby, il miglior
fucile da
caccia al mondo, lo zaino era leggero come i suoi pensieri.
Più tardi, nel
corso della giornata, avrebbero scelto un posto a picco sulla valle, e
si
sarebbero fermati per mangiare i tramezzini preparati dalla madre.
Il sole saliva con loro.
Presto si
sarebbe mostrato
oltre la Cresta dell’Orso e i due sarebbero stati pronti.
C’era un solo posto
da quella parte del parco dove l’acqua non ghiacciava in
inverno: là tutti gli
abitanti della foresta prima o poi dovevano passare, e là
loro due avrebbero
aspettato il cervo.
Quando le urla feroci li raggiunsero, un volo di corvi salì
come fumo da
un’esplosione; il silenzio della foresta invernale
andò in frantumi, e le teste
nere di padre e figlio scattarono in direzione della lotta.
–
Un orso. Resta qui. Colpo in
canna.
–
È pericoloso. Non dovremmo
allontanarci?
–
Potrebbe esserci qualche
idiota di escursionista, in mezzo.
Isaias tolse lo zaino, slacciò il suo fucile e lo
caricò. Quando si avviò,
sapeva già che i passi crepitanti dietro di lui erano quelli
di un figlio
disobbediente che lo seguiva nella caccia.
Arrivarono sottovento e restarono a distanza, ma sulla schiena del
figlio
scorreva sudore gelato. I capelli gli si rizzarono in testa e il
respiro
accelerato suo e di suo padre gli ferì le orecchie. Il
sangue pulsava forte.
Sopraffatto dal terrore, il giovane cacciatore si riparò
dietro al tronco di un
grosso larice. Il padre lo tenne saldo, una mano sulla spalla, e lo
raggiunse
dietro al riparo.
Un lupo dal pelo rossiccio, magro e spelacchiato, affrontava un grizzly
altrettanto magro, sparuto per la stessa fame e furioso.
L’enorme bestia grigia
sovrastava l’altra bestia, torreggiava su di lei con la
statura spaventosa, ma
il lupo piantato sulle quattro zampe non cedeva, non si spostava, non
fuggiva
la morte imminente. L’orso urlava e soffiava e menava colpi
con le unghie
affilate, ma il lupo resisteva e latrava e ringhiava più
forte; spiccava il
balzo puntando – inutilmente – alla gola, ricadeva
indietro e intanto la neve
si tingeva di rosso.
Il ragazzo impallidì.
–
Lo fa a pezzi. Aiutalo.
Aiutalo, pa’ – soffiò fra i denti,
stretto alla mano del padre.
–
Non si interferisce, lo sai.
Ma il ragazzo tremava e il lupo sputò un fiotto di sangue, e
il grizzly gridò
più forte. Allora Isaias imbracciò il fucile e
sparò in alto. L’orso si girò
verso di loro, non vide niente ma ricordò il significato di
quel tuono troppo
vicino; torse la schiena possente e corse via, e in pochi secondi
scomparve in
mezzo agli alberi.
In terra, incoronato del suo sangue, accanto ai suoi intestini giaceva
il lupo rosso.
Gli esseri umani non fiatarono.
Al loro respiro, unica voce nella foresta, si aggiunse il rantolo del
lupo
agonizzante.
Il braccio
di Isaias ancora
tratteneva il figlio e il suono della morte si fece debole, ormai solo
un
sibilo. Un refolo di vento portò loro l’odore
fetido degli intestini
squarciati. Il ragazzo asciugò gli occhi nella manica della
giubba.
–
Dobbiamo fare qualcosa. Lo
prendiamo, lo portiamo dal veterinario. Lo metto nella mia giubba
– e le
lacrime scendevano, giù per le guance, dentro al collo della
giubba da caccia.
–
Non si può. Vieni, non credo
sia più in grado di muoversi.
Sporche di sangue e materia del corpo morente, le mammelle gonfie ormai
inutili
pendevano tristi nella neve. Isaias sospirò. Si
chinò sulla lupa ma non osò toccarla;
lei emise un ringhio così debole che il guardaparco fece un
passo indietro, in
onore della morte imminente.
–
Possiamo fare una sola cosa,
per lei.
– Dobbiamo portarla dal veterinario, giù in
città. Dobbiamo andare subito.
Isaias non aveva più colpi nella canna del suo fucile. Una
sola pallottola,
questo era il patto, e la sua si era dispersa nell’aria.
–
Devi farlo tu.
–
Co… cosa?
–
Devi farlo tu.
–
La portiamo dal veterinario!
–
Dici che non vuoi studiare.
Dici che vuoi fare il mio lavoro, il mio lavoro è anche
questo. Prendi il
fucile e sparale, figlio. Sta soffrendo.
–
No.
Il sibilo si faceva più sottile ma all’improvviso
riprese forza e diventò un
guaito delicato, e davanti a loro un altro guaito rispose,
più debole ma vivo.
Gli occhi della lupa si dilatarono e la testa si mosse lieve in
direzione del
richiamo; la bava rosso sangue lasciò una traccia sulla neve
e indicò agli
uomini il luogo dove la madre aveva nascosto il figlio.
Da una
fessura nelle rocce,
alle spalle dell’animale, spuntarono un piccolo muso focato e
due occhietti
neri e lucidi come bottoni nuovi. Il cucciolo ruzzolò fuori,
rotolò nella neve,
sprofondò in un avvallamento e lì rimase a guaire.
–
Ah, mio dio, ecco perché. Non
ho mai visto una battaglia del genere. Ecco perché.
La voce del guardaparco era rotta dal pianto, ma gli occhi erano
asciutti. La
lupa guaì più forte, il cuore spezzato dalla sua
morte inutile.
–
Va fatto adesso. Se non ce la
fai lo faccio io. Dammi il fucile.
Non c’era più tempo. Il ragazzo tentò
di pensare in fretta, non c’era più
tempo, non per controbattere alle ragioni inevitabili e mortali del
padre.
Strinse la mani sulla canna del fucile; tutto ciò che egli
sapeva della foresta
scorse davanti ai suoi occhi, e nel gelo della mattina
d’inverno vide l'estate,
le acque e le nuvole, la primavera di germogli e cuccioli. Vide
l’amore di
un’altra madre, la sua. Cosa avrebbe detto, cosa avrebbe
fatto Neena?
Veloce
posò lo zaino e
imbracciò il fucile. Gli sfuggì un grido e la
lupa si volse a lui e restarono
così, occhi negli occhi. Il ragazzo prese la mira e prima di
respirare ancora
sparò.
Il sibilo cessò del tutto.
Il cucciolo si era appiattito sul fondo della sua buca nella neve e
uggiolava.
Il ragazzo lasciò cadere il fucile. Nascose la faccia tra le
braccia, nelle
maniche della giubba, e lasciò andare il pianto.
Isaias
avrebbe voluto
abbracciare il figlio ma invece restò immobile, il fucile
scarico abbandonato
nella neve. Il ragazzo gli diede le spalle e si soffiò il
naso, poi si chinò
sulla carcassa della lupa. La testa era un macello di sangue e cose
innominabili, ma questo non gli impedì di chiudere gli occhi
alla bestia
coraggiosa.
Il cucciolo uggiolava ancora.
Isaias si avvicinò; il piccolo si schiacciò per
terra. Non taceva. Il
guardaparco lo afferrò per la collottola e lo
sollevò.
–
Mezzo cane, mezzo lupo.
Guarda le zampe.
L’estate precedente, un enorme esemplare di pastore del
Caucaso si era perso
nei boschi sopra Highwood. Forse non si era davvero perso, dopotutto;
più
probabile che il cane, un giovane maschio di nome Yuma, avesse seguito
la lupa
in calore. I padroni, una coppia di turisti dell’Ohio, si
erano fermati al
campeggio due settimane oltre il previsto; avevano pagato il
guardaparco e due
guide per essere accompagnati lungo le piste dei lupi a cercare
l’animale. Il
corpo non era stato mai ritrovato, nel parco, nemmeno un ciuffo della
pelliccia, niente di niente. Forse ciò che Isaias reggeva in
quel momento era
tutto quel che restava di Yuma.
–
È mio.
–
Come, scusa?
–
Ho detto che è mio.
Il figlio fissava ora l’uomo ora il cucciolo, pallido, la
mascella dura.
–
Devo portarlo al centro di
raccolta. È un animale selvatico e la legge
prevede…
Il ragazzo fece i passi che lo separavano dal padre. Stese le mani.
Aveva mani
grandi quanto quelle di Isaias, ormai, e forse sarebbero diventate
anche più
grandi. Gli avevano sempre raccontato che il bisnonno di sua madre era
stato un
grande guerriero, più alto di una testa di tutti gli altri.
Lui già poteva
guardare suo padre negli occhi.
–
Ho ucciso sua madre. È mio –
e così dicendo prese il cucciolo. Lo prese come si fa con i
bambini piccoli
quando li si solleva, sotto le ascelle.
Il padre lo lasciò andare.
Il ragazzo aprì la giubba e poi la camicia, ci
infilò il piccolo, richiuse i
bottoni e la cerniera. Il cucciolo cominciò a succhiargli il
lobo
dell’orecchio.
–
Ha fame.
–
Dobbiamo rientrare. Niente
cervo, per oggi.
–
Come al solito.
Cominciarono la discesa verso la radura dove avevano lasciato gli
zaini. Il
cucciolo uggiolava ancora di tanto in tanto; il ragazzo
affrettò il passo.
Il padre camminava dietro di lui in silenzio.
– Ti chiami Buck – sentì dire al figlio, a bassa voce.
Lo trovate qui, in ebook,
ma se preferite la carta c'è anche quella.
Un bacione!
Comunque se si tratta di lupi e di cani e di foreste io ci sono sempre.
Il titolo della storia è per due ragioni: perché il cucciolo si chiamerà poi così e perché sono innamorata del Richiamo della Foresta di Jack London.
Dedicato a Aniasolary che sa chi è il ragazzo, e poi lei sa perché.
E anche a Kukiness, che anche lei sa perché.
Grazie.