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Autore: L_Lizzy    16/11/2015    0 recensioni
"Non ero mai stato talmente vicino a quel posto. Mai mi aveva sfiorato l'idea di avvicinarmi o provare anche solo a rivolgere lo sguardo lì dove di preciso nessuno sapeva cosa accadesse. Sul Vicolo giravano solo voci."
Venite, madame e messeri. Entrate e lasciatevi trasportare dalla narrazione.
Genere: Angst, Mistero | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Che poi io non avrei mai dovuto essere qui per raccontarvi questa storia ma mi ci trovo. Credo che qualcuno debba prendersi la responsabilità di dare una spiegazione, una risposta a tutti i perché. Lo devo a tutti, lo devo a ognuno di loro. 
Per darvi però ciò che cercate devo cominciare dall'inizio e sappiate che non sarà una storia corta quindi se non possedete un'indole paziente fareste meglio a rinunciare a questa lettura. 
Dunque, si parte.
A soli diciannove anni mi trovavo solo, senza mezza moneta nelle tasche e nessuna speranza di riuscire a trovare un qualsiasi lavoretto dopo che tutti al porto avevano sentito del mio stentato tentativo di furto a un nobile. Mentre i proprietari delle scuderie non mi chiamavano più a strigliare i cavalli e i marinai non mi chiedevano di aiutarli a trasportare le merci ai magazzini, quei quattro cani che stavano sempre a bere alla locanda si limitavano a ridere di me e ingigantire la mia teorica rapina con chi prestava loro attenzione. Chiunque fosse tentato di assoldarmi veniva messo in guardia da quella feccia che a quanto pare mi aveva preso di mira per chissà quale strambo motivo. Ma non quel giorno. Probabilmente si trovavano ancora addormentati sulle gradinate della chiesa ma, e ve lo chiedo per favore, non pensate bene di loro. Erano là solo perché sostenevano fossero meno umide della spiaggetta sotto il ponte e meno anguste della cantina abbandonata fuori città. 
Insomma, con la loro assenza mi si era avvicinato un mercante che pareva tremare dalla fretta che aveva un corpo. Mettendomi in mano una cassa di legno mi chiese di consegnarla a destinazione e poggiandovi sopra due monete di rame era riuscito a convincermi di portarla a destinazione. Probabilmente avrei accettato anche se la moneta fosse stata  anche solo un quarto d’argento, avevo un disperato bisogno di denaro visto che la recente situazione mi aveva costretto ad un digiuno forzato.
 
Non ero mai stato talmente vicino a quel posto. Mai mi aveva sfiorato l'idea di avvicinarmi o provare anche solo a rivolgere lo sguardo lì dove di preciso nessuno sapeva cosa accadesse, sul Vicolo, ovvero dove dovevo effettuare la consegna, giravano solo voci. Si trovava sulla bocca di tutti. Chiunque in città ne parlava con quel fare civettuolo tipico di chi voleva farsi grande agli occhi del suo interlocutore spacciando per proprie parole altrui. Tutti che ne parlavano ma nessuno che si scucisse di bocca cosa avesse di tanto scandaloso da procurare quella reazione. Forse era proprio quell'alone di mistero che lo circondava a renderlo così chiacchierato.
Tenendo stretta la cassa sul petto mi avvicinavo.
Era un posto conosciuto -ma conosciuto per davvero intendo- da pochi; si trovava al termine di un vicolo senza uscita. Difficile da notare poiché dall'esterno sembrava solo l'ennesima casetta uguale alle altre. Nessun cartello sul vialone principale che ne indicasse la posizione e nessuna insegna alla sua porta. Nessuno sfarzo apparente, nulla che potesse svelare qualcosa a occhi indiscreti, che facesse dedurre ciò che vi si trovava all'interno. L'intera costruzione in legno sembrava stare in piedi per miracolo ed i vasi di mattone posti ai lati dell'ingresso davano l'idea di non aver mai contenuto fiori; al loro interno non vi era altro che sabbia e filtri di sigarette in gran quantità.
Negli anni successivi compresi che gli scuri delle dieci finestre al primo piano non venivano aperti in nessuna occasione e che mai chi si trovava nelle camere veniva svegliato dalla luce del sole. Il più delle volte, se ancora avevano il privilegio dell'olfatto, questi individui venivano strappati al sonno dall'odore di tabacco impregnato negli abiti dell'infido ometto che girava sempre attorno al proprietario. Questo esemplare dai modi scorbutici e ruffiani usava passare tra i separé intascandosi un orologio da tasca qui e un cappello a bombetta lì.
Ma sto correndo troppo e voi vi starete chiedendo di che cosa io stia parlando. Procediamo con calma. 
Appena misi piede in quella catapecchia mi trovai in una anticamera anonima. Proprio così, una stanzetta, grande quanto uno sgabuzzino e mezzo forse, completamente priva di arredi e spoglia di qualsiasi cosa non fossero le sue quattro pareti, quella porta altrettanto anonima e le due scale a chiocciola che a spirale dovevano portare al piano superiore. Appena superata la porta frontale all’entrata mi fu chiaro che tutti, dalla prima all'ultima persona che avevo sentito parlare del Vicolo, avessero torto. Rimasi imbambolato, fermo su un piede solo finendo per barcollare e lasciare la presa sulla cassa che cadde a terra. 
Mi riscossi solo quando capii che il barista ce l'aveva con me.

“Cosa credi di fare, ragazzo? Sappi che chi rompe paga qui. E che aspetti? Raccogli quella consegna e poggiala sul bancone, presto che è tardi!”

Disse indicandomi il piano che stava lucidando. 
Pregando che le gambe reggessero non facendo altri scherzi mi avvicinai. L'uomo era sparito al di là di una tendina di perline che sembravano essere capaci di riflettere ogni sfumatura aranciata di quelle luci soffuse che provenivano dai tavolini bassi e dalle lampade a stelo poste qui e là per la sala. Ma non era questo ad avermi sorpreso e meravigliato al mio ingresso bensì i tendaggi drappeggiati che gravavano su tutta la stanza come un cielo colorato di rosso, arancio e giallo. Insomma un impatto visivo che ti catapultava con tutte le scarpe all'interno di un tramonto. I tavoli variavano di dimensione, da sei i posti a sedere divenivano quattro e poi due degradando fino a venire sostituiti da divanetti dove, supposi, le tende avrebbero quasi toccato le teste degli ospiti. Ma la sala era ancora vuota. Giusto nel momento in cui mi chiesi che ora potesse essere venni preso per il colletto e alzato di alcune spanne da terra. Ok, dovevo aver fatto di nuovo qualche cavolata.

 

* * *

 

“Dov'è l'altra metà carico, eh ragazzo?”

“Ma di che sta parlando? Io vi ho portato ciò che mi è stato chiesto di consegnare”

“Non mi faccio fregare da te, quindi dimmi dove hai messo il resto della merce prima che chiami il capo e ti faccia dare una bella lezione.”

“Vi ripeto che non ne so niente, la cassa era sigillata, non l'ho toccata.”
Quando feci per rispondergli a tono una terza voce precedette il mio intervento.

“HERNIE! Per Dio, mettilo a terra. Ho tutto io. E tu signorino: non ti hanno detto che per Mike una moneta equivale ad una cassa? Dovevi attendere che tornasse con il resto. Fortuna ha voluto che stessi passando per il molo e che l’abbia sentito imprecare contro un mandrillo.”

Mentre il ragazzo entrato mi redarguiva persi tempo a osservarlo. Avrà avuto la mia età e un fisico asciutto che permetteva di contarne le costole.
Per essere più veloce come fattorino diceva lui: per morire di fame ribattevo io.
Compresi poi che per appropriarsi delle consegne migliori lui garantiva un trasporto manuale che quindi non andava incontro a imprevisti come smarrimenti e lentezze derivanti dal tragitto compiuto solitamente in carrozza. Oscar, così si chiamava, sfruttava le sue gambe lunghe per raggiungere gli anfratti della città per consegne dell'ultimo minuto. Un matto fatto e finito che però durante il mio soggiorno lì fece numerose volte da paciere nelle mie discussioni con Hernie.
Il caro barista invece era d’invidiabile altezza, a occhio e croce doveva raggiungere il paio di metri netti, e in carne seppur non eccessivamente, giusto l’occorrente per apparire di sano aspetto. L’agilità con cui si muoveva dietro il bancone era impressionante e scostava parecchio dalla prima impressione che dava: quella di un orso scoordinato. Eppure aveva una meccanicità nei movimenti tutta sua che di primo acchito non mi seppi spiegare. Ogni qualvolta si trovasse a porre stoviglie e bicchieri al proprio posto un’espressione contorta gli deformava brevemente i tratti del viso. La barba rada gli pronunciava la linea della possente mascella che m’incantai a fissare per più di qualche secondo.
Avrebbe potuto masticare un osso?

“Ei tu! La prossima volta ti faccio fuori con le mie mani se non mi dai retta.”

“Mi scusi” ripreso nuovamente mi prestai a far attenzione impegnandomi a smettere di pensare a come quell’orso avrebbe potuto mangiarmi.

“…quindi per ripagarmi della corsa extra che mi hai fatto fare rimarrai qui questa sera. E vedi di non combinare casini!” Vedendo che l’orso stava per ribattere lo precedette “Hernie non una parola altrimenti col cavolo che la prossima volta ti reggo il gioco con Marionne.”

Non che avessi idea di cosa diamine volesse dire ma l’omone sembrò più accondiscendente così quando Oscar disse di doversi ritirare per un’altra consegna lo lasciò andare per poi rivolgersi a me. In uno spacco di cinque secondi netti mi trovai in mano un grembiule e, posto davanti al lavello, mi fu ordinato di ripulire da capo a fondo il pentolame contenutovi all’interno. Descrivervi la montagna che mi trovai davanti non reggerebbe il confronto con l’impatto visivo che provai constatando l’enorme quantità di lavoro che mi aspettava.

“Devono brillare.”

Stava davvero parlando di quei tegami che sembravano appena usciti da uno scontro ravvicinato con le fiamme dell’Inferno?
A quanto pareva dall’occhiata di traverso che mi rivolse la risposta alla mia tacita domanda doveva essere un sì.
Essia.
Lasciai scorrere l’acqua fin quando non giunse a temperatura per poi arrotolarmi le maniche della casacca che indossavo fin oltre i gomiti.
Si cominciava!

 

* * *

 

Un’infinità di sfregamenti di spugna più tardi potei finalmente tirare un sospiro nel mezzo di tutta quella schiuma prodotta dal sapone. Sfinito e con le braccia doloranti mi ero immerso così totalmente nelle imprecazioni che la mia mente ripeteva a manetta nei confronti di quel gigante che non mi era parso nemmeno di aver compiuto quella titanica missione. Ora in cucina arrivava solamente qualche sporadico bicchiere da sciacquare e riconsegnare al banco esterno dove, a ritmo sostenuto, Hernie si occupava di riempirli e farli recapitare al tavolo esatto tramite camerieri giunti a inizio serata.
Per via di quel mio estraniamento non mi ero reso completamente conto del tempo che avanzava. Avevo registrato con la coda dell’occhio il passaggio di cinque o sei ragazzi che si dirigevano nella stanza attigua alla cucina per poi tornare verso il salone vestiti di divise nere e bianche.
Il mio buonsenso purtroppo –o per fortuna?- non m’impedì di placare la smodata curiosità che mi caratterizzava finendo per non opporsi al mio avvicinamento allo stipite della porta.
Solo una sbirciatina, diceva la volpe che era in me.
La prima cosa che registrai fu nuovamente lo scatto poco sciolto che la spalla di Hernie faceva ad ogni movimento, per poi rimanere incantato dalle bolle d’aria che rapide risalivano all’interno del vetro che l’uomo reggeva per il collo. Tante, tantissime bolle che s’insinuavano nel liquido ambrato che scorreva dalla vecchia bottiglia ai bicchieri panciuti fino a riempirne due dita. Issati in seguito su di un vassoio e consegnati a un ragazzo che li portasse dove di dovere i miei occhi non si staccarono dalla forma arrotondata osservando attraverso il liquore di giada contenutovi la trasformazione avvenuta in sala.
Uomini, erano presenti un sacco di uomini.
Tra camerieri, giovani ben vestiti e uomini d’alto rango non si vedeva l’ombra di una donna o, almeno, non la vidi fin quando la mia attenzione non venne rapita da un susseguirsi di note profonde, da contralto, note che vibravano nel petto e che ti risalivano la spina dorsale strappandoti un brivido. Nell’angolo della sala a me più lontano una donna fasciata in un vestito che sinuoso scendeva fino alle caviglie, si esibiva quasi al buio intrattenendo il pubblico, facendo da sottofondo alle discussioni di varia natura intrattenute dagli uomini. Illuminata da un unico raggio di luce che le tagliava il viso obliquamente cantava sull’accompagnamento di quello che doveva essere un violino.
Farfallini, cravatte annodate rigorosamente e colletti inamidati rubavano lo sguardo di chi, come me, osservava la scena nell’insieme. Gemelli e anelli agli anulari scintillavano come gli ultimi raggi tenui di quel sole che andava scomparendo.
Tra drappi e cuscini dei colori del tramonto svettavano ora nere figure, corvi su quello spettacolare sfondo. Figure nefaste e pericolose che pretendevano e non chiedevano. Tra essi spiccavano giovani rondini che parevano ivi intrappolate, come incapaci di volare più in alto, incapaci di oltrepassare quell’orizzonte di nubi basse che le schiacciava accanto a quegli altri. Snelle, sottili e persino quasi… impalpabili, avevano trovato il modo di destreggiarsi in quel contesto che ai miei occhi pareva essere sbagliato. Da un capo all’altro del salone, raso terra, si muovevano eleganti come mosse da correnti solo a loro percepibili almeno fin quando un corvo non alzava un’ala, bastava un gesto in loro direzione, e allora si facevano terrene quelle rondini e, presa coscienza del proprio destino, si dirigevano verso quell’anticamera spoglia che anche lui aveva attraversato quello stesso pomeriggio. Dirette dove non avrei saputo dirlo con certezza, ma, se avessi dovuto azzardare una risposta, avrei ipotizzato che stessero salendo al piano superiore tramite una di quelle due scale a chiocciola poste accanto al portone d’entrata.
Cosa vi fosse al piano di sopra non ne ero ancora a conoscenza. 






It's me:
Altro esperimento, nuovo contesto, intricate faccende e vicende. 
Avevo iniziato questo coso qualche tempo fa e ad un'amica era piaciuto quindi mi sono messa di gran lena a rivederlo, tentare di auto-correggerlo e renderlo vagamente leggibile. Spero di essere riuscita nel mio intento! Non so se e quando riuscirò a scrivere le parti successive ma volevo sapere che ne pensavate... insomma:
I hope you enjoy it!

Liz

  
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