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Autore: kike919    16/11/2015    0 recensioni
"Potete raccontarmi le vostre prime volte a casa da soli con una donna, di notte; ma non saranno niente in confronto alla prima notte da soli con un angelo. Voi non sapete nulla di come si accarezzano un paio d’ali, nella penombra di una stanza."
Genere: Introspettivo, Malinconico, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Era sempre stato un perdente. Questa consapevolezza impregnava ogni fibra del suo essere; era come se sudasse decadenza. La non realizzazione.

Era sempre stato una persona profondamente sola, i cui ricordi migliori impallidivano di fronte a qualsiasi scialba giornata di un essere umano normale. Bastava che gli altri facessero le loro tristi e stinte cose di tutti i giorni, per superare in qualità il suo apice di felicità.

Perché lui era inutile e la sua vita era fatta di niente.

Troppo introverso per avere amici. Troppo confuso per vedere nella gente dei sorrisi sinceri, per fidarsi. Era schivo e tiepido, allontanava l’universo con pochi gesti ben assestati.

A nessuno importava di questa profonda solitudine che gli opprimeva il petto la notte, che lo squarciava senza lasciargli nemmeno la pelle addosso.

Il suo attimo migliore di felicità era legato a un gioco platinato anni prima. Lì era stato sfiorato da una parvenza di sorriso, ma poi si era reso conto, come un incudine gettata in testa con brutalità, che avrebbe voluto soltanto qualcuno con cui condividere tristezze. Se avesse avuto soltanto una persona, una donna disposta a raccogliere i suoi pianti, ad abbracciarlo quando nel letto si sentiva tremare per l’angosciosa malinconia di esistere senza scopo alcuno… se avesse potuto sentire il profumo di una donna, da vicino, solo per lui e non in una circostanza casuale in cui le persone si salutano e si annusano per curiosità… per una cosa del genere, avrebbe rinunciato a tutti quegli attimi futili di vuota gioia, in un colpo solo.

Nessuna gli aveva mai stretto la mano.

Era troppo brutto, troppo stupido, troppo abominevole per essere amato?

Nessuna gli aveva mai fatto un complimento.

Nessuna l’aveva mai invitato a fare un giro da qualche parte.

La timidezza bastava davvero a giustificare il suo stato di abbandono, di noncuranza per cui i genitori lo vedevano un fallito, senza un lavoro, senza un amico, senza una donna?

Scrollava le spalle. Fa niente.

Fa niente.

Fa niente. Sono una persona che non esiste. Non si può dire di sprecare un’esistenza, se non si esiste.

Oltre a ingozzarsi di porcherie che il suo fisico faceva i salti mortali per smaltire, donarsi anima e corpo ai videogames, film e computer, l’unica cosa che sapeva fare, era scrivere.

Scriveva per smorzare il dolore accecante che lo faceva tirare avanti a tentoni.

Perché le lacrime scritte non si asciugano. Tutti prima o poi ci sbattono il muso, anche se si rifiutano di vederle.

La curiosità -notate bene: non l’interesse… la curiosità presuppone uno spirito alla “dai, osserviamo il fenomeno da baraccone, vediamo che fa”, l’interesse presuppone affetto di fondo- conduce gli altri alle tue lacrime di carta, che fioccheranno come coriandoli nelle loro teste affannate di perfezione. Coriandoli, appunto.

Cadono e nessuno li raccoglie.

Che nessuno lo raccogliesse mai, era ordinaria amministrazione.

Però, perlomeno, sarebbero servite un giorno a far sentire in colpa qualcuno. Sarebbe scivolato almeno un rimpianto sui loro volti, a pensare che avrebbero potuto salvarlo dal nulla più completo che lo fagocitava di continuo.

Questo ragazzo preferiva la notte. Almeno dormendo viveva qualcosa.

Vedeva la luce, da qualche parte.

 

 

 

 

 

Poi, una mattina, era successo qualcosa di strano nella mia vita di merda. Qualcosa che l’aveva resa degna di questo nome, che mi aveva spinto ad amare il giorno più della notte immensa che era stata.

Stavo facendo colazione, quando il destino mi chiamò al suo cospetto. Macinavo cereali quasi per dispetto, ruminandoli come una mucca al pascolo quando l’erba le fa schifo. Masticavo più del dovuto. Eppure non era il cibo che stavo cercando di farmi scendere in gola; ma un’ennesima giornata priva di senso.

La luce filtrava accecante attraverso la finestra, illuminava completamente il tavolino di legno postole sotto, tanto che il mio pasto sembrava quasi un dono di Dio. Un piccolo miracolo.

Poi mi formicolò la schiena. Sentii una risata argentina e l’istinto si mosse prima della ragione.

Spalancai repentinamente la porta di casa e mi ritrovai chiuso fuori, senza chiavi, appena in tempo per fare in pieno la figura del cretino.

E poi c’era questa risata che infestava l’aria, acuta e maledetta come la corda di un violino, eppure spensierata e allegra come il cinguettio degli uccelli. Era un ossimoro; era lucida follia.

Fu così che, guarda caso, mi mancarono le parole. Inghiottito interamente da quella figura, avevo completamente dimenticato il mio nome.

La confusione mentale fu così destabilizzante, che barcollai facendo qualche passo indietro per non cadere per intero.

Era china dietro a un gattino che tutto voleva tranne che le sue fusa. La bestiola sembrava insofferente al calore umano, tanto che impiegò pochi minuti a smarcarsi e infilarsi sotto un’auto senza uscirne più.

“Dai, torna qui! Piccolino!”

Mi trovai davanti questa cascata di capelli scuri, come onde ribelli del mare in tempesta. Occhi profondissimi, enormi e castani, ma sapevano riflettere il sole.

“Ciao”, disse lei con quel timbro così chiaro e ingenuo, da bambina.

“Ciao”, balbettai fuori, come se non avessi le forze.

Lei sorrise, spalancando quella bocca carnosa, definita e semplice. Accendendo un petardo nella mia testa malata da encefalogramma piatto.

Dovetti uccidermi più volte, per tramortire l’istinto totalizzante di abbracciarla con passione viscerale e non sembrare un maniaco sessuale. Indossava una maglia azzurra semplice, un paio di jeans e delle scarpe da tennis. Eppure quel sorriso lì, da anima piena, era la cosa che le stava meglio.

La giornata era inondata di luce in maniera disumana, innaturale. Una luce pulsante e bianca.

E lei sembrava un angelo.

“Cosa stai facendo?”

“A quanto pare sono rimasto chiuso fuori di casa…” replicai, convinto di aver fatto la solita figuraccia; le mani in tasca come un poveretto che non sa cosa deve fare.

“Allora vieni a fare un giro con me…” buttò lì con naturalezza, come i bambini.

“Dov’è la fregatura?” commentai, per poi rendermi conto della mia immensa stupidità.

“Scusa, non sono abituato a queste cose.”

Piegò in maniera curiosa e adorabile la testa di lato, lasciando ricadere tutte le sue ciocche su una spalla. Mi giunse una vampata di balsamo al cocco tale da portarmi in un mondo a parte, dove avrei potuto accarezzare quei capelli la sera fino a farmi rapire dal sonno e in tante altre occasioni. Stavo già viaggiando troppo con la fantasia.

“Tu sei un tipo strano… mi piaci!”

“Ma tu non avevi qualcosa da fare?” Chiesi e poi mi morsi la lingua, cominciando a capire che forse non era il mio aspetto l’ostacolo più grande per i rapporti di coppia. Ero un rospo antipatico in tutti i sensi.

“Nel senso di: sembra strano che sei uscita dal nulla e non stai facendo niente?” Fece, traducendomi il pensiero correttamente. Fu lì, che mi sentii per la prima volta amato.

“Era semplicemente una fantastica giornata. Volevo viverla con ogni fibra del mio essere, assaporando con i miei sensi tutto ciò di bello che aveva da offrire. Ho visto un bel gattino, l’ho seguito per vedere dove sarebbe andato… ed eccomi qui.”

“Beata te, che vedi nelle giornate qualcosa di bello. Io sono un…” e cominciai a tossire convulsamente, farfugliando tra i colpetti di tosse le parole “depresso-cronico”. Dall’imbarazzo avrei voluto scomparire. Quella sua aura, quella gioia contagiosa, era un richiamo troppo forte per allontanarmi da lei. Mi aveva travolto e non mi sarei mai arreso a un’idea diversa da quella di noi due insieme.

Le brillò lo sguardo. Due pupille larghe, come gli occhi dal taglio dolce, compassionevole, buono.

Aveva pietà di me?

No. Mi amava come essere umano.

“Io invece ti dimostrerò che si può essere felici ogni giorno; devi solo imparare come si fa.”

“Si può sapere come ti chiami?”

“Quanti problemi! Tu chiamami Luce.”

Non ebbi il tempo di formulare una risposta al suo invito, che il suo profumo mi affondò di nuovo. Afferrò decisa e vitale la mia mano e mi trascinò letteralmente a cercare i sorrisi dentro i cuori delle persone e delle cose.

 

 

 

 

 

La maestosa, morbida figura di Luce, capace d’incantare qualsiasi essere umano, non era niente rispetto alla sua interiorità: così profonda da dare le vertigini. Solo tuffarcisi dentro era un salto spaventoso che ti lasciava coi polmoni privi d’aria, ma che ero pronto a ripetere in ogni singolo giorno della mia bacata vita.

Eravamo in riva al lago, su un ponticello di legno ad essere sinceri. Lei si era tolta le scarpe e aveva fatto penzolare i piedi nell’acqua. Pensai volesse sulle prime, aprir bocca per comunicarmi qualcosa di banale sul sole, sul lago, sul cielo. Sapete quelle frasi di circostanza: “è caldo, sono felice…”.

No. Luce era imprevedibile, sempre.

Mi soffiò sull’anima con quello sguardo languido, nel quale galleggiava una nota amara di dolore.

“Ci hai pensato mai…” cominciò, con un filo di voce. “Ci hai pensato mai, a tutta la gente che soffre mentre noi siamo felici? Cosa facciamo per salvarla?”

Già è un miracolo che tu abbia salvato me; io non so salvare nemmeno me stesso. Figurati gli altri.

Sconsolato, forse senza poter mai davvero capire la portata del suo desiderio, del suo bisogno di aiutare gli altri, mi sedetti lì vicino a lei. L’abbracciai e lei appoggiò la testa sulla mia spalla, mentre fissavamo le profondità paludose e verdastre senza parlare.

“Anche se non basta… io soffrivo terribilmente, prima di averti con me. Ora sono felice.” il mio tono uscì basso e roco, impacciato.

Luce quasi si commosse. Infilò una mano sotto la mia, cercando protezione.

Restammo in un timido ed intimo silenzio, a guardare il cielo sporcarsi di rosso; morire sanguinando per partorire una nuova, splendida notte.

 

 

 

 

 

Potete raccontarmi le vostre prime volte a casa da soli con una donna, di notte; ma non saranno niente in confronto alla prima notte da soli con un angelo. Voi non sapete nulla di come si accarezzano un paio d’ali, nella penombra di una stanza.

I miei si erano convinti, finalmente, che andando a fare una vacanza lasciandomi solo, non mi sarei suicidato in modi bizzarri; tanto che avevano notato un netto miglioramento nel mio umore ballerino e, seppur per loro l’idea avesse un che di assurdo e miracoloso, forse avevano il sospetto che ci fosse una ragazza nella mia esistenza storta. Anche se restavo il figlio sfigato, perlomeno non ero pure solo e maledetto.

Avevo preparato un arsenale infallibile di contraccettivi. La mia vergogna di essere vergine, l’avrei superata poi. Luce rendeva tutto facile; in qualche modo avremmo fatto. Avrebbe fatto scivolare le mie vergogne tra batuffoli d’ovatta e sarei salvato, come sempre.

Scelto e visto il film, ero rimasto in piedi a guardarla più minuti, accoccolata sul letto così. Indossava una canottiera rosa di seta con lo scollo a v, che in netto contrasto con la chioma scura sottolineava i lineamenti dolci, il viso delicato. I pantaloncini dello stesso tessuto, rosa antico, con quelle gambe magre e lisce nascoste in parte dalla postura del momento.

Eppure l’istinto di saltarle addosso brutalmente, era stato spento da un bisogno profondo di affetto.

Mi accovacciai al suo fianco, abbracciandola come una custodia, adattandomi alla sua morbida forma. Il mio viso completamente perso nei ricci, si rifiutava di vedere altro.

Il mondo non serviva a niente, senza Luce.

“Mi racconti una delle tue storie strane?” aveva chiesto, con una voce che non lasciava spazio a sconcerie, pura e limpida come scrosci d’acqua.

Ci avevo pensato un po’, il tempo di capire se valeva la pena rovinare tutto con le mie uscite fuori luogo.

“C’era una volta, tanto tempo fa, un ragazzo che moriva ogni giorno…”

“Poverino, sicuro aveva molte cose belle attorno a sé, senza vederle.”

“Insomma, racconto io o tu?”, la rimproverai fingendomi severo ma sorprendendo me stesso a sorridere di gioia. Rimase in silenzio, ovviamente era un’esortazione a continuare.

“Questo ragazzo moriva ogni giorno, perché era il peggior nemico di se stesso e non poteva salvarsi da solo.”

Luce si strinse le mie braccia attorno al suo grembo, per essere protetta.

La stanza illuminata solo dal debole raggio soffuso di una lampada. Una lucciola solo per noi.

“Poi… accadde che il sole aveva deciso di scendere sulla Terra solo per lui. Anzi, no: il sole è rimasto nel cielo, però Dio aveva deciso di mandare un angelo. Un angelo vero.”

Le seminai le spalle di baci, ma dalle mie labbra sgraziate non nascono certo fiori.

“Che stai facendo?” domandò.

“Come, cosa sto facendo?! Ti sto baciando le ali!”

“Ma le ali servono solo per aggrappartici e volare con me.”

“Volerei con te ovunque e in ogni attimo. Sei l’unica cosa per cui vivo.”

“Ah, quindi sarei una cosa?” replicò ridacchiando dolce, lanciando placidi sbadigli. Il sonno se la stava già prendendo. Si era svegliata molto presto di mattina e di conseguenza stava già crollando.

Ma non volevo lasciarla andare.

“Ti prego, resta con me. Sono perso, senza te.” dissi, col mio corpo che premeva e bruciava a contatto col suo.

“Mi accarezzi la testa?”

“Sì, ma parla tu. Non ti spegnere adesso, dammi ancora altri minuti con te.”

Così la mia mano prese dalla fronte a percorrerle i capelli. Dall’alto verso il basso, con movimenti lenti. E l’avrebbe accarezzata per sempre, se solo il tempo non ci chiedesse la felicità indietro con gli interessi.

“Alloora… l’angelo era sceso un giorno, perché aveva visto troppe lacrime che dovevano essere asciugate. Perché la vita è un immenso regalo, se sai da che parte scartarlo. Al ragazzo servivano solo gli occhi giusti per vedere…”

“Luce… Luce?” La testa appesantita, retta dalla mia mano.

“.. ci sono”, riprese sbadigliando e spingendo ancor più la schiena contro il mio petto.

“…gli occhi per vedere…” provò ancora a dire, ma si spense totalmente.

Mi scostai un attimo per contemplare la sua figura dormiente. La sua sola visione, mi accalappiava l’anima; il mio tormento, con lei diveniva sempre un sorriso.

Abbandonata contro la mia mano, gli occhi chiusi e il respiro sereno, incosciente e indifesa come solo gli angeli sanno essere. Non ho mai stretto così facilmente il Paradiso.

“Gli occhi per vedere che c’è sempre una speranza. Che non siamo mai soli.” Completai estasiato, mangiandola con lo sguardo un’ultima volta, prima di spegnere la luce e passare una notte insonne. Avevo paura che durante il sonno, i miei mostri uscissero dalla testa per mangiarla; così l’ho protetta restando più o meno sveglio.

 

 

 

 

 

La prima volta, c’era il sole come quando l’avevo conosciuta. Eppure l’aria non era rovente; era quella giusta. Eravamo ancora da me, la stessa settimana della famigerata vacanza.

Aveva cominciato riempiendomi di carezze, con entusiasmo e vitalità. Aveva un completino rosso, durato si e no un paio di minuti, il tempo di guardarlo affermando che era bellissima. Poi ci eravamo tolti tutto, i miei movimenti guidati completamente dai suoi occhi che, come fari, mi accendevano dentro un fuoco inestinguibile.

I suoi fianchi morbidi e abbronzati, da prendere a morsi. Li tenevo con le mani.

“Sai che non l’ho mai fatto?” mi ero quasi giustificato, impacciato. Speravo di fare non bella figura, ma perlomeno una figura decente.

“È perfetto, ti amo.”

Restai per almeno una mezz’ora dopo aver finito, ad accarezzarle i seni e il resto del corpo.

Lei che sorridendo, senza malizia, mi scoccava baci sul viso e sul collo. Mi abbracciava con tutte le sue forze, con ogni molecola della sua anima.

Non ho mai saputo se lei aveva amato prima di me; non ho mai avuto il coraggio di chiederglielo.

Era tutto così perfetto come l’avevo concepito, che non vedevo perché rovinarlo con una secchiata d’acqua fredda.

 

 

 

 

 

Una mattina mi svegliai. Dico davvero.

La vita è strana, impietosa, imprevedibile, non ti regala le cose. Le migliori a volte le costruiamo noi, a volte ce le procuriamo come meglio possiamo.

Non è colpa nostra se non riusciamo a realizzare i nostri sogni. Ognuno compensa come può le proprie mancanze, prima di diventare completamente pazzo. Ma io sono già un passo avanti, credetemi… non è il mio solito pessimismo cosmico, che ingloba e distrugge universi.

Una mattina mi sono svegliato e mi sembrava di aver dormito troppo.

In effetti mi ricordai che avevo passato quasi un giorno o due in piedi: cercando di passare al livello successivo, mi ero intestardito a morte, perdendo parecchie ore di sonno.

Poi c’erano stati i nervi, il caffè, l’angoscia. Ricordo di aver cercato il riposo ed ero parecchio preso dai miei pensieri.

Insomma mi sono svegliato in un bagno acido di sudore, completamente sprofondato nel gelo della mia tristezza. La casa era immersa nella più assoluta immobilità; se avessi aperto il lavandino, l’acqua sarebbe scesa in sospensione. Il tempo, fermo. Ma che diamine mi succede?

Senza un nome, senza amici, senza affetti.

Senza Luce.

Una mattina mi sono svegliato e appena capito l’immenso dramma in cui ero caduto rovinosamente, senza più speranza di risalire, mi rannicchiai a terra urlando in silenzio tutta la mia povertà e pochezza.

Quanto tempo avevo dormito? Quasi due giorni?

Quanto tempo era durato, questo sogno?

Eccomi qui. Sono lo stesso di due notti fa, eppure non sono lo stesso.

Non sono lo stesso perché ho amato davvero e ho costruito il mio sogno così bene, nel dettaglio… la mia disperazione era così completa da spaccare il cuore, che l’inconscio mi ha dato in pasto ciò che volevo.

Questo ragazzo preferiva la notte. Almeno dormendo viveva qualcosa.

Vedeva la Luce, da qualche parte.”

Questa non è una favola, non ha morale.

Chi può giudicare cos’è davvero reale, se io vedo ancora quegli occhi caldi, pieni di vita, in giro per casa e sono stati mille volte più reali dei miei giorni pieni di vuoto?!

Chi siete voi, per venirmi a dire di cosa vivere o morire, se non avete mai osservato le donne come esseri lontani che non avrete mai; se la soltudine non vi ha mai fatti strisciare come vermi, elemosinando affetto. Cosa potete ancora insegnarmi, se l’unico sguardo capace di amore nei miei confronti, l’avevo costruito io a tavolino?

Credetemi. Quando il dolore non vi fa vedere più nulla, non siete reali, non state vivendo.

Sarà stata solo un sogno, ma Luce mi ha cambiato.

Ho dormito tanti anni e voi la chiamate vita; ho vissuto per due giorni e voi lo chiamate dormire.

Punti di vista.

Il vostro punto di vista non cambierà la mia condizione. Non guarirà le mie ferite che scintillano per quanto sangue grondano. Il tarlo che mi logora la testa, di non sapere mai che consistenza abbia un abbraccio; di non sapere mai quanto effettivamente siano freddi i piedi femminili nel letto; l’alito che le ragazze hanno quando ti danno un bacio. Nemmeno mai una carezza sul viso ruvido.

Voi non capite, quanto mi svuota l’anima questo tunnel buio. Questo sgabuzzino in cui mi ha relegato la vita. Questo ruolo da cane perennemente abbandonato, che cammina in autostrada ma non si ferma nessuno.

Non esiste pietà. Non esiste amore, in queste nevi perenni.

Non è per me far finta; non più. Non ora che ti ho vissuta e se fossi vera farei di tutto per non perderti. Mi strangola lo stomaco, mi attanaglia l’anima, pensare di averti inventata.

Come farò io adesso, a lacrimare e vagare come uno zombie, senza di te?

La vita è un immenso regalo…se sai da che parte scartarlo.

Le regole sono solo una formalità. Possiamo essere ciò che vogliamo.

Voi che leggete queste lacrime di carta, ma poi resetterete tutto e ve le lancerete alle spalle, come coriandoli… sappiate che non sono un disperato, né morto.

Perché la vita è quella a cui sto andando incontro, ora che le pillole per dormire di mia madre, prese in blocco proprio adesso, avvicinano la mia mano indegna a quella angelica di Luce. Sono nato morto e vivrò morendo.

Scusate, per le ultime righe tremolanti, ma lotto un altro po’ contro il sonno eterno per farvi compagnia e dirvi di non essere tristi.

Tristi dovevate esserlo quando a sorridermi non c’era nessuno.

Quando la solitudine mordeva e procurava danni incalcolabili in me.

Quando impazzivo a desiderare cose semplici, che gli altri raggiungevano e io mai.

Perché è stato un travaglio interminabile, ma sto nascendo e finalmente pongo fine a…

 

 

 


-A Martina. Mi raccomando, brilla sempre-


 


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Vi ringrazio infinitamente per aver letto la mia storia :)
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