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Autore: ariagelida    18/11/2015    0 recensioni
...Se scrivere una cosa significa possederla, io allora mi riapproprio di quel tempo andato e con le parole ricordo…
Siracusa, bella e dannata perla di Sicilia, fa da sfondo alla storia di due amori lontani nel tempo ma che sembrano coincidere, sovrapporsi, cercarsi. Tra vecchie lettere, sinfonie al pianoforte e il mare, eterno testimone di poesie e promesse, Pietro, Elena, Mattia, Anna e Fausto imparano a capire la paura e, forse, a trovare il coraggio.
Genere: Generale, Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Contesto generale/vago
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UNO  



Una finestra ancora chiusa, un silenzio interrotto solo dal lento ticchettio di un orologio che segnava mezzogiorno.
Una stanza in cui a regnare era la confusione, una scrivania colma di fogli scritti a metà, una tazza di caffè ormai vuota, magari lasciata lì da giorni.
Pietro dormiva o meglio riposava la mente.
In realtà era sveglio, o forse si trovava più che altro in quello strano stato a metà tra il sonno e la coscienza. Aveva gli occhi chiusi ma i suoi pensieri fluivano veloci.
Pensava all’altra sera… aveva fatto tardi, era andato a camminare un po’, da solo, perdendosi nei vicoli della sua Siracusa, sperando poi di trovare un nuovo spunto, uno stimolo per ciò che stava scrivendo.
Era un compositore o almeno ci provava. Più che altro si definiva “uno che racconta”.
E a chi diceva che non notava differenza tra le due definizioni lui rispondeva che in realtà ce n’era, e molta anche ma bisognava saperla cogliere.
Poi con il sorriso beffardo rispondeva al suo interlocutore “compositore è Glass, è Ligeti, è Saroglia, è Einaudi. Compositore è colui che è riuscito a mutare il corso delle generazioni, o semplicemente chi è riuscito a far piangere, o cambiare rotta anche ad una sola persona… compositore è chi ha ricordato all’uomo di credere che esista qualcosa per cui vale la pena lottare. I compositori, i musicisti, fanno questo. Io sono uno che racconta…”
Ecco, la sua verità era questa. E la diceva senza paura, sdoganando queste parole come fossero le banalità più grandi che tu avessi mai sentito.
In realtà la serata non era andata come sperava.
Aveva camminato per ore, e poi era finito nella piazza di Ortigia, sedendosi ad ascoltare un artista di strada che “massacrava” una chitarra, litigandoci perché non azzeccava un accordo. Con gli occhi ancora chiusi sorrise leggermente.
Poi però quell’espressione di felicità appena accennata scomparve dal suo volto.
Ricordò che era da tempo che non scriveva nulla di decente, ne musica, ne testi.
Era come se la sua vena di musicista si fosse esaurita o forse semplicemente il fuoco che aveva dentro si era affievolito.
Capita, gli avevano detto. Si, capita… ma non a me, non può succedere.
Eppure in lui si era fatta strada la consapevolezza che il foglio bianco davanti a sé non sarebbe stato riempito tanto presto. E questo lo spaventava… molto più di quanto avrebbe mai ammesso.
Disteso sul suo letto, lo sguardo rivolto alla finestra della sua camera, Pietro fece l’unica cosa che in quei giorni era in grado di fare. Iniziò a frugare nella sua mente, in cerca di qualcosa andato perduto... Gli sembrava di trovarsi in un puzzle. Aveva smarrito alcuni pezzi, ma non aveva idea di dove fossero andati a finire.
Richiuse ancora gli occhi rigirandosi nel letto, ma la voce di Mattia tuonò prepotentemente nella stanza.     “Se non respirassi così rumorosamente probabilmente penserei che sei morto. Pietro è mezzogiorno diamine! Ok l’hai voluto tu!”              
Mattia si diresse velocemente verso la finestra, spalancandola e inondando la stanza del caldo sole mattutino.
Poi, sentendo Pietro imprecare si voltò a fissarlo con stampato in faccia un sorrisetto malefico.
“Scusa ma proprio non ti svegliavi, e poi lo sai che non scherzo… I miei metodi sanno essere molto convincenti a volte!”                                               
“E meno male che il buongiorno si vede dal mattino. Hai compromesso la mia giornata…”                                                                                                                        
“Ah bè, perché di solito sei così loquace e poco scorbutico, eh?”, disse ridendo.           
Pietro lo fulminò con lo sguardo per poi alzarsi e dirigersi in cucina.
Si sedette a tavola e poi con meticolosa attenzione si preparò un caffè, il primo di una lunga serie.
Era strano, Pietro non poteva fare a meno di quell’odore forte di caffeina appena sveglio. Respirava quasi più volentieri avvertendo quell’aroma.
Mentre aspettava che il caffè fosse pronto, fece un lungo sbadiglio e prese a fissare Mattia che nel frattempo aveva imbracciato la sua chitarra e come al solito si era perso nel suo mondo.
Istintivamente sorrise.
Ricordava ancora la prima volta che lo aveva incontrato, poche ore dopo essere stato ammesso al conservatorio.
Dopo l’esame di ammissione era andato in un bar vicino per mangiare qualcosa, dato che era a digiuno dal giorno prima.
Lì lo vide, seduto al bancone con la chitarra appesa al collo, mentre gesticolava in maniera buffa, cercando di spiegare al povero barista perché la canzone “Rimmel” di De Gregori non dovesse essere considerata solo una canzone d’amore.
Pietro ascoltava le strane parole di quello sconosciuto un po’ bizzarro, e le condivideva compiaciuto e divertito per il suo strano accento.
Poi Mattia si era voltato e gli aveva sorriso.
“Tu hai fatto l’esame al conservatorio stamattina vero?”
Lui aveva annuito sorpreso.
Poi Mattia aveva abbassato lo sguardo sulla sua chitarra.
“Anche io… Bene, io vengo da Verona e sto cercando una casa e ho deciso che la cercherò con te.”
Lo aveva incuriosito all’istante il suo tono sicuro, ma anche un po’ svagato.
La sua richiesta era inusuale, decisamente contro la famosa raccomandazione delle mamme: “Non parlare con gli sconosciuti”, figurarsi poi cercarci casa insieme.
Comunque aveva mantenuto la sua promessa, e pochi giorni dopo davanti al palazzo del conservatorio gli aveva semplicemente lanciato un mazzo di chiavi, sorridendo senza dire una parola.
“Queste aprono le porte del paradiso, Pietro.”
E così era cominciato tutto, in una casa piccola ma vicina al mare.
Se la cavavano con trecento euro al mese d’affitto, che il padrone di casa veniva prontamente a riscuotere ogni primo giorno del mese, con quel suo tono di voce burbero e la faccia da lacchè.
E davvero la loro amicizia-convivenza fino a quel momento era stata un paradiso: Mattia rispettava i suoi silenzi, assecondava le sue botte improvvise di euforia, condivideva le sue paure, la sua musica.
Dal canto suo, Pietro cercava di restituire il favore che Mattia faceva a lui, intuendo i suoi momenti bui e quelli felici, confortandolo e pronunciando goffe battute quando quello di cui avevano bisogno era una semplice risata. Per Mattia, ‘farsi gli addominali’- ridere- era la medicina più forte di tutte, così diceva di aver appreso dal suo medico di fiducia.
Una sera, dopo pochi giorni di convivenza, lo aveva trascinato poco dopo le undici, quando l'intera città era immersa in un sonno ristoratore, verso il lungomare di Ortigia.
“Dove stiamo andando?” Gli aveva chiesto Pietro, chitarra in spalla come lui con la sua.
“A diventare amici.” Aveva risposto, criptico.
Ma lui non aveva ribattuto, ancora una volta ammaliato dalla sua apparente spensieratezza.
Una volta arrivati in una piccola spiaggetta, avevano acceso un piccolo falò con dei ceppi di legno trovati lungo il bagnasciuga, si erano accomodati sulla sabbia umida e avevano cominciato a suonare.
Si erano abbandonati alla musica, completamente assorbiti dalle loro melodie sconclusionate ma belle nel silenzio della notte.
E poi Mattia aveva intonato quella canzone. Pietro si era rabbuiato al solo sentirne le prime note.
Aveva distolto lo sguardo dalla chitarra e aveva preso a fissare il mare, come concentrato su un punto impercettibilmente lontano.
“Mi fa pensare a una ragazza.” Aveva ammesso, mentre Mattia pizzicava ancora le corde della sua chitarra. Lui ora era fermo, immobile. 
“Vedi di pensare a me e a questa serata la prossima volta che la risuonerai…”
Poi si era zittito, colto da una improvvisa rivelazione, per poi urlare “Ehi siamo amici! E gli amici valgono più delle ragazze!” a squarciagola.
Cominciarono a ridere istintivamente, lasciando la loro musica a riposare, solo per quel momento.
Pietro si sentiva diverso; aveva paura, come al solito.
Una persona si era sottilmente infilata nella sua strana vita e ancora non sapeva se la cosa gli andasse a genio o meno…
“Pietro che hai ti sei incantato? Se devi chiedermi qualcosa sono qui.”
Ritornò bruscamente al presente. Scosse la testa ancora assonnato e fece fatica a capire le sue parole.
Solo dopo qualche secondo riuscì a ricollegare il presente e i ricordi. Mattia, troppo veloce, era già sparito nell’altra stanza, ma parlava ancora.
“Si, insomma io ci sono… A meno che la mia chitarra non decida di farsi uno spuntino e scelga me come sua deliziosa preda. Secondo te, le chitarre possono mangiare le persone?” aggiunse, scoppiando a ridere per poi intonare una vecchia melodia dei Beatles, quasi impercettibilmente.
Pietro scosse la testa divertito.
Del resto Mattia era una persona stramba, con cui era impossibile ragionare per più di dieci minuti, figurarsi di prima mattina.
Il rumore della caffettiera lo distrasse.
Chiuse gli occhi e annusò l’aria. Il caffè era pronto. 
 




  Salve a tutti, mi chiamo Virginia e questa è la prima storia che pubblico qui su Efp. Spero vi piaccia ciò che scrivo e se così non fosse vi invito a darmi consigli o anche solo a muovermi delle critiche.
In ogni caso fatemi sapere cosa ne pensate.
Al prossimo capitolo ;)
  
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