Storie originali > Giallo
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Autore: JASteel    16/11/2015    0 recensioni
Anjel Gritti, a causa di una missione, si ritrova nella città da cui è misteriosamente scomparsa due anni prima. Il suo grande amore, la sua gemella e la maggior parte delle persone e dei colleghi poliziotti sono arrabbiatissimi con lei, anche perchè si rifiuta di fornire spiegazioni in merito. In realtà, non può farlo perchè ha perso la memoria a causa di un 'incidente'. A complicare la situazione c'è la caccia ad un serial killer che uccide le sue vittime componendole nelle pose dei tarocchi e cita la Divina Commedia. Durante le indagini Anjel scoprirà che i delitti riguardano molto da vicino il passato della sua famiglia ed i troppi misteri che la circondano, in primis chi sia veramente suo padre.
Genere: Azione, Introspettivo, Mistero | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het, Slash
Note: Lemon | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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"Per me si va nella città dolente,
Per me si va nell'eterno dolore,
Per me si va tra la perduta gente..."
 [Inf. Canto III, vv. 1-3]
 
Capitolo I
'Per me si va nella città dolente...'
 
ANJEL 
 
Noo!
Sentii l'urlo riecheggiare nella mia testa e in una nebbia accecante mi resi conto che a urlare ero io. 
Non c'erano altri rumori, solo le mie urla e il gorgoglio dell'acqua. Acqua rosso sangue... E... il pianto di un bambino!
Ripresi conoscenza di soprassalto. 
Mi sforzai di tenere aperti gli occhi, ma non ci riuscivo. Era come se una parte di me fosse ancora avviluppata nei frammenti scombinati del sogno. Mi ci volle qualche secondo per capire che il pianto inconsolabile e le urla non erano reali. Non c'era acqua, non c'era sangue e soprattutto non c'era nessun altro lì con me.
Tirai un respiro profondo e mi concessi un attimo per calmare il cuore che picchiava forte nel petto come se volesse schizzare fuori. Mi passai faticosamente una mano sul volto: sapeva di sangue e di legno misto a qualcos'altro che non riuscivo ad individuare... 
Ma dove cassiopea ero?
Sbattei forte le palpebre e finalmente riuscii a tenere gli occhi aperti. Da alcune fessure alla mia sinistra filtravano lame di luce e rumori lontani. Girai intorno lo sguardo e ... Ero dentro una piccola cassa di legno da spedizione!
Improvvisamente ricordai: il traffico illegale, l'ennesima missione... avrebbe dovuto essere la classica operazione 'shoot and run' ma evidentemente qualcosa era andato storto. Forse più di qualcosa. Avevo fracassato il radiotrasmettitore! Bene, ero sola... e con un gran dolore alla testa. Mi tastai delicatamente la nuca e gemetti. Forse un movimento brusco per liberarmi aveva fatto cadere la cassa ed io avevo preso un brutto colpo.
Certe volte ero così maldestra che c'era da chiedersi come avessi fatto a sopravvivere fino ad allora facendo quello che facevo.
Con cautela saggiai la stabilità della mia prigione di legno: non si muoveva. 
Strusciando il tacco dello stivale riuscii a torcere la suola per mettere allo scoperto una piccola lama lunga circa 5 centimetri. Pochi minuti e scalzai le graffette che tenevano assieme le assi. 
Nel lucore che filtrava dalla porta socchiusa vidi che ero sbucata in mezzo ad una dozzina di altre casse uguali alla mia, in una grande sala di cemento armato.
Un paio di casse erano state aperte, riversando sul pavimento materiale da imballaggio. Contenevano dei macchinari professionali per la palestra. Qualcuno aveva praticato degli squarci nelle imbottiture dei sedili, vicino alle cuciture, svuotandoli completamente. C'erano anche delle tracce di una fine polvere bianca sul fondo di una delle due.
Sul pavimento dei segni di trascinamento portavano alla porta socchiusa, dalla quale provenivano dei rumori attutiti.
Avanzai cautamente, aprii di qualche centimetro la porta e con cautela sbirciai fuori. I neon accesi illuminavano un'enorme sala simile a quella dove mi trovavo, con massicce scaffalature e ripiani su tre pareti, e, a un'estremità, un'apertura su un fondo oscuro.
Due uomini stavano trafficando attorno ad una cassa aperta; in quello inginocchiato di fronte a me notai la sporgenza prodotta da una grossa pistola infilata nella cintura, dietro la schiena.
A quanto pare la cassa era caduta ed il macchinario dentro si era incastrato. 
Forse dopotutto il bernoccolo non era frutto della mia imbranataggine.
Erano così infervorati a discutere fra loro da non prestare attenzione ad altro. Con un pizzico di fortuna avrei potuto raggiungere, non vista, la giacca abbandonata in un angolo dalla cui tasca vedevo spuntare un cellulare. Spinsi il battente con la punta del piede, e il più silenziosamente e velocemente possibile sgusciai attraverso la stretta apertura e mi infilai nello spazio fra il muro e lo scaffale. In mano stringevo la mia piccola lama.
"Shhh"- sussurrò una voce alle mie spalle. 
Mi voltai e mi ritrovai con una mano premuta sulla bocca ed un braccio che mi stringeva forte contro il corpo muscoloso di uno sconosciuto -"Non gridare. Non vorrei allarmare i nostri amici".
Rassicurato dal fatto che più che allarmata sembravo divertita mi lasciò andare. Ne approfittai per fare un balzello di lato e quando lo sconosciuto provò a riacciuffarmi lo centrai velocemente con un poderoso calcio alla bocca dello stomaco. Quel dannato aggeggio che mi imbracava la gamba a volte poteva rivelarsi molto utile.
L'aggeggio, ovvero un tutore, era quanto di meglio la tecnologia poteva offrire. In fibra di carbonio e keflar, era leggerissimo, invisibile sotto gli abiti e praticamente indistruttibile. Inoltre mi consentiva di fare cose altrimenti impossibili come camminare, correre, saltare e talvolta sfondare porte o prendere efficacemente a calci cattivi di vario genere. Insomma, un giocattolo da far morire d'invidia Tony Stark, peccato io mi sentissi ugualmente una storpia.
"Sei sempre la solita, Anjel!..."- mugolò lo Sconosciuto, torcendosi sul pavimento -"bella come un angelo, e temibile come l'ira di Dio!"
Nel sentirlo pronunciare quelle parole fui travolta dallo sconcerto. 
'Oh no! Un altro dannatissimo spettro del mio incasinatissimo passato!'
Uno spettro molto, molto carino e con occhi straordinariamente neri che in quel momento mi stavano studiando in uno strano modo come se cercasse in me qualcosa e non la trovassero.
"Dammi quello che hai preso"
"Io non ho preso proprio..."
"Dammi.quello.che.hai.preso"- scandii sottovoce, facendo un cenno eloquente della testa in direzione del macchinario sventrato nascosto nell'angolo dietro di lui.
"Io non..."- la menzogna gli si spense sulle labbra e mi allungò un sacchettino di velluto scuro.
Allentai il cordoncino rivelando una meravigliosa collana di rubini dal colore rosso intenso e dalla foggia antica.
Quando furono colpiti dalla luce i rubini iniziarono a scintillare con magnifici e sinistri bagliori blu. Per un istante interminabile li fissai, stregata, dimenticandomi di tutto il resto. Anche di respirare. 
"Rubini perfetti"- mormorai affascinata.
Avvicinai le dita per sfiorarli ma non osai farlo. Anche se la tentazione era davvero irresistibile... Irresistibile... Irres...
Di colpo la stanza si fece calda, opprimente. Lo sguardo mi diventò completamente vitreo come se sugli occhi mi fosse calato un velo... Un velo rosso... Soffocante... e fui travolta da una forte sensazione di nausea che mi fece barcollare. La collana scivolò fuori dal sacchetto e  toccò la pelle della mia mano, gemetti per il dolore e la lasciai cadere come se fosse stata incandescente.
Che stava succedendo?
In quello uno dei trafficanti irruppe nella scena, sbucando nello spazio fra due scaffalature.
Lo Sconosciuto afferrò di scatto la mia lama e la nascose, spingendomi al riparo delle sue ampie spalle. Rimasi stupita della rapidità con cui aveva reagito.
"Guarda, guarda cosa abbiamo qui!"- sogghignò il trafficante scoprendo una manciata di denti gialli e storti. Era molto magro.
"Non s-sono armato. Puoi controllare"- balbettò lo Sconosciuto.
Ma l'uomo non accennò ad abbassare la pistola.
"Che bella bambolina..."- disse una voce dietro di me. L'altro trafficante aveva aggirato le scaffalature dal lato opposto e ci puntava alle spalle una grossa glock. Era più grosso del suo compare ma non sembrava particolarmente muscoloso.
"Io e la mia ragazza c-cercavamo solo un p-posticino tranquillo per..."- si sforzò di ammiccare il mio compagno di sventure con fare allusivo -"beh, capite...? C'è ne andiamo subito. Non vogliamo guai!"
"Ma li avete trovati!"- senza il minimo preavviso il Secco lo colpì con il calcio della pistola.
Il colpo lo scaraventò contro il muro. Ma qualcosa mi diceva che non fosse poi così inerme. E la fugace occhiata che mi rivolse me lo confermò.
L'altro trafficante si avvicinò ridacchiando e mi afferrò per i capelli attirandomi vicino a lui.
"Io è il mio socio avevamo proprio bisogno di divertirci un pò!"- mi strattonò i capelli avvicinando di più il mio volto al suo. Aveva l'alito che puzzava di alcol e sigarette scadenti.
Con la testa così dolorosamente piegata, lo sguardo mi cadde sulla collana che brillava pacatamente vicino ai miei piedi. Il mio sgradevole ammiratore seguì la direzione del mio sguardo e si chinò per afferrarla. Mi bastò alzare il ginocchio per centrarlo al mento. L'urto lo sollevò letteralmente da terra e lo scagliò contro la scaffalatura, abbattendola.
La collana volò in aria attraverso il magazzino.
Con un sincrono perfetto lo Sconosciuto approfittò del diversivo per caricare a testa bassa il Secco. Si schiantarono al suolo.
Mentre recuperavo la glock, sentii che, dopo un ultimo grugnito animalesco, i rumori dello scontro fra i due cessarono.
Il cane di un'arma scattò. Girai di scatto su me stessa, nascondendo la pistola dietro la schiena. Lo Sconosciuto giaceva esanime.
"Ferma e alza le mani"- intimò il Secco. Aveva il fiato corto e un'aria stravolta.
Invece di obbedire, feci un passo avanti.
"Ho detto ferma!"
Feci un altro passo e poi accennai un movimento, ma invece di avanzare ancora, finsi di inciampare e scartai di lato per evitare la linea di fuoco della pistola. Mi abbassai di colpo, e, facendo perno sul ginocchio sano, girai veloce su me stessa e gli affondai un calcio appena sotto le costole sfruttando al massimo la potenza del tutore, provocandogli uno spasmo acuto e dolorosissimo alla bocca dello stomaco.
Ma sebbene piegato in due non mollò la presa sulla pistola e la sciabolò davanti a sè. Riuscii ad afferrare il braccio mentre stava per fare fuoco e contemporaneamente gli schiacciai il piede con il tacco e gli tirai una testata al volto. Dal naso gli sprizzò un fioto di sangue e stramazzò al suolo.
Non era ancora finita. Nonostante il dolore l'uomo, una mano sul naso, reagì sferrandomi un calcio rabbioso alla gamba protetta dal tutore e mi mandò a sbattere contro una scaffalatura.
Strinsi le labbra per la scarica di dolore che mi saettò lungo tutte le terminazioni nervose e gli rivolsi un'occhiata durissima. 
Sentii sotto le dita una superficie fredda, liscia, tondeggiante. Un tubo. Lo afferrai e gli sferrai una mazzata alla testa. 
L'uomo si abbatté sulle ginocchia, privo di conoscenza. Lo Sconosciuto, frattanto, si era rialzato e, con una espressione scanzonata e sorridente, si portò la mano alle labbra per lanciarmi un bacio prima di scappare via.
Il sacchettino con la collana era scomparso.
'Che maledetto imbroglione!'
Recuperai la pistola e gli corsi dietro. Svoltò l'angolo in fondo a un lungo corridoio vuoto eccezion fatta per un acquario la cui luce azzurrognola illuminava l'intera area. Avanzai con cautela tenendo la pistola davanti a me.
C'erano parecchie porte ed altri corridoi, ma questo bizzarro labirinto mi sembrava familiare, sebbene non lo riconoscessi ancora. 
Avevo una grande confusione in testa.
Anche l'odore pungente che sentivo mi era dolorosamente familiare. Qualcosa nel profondo del mio ventre iniziò a contorcersi, a tendersi e a scaldarsi in modo deliziosamente, dolorosamente piacevole... Come un fuoco...
A...! No, non potevo pronunciare il suo nome... Non senza andare a pezzi...
Scossi la testa e spinsi il pensiero di lui in fondo alla mente come mi imponevo di fare ogni volta.
Un forte rimbombo, come il ruggito di un grosso drago, riecheggiò nella galleria di fronte a me, seguito da una serie di forti rumori poco nitidi. Impugnai la pistola e spalancai la porta con una spallata.
Davanti a me si aprì un grande ambiente a forma di diamante con una dozzina di pilastri d'acciaio a sorreggere una volta degna di una cattedrale e una piccola folla esagitata accalcata attorno ad un pullman che stava facendo manovra.
Oh mio Dio! No, non lì! 
Ora che sapevo esattamente dove mi trovavo - il cosiddetto parcheggione coperto, al di sotto delle gradinate del Nuovo Stadio Sant'Elia - mi sentii come se qualcuno mi avesse dato un ceffone di inaudita violenza.
L'impianto del Nuovo Stadio Sant'Elia sorgeva nel punto esatto in cui si trovava il vecchio stadio inaugurato nel settembre del 1970 per ospitare le partite del Cagliari Calcio, neo Campione d'Italia. La demolizione, per fare spazio alla nuova struttura, aveva messo la parola fine alla travagliata vita del vecchio Sant'Elia, il quale, andando a sostituire l'Amsicora, che la travolgente cavalcata verso l'ineguagliabile vittoria del campionato 1969/70 aveva ospitato, sembrò da subito, per questo, essersi attirato le ire degli antichi dei del calcio. Neppure due mesi dopo l'inaugurazione un incredibile incendio aveva rischiato di distruggerlo: parte del carburante di un oleodotto, che serviva un deposito carburanti dell'Aeronautica Militare nelle viscere del vicino Monte Urpinu  e che correva sotto il campo di gioco, un giorno, a causa di una perdita nella tubatura, era filtrato fino alla superficie e aveva prese fuoco quando un operaio addetto alla manutenzione vi aveva gettato un mozzicone di sigaretta acceso.
Quello fu solo il primo di una serie di incendi, disastri e abbandoni che avrebbero  tormentato la struttura, finché tre anni prima non era stata acquistata dal consiglio di amministrazione dell'Atletix Football Club S.p.A. - l'altra squadra cittadina militante nella prima serie - e demolita per realizzare il nuovo innovativo impianto. 
Ricordavo nitidamente l'euforia di quei giorni, l'eccitazione... I progetti... E ricordavo che quello era l'ultimo posto al mondo in cui avrei dovuto essere.
Avevo dimenticato quasi tutto della mia vita precedente: facce, luoghi, fatti... ma sapevo che non avrei dovuto trovarmi lì! Non lì! Non vicino ad Alec!
Nooo!Avevo.pronunciato.il.suo.nome...
Di colpo pezzi di ricordi della nostra vita insieme mi si avventarono contro e mi squarciarono la mente e il cuore. Ricordi troppo vicini, troppo chiari e che facevano ancora troppo male.
Una vampata di calore bruciante mi salì al viso mentre quella parte della mia vita che avevo disperatamente cercato di seppellire nella parte più profonda di me mi si affollava attorno come onde di un mare in tempesta, imprigionandomi.
Squassata dalla sofferenza, barcollai in avanti mettendo maldestramente tutto il peso sulla gamba destra. Una fiammata atroce di dolore saettò dal ginocchio in tutto il corpo e mi mozzò il respiro, riscuotendomi. Mi concentrai disperatamente su quel dolore...
... E che diamine, Gritti, reagisci... Reagisci... Reagisci... Mi riecheggiò nella testa una voce. Ignoravo a chi appartenesse ma sapevo che DOVEVO obbedire.
Strinsi i pugni e respirai profondamente. Ancora. Ancora. E ancora...
... Ok, ce la posso fare... mentii a me stessa.
... Ce la posso fare... Ce la pos...
In quello i tifosi impazzirono. L'allenatore Sanchez era sceso dal pullman.
Emmanuel Sanchez, cinquantenne, colombiano, con un illustre passato da centrocampista, era stato chiamato ad allenare quella squadra di fuoriclasse tre anni prima. Aveva fama di essere durissimo con tutti: esserci e dare il massimo o sparire. E loro, l'Atletix degli invincibili, c'erano stati. In quel campionato vinsero tutto: Campionato, Coppa Italia, Champions e, dopo, Intercontinentale.
Tutti intorno ai trent'anni, tutti - o quasi - grandi amici. Insieme fin da quando erano dei ragazzini che marinavano la scuola per tirare calci a un pallone in un campetto di periferia. Partita dopo partita avevano conquistato il pubblico con vittorie clamorose e buone giocate. Per anni erano stati gli eroi: vincenti, potenti, ricchi, che quando uscivano dai loro riti di spogliatoio finivano immancabilmente in un calderone di affetto. 
Poi l'Atletix aveva infilato un paio di stagioni opache ed erano finiti nella polvere. Tutti eccetto Alexander 'Alec' D'arcy. Il bellissimo dio mezzo francese dal fisico statuario e l'aria da poco di buono, che aveva portato quella città dimenticata e la sua squadra sul tetto del mondo. E che pareva intenzionato a riportarcele. 
Alec... quello che giorni che sembravano eoni fa era il.mio.Alec. 
Stordita dal dolore dei ricordi mi accorsi troppo tardi di essere finita invischiata nella folla, un gorgo di afidi impazziti - afidi femmina di circa 16 anni di media e per due terzi fatti di ormoni con il chiodo fisso per gli incredibili occhi blu notte del capitano - che come un muro compatto mi trascinava in avanti.

ALEC
 
Dentro il pullman i giocatori si stavano preparando per uscire alla spicciolata.
"Con chi vieni domani? con quella modella... Come si chiama, la Brasiliana, sai?"
"Chi, Gisela? umpf, è storia antica..."- risposi.
"Avrà scoperto che razza di dannato bastardo sei!"- replicò Marco, insolente come sempre.
"Un dannato bastardo che non deve passare tutta questa settimana a preparare la partita di Sabato studiando i filmati della difesa della Lazio, come sarà bene faccia tu. Oggi ti sei fatto fregare tre volte!"- gli risposi caustico, scocciato dalla sua impertinenza.
"Solo due..."- sbuffò -"ok, tre ma l'ultima volta è stata colpa di quel dannato laccio che si è spaccato"- concluse mettendo il broncio, mentre io e Jake dopo esserci scambiati un'occhiata veloce scoppiammo a ridere.
"Solito braccialettino di ben servito, immagino..." - si intromise Stef, con tono polemico -"Con te quella gioielleria si sta arricchendo! dovresti farla diventare uno degli sponsor!"
Alto, biondo, levigato, con un sorriso degno della pubblicità di un dentifricio e occhi scuri, Stefano 'Stef' Lucchi aveva meno l'aria di un intoccabile dio greco e più quella di un comune mortale. Estremamente bello ma tangibile.
"Se hai bisogno di farti fare uno sconto fai pure il mio nome. In questo modo, forse, fra la bigiotteria troverai qualcosa alla tua portata"- replicai con un sorriso da bastardo arrogante, prima di seguire Jake in corridoio.
Anche se in campo ci coordinavamo in maniera spettacolare, quasi senza bisogno di parlare, non c'era molto affiatamento fra noi due fuori. Non più da quasi un anno. 
"Bello mio sei fortunato che all'antidoping non interessi una droga chiamata Anjel!"- sentenziò strappando una risata sguaiata a Marco mentre io, istintivamente, mi irrigidivo alla menzione del suo nome e lo trucidavo non lo sguardo. Non ero assolutamente dell’umore adatto per scherzare. Non su Anjel!
Ero stato nervoso e inquieto tutto il giorno, senza capire perché. Anche in campo non ero riuscito a calmarmi, infatti mi ero fatto rifilare un cartellino giallo come un pivellino. E... solo adesso ne comprendevo il motivo: dannazione, era scomparsa giusto 2 anni fa in questo stesso giorno! Già due anni, i 730 giorni più lunghi della mia vita.
Chiusi gli occhi per un secondo, mentre una fitta di dolore mi attraversava.
Dio quanto mi mancava. Quanto mi mancava il profumo della sua pelle, la sua risata, la sua linguaccia, il suo buttarsi a capofitto nelle situazioni e andare sempre fino in fondo nel bene e nel male. La sua voglia di vivere. Mi passai una mano nei capelli. Avevo bisogno di sudare, di essere dolorante. E di non pensare.
"Vaffanculo!"- gli ringhiai contro mentre la tensione tra noi saliva di colpo.
"Ho toccato un nervo scoperto, eh?"- ghignò.
"Senti se vuoi che le nostre chiacchiere restino amichevoli"- dissi indirizzandogli il più cattivo dei miei sorrisi -"non pronunciare mai più quel nome in mia presenza!... lei è... passato remoto!"- scandii digrignando i denti e afferrai il borsone dalla cappelliera sopra il sedile.
'Basta, D'Arcy, non andare lì con la testa, concentrati sul presente!'
"Sarà come dici, ma secondo me non è un passato così remoto! Se lo fosse forse non giocheresti come una femminuccia ad ogni anniversario!"
Strinsi i pugni per cercare di placare la rabbia che tornava a farsi sentire.
Un improvviso quanto innaturale silenzio scese sul pullman.
"Ehi, Jake, mi sa che è meglio se intervieni"- mormorò Marco adocchiando Lucchini, l'allenatore in seconda rimettere la testa dentro il pullman e scrutare la situazione.
Ci sfidammo lanciandoci sguardi assassini per qualche istante.
"Piantatela voi due che impressionate il pulcino!"- si intromise Jake cercando di pacificarci.
Effettivamente Marco ci stava guardando a disagio. Non eravamo un buon esempio per lui. E non facevamo onore allo spirito di squadra su cui l'Atletix era stata rifondata.
"Le donne sono solo dei divertenti passatempi, ragazzino..."- guardai in modo sprezzante le tifose urlanti al di là dei finestrini oscurati -"da non prendere troppo sul serio se non vuoi diventare vecchio e noioso come Stef!"
Il disgusto fece stirare le labbra di Stef mentre tornava a rivolgersi a me -"Il manipolo di sventole che mi sono ripassato nelle ultime settimane avrebbe qualcosa da ridire. Se vuoi ti passo il numero della biondina di ieri ... Capitano!"
"Chi non può scegliere si deve accontentare, non è vero?"
"Oh, dimenticavo: le bionde non fanno per te o meglio tu non fai per loro!"
Non replicai, ma socchiusi gli occhi pericolosamente. Sentivo la rabbia e l’odio che si impadronivano di me.
"Forse è una tara vostra di voi Mezzosangue!"
Bastò quell'ultima parola, per farmi perdere il controllo mandandomi l'ira alle stelle. Scansando Jake mi avventai contro Stef, sbattendolo contro i sedili con l’intento di assestargli un cazzotto su quella faccia da figlio di puttana arrogante.
Quel pugno però non riuscì mai a centrare l’obiettivo, perché Lucchini mi staccò e mi sbatté a mia volta contro i sedili dalla parte opposta del corridoio.
Nonostante il fisico tarchiato, Lucchini era stata l'incubo dei difensori dei suoi tempi: veloce come una biscia e forte come un toro.
“Vediamo di chiarire una cosa, signor Alexander Avery D'Arcy!”- mi sbraitò contro, sottolineando il mio nome e guardandomi dritto negli occhi con un'aria torva e minacciosa, come se volesse uccidere qualcuno da un momento all'altro -“…in questa squadra vigono delle regole ben precise e vanno rispettate. Da tutti. Se non te le ricordi sarò ben lieto di rinfrescarti la memoria. Tatuatele, cantatele se vuoi o fatti un cazzo di promemoria da tenere in tasca per quello che me ne importa, ma… rispettale!”- continuò furioso -"e questo vale anche per te signor Stefano Lucchi! Razza di asini indisciplinati, se vi aveste visti il signor Sanchez avreste passato le prossime due partite a scaldare la panchina con i vostri culi strapagati! E ce lo possiamo permettere? No!"
Il rimprovero andò a segno e fece male. Avevamo sputato sangue per arrivare a quel punto e non potevo mandare tutto a puttane perché non riuscivo a controllarmi.
"Fatevi trovare ad azzuffarvi ancora come due galletti di strada e se non avete figli scordatevene di averne perché vi prenderò a calci fino a farvi sputare le palle dal naso. Sono stato chiaro? Non vi sento! Sono stato chiaro?"- urlò spostando lo sguardo da me a Stef.
Biascicai due parole -"sì, signore"
"E adesso fuori di qui. Ma prima datevi una sistemata, salvate le apparenze, se non altro" - ordinò spintonandomi malamente in avanti.
Ero già sulla scaletta quando, con la coda dell'occhio, vidi che quell'idiota di Stef non sembra così propenso a finirla. Se n'era accorto anche Jake che posizionò i suoi novantacinque chili di scanzonato difensore irlandese di traverso al corridoio.
"Come puoi trascurarmi in questo modo?"
"Levati dai piedi,  Jake"
Non sentii la replica ma ero certo che non avrei visto la faccia del figlio di puttana per un bel pezzo.

ANJEL 
 
Come attratta da qualcosa di indefinibile, la mia testa si voltò verso il pullman mentre il movimento della folla attorno a me si faceva febbrile.
Il respiro mi si mozzò in gola quando lo vidi,. Ero stordita. 
"Dio quanto è bello!"- sussultai quando una ragazzina dai capelli nero corvino con le punte blu ed occhi pesantemente truccati iniziò a strillare. Indossava una camicetta viola a ruches, profondamente scollata, una minigonna di pelle nera e calze nere di pizzo che le davano un'aria da damigella dark di fine ottocento. Non avrebbe potuto essere più fuori luogo di così.
"Dovrebbe essere impedito per legge agli uomini di essere così fighi!"- le fece eco un'altra ragazzina conciata suppergiù allo stesso modo.
Alec era davvero un Figo pazzesco, bello come un dio, bello come lo ricordavo... Anche se ora sembrava cupo come un angelo caduto in disgrazia.
Non riuscivo a staccargli gli occhi di dosso mentre cercavo disperatamente di districarmi dalla massa di tifosi che si facevano strada a gomitate verso di lui.
Nascosi rapidamente la pistola e cercai di mimetizzarmi. Con abili colpi di mano mi affrettai a sfilare un cappellino da baseball dalla tasca di un tifoso e me lo calcai bene in testa a ombreggiarmi il più possibile il volto.
Alec non poteva vedermi, ne ero certa. Eppure i suoi occhi sembravano posati proprio su di me e quell’inconfondibile sorriso sembrava proprio rivolto nella mia direzione, come se riuscisse a vedermi e non fosse affatto sorpreso di scorgermi in mezzo alla folla.
Distolsi in fretta gli occhi da lui, ciononostante mi sentivo addosso il suo sguardo. Non era necessario che lo vedessi per sapere che mi stava guardando, lo sentivo. Era sempre stato così sin dal primo momento in cui i nostri sguardi si erano allacciati ed il fulmine invece di darci il canonico colpo ci aveva fusi insieme. 
Lo sentivo mio, parte di me, dentro la mente, nelle ossa, nella pancia, nel cuore, come se lo avessi amato da tutta la vita, come se fossi stata da sempre al suo fianco.
Non mi era mai capitato prima di provare sentimenti tanto intensi, splendidi e assoluti da non essere in grado di controllarli.
E sapevo che per lui era lo stesso perché SENTIVO le sensazioni, le emozioni che fluivano fra noi come se fra le nostre anime ci fosse stato un contatto, come se una parte di lui fosse finita dentro di me ed una parte di me fosse in lui.
Lo SENTIVO palpitare nel mio stesso sangue. SENTIVO il sapore del suo respiro nella mia bocca anche quando non era con me. SENTIVO la sua risata vibrare dentro di me quando era lontano, i battiti del suo cuore impennarsi quando faceva volare il pallone in rete e una soddisfazione selvaggia gli esplodeva dentro. 
SENTIVO tutto questo e molto di più.
Lo sentivo... 
Tutto ciò si era spezzato alcuni mesi prima quando ero precipitata all'inferno.
Eppure neppure le sofferenze patite allora mi sembravano così strazianti come il dolore che provavo in quel momento. DOVEVO fare qualcosa, qualsiasi cosa o mi sarei sbriciolata come una statua di cenere.
... Il ladro, certo...
Mi guardai attorno ansiosamente cercando di individuare alla svelta quello scanzonato farabutto. Lo individuai fra gli inservienti.  Afferrò uno dei borsoni dal portabagagli e ci infilò dentro qualcosa, prima di scaricarlo a terra assieme agli altri. 
Non potevo raggiungerlo senza passare in mezzo alla squadra. Cosa che non avrei fatto mai è poi mai.
Ma non avevo fatto i conti con la folla, che aveva abbattuto il cordone di sicurezza e stava sciamano sui giocatori a caccia di autografi e foto, trascinandomi con sè.
Oh, merda!

ALEC
 
Ero ancora sui gradini quando sentii una forte scarica magnetica provenire da una tifosa con un enorme cappellino da baseball calato in testa. Avevo già provato qualcosa di simile un giorno di 6 anni fa quando, prima ancora di conoscere l'impossibile ragazzina che sarebbe diventata il mio paradiso e il mio peggiore inferno, i suoi occhi mi avevano già stregato. 
Chissà, forse stavo guarendo da lei o forse la scarica di adrenalina di poco fa e tutto quel parlare di lei mi avevano fottuto definitivamente il cervello!
Mi strappai da quei pensieri inopportuni rivolgendo la mia attenzione ad una coppia di ragazze che mi pressavano per un autografo e un selfie. Mi osservavano a bocca aperta con uno sguardo bramoso, come se volessero mangiarmi. Scoccai loro un sorriso intrigante, incurante del cipiglio di disapprovazione di Manfredi, facendole arrossire di brutto e perdere il respiro.
Di colpo la ressa mi scaraventò addosso la tifosa con l'enorme cappellino.
Non so perché lo feci, ma la baciai rovesciandola in uno scenografico casquè. La sentii sussultare e poi sentii i suoi gemiti contro le mie labbra, mentre socchiudeva le sue, lasciandomi spazio, lasciandomi esplorarla, assaggiarla...
Spalancai gli occhi allibito.
'Anjel!
Formulato quel pensiero il mio fottuto cervello si bloccò e il respiro mi si mozzò in gola. Non riuscivo a toglierle gli occhi nè le mani di dosso. Non capivo. Non capivo più nulla.
Anjel si staccò dalle mie mani, barcollando, con l'incredulità dipinta sulla faccia, le orecchie in fiamme, e fece scattare la mano sparandomela sulla faccia.
"Ti sono andati gli ormoni nel cervello?"
Ero incapace di reagire, pietrificato per lo stupore. 
Era bella come sempre, come lo era nei miei ricordi, bella come un angelo, con quegli occhi blu così brillanti da sembrare irreali, assurdamente innocenti e grandi e quel naso da folletto dispettoso.
Mille pensieri si affollarono in testa, ma uno dominava su tutti : 'Anjel, tornata'. E sebbene una parte di me volesse disperatamente crederci, l'altra vi si opponeva con tutte le forze.
"Nik, che diavolo...?"- Jake aveva l'aria completamente sbigottita.
Fui io a chiarire per lei -"No, è Anjel"- riuscendo, incredibilmente, ad articolare il suo nome con voce controllata. 
Già Anjel, la mia Anjel. Era proprio lei. Eppure… era diversa. Non riuscivo a spiegarmi questa sensazione. Ma era ... diversa. Più magra... troppo magra e il suo viso era molto più pallido del solito. Aveva lo sguardo  stanco e l'aria tesa di un fine turno. Ma non era questo. Era qualcosa di diverso...
Non finisco di pensare questo che avverto la solita, strana, magica corrente vibrare tra noi mentre persino la cacofonia di rumori del sotterraneo parve attenuarsi come se tutti avessero deciso improvvisamente di bisbigliare. Anche Jake, rimasto impalato, a bocca aperta, tutto quello che riuscì a borbottare fu un -"Beh, che mi venga un colpo!"
Fu Anjel a rompere l'incantesimo mettendosi a guardare freneticamente attorno. C'era qualcosa che non andava.
La sorveglianza della squadra era fatta da gente capace, ma non vedevo nessuno in giro, solo una gran confusione e civili sciamati laddove non avrebbero dovuto essere. Soprattutto non vedevo Paco, il capo della Sicurezza.
Dove diav... 
Non ebbi il tempo di capire che Anjel mi spinse da una parte urlando di gettarsi tutti a terra.  Una breve raffica di spari riecheggiò vicino a noi. Il rimbombo in quello spazio chiuso fu assordante.
Jake trovò riparo dietro il pullman. Qualcuno urlò mentre la folla di tifosi si trasformava in un marasma di confusione e panico.
Alla successiva breve raffica di spari dell'uomo i tifosi si sparpagliarono con scatti frenetici.
Udii un gemito e il fiato uscire dai polmoni di colpo quando un proiettile colpì Anjel facendola cadere all'indietro per l'impatto, con le gambe aggrovigliate alle mie. Doveva aver indosso un giubbetto antiproiettile, poiché la vidi reagire, stringendo i denti, e rispondere al fuoco. La sparatoria cessò.
"Resta giù!"- mi intimò e con un lamento a denti stretti si rialzò, aggrappandosi all'autobus. 
L'uomo che aveva sparato stava correndo verso l'uscita. 
'Oh, dannazione!...'
Anjel si lanciò al suo inseguimento anche se la smorfia che aveva in volto e la postura tradivano il dolore che doveva sentire alla gamba destra.
Mi alzai barcollando. Stordito. Frastornato. Gli scoppi degli spari mi rimbombavano ancora nelle orecchie ed i pensieri mi si affastellavano nella mente, troppo febbrili per essere sensati.
'Che cazzo stava succedendo?'
Anjel e l'attentatore percorsero correndo l'intera lunghezza del parcheggio travolgendo tutti quelli che si paravano loro davanti e si infilarono in un corridoio. Sapevo dove sarebbero sbucati.
"Jake! Dammi le chiavi della tua auto!"- tuonai.
Il mio fedele amico me le lanciò senza fare domande e meno di un minuto dopo stavo rombando fuori dal garage a bordo della sua BMW i8 fresca di concessionaria.
Nel frattempo Anjel e l'attentatore avevano attraversato il campo da calcio e avevano raggiunto l'estremità opposta dove Anjel perse alcuni secondi inciampando su un basso muretto che fungeva da barriera. Ricadde dall'altra parte, ma riuscì a recuperare e ad infilarsi nel tunnel che portava al parcheggio esterno.
Li intercettai in tempo per vedere l'attentatore al volante di una Mini Cooper, imboccare a tutta velocità il serpeggiante groviglio di strade del quartiere Sant'Elia.
Anjel si presentò al primo agente motorizzato che vide -"ICPO"- e saltò in sella, infilandosi il casco. Il motore si accese con un basso ruggito e lei partì sgommando.
L'attentatore senza rallentare la sua folle corsa si immise nel Nuovo Asse Mediano. Anjel lo tallonava.
Mazzi di lampi sconvolgevano il cielo e un forte vento di maestrale rovistava le strade. Le spazzole della i8 lottava contro la pioggia che continuava a cadere con forza. Quel tempo faceva da perfetto contrappunto al mio umore. Ero furioso. Maledettamente furioso. 
Non sapevo cosa diavolo pensare!
Certo, ero sollevato perché finalmente era ritornata qui, da me. Ma il sollievo faceva a pugni con la rabbia e con il dolore accumulato per tutti quei mesi d'assenza. Dove cazzo era stata?
In testa mi si affollarono una miriade di domande alle quali non riuscivo a dare alcuna risposta -non  risposte convincenti, comunque - e una girandola di immagini di noi. La prima volta che l’avevo vista a L'Aquila in mezzo allo sfacelo post terremoto, la grotta e la scoperta della tomba del pirata, il nostro primo appuntamento, quel suo modo di ridere che mi faceva sentire in paradiso, la prima volta che avevamo fatto l'amore... Tutte le volte che avevamo fatto l’amore, e le volte in cui mi aveva fatto ridere, infuriare, preoccupare... 
Non avevo mai voluto nulla in tutta la mia vita come avevo voluto lei. Per lei avrei fatto di qualsiasi cosa e, che Dio mi perdoni, l'avevo fatto.
E poi, di colpo, lei aveva mandato tutto a puttane lasciandomi un enorme squarcio nel petto. 
La gola mi si serrò come sempre al pensiero e un dolore bruciante mi assalì togliendomi quasi il respiro. Sbandai e riuscii ad evitare per un pelo lo scontro con una vecchia Fiat.
L'auto proveniente dalla direzione opposta, e l'uomo al volante, terrorizzato dalla velocità con cui Anjel gli fece il pelo, aveva sterzato bruscamente, rimbalzando contro il cordolo della strada e urtando un palo prima di piombare nella mia corsia. Strinsi convulsamente il volante. L'i8 carambolò in un testacoda, ma riuscii a tenerla in strada mentre l'altra auto concludeva la sua corsa abbattendo lo steccato che circondava lo stagno di Molentargius.
Dall'auto dell'attentatore partì una sventagliata di spari che mancarono di poco la moto e sollevarono una cascata di scintille dal manto stradale. 
Anjel rispose al fuoco colpendo la gomma posteriore dell'auto che sbandò, ma l'autista riuscì in qualche modo a riprendere il controllo e a proseguire nella sua folle corsa.
Di colpo, ci fu una piccola esplosione e roteando su se stessa la Mini sbucò in Viale Marconi, fece un triplo di testacoda e sfondò il parapetto del canale Riu Saliu. 
L'auto si capovolse in aria e piombò in acqua sollevando un geyser. 
Anjel fermò la moto sul ponte con una sbandata, si tolse velocemente il casco e guardò di sotto. Sembrò avere un attimo di incertezza prima di superare con un balzo il parapetto e tuffarsi.
Il mio urlo fu inghiottito dal vento.
Quando raggiunsi a mia volta il ponte la Mini non si vedeva più. E non sì vedeva neanche lei. Si vedevano solo l'acqua scura e torbida ribollire e lembi sfilacciati di nebbia che come i tentacoli di un mostro risalivano lentamente le sponde del canale in tortuose volute.
Le sirene della polizia urlavano nella notte ma erano ancora distanti. 
Attesi i quattro minuti più lunghi della storia della mia intera vita mentre Anjel nuotava in fretta verso il fondo nel punto in cui l'auto si era inabissata. 
La visibilità era scarsa.
La Mini giaceva sottosopra e le ruote stavano ancora girando creando mulinelli. Anjel nuotò fino a raggiungere l'auto dalla parte del guidatore. L'attentatore si dimenava terrorizzato dentro l'abitacolo cercando di liberarsi dai rottami che lo imprigionavano.
Anjel cercò di aprire lo sportello ma la pressione dell'acqua era troppo forte. Si immerse fino a toccare il fondo con le mani. Trovò un grosso sasso acuminato fra le alghe.
Batté sul parabrezza incrinato finché il vetro non si infranse. Aiutò l'uomo a districarsi dal groviglio delle lamiere e riemersero in un'eruzione d'acqua al centro del canale.
Sentiva le mie grida ma sembrava non avere la forza di localizzarle. La vidi trattennero il fiato prima di essere travolta dalla corrente e sommersa. L'attentatore le si era avvinghiato stretto addosso e la trascinava giù.
Anjel trovò un appoggio per i piedi e si diede un forte spinta verso l'alto. Riemersa inspirò con un singhiozzo. Trascinandosi dietro l'uomo nuotò verso la sponda del canale dove le mie mani si protesero ad afferrarla.
Fu l'attentatore che riuscii a tirare sulla riva mentre lei mi sfuggì e venne sballottata dalla corrente nuovamente al centro del canale.
La forza dell'acqua era troppo forte per opporvi resistenza ed io, sgomento, mi accorsi che lei non riusciva a capire come muoversi nell'acqua. Andò sotto, ma riuscì a riemergere e ad inspirare una breve boccata d'aria prima di andare sotto di nuovo. 

ANJEL 
 
Ghiaccio e fiamme mentre la forza della corrente mi trascinava a fondo. Il ghiaccio mi faceva tremare e mi mordeva la carne, penetrando sotto la pelle fin dentro le ossa. E fiamme nei polmoni per la mancanza d'aria.
Nuotare era una fatica immane.
Provai a scalciare ma il ginocchio destro mi mandò una scossa lancinante di dolore fino all'inguine. La vista divenne confusa. Capivo di essere prossima allo svenimento.
Strinsi i denti e scalciai ancora ma quelle dannate alghe mi si erano avvinghiate addosso e sembravano volermi trascinare giù. Sempre più giù.
I polmoni erano al limite, stavano per scoppiare e il cuore mi martellava nel petto per la mancanza d'aria.
Per un interminabile momento la mia mente divenne completamente vuota. Il mio corpo non vuole saperne di reagire.
Non sentivo più neanche il rumore dell'acqua, ma solo il fragore del solito sogno e... l'acqua si  infranse in mille sfumature di rosso fino a divenire color del sangue.
Non riuscivo più a muovere le braccia e quando cercai di vedere cosa le bloccasse vidi delle robuste catene di ferro. L'acqua prese a ribollire e dei dardi mi sibilarono vicino. Quando fui colpita il dolore fu così straziante che aprii la bocca in un urlo disperato. L'acqua ingoiata mi tracciò una scia di fuoco in gola. 
Alle soglia dell'incoscienza l’unica cosa che riuscii a pensare fu che indossavo un corsetto sotto quelle catene. Che strano non ero vestita così prima...
Smisi di dimenarsi. Non mi importava di stare annegando. Mi sentivo attratta in un altro posto, in un altro tempo. Un posto e un luogo così... Invitanti.

ALEC
 
Nell'istante esatto in cui Anjel venne risucchiata sotto, mi buttai raggiungendo, con poche bracciate, il punto in cui era scomparsa. L'acqua era nera, gelida e ribolliva. Non vedevo un accidenti. Mi immersi e agitai le braccia nella speranza di riuscire ad afferrarla, ma trovai solo viscide alghe. 
'No. No. No. Non potevo perderla così. Non dopo tutto quello che avevano passato… No!'
Continuai a cercarla tuffandomi ancora e ancora e ancora  finché non la trovai avviluppata in un intrico di alghe. Era incosciente. La afferrai e tirai, ma sembrava che quelle dannate alghe fossero dotate di una forza invisibile che la ancoravano al fondo. 
Sentivo che i polmoni stavano per scoppiare. Tirai e scalciai con tutta la forza che mi era rimasta.
Pochi secondi dopo riemergemmo in superficie. Presi avide boccate d'aria, mentre Anjel, di colpo, iniziò a boccheggiare e tossire, tentando di sputare l'acqua del fiume. La corrente mulinava attorno a noi, la nebbia era fittissima. Mi riempii d'aria i polmoni e, con un ultimo estremo sforzo riuscii a strapparla via dalla corrente e a trascinarla verso la sponda piastrellata del canale, dove ci accasciammo.
Quelle cazzo di pietre mi facevano tremare di freddo ma non avevo la forza di muovermi. Mi passai faticosamente una mano tra i capelli, aprendo i polmoni a quanta più aria possibile e ritrovando un briciolo di stabilità.
Il rombo di un tuono spezzò l'aria.
Mi voltai a guardarla. Lo fece anche lei e i suoi occhi si fissano nei miei. Restammo per alcuni istanti a fissarci, respirando affannosamente, occhi negli occhi, ciascuno a leggere nell'altro un turbinio di emozioni: rabbia, felicità, tristezza, rabbia, orrore, sollievo... Rabbia...
Sapevo che il mio viso doveva essere eloquente in quel momento: tutta la rabbia, lo smarrimento e la sofferenza rivelati dai lineamenti tirati e dalla luce dura e furiosa nei miei  occhi. Non ero mai stato un grande attore quando ero arrabbiato, e in quel momento ero davvero, davvero arrabbiato, tanto che il petto mi faceva male per la furia che sentivo.
Poliziotti e vigili del fuoco provenienti dalla vicina caserma sciamarono intorno a noi.
"Che diavolo sta succedendo?"- chiesi più a me stesso che a lei, appena riuscì a riprendere abbastanza fiato.
"Mi piacerebbe poterti rispondere"- rispose ansante.
Seguii i suoi occhi che si girano ad osservare la strada sovrastante illuminata dalle luci delle auto della polizia e dei mezzi di soccorso. L'attentatore se ne stava immobile fra due poliziotti. Aveva qualcosa di strano, di malato anche se non si capiva in che modo.
"Anjel!"
Silenzio.
"Cristo, Anjel!"- il suo silenzio era esasperante e mi rendeva, se possibile, ancora più furioso.
Non resistetti oltre. Le catturai il polso tirandola in piedi e lo strinsi forte, con rabbia ignorando la solita, strana corrente che vibrava fra noi, costringendola a guardarmi negli occhi.
"Dopo tutto quello che abbiamo passato insieme come hai potuto?"- le sibilai contro. Sembrava alquanto scossa, incredula.
"Devo andare"- si strappò dalla presa -"E anche tu, questo non è posto per te"
"Siamo alle solite, non riesce proprio a stare lontano dai guai, vero, Ispettore Gritti?"- si intromise l'ispettore Belloch. L'ispettore Belloch era un quarantenne dall'aria dura come i vecchi gangster del cinema, snello, non molto alto. Quella sera aveva un aspetto quasi sinistro nella luce cruda dei lampeggianti, con una leggera ombra di barba sul mento e la bocca stretta in una linea dura. In una mano torturava una molle sigaretta il cui odore dolciastro mi fece rivoltare lo stomaco. La sua voce era morbida, impastata di fumo, di sonno e del freddo di quella notte, ma aveva sotto una sgradevole freddezza.
Non mi ero accorto del suo arrivo.
Cercai di ignorarlo.
"Dannazione, Anjel! Perché? Cristo! Ti ho creduta morta! Ho pregato per te, Anjel! Ho pianto per te! Dannazione, ti amavo e tu... tu mi hai semplicemente buttato via! Perché?"-continuai a ringhiarle contro, travolto da una collera così violenta che rasentava l'odio.
Non poteva scomparire e comparire dalla mia vita come cazzo le pareva. 
'Dio come ero furioso!'
Senza che me ne rendessi conto ero aggressivamente avanzato contro Anjel, incalzandola.
L'ispettore Belloch mi bloccò, afferrandomi per un braccio. Mi voltai a guardarlo con gli occhi velati dalla rabbia.
«Lasciami!» ordinai.
"La ringrazio per l'aiuto prestato alla mia collega, signor D'Arcy, ma è meglio se si allontana. Ora!"
"Aiuto un accidenti!"- dissi, cercando di divincolarmi.
Bramavo solo afferrarla e scuoterla forte fino a farle sputare le risposte di cui avevo bisogno ma lo sguardo truce e perentorio dell'ispettore Belloch mi fece desistere.
"Alec.vattene.via. Subito!"- il tono non ammetteva repliche.
Ci fronteggiammo con aria di sfida sotto la pioggia che aveva ripreso a cadere. Ma l'ispettore non si lasciò intimidire.
"Avrai modo di chiarirti con l'ispettore Gritti in un altro momento. Ora non fare sciocchezze!"- disse indicando col capo la sommità dell'argine, dove i primi giornalisti si andavano assiepando.
Borbottai una mezza bestemmia. Mi cacciai a fondo le mani in tasca, strette con forza a pugno e feci come mi era stato 'chiesto', mi allontanai da lì, tallonato da due agenti come un tifoso indisciplinato.
Avrei dovuto fra le forche caudine dei corrispondenti per raggiungere l'auto, così inspirai a fondo, mi passai le mani nei capelli e, nonostante la tempesta che squassava il mio cuore e la mia mente, mi calai un sorriso spavaldo in viso, a loro uso e consumo. Ma prima di allontanarmi lanciai ad Anjel un’ultima occhiata carica di risentimento.
"Noi due non abbiamo ancora finito. Tu mi devi delle spiegazioni!"

ANJEL
 
"Stai bene?"-mi chiese freddamente l'ispettore Belloch.
No, non stavo bene: mi faceva un male cane la milza, i polmoni erano in fiamme e mi bruciava intensamente la spalla sinistra dove mi aveva colpita il proiettile e, come se non bastasse, pure il simbolo sul polso mi dava un gran fastidio.
Ma soprattutto mi sentivo profondamente squassata per aver rivisto Alec, per aver sentito ancora una volta le sue mani su di me... Lo sentii partire sgommando e un nodo mi si strinse dentro.
Sapevo che rientrando sull'isola, prima o poi sarebbe successo che ci incontrassimo... anche se avevo scioccamente sperato di posticipare quel momento il più a lungo possibile. Non doveva accadere così presto! Dannazione! Non così! Non così!
Non ci volevo pensare così mi concentrai sul gioco creato dalle luci dei lampeggianti che rimbalzavano fra le due rive del canale.
"Pensavo sarebbe andata peggio"- mormorai.
Raggiunsi il ponte su viale Marconi dal quale i vigili del fuoco stavano recuperando l'auto. 
La pioggia cessò di colpo. 
Lembi sfilacciati di nebbia presero a salire lentamente in tortuose volute dalla superficie del canale, avvinghiandosi alle mie gambe, quando, infine, i vigili del fuoco, imbracata la macchina, con la gru la girarono e la issarono sul carro-ponte. 
Un agente aprì la portiera dal lato del guidatore liberando una cascata  d'acqua. Un secondo agente si occupò del bagagliaio.
"Oh, merda"- indietreggiò inorridito, boccheggiando come se avesse ricevuto un pugno nello stomaco. Sebbene pronunciate a bassa voce, quelle parole risuonarono in modo stranamente fragoroso.
Tutti si bloccarono. Alcuni agenti impegnati nei rilievi alzarono la testa dalla strada voltandosi verso la macchina, altri si avvicinarono per vedere.
Con un balzo mi issai sul pianale del carro-ponte. Belloch fece luce col display del cellulare. Dentro il bagagliaio c'era il cadavere di un uomo di circa 35 anni, con i capelli ondulati sul biondo rossiccio e vestito in maniera casual ma elegante. Era stato incaprettato con una robusta corda da barca. I polsi erano legati con un nodo a gassa d'amante. La posizione della testa e del collo, buttata indietro al punto che forse si era spezzato qualche vertebra, indicava una battaglia frenetica alla ricerca di un pò d'aria. La bocca era aperta e negli occhi sbarrati  si vedevano chiaramente delle ecchimosi congiuntivali.
Ebbi un brivido. 'Che morte orribile!'
"Al peggio non c'è proprio fine stanotte!" - sbottò Belloch -"Ci mancava giusto il cadavere di un Horst!"
Gli Horst erano una delle più prestigiose, in vista e ricche famiglie cittadine. Il padre e i due figli, Pierluca e Ludovico, erano soci, amministratori o consulenti di alcune fra le più importanti industrie europee.
Sebbene Cagliari non fosse certo uno dei maggiori centri finanziari a livello internazionale, era qui che gli Horst avevano fissato la loro residenza principale.
Recuperai un paio di guanti in latice da un agente e frugai nelle tasche del cadavere. Inaspettatamente un conato di vomito mi fece salire in gola un fiotto di bile e dovetti farmi forza per ricacciarlo giù. Bizzarro, io non avevo mai avuto verso i cadaveri il moto di repulsione che sovente mostravano i non addetti ai lavori.
Trovai un pezzo di carta sul quale erano scarabocchiati alcuni numeri, mezzi cancellati dall'acqua.
                                                                                              12
       1  (.)                    3
                                                                                                 >B 
Chissà che significavano...
"Cosa ne pensi?" - chiese Belloch cercando nervosamente una sigaretta nelle tasche.
"Non credo sia morto annegato"- risposi dopo aver imbustato il reperto -"inoltre, dati i segni sulla serratura dell'auto, non credo che lo sparatore sia il suo assassino. Ha solo rubato l'auto sbagliata".
Fui colta da un brivido di freddo intenso come uno spasmo, inoltre quel dannato marchio sul polso mi dava il tormento, così mi sfilai il guanto e presi a massaggiarlo distrattamente.
Alzai lo sguardo e incrociai quello dell'attentatore. Alla vista del mio polso il suo sguardo si fece allucinato, si divincolò rabbiosamente dai due agenti che lo trattenevano per le braccia,  liberandosi. Uno degli agenti reagì puntandogli contro la pistola. Lui chiuse gli occhi e lo colpì con una spallata. L'arma rimase contesa fra i loro corpi. L'agente cadde in ginocchio. L'altro sorrise, alzò lo sguardo dalla pistola e vide i miei occhi che lo fissavano. C'era determinazione nel suo sguardo. Si puntò contro la canna dell'automatica e mormorò qualcosa che suonava come -"Non nobis, non nobis sed tua gloria... electa tu est" prima di premere il grilletto.
Furono le sue ultime parole. 
Gli agenti accorsero subito ma non poterono fare nulla. Era morto.
Io rimasi impalata. Le sue parole non mi dicevano alcunché ma la nota rauca con cui le aveva pronunciate aveva sollecitato nella mia memoria una sorta di sinistro presentimento che ora si dibatteva per emergere.
   
 
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