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Autore: Hermione Weasley    18/11/2015    2 recensioni
“Non siete il primo che è venuto a vedere la strega,” alluse, il sospetto vivissimo.
“Io non credo alle streghe,” non poté fare a meno di sottolineare, vagamente risentito dall'essere stato accomunato ai superstiziosi babbei del villaggio.
“Però siete venuto a vederla comunque,” la ragazza non voleva proprio mollare il colpo. Si sentì messo alle strette, innaturalmente indispettito.
“Ero curioso.”
“Quindi ci credete.”
“No, che non ci credo. Questo posto è piccolo e gli estranei sono sempre fonte di curiosità, non vi pare abbastanza?”
---
XVIII secolo. La vita di Clint Barton, figlio adottivo dell'eccentrico lord Phillip Coulson, cambia radicalmente quando una presunta strega viene ad abitare nel bosco vicino alla villa della famiglia. Clint dovrà fare i conti con la superstizione, gli obblighi, le responsabilità e forze in gioco molto più grandi di lui.
[1700 AU] [Clint/Natasha] [apparizioni di tutti gli Avengers + alcuni personaggi di Agents of Shield] [COMPLETA]
Genere: Avventura, Introspettivo, Storico | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Agente Phil Coulson, Clint Barton/Occhio di Falco, Natasha Romanoff/Vedova Nera, Steve Rogers/Captain America, Un po' tutti
Note: AU | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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Capitolo 13

~

 

Sentì qualcosa spezzarsi all'altezza del petto quando Barney lasciò andare la freccia. La parte di lui che osava sperare anche nelle situazioni più disperate si era convinta che non l'avrebbe fatto. E invece eccolo lì, gli occhi accesi di rabbia, le labbra incurvate in una smorfia basita.

Forse neanche lui si era aspettato di poter andare fino in fondo. Negli anni la frustrazione e la preoccupazione si erano mischiati alla sofferenza, trasformandola in un odio intenso, ossessivo e cocente che aveva bisogno di un obbiettivo su cui indirizzarsi.

Il tempo sembrava aver rallentato, facendosi melmoso, appiccicoso, scivolando faticosamente nello spazio che li separava. Clint sapeva che avrebbe dovuto togliersi dalla linea della traiettoria, o almeno provarci. Ma i piedi gli si erano fatti di piombo, saldamente ancorati al pavimento di pietra, impedendogli anche solo di prendere in considerazione l'idea di schivare il dardo.

Si odiò per l'arrendevolezza, eppure quella sensazione di finalità e risoluzione sapeva di sollievo e di liberazione. Aveva pianificato di abbandonare villa Coulson per ritrovare se stesso – e dio solo sapeva quanto detestasse quell'espressione – per scrollarsi di dosso l'apparenza del giovane signore e ritrovare un abito che gli andasse più a genio, che lo rispecchiasse. Forse aveva sempre segretamente sperato che Barney fosse la chiave di volta dell'enigma che si trovava davanti tutte le volte che scorgeva il proprio riflesso.

Natasha aveva ragione. Non era una questione geografica e – adesso lo capiva – neanche di tempo. Suo fratello non c'era più: il Barney che avrebbe potuto dargli una qualche sicurezza, ricordargli chi era stato, era morto. Non abbiamo un posto nel mondo. E quel senso di inappartenenza lo faceva sentire leggero, senza peso, capace di fluttuare a mezz'aria tra terra e cielo senza realmente poter mettere mano né sull'una, né sull'altro.

Magari era quella freccia che pareva essersi impigliata all'aria tramutata in liquido spesso e trasparente che lo separava dal fratello – magari era quella freccia la risposta a tutti i suoi problemi. Un'apatia sconcertante si impossessò di lui. Provò disgusto per se stesso, ma non mosse un muscolo.

Trattenne il respiro e poi una scintilla lo abbagliò, costringendolo a chiudere gli occhi. Si aspettò di sentire i polmoni svuotarsi d'aria per lo shock del colpo infertogli, ma c'era solo il battito furibondo del suo cuore a rimbombargli negli orecchi.

E poi un ronzio... un ronzio così intenso da chiedergli se non se lo stesse inventando. Tornò a guardarsi attorno mentre le urla si levavano dai quattro angoli della stanza. Ebbe appena il tempo di individuare la freccia svariati metri più in là e, poco distante, un coltello che gli parve di riconoscere.

Natasha?

Un attimo ancora e il finimondo scoppiò nell'antico refettorio, gli uomini di suo fratello che si disperdevano come formiche impazzite. Piccoli puntini neri saettavano nell'aria... e poi lo vide, l'alveare scaraventato a terra attraverso una delle alte finestre: si era aperto come un frutto maturo, vomitando nella stanza un nugolo di insetti incazzati. Un diversivo. Barney si era messo ad urlare istruzioni che nessuno pareva aver intenzione di seguire.

Natasha piovve letteralmente dal ritaglio nero di notte del davanzale. Atterrò con eleganza, pugnali stretti in entrambe le mani e un'espressione indecifrabile sul volto.

“Ce ne dobbiamo andare!” Lo esortò al di sopra del rumore assordante, delle braccia impazzite che si divincolavano forsennate nella speranza di scacciare via le vespe.

Era venuta a prenderlo. Si accorse di non sapere come la cosa lo facesse sentire.

Annuì una sola volta, costringendosi ad uscire dallo stato di totale apatia in cui era precipitato – avrebbe avuto bisogno di un'arma se voleva andarsene illeso. La maggior parte degli uomini di Barney aveva lasciato cadere a terra qualsiasi cosa avessero per le mani; il suo arco, le sue frecce e la pistola – che, aveva visto giusto, erano entrati in possesso di uno scagnozzo di Barney – non facevano eccezione: giacevano a terra tra i corpi che si dimenavano convulsi.

“Fermate la donna!” La voce di suo fratello.

Clint passò all'azione, schivando gli energumeni che si erano messi a correre per ammassarsi contro l'uscita e salvarsi. Ricevette un paio di spallate e una gomitata in un fianco che quasi gli tolse il respiro, ma riuscì a recuperare prima l'arma da fuoco e poi arco e frecce, infilandosi la prima nella cintura e imbracciando in fretta e furia il secondo, pronto ad utilizzarlo.

Si voltò per accorgersi che qualcuno aveva cominciato a mettere in pratica gli ordini di Barney: un uomo alto e muscoloso coi capelli unti appiccicati al collo si era scagliato contro Natasha, ingaggiando un corpo a corpo che durò ben poco. Un sorriso rosso gli si aprì sul collo prima che altri tre si avventassero su di lei.

Stava per raggiungerla, aiutarla a far fronte all'orda di ribelli incazzati, ma si sentì scaraventare a terra, come travolto. Riuscì a mantenere l'equilibrio – il ronzio, le urla rabbiose come ringhi che rimbalzavano sulle pareti – e si ritrovò a fronteggiare Barney. Gli occhi arrossati e accesi di un'ira lucida e spietata.

Lo aggredì con uno scatto quasi felino, sferrandogli uno, due, tre pugni che Clint riuscì a parare in varia misura. Non voleva fargli del male, ma neanche lasciarsi prendere a botte come un sacco di barbabietole. Lo respinse con un calcio nello stomaco, guardandolo indietreggiare bruscamente.

“Non voglio combattere con te,” gli disse, facendosi a malapena sentire al di sopra del caos che ancora imperversava nella stanza.

Qualche cadavere ricoperto di chiazze rosse punteggiava già il pavimento, altri assiepati vicino all'ingresso dove la calca aveva fatto più danni degli insetti. Se n'erano andati quasi tutti, tranne i pochi che avevano deciso di seguire le istruzioni di Barney – alcuni ritornavano brandendo armi di fortuna, forse pentiti della propria vigliaccheria e decisi a rimediarvi in qualche modo.

“No!” Trickshot gridò, bloccando il terzetto che accorse in loro direzione. Era sudato e l'aria sembrava accavallarglisi in gola, quasi avesse avuto fretta di uscirgli di bocca. “Lui è mio! Pensate alla donna!”

Sbraitava e indicava Natasha che veniva lanciata contro la parete proprio in quel momento. Si rialzò subito e, slanciandosi con la schiena contro il muro retrostante, riuscì a salire cavalcioni sulle spalle dell'uomo che l'aveva attaccata. Gli spezzò il collo con una mossa fluida, abitudinaria, e attutì la caduta quando il morto si afflosciò a terra portandosela dietro.

Lo scintillio di una lama obbligò Clint a prestare attenzione a Barney piuttosto che a lei. Balzò all'indietro per evitare che il pugnale del fratello lo colpisse al volto. Più rapidamente e ripetutamente schivava e più la furia di Barney andava moltiplicandosi. Non aveva previsto tutta quella resistenza, non aveva previsto che il caos infuriasse nel suo quartier generale proprio alla vigilia del viaggio che l'avrebbe portato alla capitale, pronto a conquistarsi un posto al sole accanto ai potenti del regno, per sé e per i suoi uomini.

E adesso quell'ingrato, quel traditore di suo fratello non solo rifiutava di farsi ammazzare, di ricevere la sua vendetta con la squallida rassegnazione che si era prefigurato, ma aveva pure osato scompigliare i suoi piani e umiliare la sua gente.

“Barney, non ti voglio combattere!” Clint ripeté, ricacciando il dolore per la vista di quello sconosciuto, tanto simile al ragazzino che era stato tutto il suo mondo, eppure così diverso da apparirgli estraneo.

“Smettila di chiamarmi con quel nome!” La voce gli si era fatta roca a trafelata. Tentò ancora un paio di affondi, muovendo il coltello con estrema rapidità, senza tuttavia riuscire a intercettare il bersaglio.

Clint si fece scudo con l'arco, bloccando i polsi del fratello quand'erano ancora a mezz'aria e pronti ad abbattersi su di lui. Lo guardò dritto negli occhi, ma era come se Barney non potesse vederlo. Un velo invisibile gli era sceso sullo sguardo, impedendogli di metterlo a fuoco.

“Cosa vuoi che faccia?” Gli chiese, sperando di farlo ragionare. “Che ti chieda scusa?”

“Vorrei che fossi morto in quell'incendio!” Gridò l'altro mentre tentava di forzare il blocco delle sue mani.

“Ma non lo sono!” Lo lasciò andare solo dopo averlo disarmato, indietreggiando di un paio di passi per ristabilire le distanze. “E non ti colpirò.” Gettò a terra il coltello che gli aveva sottratto, per ribadire il concetto.

Era pronto a tutto, ma non a diventar complice di suo padre lasciandosi convincere a picchiare quello che era stato suo fratello.

“S-Sei un debole,” balbettò Barney disgustato. Sputò a terra per sottolineare il sentimento prima di caricarlo di nuovo a testa bassa.

Stavolta fu abbastanza veloce da fargli perdere l'equilibrio. Clint si sentì trascinare verso il basso e solo lo schianto contro il muro gli impedì di cadere sul pavimento. Il contraccolpo gli mozzò il respiro in gola, ma non si lasciò scoraggiare.

Barney ebbe appena il tempo di colpirlo allo stomaco; Clint l'afferrò per i fianchi e usò tutta la sua forza per spingerlo lontano e liberarsi dalla sua presa. Ci riuscì, ma il fratello lo attaccò ancora una volta, e poi una in più, costringendolo ad una bizzarra danza in mezzo al refettorio semideserto per scansarlo a più riprese.

Trasalirono entrambi quando uno sparo riverberò tra le pareti di pietra, risuonando come un lamento sordo o forse uno di quei canti chiesastici che gli era capitato di sentire durante le funzioni a cui lord Phillip l'aveva obbligato a partecipare.

Fece per voltarsi, ma il grido di Natasha che gli ordinava di fare attenzione lo obbligò a tenere l'attenzione puntata su Barney. E infatti rieccolo che gli si buttava addosso, sconnessamente e quasi con disperazione, come le volte in cui da ragazzini si azzuffavano senza un motivo preciso, solo per il puro gusto di mettere in moto i muscoli e sfogare frustrazione e rabbia.

“Smettila,” gli intimò per l'ennesima volta mentre tentava di scrollarselo di dosso. “Smettila!”

Il modo in cui riusciva a tenergli testa gli dava la misura esatta di quanto tempo fosse passato, di quanto le cose fossero cambiate. Non era mai riuscito ad atterrarlo una sola volta, quand'erano piccoli; non era mai stato in grado di batterlo in niente che non fosse stato il tiro con l'arco. Per questo si era aggrappato a quello stupido numero circense in modo quasi spasmodico, perché finalmente era riuscito a trovare qualcosa in cui suo fratello non fosse più bravo e abile di lui.

Ma adesso le sue braccia erano forti quanto le sue, i suoi muscoli avvezzi alle fatiche e abbastanza allenati da impedirgli di soggiogarlo con la facilità di un tempo.

Si rese conto di quanto fosse stato stupido essersi aspettato che le cose fossero rimaste uguali a come le ricordava, che il tempo non avesse passato un colpo di spugna sugli anni trascorsi dall'incendio all'accampamento dei saltimbanchi, che non avesse profondamente mutato l'aspetto di entrambi, delle loro vite, persino dei loro ricordi.

Clint aveva coltivato la memoria del fratello con timore quasi reverenziale, con la solita ammirazione che era solito tributargli da bambino, rafforzata dal senso di colpa per non aver aspettato che tornasse indietro a prenderlo, quella notte. Barney, invece, aveva eretto un altare al risentimento e al rancore – tanto che quando aveva scoperto che fine avesse fatto, non era neanche andato a cercarlo, ma si era assicurato di porre il maggior numero di miglia possibile a separarli.

Ancora faceva fatica a capacitarsi di come le cose fossero andate a puttane tanto rapidamente. Barney aveva smesso di essere l'oasi felice su cui aveva fantasticato per tutti quegli anni, anche adesso che era un uomo fatto e finito che non sapeva più chi dovesse essere.

Non abbiamo un posto nel mondo.

Ruotò su se stesso per schivare l'ennesimo, disarticolato attacco del fratello. Respiravano entrambi affannosamente, stanchi per quello spreco di energie non previsto – a Clint la testa girava e le membra gli si erano fatte di colpo pesanti.

“Non serve a niente,” fu di nuovo lui a parlare, a provare la via della diplomazia. “Parliamo, va bene?”

“Parlare non serve!” Gridò Barney, quasi offeso dalla soluzione prospettata da Clint. “Non uscirai di qui vivo!”

“Che cazzo ti è successo, ah?” Fece un passo avanti, incapace di resistere alla frustrazione che gli andava annodando lo stomaco in una morsa gelida.

“Te l'ho detto che cazzo è successo! Te ne sei andato! Mi hai abbandonato!”

“Non avevi bisogno di me!”

Urlò, tremando violentemente sotto la foga dell'odio che lo animava. Se gli avessero tolto quello, Clint non era sicuro che non si sarebbe afflosciato a terra come un tendone smontato.

“Non capisci, non è vero? Certo che avevo bisogno di te!” Si puntava il dito sul petto con tale forza da far diventare il polpastrello bianco come la neve. “CERTO CHE AVEVO BISOGNO DI TE!”

Il tono disperato ebbe l'effetto di farlo zittire – il suo cuore era come un tamburo suonato con violenza, le cui vibrazioni gli pulsavano dal petto e poi su su fino al collo, le tempie, la sommità della testa. Avrebbe voluto rispondergli mille cose, dirgli che non poteva essere vero, che era solo un vile bugiardo, e poi invocare il suo perdono, chiedergli come avrebbe potuto rimediare.

Ma non fece niente del genere.

Un colpo sordo risuonò nell'aria e gli occhi di Barney si rigirarono, mostrando il bianco della cornea prima di richiudersi. Cadde ripiegandosi sul pavimento, privo di sensi, rivelando alle sue spalle la figura di Natasha, all'apparenza perfettamente padrona della situazione.

“Non c'è tempo per la diatriba familiare. Andiamo!”

Non aspettò una risposta e si voltò in fretta, le mani sporche di sangue ancora strette attorno ai suoi pugnali e l'andatura solo a malapena incerta.

Clint lanciò un'occhiata al fratello ormai privo di sensi – perché l'idea che Natasha l'avesse ucciso non gli era passata neppure per l'anticamera del cervello – e infine si decise a seguirla, scavalcando i corpi degli uomini che aveva sconfitto ed eliminato con la facilità con cui le candele, abbandonate sul davanzale aperto in un giorno di vento, si spengono.

Uscirono nel corridoio immediatamente adiacente il refettorio, Natasha a precederlo con l'aria sicura di chi aveva già visitato quel posto in precedenza. C'erano alcuni uomini addossati alle pareti, morti o forse privi di sensi, ogni palmo di pelle scoperta riempita di punti rossi più o meno grandi ed evidenti.

“Come diavolo ti è venuto in mente di usare l'alveare?” Si ritrovò a chiederle del tutto estemporaneamente.

Tese l'arco e scoccò la freccia al di sopra della spalla di Natasha, andando a colpire l'energumeno che era comparso alla fine del corridoio e che stava andando loro incontro con aria bellicosa. La donna non fece una piega e lui si limitò a scavalcare lo sconosciuto che si lamentava tenendosi il polpaccio ferito, ma non prima di essersi ripreso la freccia, con sommo disappunto e grida disperate del tizio in questione.

“Avevo bisogno di un diversivo,” rispose semplicemente lei. Sembrava si stesse sforzando di apparire disinvolta – probabilmente temeva che qualcuno (lui, principalmente) si accorgesse che era tornata indietro col solo scopo di toglierlo dai guai. Un gesto troppo carico di implicazioni per poterne prendere atto.

“Perché sei tornata indietro?” Aggiunse, proprio perché non fu capace di impedirsi di metterla anche solo un tantino in difficoltà. Dopotutto era colpa sua se era finito là in mezzo tanto per cominciare...

“Perché mi piaci e non sapevo dove altro andare,” gli ritorse contro, voltando il capo solo per gettargli una rapida occhiata. Aspettò che le parole gli si fossero ficcate bene in testa prima di aggiungere: “è quello che risponderei se fossi uno smidollato a cui piace tirare con l'arco.”

“Grazie al cielo,” Clint finse di alzare gli occhi al soffitto per invocare una qualche divinità, “per un attimo ho avuto paura che fossi diventata una persona normale.”

Incoccò una freccia dopo l'altra, atterrando una coppia di ribelli comparsi da una delle tante stanze che si aprivano sul corridoio per attaccarli. Si riprese i dardi, disincastrandoli dai piedi dei due uomini, mentre Natasha tirava un calcio in faccia a quello che si era aggrappato al ginocchio di Clint nel vano tentativo di rallentare la loro avanzata.

Si era aspettato una qualche battutina sul fatto che le stesse togliendo tutto il divertimento, ma Natasha non disse niente, limitandosi a far strada finché non risbucarono all'esterno, nell'orto-giardino che circondava l'abbazia.

“Non abbiamo molto tempo,” fece presente la donna, mentre deviava verso quelle che – a giudicare dall'odore – dovevano essere le stalle. “Ci sarà un colpo di stato durante la festa della corona.”

“Lo so,” annuì mentre si guardava attorno e in alto per essere sicuro che nessuno li stesse seguendo.

“L'esercito è coinvolto,” aggiunse, scegliendo il primo cavallo che le capitò sotto tiro. “E' possibile che lo Scudo abbia fatto fuori il capitano Rogers per far fallire il piano.”

Credeva di poter seguire il ragionamento, ma si era accorto di averla persa per strada alla menzione dell'ammutinamento dei soldati del re. Cosa c'entrava il capitano Rogers e che diavolo era lo Scudo?

“Ehi, frena.” Natasha era già salita in groppa all'animale e invitò Clint a fare altrettanto. “Il capitano non è un ammiratore del re, ma dubito vivamente che acconsentirebbe a toglierlo di mezzo in questo modo.”

Delle voci in avvicinamento li raggiunsero dall'interno dell'abbazia – qualcuno li avrebbe affrontati a breve. Si affrettò ad issarsi sulla sella, il corpo di Natasha un po' troppo vicino per non risultargli un tantino scomodo.

“Che ne sai?” Partì al galoppo, puntando al portone che era appena stato spalancato per far rientrare le sentinelle esterne allarmate dal concerto di grida oltre le mura.

“E' un tipo a posto, ligio al dovere. Un colpo di stato non è nel suo stile,” insisté.

Un capannello di ribelli si fece loro addosso, ma bastò che Natasha li travolgesse per toglierli di mezzo. Le due guardie all'ingresso si erano messe ad urlare: una venne loro avanti brandendo un grosso spadone arrugginito, mentre l'altra si affannava a serrare nuovamente il portone con movimenti convulsi.

“Credo che i Coulson siano coinvolti,” asserì la donna, che invece che rallentare l'andatura l'aveva accelerata sensibilmente.

“Di che stai parlando?” Decisamente, la conversazione gli era sfuggita di mano. Prese la mira e atterrò l'uomo che tentava inutilmente di spingere una delle due pesanti metà della porta; Natasha si occupò di quello che veniva loro incontro, scagliandogli un coltello proprio in mezzo agli occhi. Fu talmente rapida da riuscire a riprenderselo prima che l'uomo si accasciasse a terra.

Sfrecciarono attraverso le mura, lanciandosi in una folle corsa lungo lo spiazzo aperto in direzione del bosco – una macchia scura e informe ammassata contro la cupa volta del cielo.

“I Coulson devono essere coinvolti con lo Scudo. Direttamente o indirettamente,” spiegò, ma c'era impazienza nella sua voce, una gran fretta di arrivare al punto. “Non c'è tempo.”

“Tempo per cosa?” Sibili sinistri risuonarono loro di fianco, a destra, sinistra, al di sopra delle loro teste. Gli uomini di Barney dovevano aver guadagnato la sommità delle mura di cinta per tentare il tutto per tutto con arco e frecce.

“Se è come penso rischiano di essere sopraffatti quando il re v-verrà ucciso. I traditori saranno giustiziati sul posto.”

“Lord Phillip non è un traditore!”

Natasha virò bruscamente per evitare un dardo e Clint fu costretto ad aggrapparlesi ai fianchi con un braccio. Rispondere al fuoco, in quelle condizioni e a quella distanza, sarebbe stato inutile.

“Lo sarà s-se il colpo di stato avrà successo!” Gli sembrava stesse strascicando le parole, ma non era sicuro che non fosse soltanto una controindicazione della fuga rocambolesca. “Devi continuare verso nord lungo la costa,” riprese, “c'è un porto di contrabbandieri.”

Si accorse prima del modo in cui la postura rigida di lei si andava ripiegando, incurvandole le spalle, e poi del liquido caldo e vischioso che gli imbrattava la mano con cui si stava tenendo agganciato a lei.

“Merda, sei ferita!” Esclamò inorridito. I convulsi momenti dello scontro del refettorio gli saettarono davanti agli occhi. Ricordava di aver sentito uno sparo, ma Natasha non aveva dato alcun segno di essere stata colpita.

“F-Fatti portare alla c-capitale,” lo ignorò, farfugliando le parole come per paura di vedersi troncare il discorso, “se lo Scudo è lì, e s-sono sicura che lo s-sia, ci sarà anche lord C-Coulson.” I sibili delle frecce si erano finalmente placati e il bosco sempre più vicino.

“Cazzo, devi fermarti!” Le premeva il palmo aperto contro la ferita nella speranza di arrestare l'emorragia.

“Non c-c'è tempo... f-fatti portare a-all-”

“Come facciamo ad arrivare fin lì?” La linea della vegetazione li inghiottì e il buio si infittì di colpo.

“Io r-resto qui,” faceva sempre più fatica a parlare.

“Non dire stronzate. Vieni con me.” Non sapeva ancora come muoversi, ma una soluzione l'avrebbe trovata.

“N-Non d-dirle tu...,” perse la presa sulle redini e Clint fu costretto a governare il cavallo con una sola mano.

Un attimo dopo era come molle tra le sue braccia e allora capì che aveva perso i sensi. Il cuore aveva preso a battergli forsennatamente nelle orecchie, mentre il cervello si affannava a mettere insieme un piano qualsiasi.

Si fermò solo quando si imbatté in un cavallo legato ad un albero e intuì dove l'aveva voluto condurre Natasha. Recuperò le bisacce che la donna vi aveva assicurato e liberò la bestia prima di ripartire. Doveva uscire dal bosco e proseguire a nord sulla costa – questo gli aveva detto Natasha.

“Resisti, va bene? Non ti azzardare a morire così,” balbettò, anche se sapeva che non l'avrebbe potuto sentire.

Accelerò l'andatura, supplicando un dio in cui non credeva perché incontrassero qualcuno sul loro cammino che avrebbe potuto aiutarli. Una vocina, nel retro della sua testa, gli ricordò che la regione era deserta, che suo fratello si era assicurato di farsi terra bruciata attorno per poter condurre i propri loschi traffici.

“Resisti,” ripeté, imponendo ai propri pensieri di tacere.

 

*

 

Era quasi l'alba quando raggiunsero il porticciolo – niente più che un paio di moli sgangherati per l'attracco di piccole imbarcazioni. Aveva avvolto Natasha nel suo ampio mantello e se l'era caricata sulle spalle per convincere il capitano di una di quelle bagnarole in partenza che il suo amico era solo un tantino ubriaco e che si sarebbe ripreso non appena fossero arrivati a destinazione.

L'uomo l'aveva guardato storto, ma era bastato che Clint gli consegnasse tutti i soldi che aveva con sé e il cavallo sfiancato che li aveva portati fin lì per convincerlo a farli passare e conceder loro un posto sottocoperta.

“Non voglio grane!” Gli aveva gracchiato alle spalle prima di sputare sul pontile sudicio.

Salì a bordo e ignorò gli sguardi che lo seguirono mentre si trascinava al piano di sotto alla ricerca di un luogo sufficientemente appartato. Il ventre della barca era occupato da alcune brandine sparse sul pavimento, casse, barili e un gran puzzo di vomito, alcool e piscio. Sarebbe stato praticamente deserto se non fosse stato per la massa scura rannicchiata sul letto più distante dalle scale d'accesso, incastonato in alto, nella parete, come un loculo.

Non aveva il tempo di preoccuparsene. Il respiro di Natasha si era ormai ridotto ad un flebile sospiro a malapena percepibile – si era fermato almeno un paio di volte per controllare che fosse ancora viva e tutte le volte aveva provato un tuffo al cuore realizzando che stava tenendo duro, che non si sarebbe lasciata vincere così facilmente. Ma adesso, mentre la adagiava su uno dei letti vuoti, e si sforzava di mantenere in ordine i pensieri e di attenersi alle risoluzioni prese durante il viaggio, si ricordò che le ore a sua disposizione erano decisamente agli sgoccioli.

La liberò del mantello, ma lo tenne vicino nel caso avesse avuto bisogno di ricoprirla. Le sfilò la camicia ormai completamente impregnata di sangue dai pantaloni dopo averle aperto il gilet sul davanti. Quando le scoprì il fianco destro, il buco nero della ferita lo colpì come un cazzotto nello stomaco.

Inspirò a fondo e lanciò una rapida occhiata alle scale prima e allo sconosciuto addormentato poi per assicurarsi di avere campo libero. Le sollevò leggermente un fianco per capire se ci fosse o meno un foro d'uscita e quando comprese che la pallottola era ancora lì dentro maledì ogni santo esistente. Non aveva gli strumenti adatti per estrarla e comunque non aveva la più pallida idea di come muoversi – avrebbe potuto causarle danni permanenti. E d'altro canto non ci sarebbe stato proprio nulla di permanente per Natasha se non si fosse dato una mossa.

Frugò tra le loro cose e ne tirò fuori l'otre del vino. Ne versò un po' sulla ferita senza che la donna si lamentasse minimamente (non un buon segno) e poi si bevve il resto, desiderando di essere completamente ubriaco oppure sobrio e anche chirurgo, ma la sua buona stella non sembrava in vena di miracoli.

Prese un'improvvisa decisione e stabilì che infilare le dita là dentro per cercare la pallottola sarebbe stata una follia. Le avrebbe cauterizzato la ferita per fermare l'emorragia, magari guadagnandole un po' di tempo. Una volta arrivati nella capitale avrebbero potuto cercare qualcuno in grado di rimetterla in sesto in modo meno raffazzonato. Ma per adesso non poteva fare di meglio.

Guardò per un attimo il volto pallido della donna, le labbra che sembravano aver perso l'abituale pienezza tingendosi di una sinistra sfumatura di viola.

Si costrinse a focalizzare, ad ignorare il batticuore e l'angoscia che gli montava nello stomaco, scegliendo uno dei coltelli di Natasha. Si alzò per raggiungere una delle lanterne ad olio che illuminavano il sottocoperta, aprendone lo sportellino di vetro per mettere la lama sopra il fuoco. Aspettò finché il metallo non si fu fatto incandescente, maltrattenendo a stento l'impazienza che gli avrebbe imposto di darsi una mossa.

Tornò indietro e si inginocchiò a terra mentre si sforzava di respingere la puzza che adesso – trovata manforte nel panico che non gli consentiva di respirare normalmente – rischiava di farlo vomitare da un momento all'altro.

Avvicinò il coltello alla ferita, esitando per un secondo di troppo.

“Che avete intenzione di fare?”

La voce lo fece trasalire bruscamente, ma non abbastanza da fargli cadere l'arma di mano o, peggio, su Natasha. Si voltò per incontrare lo sguardo occhialuto e fastidiosamente placido di un uomo di mezz'altezza, i capelli neri arruffati sulla testa e una camicia troppo grande a calargli addosso come su uno spaventapasseri.

Gli bastò lanciare un'occhiata al letto-loculo e ritrovarlo vuoto per capire che il bell'addormentato si era svegliato giusto in tempo per rompergli le palle.

“Devo cauterizzare la ferita,” gli rispose innervosito, come se non fosse già abbastanza ovvio.

“Credevo aveste detto al capitano che si trattava di un amico.” Lo guardò ripulirsi gli occhiali su un lembo della veste e l'irritazione gli accartocciò lo stomaco: gli sembrava il momento di mettersi a fare domande tanto stupide?

“Ha importanza? Se non faccio qualcosa morirà.” Chi cazzo si credeva di essere e perché non se ne tornava a dormire e badare ai fattacci suoi?

“Questo è certo. Non sembra che abbia molto tempo.”

“Tante grazie!” Si rimise in piedi e gli avrebbe anche tirato un pugno in piena faccia se l'uomo non avesse detto quello che poi, effettivamente, disse.

“Sono un dottore, lasciatemi dare un'occhiata.”

Clint sentì la testa girargli e ritirò tutte le maledizioni scagliate contro i santi, la sua buona stella, l'anima di sua madre e tutto ciò che gli venne in mente. Si fece da parte come in trance, guardando mentre lo sconosciuto studiava la ferita.

“C'è ancora la pallottola qua dentro,” decretò, più ragionando tra sé che per metterne al corrente anche lui. “Prendetemi la borsa vicino al letto, se non vi dispiace.”

Clint abbandonò il coltello ancora bollente e obbedì, riconsegnando la sacca di pelle all'uomo prima di risederglisi davanti.

“Avete informato il capitano che avete trasformato la sua imbarcazione in una sala di chirurgia?”

“No,” rispose secco. Non gliene importava proprio un cazzo – col marinaio avrebbe potuto ragionare, con la morte però... ne dubitava vivamente.

“Che le è successo?”

“Che tipo di dottore siete?” Gli venne in mente solo in quel preciso istante che magari aveva fatto male ad affidargli Natasha. Dopotutto come faceva a sapere di potersi fidare? E poi non aveva l'aria di essere un dottore molto famoso se se ne andava in giro coi contrabbandieri, per di più vestito da straccione.

“Non uno che tira fuori pallottole dalla gente, purtroppo,” rispose quello, scegliendo uno strumento lungo e affusolato dal disordinato assortimento che Clint intravide nella sua borsa. Se non altro non era dottore in legge o – pure peggio – in teologia.

“Siete sicuro di quello che fate?”

“No,” ammise tranquillo, “ma bruciarla con quel coltello non le sarà d'aiuto.”

Adesso si metteva pure a criticare le sue scelte! Lo scusasse pure se non poteva diventare chirurgo di fama nel giro di qualche minuto e con la sola forza di volontà!

Lo guardò ripulire il ferro con una qualche sostanza e poi avvicinarlo alla ferita. Non gli disse di tenerla ferma e Clint capì che, ancora, non era un buon segno. Rabbrividì quando la punta dello strumento sparì nella ferita, ma non distolse lo sguardo.

Trattenne il respiro, però, e quello che seguì fu il minuto più lungo della sua vita. L'aria gli uscì rumorosamente dal naso e dalla bocca appena l'uomo ritrasse la mano, lasciando cadere la pallottola su un fazzoletto aperto con cui – Clint ne fu piuttosto sicuro – doveva essere solito soffiarsi il naso.

“Ha perso molto sangue,” gli disse e stavolta sembrava volesse metterlo in guardia da qualcosa.

Aveva riposto lo strumento sporco nella borsa, lontano dagli altri e aveva tirato fuori un ago ricurvo e un rocchetto di filo.

“Il rischio di infezione è altissimo con le ferite d'arma da fuoco,” aggiunse.

Clint si spazientì: l'aveva capito che la vita di Natasha era appesa ad una speranza piuttosto sottile e incerta, ma non aveva bisogno di essere rabbonito come uno stupido. Non rispose o protestò perché sapeva che l'angoscia lo rendeva stronzo e non voleva inimicarsi lo sconosciuto.

Un'idea gli balenò davanti agli occhi. Aprì la bisaccia di Natasha e ne estrasse la scatola di legno di cui si era servita quando gli aveva medicato la ferita alla spalla. Non sapeva esattamente cosa ci avesse fatto, perché aveva perso i sensi prima di potersene accertare, ma forse sarebbe tornata utile.

La trovò e l'aprì sotto al naso del dottore che aveva già cominciato con la sutura, liberando nell'aria un miscuglio d'odori forti, di aromi ed erbe essiccate.

“Può servirvi?” Gli chiese, sperando di non essere suonato stupido. Magari Natasha non amava mangiare insipido e si portava dietro le spezie per rimediare. Magari stava suggerendo al dottore di curarla con rosmarino e salvia destinati ad un arrosto e non ad un buco nel fianco.

“Dove le avete trovate? Queste erbe mediche sono piuttosto rare da queste parti.” Sembrò impressionato e Clint seppe di poter rilasciare il fiato, sollevato.

“Lei non è di qui,” rispose soltanto. “Forse ha anche delle garze pulite.”

“Ottimo. Vi capita spesso?”

“Cosa?”

“Di beccarvi una pallottola nello stomaco.”

“Non molto spesso.”

Il dottore sorrise. Era inquietantemente tranquillo, al punto che Clint si chiese se non si fosse fumato qualcosa di... rilassante.

Antoine gli aveva fatto prendere un paio di tiri da una pipa, una volta, senza dirgli che diavolo ci fosse dentro. Ricordava di come si fosse sentito leggero, come fluttuante e libero da qualsiasi preoccupazione. Senza peso. Antoine aveva riso fino a farsi venire il mal di pancia e Clint gli aveva chiesto se non potesse averne un po' in prestito perché voleva farla provare anche a Kate.

Si costrinse a ritornare coi piedi per terra. Il dottore aveva finito con i punti e adesso stava mescolando alcune delle erbe di Natasha in una piccola ciotolina di legno insieme ad un liquido che a Clint sembrò odorare di whisky. Applicò la pappa che ne ottenne sulla ferita e poi si fece passare le garze per fasciarle la pancia. Si chiese se le sarebbe dispiaciuto sapere che le aveva finito le bende senza neppure domandarle il permesso di usarle.

“Fatto. Adesso non rimane che aspettare,” dichiarò l'uomo, gettando quello che non gli serviva nella borsa.

“Posso fare qualcosa?” Si rese conto di quanto suonasse ridicolo prima ancora di pronunciare le parole, ma non voleva lasciare niente di intentato.

“Pregare, se è il genere di cose che fate in questi casi.” L'uomo gli sorrise gentilmente. Gli occhiali gli si erano appannati sul naso e Clint si accorse di quanto fossero storti e sgangherati.

“Dove siete diretto?”

“Alla capitale.”

“Posso sapere come vi chiamate?”

“Oh, certo. Le mie maniere lasciano molto a desiderare di questi giorni. Mi chiamo Bruce.”

“Vi ringrazio... Bruce.”

“Non ringraziatemi ancora. La vostra amica ha perso molto sangue.”

“Ce la farà.”

Il dottore evitò di rispondere.

“Vado a sciacquarmi le mani. Dovreste fare altrettanto e riposare. Avete l'aria di averne bisogno.” Gli rivolse un cenno del capo e lo superò per risalire al pontile, la borsa sotto braccio. Sarebbe passato per mendicante se non avesse portato gli occhiali.

Clint sospirò e tornò su Natasha, accoccolandosi sul pavimento proprio accanto al letto. Alzò una mano per mettergliela davanti a naso e bocca, per assicurarsi che respirasse ancora, e si sentì in colpa quando si accorse di avere le dita completamente sporche di sangue. Come se avesse potuto in qualche modo contaminarla con quelle sue stupide mani d'arciere.

La testa gli s'era fatta pesante. Il dottore aveva ragione, avrebbe dovuto riposare. Ma era troppo stanco pure per dormire e il pensiero di Natasha cominciava ad ossessionarlo. Aveva paura che, se si fosse assopito, la donna l'avrebbe interpretato come il suo permesso ad andarsene una volta per tutte.

Non voleva che succedesse.

E allora Clint fece l'unica cosa che gli venne in mente di fare.

Chiuse gli occhi e pregò.









Note: possiamo dire che Barney e i suoi sono caduti in un vespaio? D'OH, non sono riuscita a trattenermi :P comunque... i nostri eroi sono riusciti a scappare dalle grinfie del Barton maggiore (a.k.a. Trickshot), pagando l'immancabile prezzo della quasi morte di Natasha. Anche stavolta potrei dire che scopriremo come andrà finire nel prossimo capitolo, ma la storia ha ancora 17 capitoli... insomma, vedete voi ù_ù
Quello che avrete intuito essere nientemeno che il dottor Banner ha fatto una comparsata! E ci tengo a precisare che spesso e volentieri (ad eccezione di due) le apparizioni degli altri Vendicatori non saranno nient'altro che queste: comparsate. Clint e Natasha rimarranno comunque sempre al centro dell'azione.
Ringraziamenti di rito a chi legge & commenta con assiduità e ovviamente shoutout alla socia-beta Eli, il bastone della mia vecchiaia fandomistica... e viceversa XD
Alla prossima settimana!
(◡‿◡✿)
  
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