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Autore: cenerella    16/11/2015    1 recensioni
Lo vedevano tutti, ed era innegabile, che Martino bruciava: bruciava di passione, per le donne, il vino, il gioco, bruciava dal desiderio di essere ricordato, bruciava perché era nato per combattere in quel mondo dove l'esercito romano allungava i suoi confini sin alle terre dei Sassoni a Nord e poi giù, aprendo strade che anche Alessandro il Grande aveva potuto soltanto sognare...
Genere: Storico | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Antichità greco/romana
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Una fottuta tempesta di neve.

 
Di quella sera, Martino avrebbe ricordato soprattutto il freddo. Un fottuto freddo da fottuto inverno in Gallia, pensava il soldato, stringendo forte le mani attorno alle redini del suo cavallo. Se fosse riuscito ad arrivare vivo ad Amiens probabilmente gli avrebbero dovuto amputare qualche dito, e allora addio esercito! Era una delle poche cose che gli riuscivano bene, combattere. Al più si buttava in qualche rissa, quando il vinaccio che davano ai soldati saliva alla testa, ma anche da sobrio non aveva mai avuto problemi a spaccare qualche muso, soprattutto a quelli che mettevano in dubbio il suo essere romano. Lui era un soldato ed era romano, anche se veniva dall'estrema provincia dell'impero, altrimenti non sarebbe stato lì a gelarsi il culo nel bel mezzo di quella dannata tormenta. E dire che certi giorni si sforzava persino di non essere empio maldicendo tutti gli déi di cui ricordava il nome, e non erano moltissimi. Del pantheon greco solo uno gli andava particolarmente a genio: era Ares, o Marte, il Dio della guerra. Il padre di Martino, che nell'esercito aveva fatto carriera, aveva imposto quel nome al figlio proprio per metterlo sotto alla protezione del Gradivus, di "colui che va". Mai nome fu più azzeccato: durante le battaglie pareva davvero che il giovane cavaliere fosse posseduto da Marte, i soldati gli andavano dietro ispirati dal suo coraggio, anche quelli a cui la sera prima aveva rotto il naso o battuto ai dadi. Lo vedevano tutti, ed era innegabile, che Martino bruciava: bruciava di passione, per le donne, il vino, il gioco, bruciava dal desiderio di essere ricordato, bruciava perché era nato per combattere in quel mondo dove l'esercito romano allungava i suoi confini sin alle terre dei Sassoni a Nord e poi giù, aprendo strade che anche Alessandro il Grande aveva potuto soltanto sognare. Anche in quel momento, solo col suo cavallo, intirizzito dal freddo, Martino non smetteva di borbottare rivolto ad un invisibile interlocutore. Anzi, ad un pantheon di interlocutori: ad ogni nome che chiamava, una bestemmia, via così con un' interminabile litania. Teneva il capo chino per ripararsi dal vento battente, avvolgendosi come poteva nel bel mantello rosso che era l'unico pezzo della sua uniforme per il quale provasse un minimo di attaccamento. Forse era il rosso a piacergli particolarmente, o il fatto che sotto a quel mantello si stesse dannatamente bene. E dire che non era nemmeno tutto suo. Secondo la legge militare romana lui possedeva soltanto la metà di quello che indossava: un calzare, un guanto, l'elsa della spada, il cimiero scarlatto... e mezzo mantello. Era tutto intirizzito, ma vedere il profilo severo delle mura di Amiens gli riscaldò il cuore. Sarebbe andato dritto dal governatore della città a consegnare il suo dispaccio, e poi via a cercare Marcello, suo compagno di bevute, che si trovava nella cittadina già da un po'. Il cavallo nitrì e si bloccò proprio di fronte alle mura, infastidito da qualcosa. Martino, che non aveva alcuna intenzione di essere disarcionato, lo fece girare su se stesso, soffocando l'ennesima bestemmia nella lana del mantello. Era solo un mendicante, un mucchietto di ossa e stracci che probabilmente non avrebbe passato la notte. Chissà perché era finito fuori dalle mura, non c'era forse più posto nelle stalle di Amiens per quel povero diavolo? Martino scosse la testa, esasperato da se stesso, e il cavallo indietreggiò di nuovo. C'era qualcosa, in quell'uomo, che lo innervosiva. Era forse un ex galeotto? Aveva sentito dire che gli animali certe cose le sentono d'istinto, ma lui, che spesso e volentieri si comportava come tale non provava nessun sentimento di repulsione verso la creatura rannicchiata di fronte a sé. Anzi, ne era inspiegabilmente attratto. Scese dal cavallo recalcitrante -non fosse mai che gli capitasse di cadere e di avere strane visioni, aveva sentito una storia pazzesca di un buon romano che dopo essere precipitato giù dal suo destriero aveva iniziato a predicare nel nome del Dio dei Cristiani, con cui lui non voleva avere niente a che fare- e si avvicinò al mendicante. O alla mendicante, perché ridotto così non c'era verso di capire se fosse uomo o donna. Adesso lo sentiva, quell'odore penetrante e selvatico, e ancora si stupì di non trovarlo repellente. Guardò il mendicante, e guardò Amiens, di fronte a loro: precisa, severa, così vicina eppure lontana. Inziava a percepirla, la rabbia, scorrere dentro di sé come un fiume di lava e incendiare ogni cosa. Anche questo era un sentimento che non riusciva a spiegarsi, così come non riusciva a capire come mai per la prima volta in vita sua gli venisse da maledire gli uomini, la dannatissima umanità di cui anche lui era membro, invece che le divinità. Erano stati gli esseri umani a cacciare quel loro fratello, a condannarlo a morire assiderato poco lontano dalle case dove loro consumavano lauti pasti e si riscaldavano al fuoco del camino. Si sentiva improvvisamente stanco. Posò la mano sul gladio, come a cercare una sicurezza nell'arma con cui aveva combattuto le barbariche popolazioni del nord, i celti che facevano i sacrifici umani, la spada con la quale aveva giurato di difendere Roma e l'Impero in tutte le sue battaglie. Era questa, la civiltà che Roma andava portando? Questi i grandi valori impressi nel destino dei Cesari? Diventando un cavaliere non aveva forse giurato di proteggere i piccoli e gli indifesi? Estrasse la spada. L'uomo non si mosse, non parlò. Forse sperava che lo uccidesse. Ma Martino, quella sera d'inverno, non rivolse la spada verso un'altro uomo. Non l'avrebbe mai più fatto. Al contrario, la voltò verso se stesso. Il rumore che produsse il mantello, quando lo tagliò a metà, Martino non lo dimenticherà mai. Rimase lì, rosso sul bianco manto della neve di Gallia, fino a che lui non lo raccolse e non lo drappeggiò attorno al povero. Era vivo, sentiva il suo calore, ed era strano, perché sembrava che fosse bollente. Si allontanò, e montò a cavallo in fretta e furia. Quella sera, se lo sentiva, era a rischio di visioni. -Grazie.- sentì dire alle sue spalle, e il mendicante aveva una voce così profonda che per un attimo gli ricordò quella del Sommo sacerdote la volta in cui suo padre l'aveva portato ad assistere ai Misteri di Marte. Anche allora aveva avvertito la stessa sensazione che si prova poco prima di una battaglia, due secondi prima che i soldati si lancino gli uni contro gli altri al suono dei tamburi di guerra. Spronò il suo destriero, con il viso schiaffeggiato dal vento. Quella notte, giacque febbricitante. Sognò il povero, sognò il suo mezzo mantello, sognò di dare via tutto ciò che possedeva, sognò un Dio senza nome. Rise nel sonno, perché lo sapeva che andare a cavallo con quel tempaccio era una fregatura... Paolo, ecco come si chiamava quel soldato che era stato trovato allo stesso modo dal Dio senza nome. La mattina, ancora percorso da quella strana carica di energia, si era levato all'alba. Aveva indossato in fretta e furia i suoi indumenti da soldato romano, anche il mezzo mantello che gli restava. Aveva una nuova battaglia da combattere, e questa volta sentiva che il gladio non gli sarebbe servito. Il fuoco, quello sì, che se lo sarebbe portato sempre dietro. A volte, lui lo sapeva, Marte porta la pace.

Note e doverosi crediti
Martino era nato in Pannonia, l'attuale Ungheria, aveva viaggiato attraverso tutta l'Europa prima di giungere in Gallia dove avvenne l'episodio del mantello così come ci è tramandato dall'agiografia Cristiana. Dopo la conversione venne acclamato vescovo della città di Tours e, si racconta, provocò chiacchiere tra i confratelli perchè si ostinava a non voler abbandonare la propria cella di monaco in favore degli agi del palazzo vescovile.
A me è sempre stato un santo simpatico perchè ha la spada e il cavallo, perchè è un bell'esempio di generosità e anche perchè, dalle mie parti, per San Martino, si mangiano le pere cotte nel vino rosso. Forse per questo quando più di vent'anni fa mio marito mi propose di imporre il suo nome alla nostra prima figlia accettai volentieri. Mi piaceva che portasse il nome di un santo generoso, viaggiatore (forse in questo caso abbiamo un po' calcato la mano, ma questa è un'altra storia!) e forse volevo essere sicura di non dimenticarmi di festeggiare con le pere cotte nel vino e nello zucchero.
Questa storia l'ha scritta lei, che non ha un account EFP.
Ha da sempre la mia password quindi è in grado di leggere eventuali recensioni.
Grazie, Marti, per avermi dato il consenso a pubblicarla.
cen.
   
 
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