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Autore: OnnanokoKawaii    16/11/2015    3 recensioni
La generazione dei Miracoli dieci anni dopo, alle prese con la vita e i suoi numerosi problemi, con lo stress, con i fallimenti.
Convivere con i sogni infranti o col peso della loro realizzazione sembra difficile e lo è ma a volte.... il destino ci mette lo zampino e... il passato torna ad essere presente....
E forse... anche migliore.
Quattro storie, otto personaggi in un mondo che spaventa se si è soli ma che si può affrontare se si è insieme.
Genere: Erotico, Sentimentale, Slice of life | Stato: completa
Tipo di coppia: Yaoi | Personaggi: Daiki Aomine, Kiseki No Sedai, Taiga Kagami, Takao Kazunari, Tatsuya Himuro
Note: Lemon, Raccolta | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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Ed eccolo lì, Kise Ryouta, ventotto anni compiuti, a correre per il terminal con il rischio di non riuscire a salire sull’aereo di cui avrebbe dovuto essere il copilota. Sembrava quasi una barzelletta. Tutta la sua vita sembrava una lunga rincorsa.
Prima alla ricerca di una passione: a scuola aveva provato a entrare in tantissimi club sportivi, eppure, pur essendo più bravo della media non aveva mai provato la voglia travolgente di migliorare. Almeno fino a quando, alle medie, non aveva per caso visto un ragazzo durante gli allenamenti del club di basket.
Dio che stile di gioco, che naturalezza dei movimenti, che velocità, ma soprattutto a colpirlo fu l’espressione felice che aveva sul volto sudato.
Ecco cosa cercava così disperatamente: qualcosa che gli facesse battere il cuore, qualcosa di così speciale da rendere la fatica una cosa bella.
Così aveva deciso di entrare nel club di basket e un po’ grazie alle sue doti fisiche, un po’ grazie al suo intelletto, riuscì in fretta ad emergere tra le tante riserve e incontrare il suo idolo.
Aomine Daiki.
Cavolo, non era tanto più alto di lui, eppure ogni parte del suo corpo sembrava emanare una sorta di elettricità, come se la forza fulminea che lo animava durante il gioco scorresse sempre sotto la sua pelle trattenuta a stento.
L’accoglienza amichevole e la gentilezza con cui Aomine si dedicò ad insegnargli lo avevano colpito. Nel giro di poco tempo diventarono davvero amici e compagni.
Nonostante la prima squadra della scuola media Teiko fosse fortissima e composta da fenomeni in erba, riuscì a diventare un giocatore titolare e in breve tempo fu eletto a pieno titolo membro della strepitosa Kiseki no Sedai, la squadra il cui nome faceva tremare tutte le avversarie della prefettura e della nazione.
Quel soprannome era stato dato alla formazione titolare della scuola media Teiko, composta da ragazzini del primo anno dotati di così tanto talento da essere assolutamente fuori portata. Invincibili.
La Generazione dei Miracoli.
Coloro che gareggiavano tra loro durante le partite perché le squadre avversarie non potevano minimamente competere.
Era una squadra composta da personalità straripanti e ben presto, quando il talento di ognuno iniziò a maturare, divenne chiaro che non fosse possibile mantenere insieme questo gruppo così fenomenale.
Al termine delle scuole medie la squadra si disgregò ed i suoi membri andarono tutti in scuole superiori diverse.
Qui tutti si persero.
Ma il loro sesto uomo, Kuroko, colui che dell’invisibilità aveva fatto un’arte, grazie ad una squadra tutta nuova nel giro di un anno era riuscito a riallacciare la vecchia amicizia con tutti.
Avevano così trascorso gli anni del liceo a contendersi tra loro l’Inter High e la Winter Cup in partite serrate, vinte e perse sempre all’ultimo secondo e sempre con il sorriso.
Che begli anni erano stati quelli del liceo.
Alla fine della scuola il destino della Generazione dei Miracoli pareva quello di dividersi ma l’amicizia, in qualche modo, aveva vinto anche sulle diverse scelte.
Kuroko, pur essendo bravo nello studio aveva deciso di lavorare coi bambini, Momoi invece si era iscritta all’università ma travolta dall’amore per un suo compagno di corso aveva lasciato gli studi per convolare a nozze; dalle ultime notizie sembrava fosse in attesa del secondo figlio. Midorima, seguendo la propria passione invece delle orme paterne, rifiutò un destino da amministratore delegato per diventare un medico e da poco aveva conseguito la specializzazione in traumi sportivi. Akashi era partito subito dopo il liceo alla volta degli Stati Uniti dove aveva studiato per divenire manager dell’impresa di famiglia. Murasakibara, invece, aveva deciso di seguire il proprio stomaco andando a studiare per diventare pasticcere.
E lui, Aomine, era entrato in polizia.
Tutti avevano scelto cosa fare di sé stessi, tutti avevano qualcosa da inseguire, che fosse un sogno o una passione. Lui no.
Kise aveva deciso di entrare all’accademia di Aeronautica più per noia che per reale interesse, durante un servizio fotografico gli avevano detto che la divisa gli donava particolarmente e così… eccolo lì, sei anni dopo, con la sua bella divisa da pilota a sfrecciare per i lunghi terminal.
Di nuovo in ritardo.
Cavolo, pur avendo passato senza problemi l’esame per l’abilitazione, aveva l’obbligo tassativo di trascorrere almeno cinquanta ore settimanali in volo per sei mesi. Questo significava che il suo ultimo giorno libero era stato il giorno dell’esame stesso quattro mesi prima.
Il che era davvero deprimente.
Aveva lasciato il suo lavoro da modello perchè non aveva avuto il coraggio di trasferirsi all’estero, così, a poco a poco si era allontanato dalle riviste patinate per adolescenti così come si era allontanato dalle competizioni di basket.
“Possibile che non riesco mai ad arrivare in orario? Sono sempre a rincorrere. La vita. Ecco cosa rincorro disperatamente. Le sue spalle. Sia per il basket, che per le scelte dopo la scuola superiore. Ho sempre rincorso le sue spalle… Aomine…”
Scosse la testa correndo ancora più veloce mentre il colletto inamidato dell’uniforme iniziava a strangolarlo.
“No, non cadere di nuovo in quei ragionamenti, non puoi, non devi. È un capitolo mai aperto che deve restare tale.”
La sua ammirazione per Daiki Aomine era iniziata alle scuole medie, per proseguire al liceo e negli anni a seguire. Chi di loro non se ne era andato da Tokyo, bene o male aveva mantenuto i contatti con gli altri. Una partitella al sabato, poi una ogni due settimane quando lui poteva tornare dall’accademia e infine saltuariamente vista l’apertura della pasticceria di Murasakibara. Lui e Aomine erano davvero amici, eppure, durante quella prima partita della Winter Cup, qualcosa si era spezzato. Nel tentativo di vincere Kise aveva rinunciato, dentro di sé, a quell’ammirazione che aveva sempre riservato solo al suo mito, facendo un passo oltre.
Non aveva vinto, ma nonostante ciò il suo rapporto con Daiki era cambiato. Per i primi tempi era quasi stato in imbarazzo a comportarsi da amico, poi gli impegni e la vita avevano fatto sì che ci fossero troppe barriere per far caso anche all’imbarazzo.  
Infine, dopo mesi  senza alcun contatto, una sera, mentre rientrava stanco dall’ennesima prova pratica lo aveva visto al campetto da street basket.
Illuminato dalla luce arancione del tramonto, con la camicia della divisa aperta sul collo Aomine palleggiava, zigzagava, dribblava, saltava e infilava il canestro a ripetizione. Era sempre bellissimo, non aveva perso nulla negli anni. Anzi, aveva ritrovato quel sorriso di pura gioia che gli aveva visto durante l’allenamento tanto tempo prima. Un sorriso in mezzo al sudore, che esprimeva gioia per il dolore alle gambe e il bruciore al petto, un sorriso che rispondeva al tremore delle braccia e allo sfinimento mentale. La pura gioia di giocare libero.
In quel momento il cuore di Kise Ryouta batteva così forte che avrebbero potuto sentirlo anche i passanti se ce ne fossero stati. Era così affascinante.
Avrebbe potuto raggiungerlo, fare qualche tiro con lui, magari due chiacchiere; invece era rimasto semplicemente lì, nella penombra a guardarlo giocare da solo finchè il sole non era tramontato del tutto.
A quel punto sapeva.
Aveva sempre sospettato di avere uno speciale attaccamento nei confronti del suo mito, di colui che gli aveva dato uno scopo negli anni di smarrimento. Ma in quel momento seppe, con assoluta certezza che quel sentimento era ben più profondo dell’ammirazione e ben più pericoloso della semplice amicizia. Era amore. Il suo primo impossibile amore.
 
Da quella fatidica sera c’erano state diverse occasioni per incontrarlo, una partitella organizzata da Kuroko, la festa organizzata per rientro di Kagami dagli Stati Uniti alla fine del campionato NBA di cui era diventato una delle stelle incontrastate, il compleanno di Murasakibara che aveva deciso di festeggiare nella sua pasticceria, eppure lui, con una scusa o con l’altra aveva sempre trovato il modo di declinare gli inviti.
La verità era che moriva dalla voglia di vedere come se la stessero passando gli altri.
Perso nelle sue riflessioni passò il badge sul lettore all’ingresso della zona ufficiali e poi per l’accesso alla pista  dove il suo aereo lo aspettava.
Voleva davvero sapere come se la cavava Midorima nel suo studio privato con quella bella segretaria che non faceva mistero di volerselo accalappiare ignorando il fatto che  il suo capo stesse convivendo felicemente con un neoavvocato, uomo per giunta. Desiderava chiedere a Kuroko se era riuscito a far parlare Sakura-chan, la bimba timida di cui gli aveva parlato, che non aveva mai proferito parola né con i maestri né con i coetanei preferendo restare da sola a guardare gli altri giocare. Aveva perso l’occasione di congratularsi con Kagami per la sua carriera sportiva e di lasciargli i piccoli doni che aveva preparato per Akashi. E Mukkun, lui se non altro poteva vederlo, da lontano, nel tragitto che dal suo appartamento lo portava al terminal. Aveva allungato appositamente il percorso in modo da sbirciarlo al lavoro, nelle prime ore del giorno, oppure a tarda notte. Lui era sempre lì, affaccendato, concentrato a preparare i suoi amati dolci con quel  cipiglio annoiato ma una luce gioiosa nello sguardo.
Gli mancavano tutti. Sospirò nel prendere posto nella cabina di comando salutato da un brontolio del collega. Avviò le procedure di decollo, aspettò il segnale della torre di controllo e decise di spegnere il cervello per concentrarsi sulle manovre.
Erano già in posizione sulla pista quando venne data l’autorizzazione al decollo. Come aveva fatto migliaia di volte prima, azionò la leva per dare inizio alla fase di accelerazione. Il velivolo iniziò a muoversi sempre più veloce mentre i capannoni, gli hangar e il terminal si allontanavano, quando all’improvviso una comunicazione dalla torre di controllo. Volo non autorizzato. Dovevano tornare verso lo spiazzo di sosta per un controllo.
Come da ordini diedero la notizia ai passeggeri e riportarono a velocità ridotta il mezzo lontano dalla pista.
Nel giro di pochi minuti l’aereo fu circondato da auto e uomini della polizia e delle forze speciali. Gli uomini indossavano il casco protettivo d’ordinanza per cui era impossibile vederli in volto.
Ryouta rimase turbato nel rendersi conto che stava cercando Aomine. Scosse la testa  e intimò ai passeggeri, tramite l’interfono, di mantenere la calma e di scusare la compagnia per il disagio arrecato.
Vennero aperti i portelli e una squadra di agenti armati salì a bordo sotto lo sguardo sbalordito dei due piloti. Pistole spianate, cani al guinzaglio. Sembrava in tutto e per tutto una retata antidroga.
Dopo interminabili ispezioni sembrava non ci fosse nulla di anomalo tra i bagagli a mano e nemmeno addosso ai passeggeri ma all’improvviso, un uomo basso e tarchiato, seduto proprio vicino al portello aperto sganciò la cintura e si lanciò verso l’unica via di fuga. Non andò molto lontano.
Kise aveva visto la scena come a rallentatore, affascinato dalla dinamica dei corpi che cozzano l’uno contro l’altro. L’uomo era sceso dalla scaletta ma appena aveva poggiato un piede a terra era stato investito da un corpo massiccio. Il placcaggio dell’agente era stato esemplare e rapidissimo. Aveva investito il fuggitivo con tutto il peso del grande corpo e con una considerevole forza sbilanciandolo per trascinarlo a terra con sé.
Prima che la situazione tornasse alla normalità e al velivolo fosse permesso di  proseguire il programma di volo, per un solo attimo, mentre il portello era già in chiusura,  Kise vide l’ignoto agente levarsi il casco mentre i colleghi si congratulavano dandogli sonore pacche sulle ampie spalle. Aomine.
Perché non era sorpreso? Forse ne aveva riconosciuto la velocità, o magari le movenze.
Scombussolato tornò in cabina di comando per ricominciare le procedure di decollo. 
L’arrivo a Sapporo, sebbene in ritardo di quasi quaranta minuti, fu tranquillo e l’aria frizzante che gli colpì il volto mentre si dirigeva nelle sale riservate agli ufficiali di volo gli scrollarono di dosso l’inquietudine. Proprio quando sembrava che la giornata si stesse raddrizzando gli venne comunicato che quando fosse rientrato al terminal di Tokyo avrebbe dovuto recarsi negli uffici della sicurezza interna per lasciare una deposizione sulla dinamica dei fatti. Grandioso.
Numerose ore di volo dopo, ad un orario improponibile e con un mal di testa atroce finalmente Kise entrò negli uffici della polizia  interna al terminal. Una giovane poliziotta tutta sorrisi e moine, da lui bellamente ignorata, lo accompagnò nella sala d’attesa assicurandogli che  sarebbe stato ascoltato al più presto.
Seduto su una sedia metallica e scomoda, con la divisa sgualcita e una voglia matta di trovarsi nel proprio letto decise di chiudere un momento gli occhi sperando che il dolore martellante alle tempie scemasse con l’oscurità.
Qualcuno lo stava chiamando. Kise aprì gli occhi e in un attimo si rese conto si essersi addormentato nella sala d’attesa. Sbattè le palpebre e davanti si trovò l’ultima persona che avrebbe mai voluto vedere in quel momento.
Alto, fasciato alla perfezione dalla sua divisa blu che ne esaltava le ampie spalle e la ragguardevole statura, Aomine gli sorrideva.
-Devi essere proprio stanco per addormentarti su una sedia scomoda come quella. Vieni, facciamo in fretta così poi puoi andare a casa.-
Seguendo, stavolta realmente, la schiena del vecchio amico, Kise entrò nel grande ufficio. Fu fatto accomodare davanti ad una scrivania e davanti a lui prese posto un ufficiale sulla cinquantina che sfoggiava con navigata noncuranza profonde occhiaie bluastre che rivaleggiavano con le sue. Di Aomine non c’era più traccia, così, ringraziando silenziosamente la sua buona stella  rispose alle domande con professionalità ed efficienza.
Circa un’ora più tardi, quando ormai il sole stava iniziando a rischiarare l’orizzonte, finalmente Ryouta fu lasciato libero. Era uno spreco di tempo cercare di andare a casa, perché contando il tragitto di andata e quello del ritorno gli sarebbero rimaste poco più di tre ore per dormire. Inutili.
Facendo dietrofront si diresse a passo stanco verso la reception, mostrò il tesserino da ufficiale e subito gli venne messa in mano una chiave.
La chiave di una stanza nello squallido motel del personale aeroportuale. Ormai trascorreva più ore in quelle stanzette anonime e puzzolenti che a casa sua.
Più volte aveva pensato di lasciare definitivamente l’appartamento che aveva ereditato dalla nonna materna ma non aveva mai avuto il cuore di farlo veramente. Quella casa era tutto ciò che gli restava del se stesso vissuto prima dell’accademia. Lì conservava ricordi, oggetti e pensieri di quella che sembrava sempre di più la vita di qualcun altro.
Attraversò la strada mentre i primi raggi di sole illuminavano la facciata scrostata e malandata dello stabile che lo avrebbe ospitato durante le sue preziose ore di sonno. Aveva fame, l’ultimo vero pasto che aveva fatto risaliva sicuramente a qualche giorno prima. Non era facile sopravvivere di snack e pasti pronti rimediati nei pub e nei negozietti interni agli aeroporti ma l’idea di camminare fino al Konbini che distava un isolato intero dal terminal era superiore alle sue forze.
Dopo l’ennesima barretta energetica sgranocchiata sotto alla doccia, crollò ancora semivestito sul letto duro. Nel momento di sospensione tra il sonno e veglia gli si presentò alla mente il volto di Aomine, la pelle scura, gli occhi di quel blu impossibile che lo fissavano accesi di ilarità, l’ultimo bottone del colletto aperto che lasciava intravedere la gola… infine crollò in un sonno profondo e senza sogni.
 
Daiki Aomine  smontò dal turno alle sei del mattino, la retata al terminal aeroportuale lo aveva costretto a trascorrere lì tutto il pomeriggio e buona parte della nottata. Massaggiandosi le spalle si avviò verso il parcheggio: non vedeva l’ora di arrivare a casa, levarsi le scarpe e prepararsi una colazione veloce e abbondante. Stava salendo in auto quando, sulle strisce pedonali davanti al terminal, riconobbe la figura alta e appariscente di Kise che ciondolava verso uno squallido prefabbricato.
Lo osservò rallentare tenendosi lo stomaco, dolorante o affamato, non avrebbe saputo dirlo così da lontano, ed infine sparire nell’androne.
Era rimasto a dir poco sorpreso quando lo aveva trovato profondamente addormentato  nella sala d’attesa; nonostante il volto disteso nel rilassamento del sonno lo aveva visto sciupato e dimagrito. Anche quando lo aveva svegliato, le occhiaie che spiccavano sul suo incarnato chiaro erano orribili e  più simili a bruciature che a semplici segni di stanchezza, gli occhi dorati che avevano incontrato il suo sguardo erano appannati e smorti tanto da non sembrare nemmeno i suoi.
Erano mesi che non lo vedeva, alle rare rimpatriate organizzate dai loro amici Kise non era più venuto e adesso aveva un’idea ben precisa del perché: a un primo sguardo, quello scemo lavorava decisamente troppo.
Sapeva che gli orari degli ufficiali erano massacranti e  irregolari, ma come poteva un individuo energico come lo era sempre stato Ryouta ridursi all’ombra di se stesso?  Immettendosi nel traffico del mattino si prese l’appunto mentale di scrivergli un messaggio o di telefonargli il giorno dopo per invitarlo a riposarsi in primis e in seconda battuta a farsi vivo almeno per i compleanni dei suoi amici.
Il pomeriggio, riposato dopo qualche ora di sonno e decisamente carico, Daiki si preparò uno spuntino, indossò una tuta comoda e deciso a sfruttare la prima mezza giornata libera della settimana, iniziò la sua corsa. Ogni volta che ne aveva l’occasione andava a correre per un’ora e poi, se il campetto era libero, si fermava a fare quattro tiri a canestro. Lo aiutava a pensare e a ritrovare se stesso.
Mentre prendeva il suo ritmo la sua mente tornò a Kise, spento e fiacco oltre ogni immaginazione. Era preoccupato per lui. Sapeva che i suoi genitori si erano trasferiti al nord, da qualche parte in Hokkaido, a causa del lavoro del padre e che essendo Ryouta iscritto all’accademia aeronautica lì a Tokyo non aveva potuto seguirli; quindi era anche consapevole che non ci fosse nessuno a prendersi cura di lui. Erano sette anni che si prendeva cura di sé in completa autonomia e in assoluta solitudine. Da quel che aveva visto negli anni passati, finchè era stato uno studente le occasioni di vederlo erano state molte e lo aveva sempre trovato energico e in forma.
Forse, l’orario lavorativo non gli permetteva di prendersi cura di se stesso. Se fosse stato così, per quanto avrebbe potuto andare avanti prima di crollare? Visto lo stato in cui era… non molto.
Ma come avrebbe potuto aiutarlo? Lui stesso aveva orari bestiali e il suo telefono squillava a tutte le ore del giorno e della notte. Che appoggio avrebbe mai potuto offrirgli?
Un altro dubbio gli si affacciò alla mente: Ryouta avrebbe accettato il suo aiuto qualora si fosse deciso a offrirglielo? Detestava doverlo ammettere ma erano anni che lo sentiva sempre più distante. Nonostante avesse continuato a comportarsi normalmente nei suoi confronti, aveva sentito venir meno quel rispetto e quell’ammirazione che solitamente gli trasmetteva. Da quella partita della loro prima partecipazione alla  Winter Cup come avversari. Lo aveva sentito. Nel momento in cui Kise era riuscito a riprodurre i suoi movimenti dando prova del suo enorme talento, Aomine aveva percepito il loro legame affievolirsi. Negli anni successivi non avevano più avuto occasione di affrontarsi faccia a faccia a causa dei sorteggi che costituivano i gironi e questo aveva lasciato quella questione irrisolta.
Non avrebbe voluto che finisse così, ma tra gli impegni alla scuola preparatoria per entrare in polizia e gli impegni dello stesso Ryouta, non avevano trascorso nemmeno un minuto da soli. E poi… a che pro tirare fuori una storia così vecchia e sentimentale?
Che idiota era stato a non chiarire le cose allora, subito dopo la partita, quando quei sentimenti erano ancora freschi. Ma all’epoca era un ragazzino, troppo preso dai suoi stupidi problemi per interessarsi a qualcuno che non fosse se stesso. Che spreco.
Con la testa immersa in queste elucubrazioni Daiki decise di interrompere la sua corsa e scrivere a Kise, nella speranza di ottenere una risposta. Non aveva in mente né cosa dire in caso risposta né come aiutare l’amico, ma starsene con le mani in mano sapendo come stavano le cose non era da lui.
Prese il cellulare e iniziò a digitare: “Ciao Kise, mi ha fatto piacere incontrarti ieri, visto che non facciamo mai due chiacchiere, ti andrebbe di andare a bere un goccio una di queste sere? Fammi sapere quando ti viene meglio, i miei orari sono abbastanza elastici. A presto.”
Rilesse il testo del messaggio, scosse la testa e lo cancellò. Possibile che non fosse in grado di scrivere qualcosa che fosse un po’ meno impersonale? Prese un bel respiro e riprovò.
“Ciao Kise, una di queste sere ti andrebbe di andare a bere qualcosa insieme? Ti ho visto davvero molto stanco. Sono preoccupato e vorrei poterti aiutare. Ci vediamo presto.”
No. Non esisteva proprio che avesse il coraggio di inviare un messaggino così melenso. Chi era? La sua dannata fidanzata? Avrebbe mai ammesso di essere preoccupato per lui? Si… no… forse, ma sicuramente non nel primo sms dopo mesi di silenzio! Perdiana che frana che era!
Decise di sedersi su una delle panchine vuote che costeggiavano i campetti da Street basket e scrivere con calma.
“ciao Kise, spero tu ti sia riposato, mi sei sembrato molto stanco. Se hai tempo una di queste sere potremmo andare a fare due chiacchiere davanti ad un bicchierino. Che ne dici? Non preoccuparti dell’orario, fammi sapere solo quando sei libero. A presto. Daiki.”
MMmmh… andava già meglio ma forse era troppo confidenziale, in fondo non si vedevano da mesi. Riprese a digitare per cambiare alcune cose:
“ciao Kise, spero tu sia riuscito a riposare. Se hai tempo, una sera mi farebbe piacere fare due chiacchiere con te davanti a un bicchierino. Fammi sapere quando sei libero. Daiki.”
Era il meglio che la sua mente bacata fosse riuscita a partorire in quasi un’ora e mezza di riflessioni. Aspetta… un’ora e mezza? Eh sì, il suo orologio segnava le venti e quaranta. Stizzito premette violentemente l’invio e pigiando il telefono nella tasca della felpa riprese a correre verso casa, giusto in tempo per farsi una doccia e andare a fare il turno di notte in centrale.
A mezzanotte passata, in una di quelle serate in cui grazie al cielo non sembravano esserci segnalazioni né intoppi Aomine aveva già controllato il cellulare un centinaio di volte. La batteria si stava scaricando e di Kise nessun segnale.
Poteva essere in volo, quindi era improbabile che rispondesse. Doveva darsi una calmata. Però, non c’era nessun volo nazionale che durasse più di due ore, eppure dall’ora di invio ne erano già trascorse quasi quattro. Si diede mentalmente dello stupido cercando di convincersi che probabilmente tra un volo e l’altro Ryouta non avesse avuto il tempo di controllare il telefono.
Alle due e mezza era al limite della pazzia. Che diavolo stava combinando quel cretino? Poi il sospetto: se nel frattempo avesse cambiato numero telefonico? Dopo altri quaranta minuti il panico: se fosse collassato da qualche parte l’ultima cosa a cui avrebbe pensato sarebbe stato il cellulare con il suo stupido messaggio.
Alle quattro e venti stava per prendere un permesso e andare a cercarlo quando finalmente, l’agonizzante smartphone emise un trillo. Aomine vide che il mittente era proprio Kise e sospirò di sollievo. Fece per aprire il messaggio quando il telefono, ormai scarico, si spense.
 
Kise si svegliò di soprassalto, era passato da poco mezzogiorno, aveva dormito poco meno di cinque ore. Era sempre meglio di niente. Trascinandosi fuori dal letto e dandosi una riassettata sommaria, indossò la divisa sgualcita del giorno prima sperando che nessuno notasse le pieghe sui calzoni  né sull’addome. Non aveva comunque alternative. Le tre divise di cambio che aveva nel bagaglio a mano erano tutte in condizioni peggiori quindi per quel giorno avrebbe dovuto accontentarsi.
Se il programma era giusto alla fine della giornata lavorativa sarebbero iniziate le sue prime ventiquattro ore libere dopo quattro mesi di ritmi impossibili.
Già sognava di affondare nel suo morbido letto di piume, tanto grande da sembrare una piazza d’armi, di bere un caffè a piedi scalzi vicino alla finestra che dava sulla veranda, di fare una lavatrice e finalmente eliminare l’odore di usato dal suo trolley malandato. Questi pensieri gli diedero la forza di muoversi ancora, di riconsegnare le chiavi alla reception dell’aeroporto e di arrivare in orario in sala ufficiali e successivamente in cabina.
Incredibile cosa poteva fare la prospettiva di un giorno libero alle porte.
I suoi sorrisi alle hostess erano più solari e amichevoli, se ne rendeva conto, non gli pesava prendere parte alle chiacchiere nella sala ufficiali, non trovava disgustoso l’odore dell’aria sintetica nella cabina. Gli sembrava di galleggiare.
Dopo l’ennesimo volo da Tokyo a Nagoya, si ritrovò ad attendere in tremendo anticipo l’imbarco per rientrare definitivamente alla base.
Erano quasi le nove ed essendo l’inverno alle porte il sole era già tramontato; tirava una fresca aria che sapeva di pioggia in arrivo e di umido ma nulla gli era mai parso più buono. Anche con la pioggia lui avrebbe potuto godersi lo stare a casa.
In quel momento il suo cellulare vibrò nella tasca dei pantaloni. Stupito prese lo smartphone, chiedendosi chi mai avesse deciso di scrivergli. Gli amici avevano smesso di cercarlo appena un mese dopo l’inizio della tirata infernale al lavoro, i suoi genitori erano impegnati ad assistere l’anziana nonna paterna e non avevano certo il tempo di preoccuparsi di lui. E loro.. ah, si. Probabilmente era uno di loro ad avergli scritto. Aprì il messaggio e rimase di sasso.
L’sms era di Aomine che gli chiedeva di uscire una sera.
Sbattè le palpebre, sicuro che la stanchezza gli stesse giocando un brutto scherzo. Fissò ancora il messaggio che ovviamente non era cambiato. L’agitazione salì all’improvviso, tanto che iniziò a girargli la testa. Cosa doveva rispondere? Se avesse declinato, conoscendo Daiki, probabilmente sarebbero sorte domande a cui non voleva rispondere; se non avesse risposto sarebbe stato contattato a turno da tutti loro nel tentativo di capire il perché del suo comportamento. No, era meglio rispondere. Sì, ma come? Cosa poteva dirgli? Che non vedeva l’ora? Che non si aspettava un invito simile e che era sorpreso?
Fece un bel respiro per calmarsi, in fondo era scontato che lui fosse al lavoro, per quel che ne sapeva Aomine era in volo anche in quel momento, quindi poteva aspettare ancora un po’ a rispondere. Chiuse il telefono e si avviò verso la pista per imbarcarsi tormentato dai suoi desideri e dal suo senso di inadeguatezza.
Nell’ora e mezza di volo continuava a frullargli in testa l’invito; non se ne stupiva visto che ad averglielo inviato era la persona di cui era segretamente innamorato, ma un conto era amare da lontano, un conto era averci a che fare da vicino e dover nascondere quei sentimenti per non suscitare disgusto.
Che situazione spinosa. Sovrappensiero espletò i propri doveri e si avviò a piedi verso casa. Quando si chiuse la porta alle spalle inspirando felice il profumo di casa sua erano quasi le due del mattino. Svuotò il trolley malconcio e maleodorante, mise a lavare le divise sgualcite insieme alla biancheria e si perse a tagliare le verdure per cucinarsi un vero pasto.
Sedersi al suo tavolo per mangiare nella sua cucina del cibo vero lo riempì di gioia. Erano cose che le persone normali davano per scontate ma per lui era un evento raro quanto la mattina di Natale per i bambini. La sensazione della saggina sotto i piedi scalzi, la libertà di movimento che sentiva nell’indossare una semplice t-shirt invece della camicia inamidata, i suoni confortanti che provenivano dalla strada, tutto era un tesoro da riscoprire.
Con la pancia piena di cibo e il cuore colmo di gratitudine per avere la fortuna di essere a casa si infilò nel suo soffice letto gigante che gli diede una sensazione molto simile a quella che ricordava dessero gli abbracci. E così, mentre scivolava nel dolce riposo di chi è in pace con il mondo digitò le parole che mai avrebbe pensato di scrivere: “Domani sera per me sarebbe perfetto.”
Dormì bene. Così bene da non sentire lo squillo del telefono e nemmeno i bambini che tornavano da scuola strillando e schiamazzando per strada.
Quando finalmente aprì gli occhi, gli ci volle un momento per rendersi conto di dove si trovasse: casa sua, nel suo letto. Dando un’occhiata alla sveglia non si stupì di aver dormito per quasi dodici ore. Bello riposato si stiracchiò occupando una buona porzione del grande letto taglia speciale che si era regalato per il suo venticinquesimo compleanno, poi si alzò e si diresse nel bagno.
Era arredato in vecchio stile giapponese,  una stanza molto spaziosa, tutta rivestita in bambù, con una vasca grande, pensata più come zona relax che come luogo per le abluzioni essenziali. Per comodità, avendo anche un secondo piccolo bagno dove  aveva fatto installare una doccia perché nei giorni lavorativi il tempo era denaro e non poteva permettersi di poltrire a mollo. Riempì la vasca e vi si immerse fino al mento. Che bella sensazione.
Iniziò a sfregare bene la pelle che iniziava ad arrossarsi per via della temperatura elevata quando gli tornò alla mente il ricordo confuso della risposta che aveva digitato all’invito di Aomine.
Schizzò ritto a sedere spruzzando acqua sul pavimento e sulla parete. Ma che diavolo gli era saltato in mente? Quella sera? Non era troppo presto?! Lui aveva bisogno di prepararsi psicologicamente a restare solo con quella persona, aveva bisogno di studiare un piano d’azione e una strategia di fuga qualora le cose fossero diventate imbarazzanti o difficili.
Rielaborando tutti gli argomenti possibili di conversazione iniziò a lavarsi la schiena con energia.
Quando finalmente terminò di elaborare diverse strategie per tenere la conversazione lontana da argomenti scomodi, aveva la pelle rosso acceso e le mani raggrinzite come le prugne secche.
Schizzò fuori dalla vasca rendendosi conto solo in quel momento di non aver preparato un asciugamano con cui asciugarsi. Maledicendosi per la sbadataggine e rabbrividendo a contatto con l’aria prese un bel respiro e sgocciolando si diresse verso il ripostiglio.
Mentre gustava uno spuntino, o forse quasi una cena visto l’orario, ripassò mentalmente il piccolo schema che si era elaborato. Obbligò il cervello a spegnersi per riuscire a godersi la sua tazza di caffè lì, dove aveva sognato di farlo per giorni: in piedi accanto alla finestra che si affacciava sulla piccola veranda. Che bella che era la sensazione  del tatami sotto i piedi scalzi.
Controllò il cellulare e vide la risposta di Aomine: “ore nove dai campetti”.
Il loro solito ritrovo. Erano passati tanti anni eppure per qualunque occasione il luogo d’incontro era sempre rimasto quello. Il bello era che tutti, pur potendo scegliere di meglio, avevano cercato casa relativamente vicino a quel parco, ai loro amati campetti da street basket.
Impiegò quasi un’ora a stendere e sistemare le divise che ormai erano l’unico capo che indossava regolarmente. Lucidò le scarpe e la cintura d’ordinanza perché per lui l’aspetto era sempre stato fondamentale, non per vantarsi o per spiccare, ma per rendere giustizia ai doni che la vita gli aveva gentilmente offerto: la bellezza in primis.
Sistemò al meglio la sua capigliatura chiara, scelse gli abiti da indossare facendo attenzione a non sceglierli troppo eleganti e nemmeno troppo sportivi. Lavò con cura i denti e faticò non poco a indossare l’anellino d’oro al lobo sinistro. Non poteva tenerlo sul lavoro quindi negli ultimi quattro mesi non aveva avuto motivi per metterlo ed il buco si era stretto. Stringendo i denti un po’ per la fitta di dolore e un po’ per non protestare alla sensazione perdurante di fastidio, infilò la giacca e chiudendosi la porta alle spalle si avviò a passo pesante verso il luogo dell’incontro.
L’agitazione era alle stelle, camminava rigido e il suo cuore batteva all’impazzata. Nonostante la temperatura fosse adeguata ad una sera di fine autunno, sentiva un gran caldo alle guance.
Arrivò con quasi mezz’ora di anticipo. Incredibile.
Era già buio, l’aria era ferma e il parco  immerso nel silenzio. I fari che illuminavano i campetti non arrivavano a far luce sui sentieri quindi un po’ affidandosi alla memoria, un po’ abituandosi all’oscurità si addentrò nel piccolo parco.
Pur non essendo tardi tutte le aree da gioco erano vuote, i palloni allineati ai bordi e l’unico  leggero rumore che persisteva nell’aria era quello del traffico in lontananza.
-Sei in anticipo.-
Avrebbe riconosciuto quella voce roca e profonda tra mille. Con il cuore improvvisamente in gola Kise si voltò.
-Anche tu sei in anticipo. Ciao Aominecchi. –
 
Era arrivato al parco con un’ora di anticipo, aveva sperato che nell’attesa gli si sarebbe affacciata alla mente una buona strategia per avviare con Kise un discorso serio su come stavano le cose tra loro. Voleva farsi rassicurare. Gironzolando nel buio dei piccoli e serpeggianti sentieri di terra battuta si era perso in mille riflessioni alla ricerca di una soluzione da adottare per dirottare la conversazione dove desiderava.
Stava ancora rimestando i pensieri quando intravide una figura imponente  ferma nei pressi del campo. Sfruttando il suo addestramento si mosse furtivo fino a quando non riuscì a riconoscere la bionda capigliatura dell’amico. Fece un bel respiro e decise di avvicinarsi per parlare.
“Aominecchi” quanto era che non sentiva quel buffo appellativo. Almeno tanto quanto non vedeva Kise. Nella penombra non riusciva a scorgerne bene i lineamenti ma almeno ad un primo esame superficiale sembrava un po’ più riposato.
-Vieni, conosco un posticino tranquillo che serve un ottimo sakè.-
Si voltò e senza guardare se Ryouta lo stesse seguendo o meno si avviò verso la strada principale.
Camminarono in silenzio, ognuno perso nelle proprie riflessioni e alla ricerca delle mosse appropriate. Due giovani uomini molto alti, dal fisico atletico e dal portamento sicuro. Se non fosse stato buio probabilmente avrebbero dato nell’occhio accendendo la curiosità del gentil sesso.
Entrarono in un piccolo pub che da fuori si notava poco: aveva una porta scorrevole anonima e nessuna insegna. Il profumo caldo e speziato che regnava all’interno rilassò le spalle di entrambi mentre decidevano, di comune accordo di cercare un tavolo lontano dagli altri avventori.
Ordinarono del Sakè e due pinte di birra. Sorseggiando le bevande intavolarono una tranquilla conversazione, come se ne ascoltano tante nei pub.
Primo argomento, ovviamente furono gli amici, Kise era curioso di sapere come stessero tutti, così Aomine si lanciò in un resoconto dettagliato.
Un’ora  e altri due boccali di birra dopo, Ryouta sapeva che Kuroko aveva iniziato a fare volontariato: con una squadra di colleghi andava per le strade a portare cibi caldi ai senzatetto per aiutarli a combattere il freddo. Che cuore grande aveva. Ma d’altronde lo avevano sempre saputo che lui era una persona speciale.
Venne a sapere che la convivenza tra Midorima e Takao, che sembrava così naturale visto quanto erano sempre andati d’accordo, si stava rivelando pesante per entrambi. Secondo Daiki erano vicini al punto di rottura. Peccato. Ridacchiarono insieme nel ricordare il periodo in cui avevano creduto che stessero insieme. Murasakibara, era sempre il solito bestione affamato, ma non più annoiato. Aomine perse molto tempo nel descrivergli entusiasticamente i dolci che aveva assaggiato alla festa di compleanno del pasticcere facendogli venire l’acquolina in bocca.
Magari un giorno avrebbe potuto fare un salto in pasticceria per fare un saluto a quel musone goloso. Come c’era da aspettarsi, Mukkun era l’unico ad aver mantenuto i contatti con Akashi e a quanto ne sapevano, se la passava bene tra auto costose, donne occidentali con seni grandi come meloni e tanti, tanti, troppi soldi da spendere per decidersi a fare un salto  in terra giapponese.
Kagami… beh, per lui erano tutti un po’ preoccupati. Durante l’ultima partita del campionato si era infortunato. Nonostante l’intervento al ginocchio fosse andato bene e il recupero fosse stato rapido e ottimale sembrava esserci qualcosa che non andava.
Insomma, ventotto anni non erano poi così tanti nel mondo del basket; ok che non era più un novellino di primo pelo, ma c’erano anche giocatori più anziani di lui e il fatto che parlasse di smettere con lo sport agonistico sembrava mandare Aomine su tutte le furie.
Ordinarono del sakè caldo e per un momento Daiki si chiese se fosse davvero saggio mettersi in corpo altro alcol a stomaco vuoto.  Vedendo Kise bere il suo senza batter ciglio, con una rivalità che è vecchia come il mondo, si ripromise di non essere il primo a crollare anche a costo di pentirsene l’indomani. Tracannò d’un fiato il suo bicchiere.
Il liquore caldo gli scese bruciando lungo la gola lasciando una scia infuocata. A quel bicchiere, tra una lamentela per il lavoro e l’altra ne seguirono molti altri finchè non furono entrambi ben più che alticci.
-… Quattro mesi, quattro mesi senza un giorno di ferie, capisci? Ecco perché poi mi addormento nei posti più improbabili!-
Kise sbattè il pugno sul tavolo come solo i veri ubriachi sanno fare per enfatizzare le frasi.
-Non dormo quasi mai a casha e quando ci dormo resta una… una porcilaia perché non ho tempo di sistemare… -
Ormai gesticolava senza controllo ma dal canto suo Aomine non aveva né la forza né l’intenzione di fermarlo.
-… e tuuuu? Come te la passi a fare il polizsciotto? Ti ho visto arreshatare quel tipo. Woooow, shei shtato fantashtico!-
Altri gesti esagerati accompagnarono le frasi sempre più biascicate ma Daiki non riusciva a seguirli con lo sguardo senza farsi venire la nausea. Anche il dover pensare a qualcosa di furbo da rispondere alle sue domande sembrava troppo complicato per il suo cervello in quel momento; per fortuna, non sembrava che Kise si aspettasse davvero una risposta.
Con le palpebre a mezz’asta, semisdraiato sul tavolo si perse qualche secondo ad osservarlo: Le guance arrossate, gli occhi dorati lucidi e luminosi, le lunghe braccia che in quel momento pendevano ai lati del torso ampio e ben definito. La gola pallida spuntava dal colletto aperto della camicia nera e l’orecchino brillava impertinente al lobo sinistro, esattamente come lo ricordava.
Forse per l’ubriachezza, forse perché era davvero il momento giusto sentì la propria voce domandare:
-Senti un po’ Kise, non prendermi per scemo, ma so che qualcosa è cambiato tra noi…-
Lo vide farsi stranamente pallido mentre si raddrizzava sulla sedia ed evitava di guardarlo in faccia. Di certo non era un buon segno, ma visto che ormai aveva iniziato, tanto valeva andare fino in fondo.
-Da quella partita, quella della prima Winter Cup, tu… sei cambiato. Cioè non in male, ma l’ho sentito che non provavi più le stesse cose per me. Nonostante ti comportassi come al solito… qualcosa era cambiato e anche se allora non ho avuto il coraggio di chiedertelo e con gli anni non ho mai avuto occasione di tirare fuori il discorso… vorrei sapere cosa è successo e se davvero è un cambiamento irreversibile.-
Prese fiato rendendosi conto di essere improvvisamente più lucido. Kise fissava il tavolo, forse non si rendeva conto di essere ritto come un fuso anche se la sua rigidità era leggermente sbilenca a destra. Si tormentava le mani grandi ed eleganti senza proferire parola. Poi infine parlò senza strascinare le parole. Sembrava lucidissimo.
-Io…. Ti ho sempre ammirato, anzi, possiamo dire che in un primo momento ti ho davvero ammirato perché davi tutto te stesso per lo sport che amavi. Ho voluto seguirti, emularti e ho iniziato anche io ad amare il basket perché la tua presenza mi sfidava a migliorare sempre di più. Eri il faro che mi spingeva sempre oltre i miei limiti. Stare al passo con te era il mio obiettivo.-
Fece una pausa e bevve un sorso dal suo bicchierino.
-Beh… non proprio stare al passo. Mi accontentavo di stare un po’ più indietro, per poterti ammirare sempre, per seguirti. Durante quella partita… io… volevo davvero vincere. Volevo farlo ad ogni costo per i Senpai che mi avevano accolto in squadra così benevolmente, per coronare tutti gli sforzi che avevano fatto per arrivare fin lì. Volevo batterti anche per dimostrarti che nonostante dicessi di non amare più il basket, eri la persona che in realtà lo adorava di più.-
Un altro sorso, un sospiro e di nuovo:
-Volevo batterti e per farlo, dovevo fare una cosa che non avevo mai preso in considerazione fino a quel momento: smettere di ammirarti. Come potevo ammirarti se il mio obiettivo era batterti ad ogni costo?-
Che risata amara seguì quelle parole.
-Non so come, non so nemmeno spiegare cosa mi abbia fatto scattare l’interruttore, sono riuscito a convincermi che dopo tre anni ad idolatrarti e inseguirti, ero pronto per scavalcarti. Hai smesso di brillare davanti ai miei occhi. Non eri più il faro che mi teneva in campo e che mi ricordava di dover migliorare. Eri solo… tu. È stato in quel momento che sono riuscito a imitare i tuoi movimenti, così come quelli di Midorima, di Mukkun, di Kagami, di Akashi e persino i passaggi di Kuroko. Ho smesso di considerarmi il fanalino di coda della Generazione dei Miracoli. Ecco perché ero strano nei tuoi confronti, non sapevo come comportarmi, o almeno non lo sapevo fino a qualche tempo fa-
Prese un bel respiro e poi trangugiò il sakè direttamente dalla caraffa facendoselo colare sul mento.
Dal canto suo Aomine non sapeva cosa dire. Aveva immaginato che fosse successo qualcosa di simile, ma non credeva di essere stato così importante per Kise a quel tempo. Non pensava né di essere particolarmente adatto alla figura che l’amico gli aveva appena ricamato addosso, né tantomeno di essersi meritato tanta ammirazione e devozione.
Ma allora perché sentiva quel senso di sconfitta al pensiero dello sforzo che aveva fatto Ryouta per smettere di provare quei sentimenti?
Ci teneva così tanto a lui e alla sua amicizia? Così tanto da star male a distanza di anni? Sollevò lo sguardo ma la stanza prese a ondeggiare paurosamente così tornò a concentrarsi sui nodi del legno di cui era fatto il tavolo. Eppure qualcosa non quadrava… non era possibile che una storia che si era trascinata per quasi sette anni all’improvviso smettesse di avere valore. Eppure Kise aveva appena ammesso di aver smesso di preoccuparsi del proprio comportamento. Si riferiva forse al fatto che non vedendosi più la faccenda non era più importante… oppure c’era un altro motivo? Doveva assolutamente farselo spiegare.
Un tonfo sonoro attirò la sua attenzione.
Kise. Era crollato sul pavimento e non accennava ad alzarsi. Anzi, non dava proprio alcun segno di vita. Così non andava. Lì per terra, coi capelli biondi troppo lunghi che gli coprivano il volto sembrava davvero morto.
Con uno sforzo che aveva del sovrumano Aomine si issò in piedi e aggrappandosi al tavolo per non stramazzare al suolo a sua volta, trovò la forza di caricarsi su una spalla l’amico. Era incredibilmente leggero e la sua vita era così sottile… Era davvero dimagrito molto rispetto ai suoi ricordi.
Ringraziando di reggere l’alcol meglio di quello scemo, pagò lo stupito gestore del pub per poi incamminarsi lentamente lungo la strada deserta.
Per quanto fosse dimagrito Kise restava un uomo adulto alto più di un metro e ottanta che adesso gli gravava sulla schiena a peso morto; normalmente non sarebbe stato un problema, era sempre stato molto forte fisicamente, ma in quel momento, con una quantità smodata di alcolici in corpo faticava persino a tenersi in piedi.
Senza nemmeno porsi il problema si incamminò verso l’appartamento dell’amico che era decisamente più vicino del suo.
Dopo quelle che gli parvero ore e soprattutto centinaia di chilometri, salì i gradini fino all’ingresso della villetta, fece qualche acrobazia per rintracciare le chiavi nelle tasche del moribondo, infilò la porta e si ritrovò nella più completa oscurità.
Facendosi forza depose il suo pensate fardello sul pavimento e iniziò a tastare la parete alla ricerca dell’interruttore. All’improvviso la luce si accese e Daiki rimase a bocca aperta: la casa di Ryouta era semplicemente enorme. L’ingresso era probabilmente grande come metà di casa sua e da quel che vedeva c’erano almeno altre sei stanze senza contare il giardino. Cosa diamine ci faceva uno scapolo in una casa così grande? Insomma… non sentiva la solitudine? La casa non gli sembrava troppo grande e vuota a viverci da solo?
Caricandosi di nuovo l’amico su una spalla barcollò alla ricerca della camera da letto. La prima stanza che incontrò fu la cucina, straordinariamente ordinata eppure accogliente con una finestra che immaginava affacciata sul giardino; al secondo tentativo si ritrovò in una stanza da bagno tradizionale, con una vasca da sogno termale in piena regola. Si diede un calcio mentale per non perdersi ad ammirare ogni particolare di quel paradiso che sembrava uscito dal secolo precedente.
Finalmente al terzo tentativo si ritrovò nella camera da letto che era… grande, forse la stanza più grande dell’intera casa, ma sembrava rimpicciolire in rapporto al mastodontico letto che vi troneggiava.
Era  il letto più grande che avesse mai visto. Vi adagiò l’ignaro Kise e si stupì di vedere che il suo corpo non riusciva ad occupare nemmeno un quarto della superficie che aveva a disposizione.
Riflettendo sulle possibili ragioni che avevano spinto Ryouta ad acquistare un simile mammut del mobilio, gli levò le scarpe e lo liberò della giacca e della camicia e fu lì che finalmente lo vide.
Aveva una pelle perfetta: dalla gola ai fianchi il suo addome, da cui spuntavano un po’ troppo le costole, era una distesa candida, soda e liscia su cui spiccavano due piccoli capezzoli rosati ritti in reazione al freddo della nudità.
Arrossendo Aomine si prodigò a coprire quel corpo perfetto con lenzuolo e coperta.
Perché arrossiva? L’ubriachezza gli stava giocando davvero dei brutti scherzi. Doveva forse ricordare a se stesso che quel corpo tanto appetitoso apparteneva ad un uomo?
Scosse la testa e ciondolò fino alla porta ma prima di uscire venne fermato da un grugnito.
-Ah, ti stai riprendendo… sei una frana lo sai?-
Gli rispose il silenzio. Kise si stava mettendo seduto, scoprendo di nuovo il suo petto color panna e i suoi impertinenti corredi rosati.
-Ti conviene restare sdraiato o crollerai di nuovo.-
Una risatina.
-Quanto sei crudeeeele Aominecchi, eh sì, adesho che la sherata è finita l’alcol mi fa credere che tu sia ancora qui, a casa mia  e che mi abbia anche shpogliato. Che crudeltà. Shapevo che non sharebbe stata una buona idea, ma per l’amor del cielo, è stata una caasshata treeeeemeeeendaaaaa. Ora sarà anche peggio-
Aomine non capiva. Tornò sui propri passi e si avvicinò al letto gigante.
-Cosa vuoi dire? È stata una cazzata rispondere alle mie domande? Beh, scusa se mi sono preso a cuore la faccenda, ammetto di essermela presa comoda, ma alla fine quello che conta è che abbiamo chiarito come stavano le cose no?-
Eccola lì, la sbornia cattiva che prendeva il sopravvento su tutto.
La risata isterica che gli rispose lo lasciò interdetto. Ma mai quanto le parole che seguirono.
-Shtupido, anche se shei solo un’allucinazione ti risponderò. Mi fa piacere che tu mi abbia invitato, molto più che piacere a dire il vero. Sai… avevo decisho di lasciare le cose come stavano con te; ci vedevamo troppo poco per tirare fuori questa vecchia storia. Credevo davvero di essermi arreso a perdere il nostro legame. Ma quella sera… è cambiato tutto, sai?-
Aomine era immobile.
-Stavi lì, e giocavi a basket mentre il sole ti tingeva di aranshione… era tutto aranshione, ma tu eri così felice e giocavi così beneeee… il mio cuore batteva forte e non shono riushito a parlarti. Ti ho guardato taaaanto, fino a riempirmi gli occhi.-
La pausa che seguì quelle parole fu terribilmente lunga.
-Io ti voglio troooppo bene…  Non shtavo evitando gli aaaltri, shtavo… shcappando….daaaa… te…-
Detto ciò si accasciò di nuovo, inerme, mentre dalle labbra gli sfuggiva un sospiro che somigliava molto a uno “scusami”.
Il silenzio era assordante. Il cuore gli pulsava nel cervello e probabilmente anche nelle dita dei piedi, si sentiva formicolare le guance e decisamente non era pronto a digerire una bomba del genere. Poteva essere la verità? Oppure l’alcol aveva parlato al posto suo? Eppure sembravano così vere quelle parole… anche se impastate e confuse, il senso era lampante. Stava a lui decidere come interpretare quel che aveva sentito.
Prima di tutto doveva schiarirsi le idee. Le tempie avevano iniziato a martellargli  come anche la radice del naso.
Aveva bisogno di una doccia e sicuramente Kise non se la sarebbe presa se avesse usufruito della sua stanza da bagno. Aveva l’acquolina. Voleva assolutamente provare quella vasca.
Entrò nel santuario delle abluzioni: era ordinato, con i prodotti ben allineati su uno scaffale basso ed il pavimento di piastrelle  lucide.
Iniziò a riempire la vasca trattenendosi a stento dall’infilarvisi prima che fosse piena e rischiare di ammalarsi. Ammirandosi ancora attorno notò un unico oggetto stranamente fuori posto: un grande asciugamano giallo pallido era gettato sul muretto basso che separava la  vasca dal piccolo spazio per il lavaggio personale con gli sgabelli allineati.
Aomine afferrò il telo di spugna  e sentì che era ancora leggermente umido; Ryouta doveva averlo dimenticato dopo essersi fatto il bagno.
Arrossì violentemente.
Sentiva le guance in fiamme e perfino le orecchie erano febbricitanti. Scosse la testa.
Decisamente aveva bisogno di darsi una regolata. Lui era etero, come era possibile che si imbarazzasse a tenere tra le mani l’asciugamano di un altro uomo? Anzi, come era possibile che arrossisse al pensiero del suddetto uomo in quella vasca esageratamente grande per lui da solo con la pelle liscia arrossata dal calore?
No. Non andava bene. La sbornia doveva essere proprio pesante per ridurlo in quello stato e le parole del padrone di casa non lo aiutavano. Cosa doveva fare?
Appoggiò con cura l’asciugamano vicino alla vasca,  che ne frattempo si era riempita quasi del tutto, e si immerse nel suo caldo umido abbraccio. Tra i vari saponi Daiki riconobbe subito la fragranza che aveva usato Kise quella sera. Portandolo in spalla aveva respirato il profumo nei suoi capelli e della sua pelle molto più di quanto avesse mai fatto con chiunque altro. Prima ancora di rendersene conto si era spremuto in mano una quantità esagerata di sapone che sprigionò la sua nuvola ricca, speziata e sensuale.
Si ritrovò avvolto dall’essenza di Ryouta e le sue parole iniziarono a rimbombargli nella scatola cranica. “Stavo scappando da te”… “il mio cuore batteva forte”…. “ti voglio troppo bene”.
Era così confuso.
Cosa avrebbe dovuto fare? Certo, gli voleva molto bene, ma da lì ad innamorarsi ce ne passava. Era stato stupido ad aver voluto a tutti i costi aprire il vaso di Pandora. Ora si sentiva esattamente come lei: colpevole di aver rivelato qualcosa che probabilmente avrebbe dovuto restare un segreto.
Il piccolo impronunciabile segreto di Kise Ryouta che pian piano sarebbe sparito dalla sua vita, in silenzio, come solo chi aveva il cuore grande sapeva fare per il bene di qualcun altro.
E lui? A lui sarebbe andato bene lasciarlo andare? Permettere che se ne andasse senza proferire parola?
Sfregò forte anche i capelli impregnandosi del  suo profumo.
Come avrebbe dovuto reagire? Andarsene? Lasciare la casa fingendo di non aver mai ascoltato quelle parole nella speranza che lo stesso Kise non ricordasse di averle pronunciate?
Se invece fosse restato… avrebbe dovuto trovare il modo di fare chiarezza dentro di sé prima del suo risveglio e poi affrontarlo.
Non voleva pensare a come sarebbe stato se Ryouta non avesse ricordato. Era una cosa troppo importante per dimenticarsene. Non tollerava che quel sentimento finalmente venuto a galla fosse dimenticato. “Non lo permetterò”.
Di scatto si sollevò in piedi sgocciolando tutti intorno a sé. Perché gli stava così a cuore che la faccenda non finisse nel dimenticatoio? Non era forse un bene che restasse nascosta, sconosciuta e ignorata?
A quel pensiero tutto il suo essere si ribellò e si stupì nel rendersi conto che non era a causa dell’alcol, era proprio lui a trovare quel pensiero semplicemente rivoltante.
Questo cosa significava? Che anche lui provava per Kise qualcosa più di una semplice amicizia fraterna?
Che non si sarebbe preoccupato tanto ad aspettare un messaggio come era successo il giorno prima se non si fosse trattato di Ryouta?
Non riusciva a separare i suoi sentimenti reali da quelli che voleva provare per risolvere la situazio… aspetta…
“Che voleva provare????”
Questo significava che lui voleva ricambiare quei sentimenti? Ma… non avrebbe saputo cosa fare. Come fare a stargli accanto in quel modo. Finchè si trattava di amicizia era un campo che conosceva bene, ma con un maschio non aveva idea di come avrebbe dovuto comportarsi per essere qualcosa di più…
Afferrò l’asciugamano giallo, vi si avvolse dentro e si portò i lembi al naso. Sapeva di sapone, sapeva di spezie e sapeva di… Kise. Chiuse gli occhi.
Si rivestì in fretta, riassettò il bagno e si diresse in cucina. Le dimensioni della casa lo mettevano ancora in soggezione ma la curiosità vinse e decise di andare in esplorazione.
Partendo dall’ingresso spazioso aprì la prima porta che si trovava alla sua sinistra: una stanza completamente vuota, qualche vecchia foto di famiglia alle pareti e nient’altro. Deluso provò con la seconda porta sulla destra: un altro bagno, più moderno, con un box doccia di ultima generazione e i sanitari all’occidentale. Interdetto uscì, saltò le porte che sapeva essere della camera da letto e del bagno tradizionale, quella della cucina era aperta, infine restava… l’ultima.
Varcò la soglia e si ritrovò in un salotto ultramoderno, con un grande divano ad angolo di pelle color avorio, un mobile a giorno della stessa tonalità ospitava lo schermo piatto più spettacolare che avesse mai visto.
Vi erano anche due librerie, ingombre di manuali sul volo e di riviste. La moquette color tabacco era soffice sotto ai piedi e il tavolino dalle linee minimali ospitava una serie di telecomandi da far invidia ad un rivenditore. Scuotendo la testa incredulo tornò in cucina. L’orologio a muro segnava le sei del mattino era ancora molto presto, ma prima o poi Kise si sarebbe svegliato e avrebbe dovuto dire qualcosa. Ma cosa?
Lo squillo di un cellulare lo riportò alla realtà. Non era il suo, doveva essere quello di Ryouta. Seguendo la suoneria rintracciò il piccolo smartphone nella tasca della giacca che aveva levato all’amico. Senza pensare rispose.
Venne investito da una agitatissima voce femminile che imprecava contro Kise e contro i suoi dannati ritardi promettendogli che non gliel’avrebbe fatta passare liscia per averla costretta a sostituirlo sul volo per Sapporo.
-Sono un amico di Kise, non è venuto perché è svenuto a causa della febbre e al momento è privo di conoscenza. Mi sto occupando io di lui ma non sapevo di dover avvisare a quest’ora. Mi scuso. Se fosse possibile potrebbe comunicare a chi di dovere che per i prossimi tre giorni non verrà al lavoro?-
Aveva usato tutta la diplomazia di cui era capace e sperava in un bel colpo di fortuna.
Gli rispose una smielata versione della voce precedente.
-Oh, mi scusi! Non sapevo niente! Per fortuna che Kise ha un amico come lei; con tutte le ore che fa mi stupisce che abbia retto tanto prima di crollare. Gli dica di non preoccuparsi e di rimettersi in sesto, qui ci penserò io. Richiamerò tra tre giorni per sapere come sta. Buona giornata!-
Il segnale di chiusura della chiamata gli diede il via libera per lasciare andare il fiato che aveva trattenuto.
Sperava di aver fatto bene a prendersi una tale libertà. In cucina prese anche il suo telefono e chiamò la centrale avvisando che anche lui stava poco bene e che sarebbe tornato nel giro di qualche giorno. Così aveva tutto il tempo che voleva per pensare al da farsi.
Decise di prepararsi una tazza di tè mentre riordinava i pensieri.
A quanto pareva Ryouta era speciale per lui, lo aveva già appurato; altra certezza era non voleva assolutamente fingere di non aver sentito le sue parole; infine si era riscoperto a voler ricambiare i sentimenti di quello che fino a qualche ora prima aveva considerato solo un amico nei confronti del quale non ricordava di aver mai provato nulla di diverso dall’affetto.
Doveva essere ben sicuro delle proprie scelte perché un qualunque ripensamento avrebbe portato all’immediata cessazione di qualunque rapporto tra lui e Kise. Per non parlare del dolore a cui avrebbe sottoposto il già provato pilota.
Era disposto a rischiare tanto? Era davvero sicuro di provare quel tipo di affetto nei suoi confronti?
Non lo sapeva, ma obbiettivamente, se di obbiettività si poteva parlare nel suo caso, non gli era mai successo, sverso che fosse di provare attrazione per un altro uomo. Aveva avuto qualche ragazza, ma un po’ gli impegni e un po’ la mancanza di motivazione lo avevano tenuto ben lontano dalle relazioni amorose quindi non sapeva bene cosa si dovesse provare. Bevve un sorso di tè ormai freddo e si avvicinò alla finestra da cui poteva vedere il cielo che si tingeva di rosa e rosso.
Poi udì il suono di passi strascicati e irregolari seguiti a intervalli da quelle che sembravano spallate contro le pareti.
 
Ryouta aprì gli occhi. Li richiuse grugnendo dal dolore. La penombra della sua stanza gli sembrava fin troppo luminosa. Aveva il sospetto che nella sua testa si fossero riuniti i sette nani a picconare allegramente, gli pareva di avere una pantofola al posto della lingua e lo stomaco faceva le capriole.
Con un supremo gesto di volontà si mise seduto e rabbrividì. Boccheggiando per contrastare la nausea si rese conto di essere senza maglia e di indossare ancora i jeans. Doveva essere stato proprio storto per non aver nemmeno fatto lo sforzo di cambiarsi. Ricordava le chiacchiere, gli aggiornamenti ed era quasi sicuro di essersi lamentato del lavoro…
Merda! Il lavoro! Lanciò una dolorosissima occhiata alla sveglia e la nausea rischiò di vincere la loro schermaglia silenziosa.
Aveva perso il volo. Incredibile. Non era nemmeno nelle condizioni fisiche per salire a bordo in effetti…
Ma quanto diavolo aveva bevuto? L’agitazione lo aveva spinto a tracannare almeno una dozzina di bicchieri di sakè per non parlare dei boccali di birra. Era terrorizzato dalla possibilità di sentirsi rivolgere domande scomode, come, per altro, gli sembrava fosse successo.
Si concentrò, si ciò che ricordava. Il locale, le chiacchiere, l’euforia dovuta agli alcolici, la domanda di Aomine….
Quindi alla fine erano arrivati proprio lì.
Si concentrò nel ricordare cosa avesse risposto e si stupì di essere stato così stupidamente sincero. Se fosse stato sobrio… avrebbe mentito anche sotto tortura, fino alla morte.
Invece aveva dato la risposta più sincera che potesse dare. I suoi ricordi da lì in poi si facevano strani, confusi. C’erano dei suoni, il freddo sulle guance e qualcosa di duro che premeva contro la bocca del suo stomaco.
Probabilmente era crollato e Aomine caricandoselo in spalla e lo aveva portato fino a casa.
Santo Daiki.
Ricordava la sensazione celestiale del letto sotto di sé e delle mani calde e premurose che lo liberavano della giacca e poi della camicia. Quindi non si era cambiato da solo. Credeva che i flashback fossero terminati, era sicuro che una volta messo a letto, semplicemente, quella persona se ne fosse andata, e invece…
Invece preso dal suo delirio alcolico gli aveva sbattuto in faccia i suoi sentimenti. Gli aveva detto di essere crudele e per di più gli aveva detto in faccia che per tutti quei mesi in cui era sparito stava evitando lui a causa dei suoi sentimenti. Seppellì la faccia tra le mani.
Che stupido, aveva fatto esattamente l’unica cosa che non avrebbe mai voluto fare: spifferare tutto. Aveva perso l’occasione per tacere e mantenere, almeno in minima parte, i rapporti con gli amici di un tempo. Si era bruciato Aomine e bruciando lui, tranne Kuroko, probabilmente gli altri avrebbero presto smesso di cercarlo.
Non riuscì ad arginare lo sconforto e per quelli che parvero minuti interi pensò di soffocare dentro se stesso.
Da qualche parte in casa squillò il suo telefonino.
Si mosse a rallentatore nel tentativo di alzarsi e andare a rispondere; stava per appoggiare i piedi in terra quando una voce fin troppo familiare rispose alla chiamata.
Accantonando lo stupore ascoltò Daiki scusarsi con qualcuno e giustificare la sua assenza con la febbre alta. In effetti si sentiva malissimo: la combo postumi della sbornia, sensi di colpa e rimpianti era micidiale.
Ascoltò immobile un’altra telefonata. Questa volta Aomine stava prendendo ferie per sé dandosi a sua volta malato.
Ma perché era ancora a casa sua? Non era scappato disgustato da lui e dalla sua confessione?
La confusione regnava sovrana nel cervello ovattato di Kise.
Calma, potevano esserci tante spiegazioni: era possibile che essendo stanco e ubriaco quanto lui Aomine avesse scelto di restare il tempo necessario a riprendersi nella speranza di farlo prima di doverlo incontrare al mattino o qualcosa di simile.
Sentiva odore di bagnoschiuma, possibile che gli avesse vomitato addosso mentre lo riportava a casa? Imperdonabile. Oltre al danno la beffa. Non solo gli aveva confessato ogni suo inconfessabile segreto, ma gli aveva pure sporcato i vestiti di vomito.
Stava andando in iperventilazione.
No. Calma. Non era detto che fosse successo proprio quello, poteva semplicemente essere che avendo sudato a portarlo fin lì  avesse deciso di darsi una rinfrescata prima di andarsene per sempre.-
Mmmmm, però… se fosse stato disgustato da lui non avrebbe avuto più senso andarsene e lavarsi a casa propria?
Poi una rivelazione: “Lui ha bevuto quanto me, era ubriaco come me, quindi… magari… non ricorda… e quindi… anche ricordasse…. potrebbe pensare che la confusione dovuta all’alcol gli abbia fatto intendere male le mie parole…”
Rincuorato da quella che sembrava l’ipotesi più probabile, Kise si rallegrò pensando che forse non tutto era perduto.
Certo, sarebbe semplicemente tornato al punto di partenza: un amore a senso unico che lo portava a saltare gli incontri con il suo gruppo di amici per evitare di essere scoperto.
Sospirando di sollievo e di dolore fece forza sulle braccia e si alzò. Era inutile star lì a fare mille ipotesi, meglio levarsi il dente e vedere come stavano le cose.
Se si fosse comportato normalmente  avrebbe dimenticato l’imbarazzante flashback e fatto finta di nulla, in caso contrario… sarebbe finita. In fretta . Probabilmente per sempre.
Barcollò fino alla porta mentre il dolore alle tempie riprendeva a martellare più feroce che mai e la nausea minacciava di trasformarsi in conati incontrollati. Cercò di prendere fiato ma la situazione non cambiò.
Entrò nel grande ingresso con l’obiettivo di arrivare in cucina ma la nausea ebbe la meglio.
Corse sbandando e sbatacchiando contro le pareti fino al piccolo bagno di servizio inginocchiandosi appena in tempo davanti alla tazza.
Qualche minuto, o forse qualche anno dopo, trovò il coraggio di sollevarsi in piedi e sciacquarsi la faccia.
Guardandosi allo specchio stentò a riconoscersi: aveva i capelli attaccati alla testa, la pelle grigiastra e le labbra screpolate. Gli occhi erano gonfi e iniettati di sangue.
Che aspetto orribile. Senza pensarci due volte tolse i jeans spiegazzati e si infilò barcollando nel box doccia.  L’acqua calda lo aiutò a sciogliere i muscoli della schiena e a scacciare la nausea; per tenere a bada il mal di testa avrebbe preso qualche pastiglia più tardi.
Si insaponò per bene e lasciò che l’acqua portasse via la soffice schiuma bianca da lui prima di insaponarsi ancora cercando di lavare via i ricordi di quella nottata da dimenticare, la paura di quel che avrebbe potuto pensare  Aomine, il dolore sordo che sentiva nel petto al pensiero che la sua confessione fosse stata dimenticata nonostante fosse la cosa migliore da augurarsi .
Uscì dalla doccia e intirizzito e si lasciò sfuggire una colorita sequenza di imprecazioni: aveva di nuovo dimenticato l’asciugamano.
Infuriato con se stesso, un po’ marciando un po’ barcollando uscì dal bagno per andare verso il ripostiglio quando…
- Che diavolo ci fai nudo e gocciolante nell’ingresso?-
Il mondo piombò all’inferno.
 
Quel rumore di passi barcollanti si era concluso con una porta sbattuta e dei poco rassicuranti conati di vomito. Aomine non sapeva cosa fare. Era tentato di andare a vedere se Kise avesse bisogno di aiuto, ma come avrebbe reagito vedendolo lì? Magari sarebbe stato solo peggio. Rimase indeciso in piedi in mezzo alla cucina fino a quando non si tranquillizzò sentendo scorrere l’acqua della doccia.
Se non altro stava abbastanza bene da lavarsi. Ascoltò il suono dell’acqua intervallato da scrosci di varia intensità corrispondenti ai movimenti di Ryouta. Immaginò l’acqua che scendeva accarezzando la sua pelle lungo il torace scolpito e lungo la schiena fino alla curva lattea delle natiche…
No! Decisamente doveva darsi una regolata. Non poteva mettersi a fantasticare su una cosa smile…! Rimase di sasso. Era eccitato.
Come poteva ridursi così?  Un conto era aver quasi accettato la possibilità di provare una sorta di sentimento amoroso per un altro uomo, ma vedere il suo corpo reagire in quel modo era un’altra storia. Il suo corpo e il suo cervello non sembravano lavorare di pari passo.
Stringendo i denti e sistemando la patta dei jeans si impose di pensare a cose più importanti e meno imbarazzanti, tipo, cosa dire all’oggetto di quel desiderio selvaggio.
Venne ridestato da una sequela di maledizioni e accidenti che avrebbe fatto impallidire il più volgare dei camionisti. Interdetto si precipitò verso il bagno proprio in tempo per vedere un Kise Ryouta interamente nudo e gocciolante  correre barcollando fino al grande armadio a muro per recuperare un asciugamano. Incredibile: aveva delle splendide gambe, eleganti e slanciate, la curva delle natiche era dolce e candida, ancora meglio che nella sua fantasia; la schiena ampia era un fascio di muscoli guizzanti imperlati di piccole gocce lucenti che colavano dalle punte dei capelli biondi. Aomine si leccò le labbra, poi senza che avesse dato alcun permesso cosciente, la sua bocca ruppe l’incantesimo:
- Che diavolo ci fai nudo e gocciolante nell’ingresso?-
Vide quel corpo così flessuoso e armonioso irrigidirsi prima di essere coperto da un asciugamano rosso lampone. Tralasciando qualsiasi commento personale sulle colorazioni della biancheria da bagno del padrone di casa, Daiki si stampò nel cervello l’aspetto succulento delle natiche  bianche su cui era comparsa la pelle d’oca.
Si obbligò a tornare presente a se stesso. Kise si stringeva addosso l’asciugamano come se fosse un’ancora di salvezza e teneva il volto inclinato verso terra evitando il suo sguardo. Ecco. Ci era riuscito: lo aveva messo in imbarazzo.
Kise, dal canto suo, avrebbe voluto morire. Non solo Aomine era stato testimone della sua ubriachezza e delle sue confessioni egoiste, ma adesso assisteva persino ad una  imbarazzante passerella in desabillè.
Non riusciva proprio a guardarlo in faccia e nemmeno a fare alcun movimento. Gli sembrava di essersi pietrificato lì, nell’ingresso, con addosso quel terribile asciugamano che la madre aveva voluto regalargli il Natale precedente.
-Ma guarda, non devi sentirti in imbarazzo! Questa è casa tua, puoi fare quello che ti pare.-
Il tono fintamente leggero di Daiki lo preoccupò un po’.
-Perché non vai a vestirti prima di prenderti un raffreddore?-
Eccola, l’ancora di salvezza. Senza degnarsi di rispondere o di alzare lo sguardo Ryouta ruotò rapidamente su se stesso per fuggire da quella situazione. Non aveva calcolato che il suo fisico debilitato non riuscisse a tenere il passo con le sue intenzioni e così finì per inciampare nei propri piedi.
Stava cadendo, lo sapeva, eppure era consapevole anche  del fatto che non avrebbe fatto in tempo a muovere un muscolo prima di toccare rovinosamente terra. Chiuse gli occhi in attesa dell’impatto con il pavimento.
Sbattè contro qualcosa di caldo e sodo un attimo prima che due forti braccia lo avvolgessero ridandogli l’equilibrio senza però lasciarlo andare.
-Guarda come sei maldestro. Ora vestiti e vieni a fare colazione, abbiamo tante cose di cui parlare, da sobri stavolta.-
Quelle parole sarebbero state una doccia fredda se non gliele avesse sussurrate all’orecchio mentre il suo fiato caldo gli investiva la pelle tenera.
Stando ben attento a coprirsi con l’asciugamano si avviò lentamente verso la camera lasciandosi alle spalle Daiki.
Chiudendo la porta alle sue spalle scivolò fino al pavimento e infilò la testa tra le ginocchia. Gli girava la testa, sentiva la pelle calda, fin troppo sensibile e, soprattutto, era visibilmente pronto all’azione. Doveva trovare il modo di darsi un contegno perché nello stato in cui era qualsiasi paio di pantaloni avrebbe ricreato un imbarazzante quanto sconveniente effetto “tenda da campeggio”.
Intanto che raccattava una tuta in fondo all’armadio, si concentrò sulle immagini che aveva visto in un documentario sulla peste bubbonica e sul vaiolo. Bene, sembrava funzionare. Terminato l’inventario delle fotografie più rivoltanti, iniziò a scorrere ogni ricordo che avesse del museo delle torture che aveva visitato al liceo.
Arrivato ad un grado di felicità contenibile, indossò i morbidi pantaloni e decise di allacciare la felpa sui fianchi in modo da nascondere qualsiasi traccia di sporgenze sospette.
Doveva prepararsi al peggio perché Aomine  sembrava ricordare benissimo ogni cosa.
Prendendo coraggio tornò nell’ingresso e puntò dritto verso la cucina illuminata dai raggi del sole.
Lo trovò seduto al tavolo, con in mano una tazza fumante di tè; la teiera posata al centro del tavolo. Recuperando una tazza si servì e finì per sedersi di fronte a lui.
-Di cosa volevi parlare?-
Tanto valeva levarsi il dente subito. Non era un amante delle lente discese negli inferi. A quel punto preferiva precipitare in caduta libera.
Gli occhi blu  notte  di Daiki si piantarono nei suoi brillando di una tale risolutezza da spaventarlo.
-Di “cosa” chiedi? Non ricordi nulla di quello che mi hai detto stanotte?-
Il tono era calmo,  serio e le parole erano state pronunciate con tutta calma.
Kise deglutì a vuoto. Sentiva la gola secca  e la lingua legata.
Certo che ricordava, fin troppo bene purtroppo. Ed era evidentemente inutile mentire. Quindi decise di tagliare la testa al toro.
-Sì, ricordo. Speravo che tu invece non ricordassi perché così non saremmo stati obbligati a dirci addio. Sei stato già fin troppo gentile a restare qui dopo ciò he ti ho detto, ma sappi che quello che provo non avrà alcun seguito. E questo è quanto.-
Fece per prendere fiato. L’aveva detto alla fine.
Erano destinati a perdersi.
Non aveva previsto che quelle parole avrebbero bruciato così tanto la sua gola, né che la voglia di smentire tutto gli facesse formicolare le labbra. Ciò che però proprio non si sognava nemmeno fu la reazione di Aomine.
Sbattendo con violenza le mani sul tavolo urlò:
-E ti andrebbe bene? Accetteresti di lasciarmi andare senza  opporre alcuna resistenza nella speranza di smaltire i tuoi sentimenti in qualche modo?! Saresti felice così?-
Gli occhi di zaffiro che scrutavano i suoi erano infiammati di collera e di… dolore? Non capiva.
Si sporse sul tavolo fino a trovarsi a poco più di venti centimetri dal suo naso.
-Hai mai pesato di chiedere la mia opinione riguardo a questa decisione che sembri aver preso nel tuo più egoistico interesse?-
Come mai era così furioso?  Cercò di trovare una spiegazione ma le parole gli sfuggivano sotto quello sguardo penetrante e irato.
-È meglio così.-
Fu tutto quello che riuscì a dire.
-Meglio!?  Meglio per chi?!-
“Meglio per tutti” avrebbe voluto rispondere Kise ma qualcosa lo bloccò.
-Riesci anche solo a immaginare come mi sentirei? –
Eh?! Come si sentirebbe per cosa? A liberarsi di uno scomodo spasimante  che non può fare a meno di amarlo?  Non ci capiva più nulla.
Aomine vide la confusione dipingersi sul volto stanco e provato del biondino. Non resistette più.
Fece rapidamente il giro del tavolo, lo afferrò di malagrazia per il mento e lo baciò con rabbia.
Più che un bacio fu un pugno, i loro denti cozzarono ma senza perdere un attimo Daiki insinuò la lingua tra le labbra socchiuse di Ryouta.
Fu un bacio assolutamente inaspettato e violento, non aveva nulla di romantico eppure trasmetteva in maniera sorprendentemente chiara quale fosse la sua posizione riguardo a tutta la faccenda.
Travolto dall’ardore rabbioso di Aomine, si arrese la bacio lasciando la propria lingua libera di danzare a accarezzare l’intrusa in un gioco vecchio come il mondo.
Dopo quelle che avrebbero potuto essere ere geologiche, Daiki interruppe il bacio ma rimase a pochi centimetri di distanza piantando gli occhi fiammeggianti nei suoi.
-Sono quasi certo di essere innamorato di te, lo capisci?-
La pausa che fece per lasciargli il tempo di assimilare le sue parole fu lunghissima.
-Non voglio che tu sparisca, non voglio perderti, non voglio di nuovo preoccuparmi a distanza come è successo quando non rispondevi al mio stupido messaggio. A questo punto voglio tutto il pacchetto, preferisco starti accanto e prendermi cura di te quando tu non riesci a farlo piuttosto che agitarmi a distanza o ancora peggio non sapere nulla di te.-
No. Non era possibile. Doveva essere ancora addormentato. Non poteva succedere una cosa simile nella sua realtà, non  con Daiki almeno.
Aomine vide il dubbio e la paura fiorire nello sguardo dorato di Ryouta insieme ad una scintilla di speranza. Così parlò.
-Ieri sera ero alticcio e non sapevo cosa pensare riguardo alla tua confessione… mi hai colto alla sprovvista. Mi sono seriamente interrogato a cosa avrei voluto fare.-
Sospirò.
-Sapevo di volerti un gran bene ma le tue parole mi hanno costretto a chiedermi che tipo di affetto mi tenesse legato a te nonostante i mesi di lontananza e silenzio. Io… io volevo che fosse amore, capisci? Lo volevo con tutto me stesso, tanto da trovare rivoltante l’idea di fingere di aver dimenticato. Io… sono davvero convinto che questo sia amore….-
Wow, la consapevolezza era arrivata solo in quel momento. Lo amava davvero.
-Sennò non credo che sarei così “felice” di stare qui, con te, in questo modo e soprattutto non avrei cercato di stamparmi il ricordo del tuo corpo nudo e bagnato nel cervello.-
Si sentiva un maniaco a parlare così.
- La tua pelle chiara… voglio vedere come stai vestito solo delle mie mani e della mia bocca, Kise. E intendo togliermi subito questa curiosità proprio in quel tuo letto schifosamente grande.-
 Senza lasciargli il tempo di comprendere il senso di quelle ardite dichiarazioni, Aomine si caricò in spalla un attonito Ryouta e a grandi passi entrò nella spaziosa camera da letto.
Lo lasciò cadere di malagrazia sul materasso soffice e posizionandosi sopra di lui, attento a non schiacciarlo sotto al suo fisico massiccio, tornò a baciarlo.
Fu un bacio lento, profondo, iniziato con l’intento di prendersi tutto il tempo necessario, ma ben presto entrambi si fecero prendere dalla foga trasformandolo in un torrido scambio di saliva, carezze  e gemiti a fior di labbra.
A Kise girava la testa, era inebriato dalla presenza di Daiki, dal suo calore e dal suo fuoco. Non aveva ancora metabolizzato le sue parole e quel bacio lo distraeva troppo per concentrarsi su qualcosa che non fosse quel corpo muscoloso e ambrato che incombeva sul suo.
In pochi minuti le grandi mani di Aomine l’avevano liberato della maglietta esponendo il suo addome. Con una mano gli prese la nuca e ricominciò a baciarlo lentamente, succhiandogli la lingua mentre con l’altra iniziò a stuzzicargli uno dei piccoli capezzoli rosa procurandogli delle piacevoli scosse elettriche che dal punto in cui sfregavano le sue dita si irradiavano sotto la pelle fino al suo basso ventre.
Ryouta si ascoltò gemere forte, incapace di controllarsi, incapace di fare qualunque cosa non fosse sciogliersi nell’abbraccio famelico dell’uomo che amava e che sembrava volerlo divorare senza pietà.
Dal canto suo Daiki era completamente concentrato ad esplorare l’opera d’arte che era il corpo sotto di lui. Interruppe il bacio solo per il gusto di osservarlo con calma mentre si contorceva per le sue carezze.
Come aveva intravisto la sua pelle era lattea e morbida, tesa sui muscoli dell’addome e del petto. Le braccia lunghe che gli aveva intrappolato sopra la testa erano candide ed eleganti quasi come le gambe, ma a catturare la sua attenzione in quel momento fu il viso di Kise: aveva le guance arrossate, le labbra gonfie e accese dai baci e i suoi occhi… erano semplicemente splendidi.
Se normalmente erano di un bel colore castano dorato, in quel momento erano di oro liquido, così caldi e appassionati che sembravano chiedergli di più, sempre di più… e lui, che il dei lo assistessero, aveva intenzione di dargli tutto.
Spostò nuovamente le sue attenzioni sui piccoli graziosi capezzoli rosa che divennero duri e vibranti sotto alle sue dita, li strizzò, li accarezzò e li leccò fino a quando gli giunse alle orecchie la singhiozzante preghiera di smettere. Già, si era attardato a venerare quei piccoli chicchi adesso rossi e sensibili, ma era il momento di rimediare.
In una lunga e lenta carezza fece scorrere le mani e la lingua fino all’ombelico, saggiando la soda elasticità degli addominali di Ryuota che boccheggiava dimenando i fianchi per inseguire la sua bocca.
-Oh, sei agitato… e dimmi, dove vorresti essere baciato adesso?-
La voce di Aomine oltrepassò la cortina di lussuria che era calata sul mondo di Kise, una voce bassa e roca che in quel momento assomigliava alle fusa di un gatto. Dove? Dove voleva che lo baciasse? Buon Dio, avrebbe potuto anche smembrarlo in quel momento che lo avrebbe trovato piacevole, era ubriaco di lui e della sua passione.
Si concentrò, aprì gli occhi e li fissò nei suoi che brillavano come zaffiri. Dio quanto era sensuale, coi capelli scuri arruffati e quei tratti così affilati da sembrare intagliati con l’accetta su un legno pregiato. Vide balenare un sorriso ferino su quel volto mascolino.
-Fai… f-fai quello che vuoi-
Gli rispose con una risata roca che era la pura espressione dell’erotismo selvaggio a cui aveva sempre legato il suo amato. Quella risata prometteva esattamente quello che lui aveva richiesto. Tutto il suo corpo vibrò di aspettativa.
-Se mi dici così… non posso che accontentarti, non credi?-
Aomine  sfilò i pantaloni della tuta insieme agli slip  lungo quelle gambe chilometriche godendosi e baciando ogni centimetro. Stava diventando dura fare le cose con calma, ma voleva che fosse tutto perfetto e poi… era la prima volta che aveva a che fare con un uomo, non sapeva come arrivare al dunque.
Un conto era sapere, in teoria, come funzionava, in pratica era tutta un’altra cosa.
Si prese un secondo per contemplare Kise, splendidamente nudo ed eccitato. Non avrebbe mai pensato di trovare attraente un altro maschio e meno che mai di fare quello che si accingeva a provare, ma in quel momento sembrava essere tutto così dannatamente giusto che accantonò ogni incertezza.
Lo prese in mano ed in risposta Ryouta inarcò la schiena gemendo forte. Quel suono lo incoraggiò. e così iniziò a muovere le mani sulla sua lunghezza stupendosi della temperatura di quella carne così setosa.
In poco tempo si trovò le mani bagnate dalla testimonianza del piacere crescente che stava procurando a quel corpo peccaminosamente sensuale, così, senza pensare, incassò la testa nelle spalle e abbassandosi tra le sue gambe divaricate, lo prese in bocca.
Quello era decisamente troppo, Kise non si aspettava  certo una simile soluzione e lo stupore lo bloccò per un momento prima che Aomine iniziasse a succhiare e leccare e massaggiare quella parte così sensibile e  lo facesse precipitare nelle spire di quella rincorsa che conosceva troppo bene.
Singhiozzando e gemendo ad ogni affondo di quella calda bocca che scorreva sulla sua virilità, non seppe dove, ma trovò la forza di parlare:
-Ao… Aomin… basta… sto…-
Gemette forte quando con la lingua gli premette proprio lì, nel punto in cui la tensione si stava accumulando.
-p-per venire! Spostati!-
Fece forza sui talloni e riuscì a spostare il bacino fuori dalla portata di Daiki proprio un attimo prima di cedere all’orgasmo.
Con il fiatone ed il volto in fiamme tentò di mettere a fuoco la figura di Aomine che si stava liberando degli indumenti scoprendo, poco alla volta, porzioni bronzee del suo fisico massiccio.
Ogni parte di lui era un puro concentrato di forza: la pelle era tesa per contenere i muscoli ben allenati, le spalle erano larghe e la schiena sembrava infinita. Quando, attraverso le ciglia lo vide sfilarsi i jeans e liberare così la sua eccitazione trattenne il fiato.
Alla vista di un desiderio tanto intenso, anche il suo fisico appena appagato  reagì all’istante.
Potè sentire quella parte di sé crescere, allungarsi e indurirsi fino a quando non gli si adagiò sul ventre in cerca di attenzione.
-Sembra che guardarmi ti piaccia parecchio, eh?-
Se possibile la voce di Daiki si era fatta ancora più bassa e roca. Si ritrovò ad annuire in silenzio.
Aomine si distese su un fianco accanto a lui iniziando a far vagare la punta delle dita sul suo petto sfiorandogli appena la pelle. Poi parlò:
-Io non ho mai fatto nulla di simile, non so come dovrei comportarmi adesso…-
Era imbarazzato dalla propria mancanza di esperienza in materia e Kise non potè fare  a meno di  sollevarsi e abbracciarlo seppellendo il viso  nel suo collo caldo.
-Non preoccuparti, anche per me è la prima volta, ma quando facevo il modello sono stato a contatto con gente che… ne sapeva abbastanza e non ne faceva mistero…-
Prendendo l’iniziativa, si alzò in ginocchio e baciò quelle labbra piegate da un sorriso storto che poteva dire molte più cose di mille parole. Subito la bocca si animò e il bacio accese nuovamente la passione tra loro, come se avessero gettato benzina sul fuoco le mani di entrambi vagavano frettolose per toccare tutto, per accarezzare ogni lembo di pelle.
Ryouta fece scivolare la mani attorno alla calda virilità bronzea che reclamava sollievo e abilmente iniziò a massaggiarla, frizionando col palmo della mano tutta la lunghezza mentre col il pollice stuzzicava la punta rosea da cui iniziò a colare la prova lampante del piacere che gli stava procurando.
Imparò rapidamente a leggere le reazioni del suo corpo, così riuscì a portarlo più volte sull’orlo dell’orgasmo per poi rallentare  senza dargli soddisfazione e infine ricominciare daccapo.
Dopo la sesta volta una grossa mano gli afferrò il polso con decisione.
-Adesso basta caro il mio furbetto. Hai giocato a sufficienza.-
Sorridendo furbescamente Kise gli si mise a cavalcioni iniziando a ondeggiare i fianchi in modo da massaggiare l’inguine teso di Aomine con le natiche.
In risposta al suo gesto, tutto il corpo possente sotto di lui rabbrividì di piacere mentre le grandi mani gli afferravano le anche per accompagnare i suoi movimenti.
Non c’è era più nessun imbarazzo tra loro, nessuna scomoda mancanza di esperienza, ormai si muovevano istintivamente e fu così che Daiki iniziò a giocare con le natiche di Ryouta, prima impastandole e stringendole, poi pizzicandole ed infine facendovi scorrere in mezzo il taglio della mano.
La sensazione era strana, non spiacevole ma decisamente estranea a tutto ciò che conosceva. Rabbrividì quando sentì il dito di Aomine violare il suo corpo.
Involontariamente si irrigidì.
-Stai bene?- La voce preoccupata del partner lo tranquillizzò, così annuì cercando di rilassarsi.
Poi Daiki mosse il dito e nel suo basso ventre esplose il piacere. Non riuscì a trattenere un gemito e con esso il brivido che gli squassò le membra.
Incoraggiato da quel suono il dito si mosse ancora e ancora andando a stuzzicare la parete posteriore della prostata e portando Kise sempre più alla deriva in uno sconosciuto mare di sensazioni celestiali.
Nell’ovatta del piacere Ryouta  sentì un secondo dito farsi strada dentro di lui ma ormai il dolore era diventato parte integrante di quel piacere così straziante e magnifico. Le dita si muovevano a ritmo, sforbiciando ad ogni affondo, stuzzicando, modellando, allargando.
Ormai era al limite, sentiva di essere sull’orlo di un burrone di cui non conosceva la profondità, la tensione aumentava, l’orgasmo montava ma la sensazione di piacere si estendeva anche dentro di lui, nel luogo segreto che quelle dita stavano stuzzicando ritmicamente.
-Aaah, Ao- Aomine… non resisto…-
Le lacrime gli rigavano il volto per lo sforzo di arginare le sensazioni che lo attraversavano.
Tutti i muscoli di Kise erano tesi e tremavano, la bocca era aperta alla ricerca di aria e a ritmo con i movimenti della sua mano emetteva dei gridolini molto simili a miagolii. Poteva davvero essere tanto bella un’esperienza simile? Anche lui ormai era al limite della sopportazione e la sensazione di risucchio che sentiva sulle dita gli ricordava che presto al posto della mano lì a farsi stringere…
-Non posso aspettare, devo entrare, de-devo farlo ora-
In risposta Ryouta inclinò il busto in avanti fino ad appoggiarlo sul suo petto mentre con le mani apriva il passaggio da cui un attimo lui prima aveva sfilato la mano.
Lì sdraiato, con Kise a cavalcioni sul suo inguine pronto a farsi violare da lui, Aomine dimenticò ogni riguardo. Si posizionò e senza alcun preavviso né gentilezza affondò dentro di lui strappandogli un grido di dolore.
Ormai era dentro e l’abbraccio stretto con cui il corpo sopra di lui l’aveva accolto lo portò alla pazzia. Incurante dei gemiti contro il suo sterno e delle lacrime che gli scorrevano sul petto iniziò a muoversi.
La sensazione era indescrivibile, ma la posizione in cui era gli impediva di spingersi a fondo e soprattutto non era libero di dettare il ritmo.
Ryouta nel frattempo si stava riprendendo. Era stato uno schock essere invaso in quel modo prepotente e violento ma presto il dolore sia era mischiato al piacere amplificandolo. Era bellissimo, si stava abituando a quell’invasione e poteva sentire fin dove arrivava e mentre sfregava quel punto preciso che sprigionava ondate di piacere. Lo voleva più a fondo, lo voleva tutto.
Sollevò il busto e ignorando le proteste gementi di Daiki iniziò a dettare il ritmo e anche a intensificare gli affondi del suo bacino.
Ormai i loro gemiti erano mischiati, il sudore imperlava la loro pelle  e il ritmo delle spinte si faceva sempre più incalzante. Le mani di Aomine stringevano con forza i fianchi di Kise mentre spingeva il proprio bacino verso l’alto riconcorrendo quello che prometteva di essere uno degli orgasmi migliori della storia.
Improvvisamente Ryouta si sollevò fino sfilarsi del tutto da sopra per spostarsi e mettersi a quattro zampe, esposto al massimo. Con un unico movimento Daiki si sollevò ed entrò dentro di lui fino in fondo gemendo forte.
Riprese la corsa forsennata verso la cima, verso il precipizio e proprio quando la meta sembrava vicina spostò una mano sull’inguine di Kise e iniziò a massaggiarlo.
Qualche gemito e qualche brivido dopo il corpo sotto di lui si tese nell’esplosione dell’estasi stringendolo più forte mai e proiettandolo verso la completa soddisfazione.
Crollarono entrambi senza fiato, accaldati e languidamente assonnati.
Kise sentiva il cuore di Aomine battere forte come il suo, ogni suo muscolo tremava di piacere e di stanchezza, si sentiva indolenzito e faticava a riprendere fiato schiacciato com’era da quella montagna di muscoli che gli era crollata addosso.
Non aveva né il fiato né la volontà di chiedergli di spostarsi perché il confine tra la realtà e il sogno gli sembrava ancora troppo sottile e quel peso che gli gravava sulla schiena lo teneva ancorato al presente che temeva di aver solo sognato.
Daiki dal canto suo era incredulo, non immaginava che l’amplesso con un uomo potesse essere così…. Così soddisfacente. Sentiva il corpo di Ryouta sotto di lui tremare per il residuo dell’orgasmo e per lo sforzo; ammetteva di esserci andato piuttosto pesante. Anzi, era stato un vero animale, ma era stato bellissimo non doversi preoccupare di far male alla donna di turno, di non essere troppo impetuoso per non spaventare la fanciulla sotto di lui. Era stato semplicemente se stesso ed era stato bellissimo.
Il respiro affannoso di Kise gli ricordò che per quanto fosse un uomo di taglia media e di ragguardevole altezza, il suo corpo massiccio e muscoloso probabilmente lo stava schiacciando.
Era ancora dentro di lui.
Con un sospiro fece forza sugli avanbracci, sollevò il proprio petto e subito vide la cassa toracica sotto di lui espandersi. Osservò la folta capigliatura bionda che nascondeva il viso del suo amante lasciando però scoperta la nuca.
Dolcemente, senza muovere nessun altro muscolo, inclinò il capo e baciò quella pelle tenera e sudata.
-Sei incredibile Kise Ryouta, sei stato il migliore amico che potessi desiderare per lungo tempo e adesso, sei la persona che meglio si combina a me in questo mondo. Smetterai mai di stupirmi e di regalarmi tanta completezza e tanta felicità?-
Era un bene che non potesse vederlo in volto, perché quelle parole commossero il biondino al punto da non riuscire a trattenere qualche lacrima.
Un singolo singhiozzo silenzioso gli scosse le spalle.
In meno di mezzo secondo si ritrovò avviluppato in un caldo abbraccio che sapeva di amore, di Daiki e di sesso. Le grandi mani ambrate del compagno gli lisciavano delicate i capelli e la schiena nel tentativo di calmarlo.
-S…stai bene?-
La voce preoccupata di Aomine fu davvero  un segnale che fece eruttare tutte le sue emozioni. Le lacrime traboccarono di nuovo colandogli sulle guance e gocciolando dal suo mento sulla spalla  a cui era stretto. Le grandi mani bronzee che lo stringevano tentarono di scostarlo, probabilmente per poterlo guardare in faccia me Kise si aggrappò alla sua schiena con tale forza da far desistere ogni tentativo.
Parlò contro la pelle delicata tra  collo e spalla:
-Sto benissimo, solo… lasciami un minuto, non riesco ancora crederci… È passato così tanto tempo… ormai mi ero convinto che… aaaah, che femminuccia che sono a commuovermi in questa maniera.-
Imbarazzato si zittì.
Ora Daiki era più convinto che mai a volerlo vedere in viso. Approfittando della confessione di Ryouta, lo prese da sotto le ascelle e se lo depose di fronte.
Aveva gli occhi sgranati e umidi di pianto, le labbra gonfie e il violaceo segno di un morso sulla gola. Prese fiato per schiarirsi le idee:
-Io ti amo, non scapperò, lo prometto. Se per te va bene, potremmo iniziare a frequentarci come una coppia…-
Arrossì sotto la pelle scura.
Kise era a dir poco stupito. Voleva dire che per loro c’era speranza? Che ci avrebbero provato?
Che poteva permettersi di credere che il mondo, per una singola volta, stesse girando dalla sua parte?
-Se… se vuoi… potresti venire a stare qui, con me. La casa è grande, ho due bagni e soprattutto… visti i nostri orari sarà più facile riuscire a incontrarsi.-
Incredibile. L’aveva proposto davvero. E mentre se ne rendeva conto, si accorse che era per quel motivo che non si era mai deciso a dar via quella casa ma , anzi, si era impegnato ad arredarla modernamente dotandola di ogni confort.
La risposta non tardò.
-Sei sicuro di volermi qui? Insomma, è casa tua, ma a casa mia non c’è spazio ed è più lontana dall’aeroporto…-
In risposta gli giunse sulle ali di una risata scampanellante:
-Sai, credo di averla sempre pensata  come la nostra possibile dimora. Questa casa, intendo, credo di averla arredata con l’intento di poterne godere insieme a te. Sono stato un romantico sognatore. Sembra che io ti ami proprio tanto-.
Lo aveva detto con leggerezza, ma credeva davvero in quelle parole.
In un attimo le labbra di Aomine furono sulle sue.
 
Quattro ore e tre amplessi più tardi i due si coccolavano immersi nell’acqua calda e schiumosa.
-Questa vasca da bagno è un sogno.-
Le dita di Daiki vagavano sfiorando i bordi di legno. Kise, seduto tra le sue gambe sentiva i muscoli del petto contro cui era appoggiato tendersi nei vari movimenti.
L’acqua calda e l’abbraccio sicuro dentro cui si era ritrovato rilassarono il suo corpo trasformando le sue palpebre in lembi di piombo che calavano sul mondo.
Daiki si accorse del preciso momento in cui Ryouta scivolò nel sonno. Lo aveva sfinito.
Si erano amati per ore e ore senza riposare, senza averne mai abbastanza e il suo corpo aveva subito un trattamento tutt’altro che delicato. I lividi bluastri che fiorivano su quei fianchi candidi combaciavano perfettamente con la forma delle sue mani, e tuttavia, nel vederli non potè fare a meno di eccitarsi di nuovo.
Eccolo lì, neo innamorato, neo convivente, neo amante. Tutta la sua vita era stata stravolta, era come se il mondo si fosse fermato e avesse ripreso a girare nel senso contrario. Eppure era in quella vasca enorme, avvolto da un sensuale profumo speziato, con l’uomo che amava addormentato tra le sue braccia dopo che si erano scambiati il massimo del piacere donandosi l’uno all’altro senza riserve, ed era semplicemente… felice.
Non sarebbe stato facile, non avevano scelto una strada semplice da percorrere ma l’idea di non camminare più da solo lo rincuorava e gli faceva credere che insieme, avrebbero potuto farcela. Lui e Ryouta, ne era sicuro, potevano farcela.



Ed eccolo finalmente! Iil primo capitolo finalmente online! Oddio... non so se ho fatto bene a postarlo ma... ormai è fatta XD
 
 

   
 
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