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Autore: heysassenach    17/11/2015    1 recensioni
[Robert Fitzhamon/Guglielmo II d'Inghilterra]
Anno del Signore 1062.
Robert ha 7 anni, e sogna di essere un cavaliere come suo padre.
Un padre che non lo ha mai considerato degno, a causa della sua costituzione fragile.
Il suo sogno di diventare un cavaliere è messo a dura prova, ma Robert non si arrende, e il destino lo porterà ad incontrare un principe, Guglielmo, il figlio del grande Conquistatore. Da questo momento in poi, le loro vite saranno indissolubilmente legate...
Genere: Angst, Drammatico, Storico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het, Slash
Note: nessuna | Avvertimenti: Violenza | Contesto: Medioevo
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Un rombo lontano squarciò il silenzio della notte. Robert rabbrividì, nonostante i vari strati di coperte rozzamente ammassati sopra il suo corpicino gracile. No, non era freddo. Era paura. 
Robert non sapeva cosa fosse la morte. Sentiva gli adulti parlarne, li vedeva addormentarsi per poi non risvegliarsi più. Come quella volta che era accaduto a sua madre. Robert non l'aveva più vista da allora, quella donna austera che lo rimproverava ogni volta che lui e sua sorellina si rincorrevano per i corridoi del castello. Giocavano alla guerra, perché lui sarebbe diventato un grande guerriero. Non capiva cosa fosse la morte, ma sapeva, sapeva che quella notte sarebbe morto per colpa di un fulmine. Fissò l'oscurità, strabuzzando gli occhi. La camera venne rischiarata ancora una volta da quel terribile bagliore. Robert si tirò la coperta sulla testa. Presto qualche mostro sputa saette sarebbe venuto a prenderselo per portarlo via, come gli aveva raccontato una volta Ailís, la ragazza delle cucine. Sua madre disapprovava che il suo figlio maggiore parlasse con la servitù. Diceva che gli avrebbero riempito la testa di stupidaggini. Ma a lui piacevano, quelle storie. Gli piaceva anche Ailís, con i suoi capelli rossi e il suo viso tempestato di lentiggini. Solo che la notte, sotto le coperte, quelle stesse storie gli facevano paura. Cosa avrebbe mai potuto, un bambino di sette anni, contro un gigante sputa saette? Non era nemmeno robusto, gli diceva sempre sua madre. E in effetti era vero: aveva visto un bambino come lui, giù alle stalle, più alto di lui di tutta la testa. Ma almeno, Robert una certezza ce l'aveva. Sarebbe diventato un grande guerriero, e allora nessun gigante gli avrebbe potuto fare paura.


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Rollon Fitzhamon era un uomo imponente, e per certi versi spaventoso. Robert detestava quando, tornando a casa dopo tanti mesi, si rinchiudeva nelle sue stanze per ore, come se la presenza di chiunque altro lo disturbasse. Ogni volta tornava un po' più ammaccato, e un po' meno sorridente. L'assenza improvvisa della sua consorte, in ogni caso, sembrava non averlo turbato per niente. Forse anche lui non sapeva bene cosa fosse la morte, o forse sì. Ragnar, lo stalliere, gli aveva raccontato che suo padre aveva ucciso molti uomini, e si era meravigliato quando lui, Robert, era rimasto sorpreso a tal punto che era rimasto a fissarlo con gli occhi sgranati ed incapace di proferire parola, per due minuti buoni. Suo padre, era vero, era un cavaliere. Ma i cavalieri salvavano il mondo dai cattivi, per cui suo padre doveva essere per forza un uomo buono. Ragnar aveva scosso la testa, quando gliel'aveva detto, ma cosa poteva saperne lui? Era solo uno stalliere invidioso con le guance cosparse di foruncoli. Un'altra cosa che lo inquietava di suo padre, nonostante l'intensa ammirazione che provava nei suoi confronti, era la cicatrice che gli attraversava il volto. Lui non ne parlava mai, del resto quel segno aveva reso i suoi lineamenti arcigni ancora più sinistri. Ma se Robert avesse avuto una cicatrice così, sicuramente sarebbe andato a vantarsene. Quello era un simbolo di forza.
Quella mattina l'aria frizzante  gli solleticava le guance e gli scompigliava i capelli, come faceva sempre Ailís quando lo sorprendeva a rubare un po' di pane dalle cucine. I suoi capelli, al contrario di quelli della ragazza della servitù, però erano neri. Neri come il carbone, come quelli di suo padre. Gli occhi, grigi come il cielo invernale, erano però simili a quelli di sua madre, anche se Robert non aveva ancora deciso se la cosa gli piacesse o no.  Sognare ad occhi aperti gli piaceva,invece, e lo faceva di continuo. Robert osservò il verde dei terreni prossimi al castello, e annusò l'aria autunnale. Sapeva di terra umida, e del profumo dell'arrosto proveniente dalle cucine. Il suo stomaco brontolò, impaziente. Ma lui continuava a far vagare lo sguardo in quelle terre tanto grandi e verdeggianti, rischiarate da un sole che di tanto in tanto si nascondeva tra le nuvole. Immaginò sè stesso, adulto, bello e forte come suo padre, cavalcare un purosangue lungo la stradina fangosa, diretto chissà dove. Il suo cuore fece un salto, al pensiero che probabilmente, se non fosse diventato abbastanza robusto, sarebbe diventato un prete, o un signore troppo debole per uscire dalla propria fortezza. Ebbe un brivido, e solo in quel momento si accorse di non essersi vestito abbastanza. Chiuse gli occhi, in silenzio, per assaporare ancora per qualche istante quella immobile tranquillità. 

"Robert!". La pace di quei momenti si sgretolò senza che neanche se ne rendesse conto. Si voltò per vedere Isabel, la figlia della nutrice, arrancare verso di lui a fatica, sollevandosi le gonne alle caviglie per evitare che si inzuppassero nel fango. Aveva le guance arrossate e il fiato corto: certamente doveva essersi fatta una bella corsa per riuscire a raggiungerlo. 
"Cosa c'è?", chiese lui semplicemente, per nulla turbato da quell'intrusione. A Isabel avrebbe perdonato ogni cosa. Prima ancora di sua sorella, era stata la sua compagna di giochi, e anche la prima che lo aveva preso a pugni. Erano nati a distanza di un mese l'uno dall'altra, e pertanto la madre di Robert aveva assunto Jehanne, la madre di Isabel, per provvedere al suo nutrimento. Robert non sapeva perché, ma le donne nobili non allattavano: non c'era da stupirsi, dopotutto, dato che lui stesso trovava la cosa un pochino disgustosa. 
"Ti stanno cercando in tutto il castello", spiegò la bambina dai capelli biondi come il sole, "tuo padre è furioso perché non ti trova. Dice che è importante".
Fu come se uno schiaffo lo avesse colpito in pieno viso. Doveva essere successo qualcosa di grave, di irrimediabilmente grave. Robert si massaggiò la nuca, pensoso. Si trattava forse dei sassi che aveva tirato alla finestra di un vecchio servo quella mattina? O della mela che aveva rubato dalla cucina? Decise che non voleva saperlo. Lo avrebbe scoperto da solo. 

Ancora prima della collera impressa sul viso di suo padre, Robert notò la sua armatura. Indossava la migliore che aveva, con la cotta di maglia talmente tirata a lucido, che solo posarvi gli occhi gli procurò fastidio. Ma forse era solo l'effetto della luce solare, che filtrando dalla finestra gli conferiva un'aura quasi divina. Ma nel suo sguardo, di divino c'era ben poco. Robert pensò che avrebbe urlato, ma dalle labbra di suo padre affiorò un tono di voce stranamente pacato. "Dove eri finito?", domandò, gli occhi ambrati che dardeggiavano nella sua direzione. Lui cadde in ginocchio, come da sempre gli era stato insegnato per chiedere venia. "Perdonatemi", farfugliò, la voce tradita dalla paura. "Verrò subito la prossima volta che mi manderete a chiamare, lo prometto".
Una risatina alle sue spalle lo colse alla sprovvista. Non poteva essere Isabel, perché era chiaramente una voce maschile, quella che avev sentito. Stava per alzare la testa, quando ogni suo dubbio venne fugato.
 "E sarebbe questo, vostro figlio, ser Rollon? Non vi pare un po'... Malnutrito?" 
A quelle parole Robert non potè trattenersi. Si voltò di scatto, fulminando con lo sguardo lo sconosciuto. Quando aveva fatto il suo ingresso nella stanza era così preoccupato per quello che gli avrebbe detto suo padre che non aveva neanche fatto caso alla sua presenza. Non poteva avere più di vent'anni, quel giovane. Indossava vestiti sontuosi, e Robert era certo di non averlo mai visto prima. Né avrebbe voluto farlo: il sorrisetto divertito che il giovanotto aveva dipinto in volto era la cosa più irritante su cui i suoi occhi si fossero mai posati. 
Rollon parve spiazzato da una simile, irrispettosa affermazione, ma non lo diede a vedere più di tanto. Doveva trattarsi di qualcuno di veramente importante. "Ha preso da sua madre, per sua sfortuna. Debole e gracile, e voglia il Cielo che non cresca anche rammollito", ruggì, fissando truce il suo primogenito, ancora prostrato ai suoi piedi. Robert sentì le guance avvampare di vergogna, e le lacrime pungergli gli occhi come fossero ortiche. Ma non avrebbe pianto. Lui non era rammollito. 
"Oh beh", fece lo sconosciuto, parlando con tanta leggerezza che uno avrebbe potuto pensare che parlasse del tempo, "vedremo di rimediare. Lo faremo diventare forte e sano, questo scheletrino. Che ne dici, giovanotto?" 
Robert strabuzzò gli occhi, le lacrime ormai sul punto di uscire. "N-non capisco, signore." 
"Andrai con ser Ulrik, e riceverai un'educazione degna di uno del tuo rango". Il tono di suo padre era piatto, indifferente, come se si stesse disfando di una gallina in un pollaio affollato e non del suo unico figlio maschio. Robert non si accorse di essersi alzato in piedi, e non si accorse nemmeno di aver mosso un passo verso suo padre. A malapena gli arrivava alla cintura. 
"Non posso andarmene, padre. N-non posso andarmene, capisci?". Robert cercò di ignorare la lacrima bollente che gli rotolò lungo una guancia. Cercò di sostenere lo sguardo vuoto di suo padre, e per un istante si chiese se davvero volesse diventare come lui, un giorno. Poi un dolore bruciante, lancinante, seguito da un bruciore intenso. Ser Rollon lo aveva schiaffeggiato senza dire una parola, continuando a guardarlo come se non fosse altro che un fantoccio inanimato. 
"Permettetemi di togliere il ragazzo dalla vostra vista, Rollon. Temo di aver tardato anche troppo". Ser Ulrik lo afferrò per le spalle, trascinandolo lontano da lui, dall'uomo che aveva contribuito a metterlo al mondo e che ora lo vendeva ad uno sconosciuto pur di non averlo tra i piedi. Non aveva neanche la forza per piangere, o di fare domande. E nel momento in cui Ulrik, con estrema facilità, lo issò in sella, capì. Non sarebbe mai stato un cavaliere. 

 
   
 
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