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Autore: hikachu    20/11/2015    2 recensioni
Resoconto dei trentuno giorni che sconvolsero la vita di Usagi Tsukino, strappandola alla sua ordinaria vita da ordinaria liceale. Oppure: di come le favole siano solo sogni ad occhi aperti, e i mostri spesso si travestano da principi.
Genere: Angst, Drammatico, Thriller | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Demando/Diamond, Seiya, Un po' tutti, Usagi/Bunny | Coppie: Mamoru/Usagi, Seiya/Usagi
Note: AU | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate, Triangolo | Contesto: Nessuna serie
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Capitolo V



7/8/1992


Ore 9:40



Quella mattina, quando Usagi si siede a tavola per la colazione, il suo posto non è l'unico ad essere apparecchiato.

“Buongiorno.”

Demando la saluta con le mani intrecciate ed un sorriso velato di bonaria complicità; le riporta alla mente la conversazione della notte precedente—di appena qualche ora fa, facendola arrossire. Ha una tazza di caffè, dinnanzi a sé, che è ancora intonsa, così come il pane tostato meticolosamente disposto su un piatto di ceramica dipinta, e la tavoletta di burro che si sta lentamente sciogliendo su un apposito vassoietto d'alluminio con tanto di coperchio a campana di vetro; ciascun pezzo è stato preso dal servizio buono: prediligere la colazione all'occidentale è stata consuetudine della famiglia Tsukino dacché Usagi ne abbia memoria, ma, è con l'arrivo di Demando, quest'ospite affascinante venuto da una terra straniera tanto romanticizzata, che Ikuko ha cominciato a preoccuparsi dell'estetica dei pasti, della ricercatezza delle stoviglie usate e delle coreografie culinarie. Inizialmente, Kenji aveva ironizzato, meravigliato ma non sorpreso da quel nuovo chiodo fisso di sua moglie, che, d'altro canto, sembrava in costante necessità di qualcosa – attività, persona, fatto o pettegolezzo che fosse – su cui concentrare in toto le proprie energie, probabilmente per evadere dalla monotonia della sua vita di mamma e casalinga a tempo pieno. Era, quello di Kenji, un gesto privo di malizia, inteso a punzecchiare con l'affetto e la confidenza di chi, si suppone, si ama da due decadi. Senonché, Ikuko non aveva perso tempo a mettere in chiaro che prendeva la questione con la massima serietà, e non ammetteva che altri facessero diversamente. Usagi, dal canto suo, trovava la faccenda imbarazzante: persino ad una ragazza comune e con la testa perennemente tra le nuvole come lei, era chiaro che quei tentativi di raffinatezza sarebbero risultati, nella migliore delle ipotesi, maldestri e goffi agli occhi di chiunque. Figurarsi una persona come Demando, che a Parigi doveva condurre una vita degna delle più sofisticate riviste patinate.

Usagi balbetta, “Non pensavo di trovarti qui.” Sempre l'ultima ad alzarsi, quando finalmente scende in cucina può esser certa che suo padre è al lavoro, sua madre a far la spesa o a pulire casa, Shingo fuori a giocare a calcio con i suoi amici al parco e Demando, certo, ha i suoi impegni. Così, giorno dopo giorno, Usagi finisce per consumare la colazione da sola o, nei giorni di scuola, addenta qualcosa al volo che può essere mangiucchiato per strada senza troppi problemi.

“Ti spiace?” Il sorriso si accentua intorno a quelle parole.

“No, no, affatto!” Usagi scuote la testa con vigore, nel tentativo di scongiurare un umiliante malinteso. “È solo che... ieri sera avevi detto che saresti stato occupato tutto il giorno, così, sono sorpresa. Tutto qui.”

Demando ride. “Un po' speravo che lo fosse, una sorpresa. Gradita, naturalmente.”

“Certo che lo è!”

“Beh, ne sono contento. Ci sono stati dei cambiamenti di programma, stamane, ed ho pensato che sarebbe stato bello poter fare colazione con te.” Usagi annuisce. Si siede rigidamente e versa del succo d'arancia in un bicchiere, ma ha le mani che tremano, e alcune gocce schizzano sulle dita e la superficie del tavolo. “Attenta,” Demando prende uno dei tovagliolini dai colori vivaci impilati l'uno sull'altro nel dispenser e lo piega un paio di volte su se stesso, per assorbire via il succo dal tavolo in maniera efficiente. Poi, afferra la mano sporca di Usagi, tamponandone le nocche con pochi tocchi leggeri. Lei si lamenta tra sé e sé: “Ho ancora la dita appiccicose.” Il sorriso di Demando raggiunge i suoi occhi, trasformandoli in mezzelune come sul balcone, di notte. Occhi di gatto che scrutano Usagi mentre Demando ne solleva la mano e china il capo: vicini, vicini, fino a che Usagi può sentire il respiro umido di lui sui polpastrelli, e poi, forse, potrebbe essere un sogno, un'allucinazione, il tocco umido della sua bocca come se volesse mangiarle le dita e—

“Usagi! Ben svegliata,” Ikuko irrompe in cucina con un cesto di bucato pronto per essere steso ed un'espressione contrariata in volto. Con rapidità e discrezione, Demando le lascia andare la mano, per poi avvolgerla nella sua e posarla, delicatamente, sul tavolo, dietro la brocca di succo d'arancia.

“Non sono neppure le dieci, mamma.” Usagi vorrebbe dirlo con rabbia; lo farebbe, se solo potesse dedicare la sua concentrazione ad altro che non sia cercare a tutti i costi di non esplodere. La mano di Demando è calda. È grande e copre la sua: palmo e dita e il principio del polso, dove l'osso sporge visibilmente.

“E meno male. Poltrire non è educato nei confronti degli ospiti, né della persona che si prende cura della casa, cioé me: se non hai scuola, dovresti pensare a darmi una mano, Usagi. Non sei più una bambina.”

La nuca di Usagi brucia. La punta delle orecchie è in fiamme. “Mamma...”

“Ad ogni modo, quando hai finito, va' a casa degli Osaka. Ho incrociato la madre di Naru-chan al mercato, e mi sembrava molto preoccupata, poveretta. Naru-chan è sempre stata una bambina molto dolce ed obbediente, ma deve essere successo qualcosa. Forse, non va d'accordo con le sue compagne di classe: tu ne sai qualcosa? Quando è stata l'ultima volta che siete uscite insieme, Usagi? Sua madre vorrebbe tanto che tornaste a frequentarvi. Ha detto che la tranquillizzerebbe.”

Naru. Naru Osaka. Snella, col faccino pulito ed i capelli castano naturale, invidia delle ragazze che avrebbero tanto voluto poter schiarire i propri, per i imitare gli idoli della TV e delle riviste di moda, senza incorrere nelle ire dei professori. L'uniforme sempre in ordine e graziosi abiti all'ultimo grido sempre nuovi per i pomeriggi con le amiche. Benestante e di buone maniere. Faceva il suo dovere di studentessa e figlia modello e aveva buoni voti. Mia madre adorava Naru: penso che per lei rappresentasse la figlia ideale, quella che avrebbe voluto che io diventassi. Avevo colto questo suo desiderio – questa sua frustrazione – piuttosto in fretta, e forse, se fossi stata meno sempliciotta e più prona ai sentimenti negativi, avrei potuto odiare Naru per questo; avrei potuto lasciare che la gelosia e l'invidia mettessero le radici nel mio cuore, distruggendo sul nascere la possibilità di un'amicizia tra noi. Invece, Naru ed io diventammo grandi amiche, ed in fretta. Ricordo ancora il giorno in cui fece il suo ingresso nell'asilo che io già frequentavo da qualche mese: teneva stretta la mano di sua madre, bellissima in un tailleur firmato, ed aveva gli occhi pieni di lacrime. Sebbene mi fossi già ambientata in quel nuovo mondo che, soprendentemente, esisteva con tutti i crismi al di fuori di quello racchiuso dalle mura di casa Tsukino, un solo sguardo a quel viso spaurito mi riportò alla mente il terrore e l'ansia che avevo provato quando mio padre aveva lasciato andare la mia mano per la prima volta, voltandomi le spalle mentre si incamminava verso l'uscio dell'edificio. Così, mi ero avvicinata a Naru per farle coraggio, e, da allora, eravamo state inseparabili per tanti, tanti anni. Le differenze che intercorrevano tra noi, che fossero sociali, familiari, di abitudini o di carattere, sembravano fungere da collante, tra noi, piuttosto che essere motivo di disaccordi o litigi.

A sbiadire i tratti di quel legame fino a farli quasi scomparire del tutto, fu, inaspettatamente, una cosa banalissima: era primavera, pochissimi giorni prima dell'inizio del nostro secondo anno di liceo; nel cortile dell'istituto, assieme al resto della popolazione studentesca, Naru ed io saltellavamo, ci alzavamo sulla punta dei piedi e allungavamo il collo nel tentativo di scorgere, oltre la ressa che ci impediva di avvicinarci, i nostri nomi sulla bacheca che riportava le nuove formazioni per le classi di quel anno. Infine, anche grazie ad una buona dose di spintoni, constatammo che eravamo state assegnate a sezioni diverse. Considerando l'abisso tra il rendimento scolastico di Naru ed il mio, non c'era molto di cui sorprendersi; inoltre, era già accaduto quando frequentavamo le medie. La prendemmo a ridere. Mettemmo su il solito teatrino comico in cui tutto il numero si reggeva sulla mia pigrizia ed i miei voti imbarazzanti e pensammo, poco male, pranzeremo insieme ogni giorno, ci vedremo dopo le lezioni. Tuttavia, le cose andarono in maniera molto diversa: Naru ed io ci allontanammo poco a poco, e la colpa fu soltanto mia.

Avevo conosciuto Ami, Makoto e Minako nel corso dell'anno appena trascorso, quasi per caso. Eravamo in classi diverse e, ad una prima occhiata, non avevamo nulla in comune, eppure, eravamo presto diventate un gruppo: se una di noi mancava a scuola, non era raro che un compagno di classe o un professore chiedesse notizie alle altre o affidasse loro compiti, appunti e fotocopie da consegnare alla ragazza assente dopo la scuola. Pochi anni prima, in una fredda giornata d'inverno, avevo conosciuto Rei: avevo cercato rifugio, ed un nascondiglio, nel cortile del tempio, dopo un brutto litigio con i miei genitori, e lei mie aveva trovata, accucciata all'ingresso, che tremavo e tiravo su col naso come una bambina. Ovviamente, mi aveva rimproverata: prima per essere uscita senza neppure indossare un cappotto con quelle temperature, poi, dopo che le ebbi spiegato il motivo di quella fuga repentina, per la mia immaturità. Il resto è storia. Ciò che conta, ora, è che ben presto scoprimmo che Minako conosceva Rei a sua volta: avevano frequentato le elementari presso lo stesso istituto femminile, ma mentre Rei aveva proseguito lì i suoi studi, Minako aveva trascorso gli anni tra fine della sesta e l'inizio delle superiori a Londra, a causa del lavoro di sua madre; dunque, il tempio della famiglia Hino divenne il nostro covo, il nostro punto di riferimento.

Avevo presentato Naru alle ragazze sin da subito, ma se loro, che avevano visto il gruppo espandersi poco dopo avermi conosciuta, erano felici di incontrare l'ennesimo nuovo membro di quella squadra tutta fondata sulla spensieratezza e l'amicizia, per Naru, che mi aveva avuta sempre tutta per sé per una vita intera, le cose erano ben diverse. Anche in questa istanza, mi ero rivelata troppo ingenua, troppo ottimista e, di conseguenza, priva di tatto: più mi avvicinai alle ragazze, e più mi allontanai da Naru, o meglio, non mi accorsi della distanza che lei stava piano piano mettendo tra noi, presa com'ero dalle mie nuove amiche. Da bambina, così come da adolescente, credevo che il non agire con intenzioni malevole fosse sufficiente a non diventare una cattiva persona, così compivo spesso azioni completamente egoistiche senza prendere in considerazione come queste avrebbero potuto ferire chi mi stava intorno: la strada per l'inferno è lastricata di buone intenzioni, si dice. Una lezione che io imparai decisamente troppo tardi e ad un prezzo molto caro.

Quel mattino, sentire mia madre che parlava di Naru come se qualcosa di grave la affliggesse, fu una vera e propria scossa elettrica che mi urtò nel profondo. Era come se avessi realizzato solo in quel momento che la mia amica, quella che era stata la mia migliore amica, era divenuta, per me, un'estranea, ed io non avevo fatto nulla per impedirlo; ancora peggio, non avevo mai avvertito la necessità di farlo. E poi, ero sconvolta dall'idea che proprio Naru, che ai miei occhi conduceva una vita assolutamente perfetta e non avrebbe mai potuto avere nulla di cui lamentarsi, potesse star male a tal punto: l'ennesima prova di quanto fossi incapace non solo di capire gli altri, ma anche di riconoscere loro una profondità ed una gamma di esperienze ed emozioni che andasse oltre la facciata che mostravano al mondo—o quello che io sceglievo di vedere. Così, ecco che la Usagi di quel giorno strabuzza gli occhi, scuote la testa e, dimenticandosi del trambusto adolescenziale che le stava scuotendo il cuore, sfugge alla presa di Demando per trangugiare in fretta un bicchiere di succo d'arancia, decisa a raggiungere casa Osaka il prima possibile.

“Vado subito. Sai se Naru-chan è a casa, oggi?” chiede a sua madre con la bocca piena del biscotto che si sta impegnando a masticare in tempo record. La preoccupazione di Ikuko è senza dubbio alle stelle, poiché non rimprovera Usagi per quello sfoggio di pessime maniere. Prese dalle circostanze di Naru, nessuna delle due nota il volto di Demando che, per un istante, si accartoccia in un'espressione di indecifrabile freddezza. Forse, sarebbe bastato che Ikuko o Usagi scorgessero quel particolare, quel giorno, perché non ignorassero il vero significato di certi eventi che si sarebbero verificati di lì a poco. È inutile, patetico ed immensamente doloroso, eppure, non posso fare a meno di chiedermi quante cose orribili si sarebbero potute prevenire.

“Sua madre mi ha detto che ha la mattinata libera e nessun progetto di uscire, ma questo pomeriggio ha una lezione extra di piano, quindi, sì, faresti meglio ad andare ora.” Ikuko è pensierosa. Quando sua figlia era ancora molto piccola, aveva cercato di imporle la presenza, un paio di volte a settimana, di una maestra di pianoforte; le cose, come c'era da aspettarsi, non andarono come avrebbe voluto, e, presto, le lezioni per Usagi finirono. Si trattava di uno degli innumerevoli rimpianti che Ikuko si portava nel cuore per quel che riguardava sua figlia, tuttavia, persino lei, che tanto idolatrava la perfetta Naru, non poteva fare a meno di avvertire una certa apprensione davanti alla quantità mastodontica di impegni che quella ragazzina si trovava a dover affrontare.

C'è lo stridore assordante delle gambe di una sedia che fanno attrito contro il parquet. Usagi balza in piedi. “Bene, allora vado,” procede veloce verso l'ingresso, ma poi torna indietro con altrettanta rapidità.

“Usagi, che fai?”

“Devo prendere una cosa per Naru-chan dalla mia stanza!” urla, già sulle scale.

In camera, afferra uno degli eleganti inviti che Demando le aveva messo tra le mani con una risata, spiegando, così potrai divertirti con le tue amiche, invece di annoiarti ad ascoltare i discorsi di noi vecchi. È sicura che Naru sarà felice di riceverlo ed è, inoltre, un'ottima scusa per ricominciare a frequentarsi. Per poco, Usagi non cade rovinosamente con la faccia contro gli scalini, mentre li percorre in direzione inversa, e sfreccia, goffa, in cucina, dove saluta frettolosamente sia Demando che Ikuko. All'ultimo momento, però, ricorda una cosa molto importante: “Mamma,” chiama mentre si infila le scarpe, seduta sullo shikidai. “Per caso, è arrivata posta per me?”

“Una cartolina!” la voce di Ikuko, dalla cucina, sembra lontanissima.

“Una cartolina?” ripete Usagi in un soffio. Il suono della parola le getta un peso sul cuore. Una cartolina. Solo una cartolina.

“È sul mobile proprio lì nel genkan,” spiega Demando, alle sue spalle. Usagi si volta e lo vede, la schiena poggiata alla parete e le braccia incrociate in una posa rilassata, che le rivolge il solito sorriso, quello che – Usagi ancora non sa – è riservato unicamente a lei. “Mi sono svegliato molto presto e, siccome Ikuko-san era molto occupata, ho pensato di rendermi utile, almeno raccogliendo la posta. È una cartolina davvero bella, hai amici che viaggiano spesso in Europa? Ah, ma, prometto che non l'ho letta!”

Usagi finisce di allacciarsi le scarpe e si avvicina alla scarpiera, dove la cartolina la aspetta, incorniciata da un mazzo di chiavi (quello di sua madre) ed una manciata di monetine. Con la punta delle dita, sfiora i tetti azzurri delle case bianche a ridosso del mare, impresse sulla superficie patinata. A sovrastarle, una scritta a caratteri cubitali che recita: Paros. Sul retro, il messaggio inizia con: Cara gattina, e Usagi sa subito di chi si tratta. Il pensiero le strappa un sorriso, a scapito di tutto il resto. Infila la cartolina nell'ampia tasca frontale della salopette che ha indossato quel mattino, pensando che, più tardi, dovrà mostrarla anche alle altre, al tempio, e, finalmente, apre la porta.

Prima di uscire, rivolge un ultimo sguardo a Demando, un lieve inchino in segno di gratitudine. “Sì, sono delle amiche a me molto care. Se vuoi, ti parlerò di loro, al mio ritorno,” spiega, e poi, corre finalmente verso casa Osaka.


Naru indossa un abito verde acqua che pare essere fatto di un qualche materiale impalpabile, semplice eppure raffinato. Sembra una fata, mentre innaffia i grossi cespugli di ortensie nel cortile di casa. Usagi sorride, orgogliosa della sua amica e colma di nostalgia allo stesso tempo.

Quando la scorge, gli occhi di Naru si spalancano come se le fosse appena comparso dinnanzi un fantasma. Fa male. È davvero così strano che io sia di nuovo qui, pensa Usagi, proibendosi di manifestare apertamente qualsiasi forma di disappunto. Sorridi, si dice. Continua a sorridere. Questa è tutta colpa tua.

“Naru-chan! Come stai?”

“Bene... Sto bene...” Naru abbassa lo sguardo. Non si muove, non invita Usagi ad entrare, non ricambia la domanda, ma Usagi non può perdersi d'animo, non se lo può permettere.

“È da tanto che non ci vediamo, così, sono venuta per consegnarti una cosa.”

Naru passa l'innaffiatoio dalla mano destra alla sinistra, afferrando la busta listata d'oro senza alcun entusiasmo apparente, come un robot. “Ci saranno anche Mizuno-san e le altre?” domanda. Lei ed Ami, entrambe studentesse modello, sono nella stessa classe, naturalmente.

Usagi sbatte le palpebre, lievemente perplessa, prima di rispondere, raggiante, “Certo! Sono sicura che le altre saranno felici di vederti.” È un errore, un errore molto grave, e lei non se ne rende conto, anche se dovrebbe. Oh, se dovrebbe.

“Riprenditi questo invito.”

“Cosa?”

“Ho detto, riprenditi questo invito, Usagi-chan. Mamma ne ha già ricevuto uno per tutta la famiglia la settimana scorsa. La nostra gioielleria è uno dei partner ufficiali dell'evento. Non ne ho bisogno.”

“Oh,” Usagi si sente disorientata. Non riconosce quel tono gelido, non dalle labbra di Naru. “Beh, avrei dovuto pensarci, immagino! Sono sempre la solita sbadata, eh? Ma, tanto meglio, allora ci vedremo di sicuro. Non vedo l'ora di chiacchierare di nuovo con te!”

“Mi spiace, Usagi-chan, ma non posso dire che valga lo stesso per me. Anzi, te ne sarei grata se potessi andartene il prima possibile.”

“Naru-chan... perché? Cosa ti è successo? Adesso capisco di non essermi comportata bene con te, ma voglio rimediare: mi manca la mia amica!”

“Allora, lascia che ti chieda una cosa: come mai sei venuta qui proprio ora, dopo tutto questo tempo?”

C'è silenzio, un lungo lasso di silenzio assordante, in cui Usagi ha l'impressione che stia per scoppiarle la testa. La risposta è lì, tra le labbra e la lingua, ne sente il sapore e pronunciarla dovrebbe essere facile, eppure, per qualche motivo, non è capace. Qualcosa, nella voce dell'altra, l'ha congelata; le ha gelato il sangue nelle vene come un'accusa spietata. Quando Naru alza infine lo sguardo, Usagi deve forzarsi a non distogliere il proprio: è lo sguardo di qualcuno che è sul punto di piangere e vorrebbe non averlo mai visto, non su quel viso. Usagi sente, pur senza capirne a fondo il motivo, che anche questo è colpa sua.

Cerca di illudersi che deve trattarsi di qualche sorta di malinteso, che rispondere candidamente, con sincerità, rimetterà le cose a posto. “Ecco, stamattina, le nostre madri si sono incontrate e...”

“Basta così, per favore, basta così. Va' via, Usagi-chan.” Naru piange. Naru sta piangendo. Naru Osaka con i suoi capelli perfetti, l'abito da fata e la sua vita altrettanto magica e perfetta. La stessa ragazza con cui Usagi ha condiviso le gioie, i segreti ed i timori di una vita, sta piangendo a causa sua. Usagi sta incominciando a capire che non era poi così scontato, che la loro amicizia potesse riprendere come se non si fosse mai interrotta; che, dopotutto, non ha il diritto di pretendere una cosa dal genere. Non lei, che ha dimenticato Naru in maniera così profonda, e così a lungo.

Usagi la osserva, impotente, che corre via per rifugiarsi dentro casa. Si vergogna da morire di se stessa, della persona che è, ma sarebbe ancora più vergognoso, da parte sua, se cercasse di fermarla, a questo punto.

Per terra, tra l'erba curata, l'annaffiatoio che Naru ha lasciato cadere sta lentamente riversando l'acqua al suo interno in una pozzanghera melmosa. La carta pregiata dell'invito assorbe mano a mano quel misto di terra e acqua, accartocciandosi su se stessa, tingendosi di colori che non le sarebbero dovuti appartenere.

Usagi porta una mano sulla tasca che contiene la cartolina come se fosse un amuleto in grado di rasserenarla, ma questa volta non serve a nulla e, schiacciata dalla tristezza, decide di tornare a casa.
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Ore 13:57


“E con questo, per oggi abbiamo concluso.”

La voce dell'istruttore di ballo rimbomba nello studio adibito a palestra. Non si tratta di un ambiente particolarmente vasto, tuttavia, è perlopiù vuoto, e questo dà a voci e suoni una qualità riecheggiante. Seiya si lascia cadere su uno dei materassini che avevano steso sul parquet per gli esercizi di riscaldamento, ad inizio mattinata. È sudato, senza fiato, ed assolutamente affamato. Manca poco all'inaugurazione a cui i Three Lights dovranno partecipare in qualità di ospiti, ma anche di intrattenitori, ed il loro manager ha ben pensato di utilizzare un evento che di certo riceverà una vastissima copertura mediatica per lanciare il loro prossimo singolo: dunque, canzone nuova e coreografia nuova.

“Ah, non ci posso credere,” Seiya preme i palmi contro gli occhi chiusi, fino a quando non vede piccoli fuochi d'artificio bianchi scoppiettare sul retro delle sue palpebre.

“Piantala,” sedutosi accanto a lui, Taiki fa per scostare le mani di Seiya dal suo viso, un po' delicato, un po' burbero, come si fa con i bambini quando gli si raccomanda, questo non lo toccare! “Ti fa male agli occhi.”

Dalla sponda opposta del materassino, Yaten ridacchia. “Solo una vecchia casalinga superstiziosa o un poppante ci crederebbe davvero, Taiki. Certo che, però, un idol con gli occhiali sarebbe parecchio interessante.”

“Smettela voi due,” sbotta Seiya. “Mi state facendo veramente arrabbiare!” e allunga le braccia, attirando a sé i fratelli, che prendono subito a dibattersi come pesci fuor d'acqua.

Yaten sbatte i pugni contro il suo petto, in un tentativo di liberarsi che, a conti fatti, non è molto convincente. “Lasciami andare, Seiya: puzzi di sudore!”

“Sai, Yaten, non prenderla male, ma dopo quasi sei ore di prove, potrei dire lo stesso di te!” sghignazza l'altro. “Non è vero, Taiki?”

Taiki ride a sua volta. “Siamo conciati per le feste tutti e tre, non c'è che dire. Domani il meet&greet sarà una vera impresa, con tutto l'acido lattico che avremo in corpo.” Seiya e Yaten imprecano all'unisono: sono spesso agli antipodi, è vero, e sempre sulla stessa lunghezza d'onda, quando si tratta di lamentarsi per il troppo lavoro. “Ma, Seiya, c'è qualcosa che non va? È tutto il giorno che mi sembri distratto, e prima ti ho sentito borbottare.”

A quelle parole, è come se la vivacità ed il buon umore che avevano permeato l'atmosfera fino ad allora svanissero. Qualcosa di nettamente diverso, di più serio e forse più grave si insinua nel silenzio tra i tre e nella voce di Seiya. “Sono stanco,” mormora. “Voglio dire... Un'esibizione per l'inaugurazione di una boutique per snob, in un'area popolata da snob, coreografie, pubblicità per prodotti che non ci sogneremmo mai di usare, singoli sfornati come se fossero pasticcini, uno dopo l'altro, e in cui di rado ci è concesso mettere mano...”

Non è la prima volta che i Three Lights, idoli del momento a cui, in teoria, non dovrebbe mancare nulla, si trovano a discutere di questo. C'era stato un tempo, dopotutto, prima del tanto agognato contratto con una grossa casa discografica, in cui i Three Lights erano stati un gruppo indie rock che si esibiva nelle live house di Tokyo e dintorni, spostandosi su un malconcio furgoncino di seconda mano, comprato con quei risparmi che non erano serviti a pagare la sala prove e l'incisione del loro primo disco. Erano stati anni di sacrifici, trascorsi dividendosi tra prove, live che offrivano introiti minimi e l'orfanotrofio, dove non avevano mai smesso di dare una mano, eppure, erano stati anche anni felici, in cui sembrava che i sogni covati da quei tre ragazzi si sarebbero realizzati, un giorno, grazie ai loro sforzi. Avevano creduto, all'epoca, che l'amore per la musica sarebbe bastato, che sarebbe andato tutto bene perché avevano quello, dalla loro parte. Le circostanze che li avevano portati a firmare il contratto con la loro casa discografica attuale, però, furono ben lontane da quella visione utopistica. Per i fratelli Kou, l'ingresso ufficiale nello showbiz costituì, con ogni probabilità, il momento in cui persero l'innocente ottimismo che li aveva motivati fino a quel momento, piuttosto che il coronamento di un sogno.

“Seiya,” la voce di Taiki è ferma, una lama tagliente che spezza il silenzio. “Sai bene che non possiamo piantare tutto in asso: dovremmo pagare una penale, e poi ci sono i fondi all'orfanotrofio e il trattamento di Kakyuu che—”

“Lo so, lo so. Abbiamo delle responsabilità, ma è davvero questo l'unico modo? Che senso ha fare musica se non è la nostra musica? Sentite. Ho incontrato una persona, ieri—o meglio, ho incontrato di nuovo una persona.”

Yaten arriccia il naso con aria interrogativa. “La ragazza che ha trovato Chibi-Chibi? Vi conoscevate già?”

“È la stessa ragazza che aveva trovato il mio cercapersone.”

“Quella stramba che voleva rubarti il cercapersone? Sei matto?”

“Ti assicuro che è stato tutto un malinteso: non sa neppure chi siamo—Dico sul serio! E parlarle, ieri, è stato illuminante: è una ragazza così onesta e semplice, non si fa problemi a dire quel che le passa per la testa—”

“Questo l'avevo notato.”

“—e vive in maniera autentica, senza tradire se stessa.”

Le labbra di Taiki sono pallide, strette l'una all'altra in un atteggiamento di tensione, prima che lui dica, “Credo che tu stia idealizzando questa persona. Non dubito che sia una ragazza genuina, ma sbagli se pensi che possa esistere un essere umano senza segreti o zone d'ombra. Non sovrapporre a lei l'immagine della persona che vorresti che fosse: non sarebbe giusto nei suoi confronti, e tu, tu ti ritroveresti ad inseguire un miraggio.”

“So bene di cosa sto parlando, Taiki. Usagi mi ha ricordato perché ho iniziato a fare musica, che devo essere sincero con me stesso: voglio comporre la seconda canzone del singolo che presenteremo alla cerimonia di inaugurazione.”

“Seiya! Il pezzo è già in lavorazione!” Taiki, sbiancato, lo fissa a bocca aperta.

“Lo so, ma dovranno fermarsi. Ho intenzione di parlare al manager oggi stesso. Metto qualcosa sotto i denti e lo vado a cercare. Dovranno ascoltarmi, questa volta, altrimenti...”

“Altrimenti cosa, Seiya?” soffia Yaten. Yaten, che fino ad allora aveva studiato il fratello con aria guardinga, come se sentisse di trovarsi dinnanzi ad una bestia pronta a saltargli addosso. C'è un misto di timore e meraviglia nelle sue parole, adesso; un tocco di riverenza che non appartiene al suo carattere: forse sta cercando a tutti i costi di non infrangere quel equilibrio già incrinato con le proprie parole, o forse, spera esattamente il contrario.

Seiya non risponde. Non nota o, forse, decide di ignorare le preghiere nascoste nelle pause che articolano le parole dei suoi fratelli. Balza in piedi e, voltandosi un'ultima volta verso di loro, scuote la testa. Poi, sparisce nel corridoio semibuio.

“Taiki,” la voce di Yaten è appena percettibile, persino nel silenzio assoluto che è calato sala. A Taiki tornano in mente le notti di pioggia in cui Yaten piangeva e Seiya si obbligava a trattenere le lacrime, e lui lasciava che si accoccolassero nel suo letto, vegliandoli fino a quando non li coglieva il sonno; erano, quelli, i primi tempi dopo la morte dei loro genitori, le prime notti trascorse all'istituto. “Taiki, ascolta. Io... non credo che Seiya abbia torto. Ho deciso che lo seguirò, qualsiasi cosa decida di fare.”

Il cuore di Taiki si stringe. Fuori, ha ricominciato a piovere: un altro acquazzone fuori stagione, chissà. Non gli riesce di parlare; solo, pensa: non è così che dovevano andare le cose.
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Ore 16:34


Shingo Tsukino cammina spedito verso casa, tirandosi dietro le vecchia mountain bike verde che, un tempo, era appartenuta a sua sorella. Il pomeriggio è stato un alternarsi di piogge inaspettate e schiarimenti repentini: avrebbe dovuto ascoltare sua madre, quando, vedendolo uscire, gli aveva detto che non era il momento migliore per un giro in bicicletta, ma Shingo ha già tredici anni, e a dare corda a sua madre, lei potrebbe pensare che sia rimasto il bambino obbediente che le trotterellava dietro come un anatroccolo. La pioggia è ancora lieve ma dura già da un po', e Shingo sente che la stoffa della T-shirt aderisce sempre di più alle sue spalle, come una seconda pelle: spera davvero di non buscarsi un raffreddore, o addio vacanze! Inoltre, Ikuko lo rimprovererebbe per tutta la durata della sua eventuale convalescenza di non averla ascoltata. Shingo vuole bene a sua madre, ciò non toglie, però, che lei sia in grado di riuscire veramente insopportabile, quando si ci mette, in particolar modo quando è Usagi ad attirarne le ire: non lo confesserebbe neppure sotto tortura, ma ci sono volte in cui Shingo prova un'intensa tristezza, davanti a quelle scene. Lui, che da bravo fratello minore, ha fatto del prendere in giro Usagi quasi un passatempo, la reputa vittima di una cattiveria immeritata. Forse, si tratta semplicemente di cose di donne che lui non è in grado di capire, si dice, quando quei pensieri lo assalgono. Shingo ama la sua famiglia, perciò non vuole odiare nessuna di quelle persone tanto preziose.

Un lampo illumina il cielo: la pioggia si fa più fitta. Shingo corre, il cancello di casa è davanti a lui. Ce la può fare. Evita per miracolo di scivolare sul sentiero lastricato del cortile e spinge la bici contro il muro esterno della casa, affinché la tettoia la ripari dalla pioggia. Mentre cerca di aprire la porta, le dita, viscide d'acqua, scivolano più volte intorno al pomello della porta e all'impugnatura della chiave: il processo dura, in realtà, meno di un minuto, ma il rumore crescente della pioggia sembra una bomba ad orologeria che dilata il tempo e lo carica di tensione.

“Sono a casa,” grida al vestibolo vuoto. Come uno spirito richiamato da un'invocazione, Ikuko si materializza all'ingresso quasi all'istante.

“Shingo, santo cielo, guardati. Ti avevo detto che non era il caso di uscire con questo tempo. Va' subito a cambiarti, prima che ti venga qualcosa.”

Shingo infila le pantofole con un sospiro seccato. “Certo che mi cambio, non c'è bisogno che me lo dica tu.”

“Quando hai finito, per favore, di' a tua sorella che mentre era in bagno ha chiamato un certo Seiya,” c'è una sottile esitazione nella pronuncia del nome: non è affatto familiare; Usagi, d'altronde, ha pochissime conoscenze di sesso maschile e, tra queste, l'unico con cui abbia mai mantenuto un contatto costante è il suo ragazzo, Mamoru Chiba.

Shingo si arrampica sulle scale con il sottofondo di Ikuko che borbotta, nessuno mi ascolta mai, in questa casa, nessuno: un giorno come gli altri, insomma. Decide che, per prima cosa, passerà per la stanza di sua sorella. È un processo familiare, una serie di azioni che si è ritrovato a compiere di frequente all'ora di pranzo o cena, perché magari Usagi è troppo presa dal manga che sta leggendo, o sta ascoltando la radio ad alto volume, ed ecco che, allora, Ikuko sbuffa e poi sorride a Shingo: per favore, la chiameresti tu?, tuttavia, questa volta si verifica un imprevisto. C'è qualcosa di insolito che attira l'attenzione di Shingo, distogliendolo dal solito percorso. È il momento in cui Shingo Tsukino, a soli tredici anni, segna per sempre il suo destino e, in parte, quello della sua famiglia. Lo fa inconsapevolmente, proprio come sua sorella, nonostante sia sempre stato quello sveglio tra loro, quello con più sale in zucca di lei.

Tutto accade nel giro di pochi minuti. L'inizio è semplice, ha l'aria di un'azione innocua: ecco, c'è una stanza che precede quella di Usagi; di solito, questa stanza è chiusa a chiave, vuota, perché riservata agli ospiti che talvolta si fermano a casa Tsukino. È trascorso più di un anno tra l'ultima volta che ciò si è verificato e la riapertura della stanza, appena una settimana fa. L'odore stantio di polvere e umidità persiste sotto il velo del deodorante per ambienti. È proprio questo odore che attira l'attenzione di Shingo, mentre attraversa il corridoio. D'istinto, rivolge il capo in direzione della camera degli ospiti e nota, senza alcuna sorpresa, che la porta è aperta: è molto probabile che il loro ospite, colto forse dalla fretta di allontanarsi, non l'abbia chiusa correttamente, poiché non è spalancata, ma sembra, piuttosto, che si sia riaperta poco a poco, rivelando appena uno spicchio dell'interno della stanza a chi si trova di passaggio nel corridoio. Un frammento di intimità che si svela da sé a chiunque voglia coglierlo.

Le uniche volte in cui, da bambino, Shingo ha cercato di impicciarsi degli affari altrui, il suo bersaglio era stato Usagi: per prenderla in giro o ricattarla (se non fai quello che voglio, lo dico a tutti!) e perché lei era sua sorella maggiore; si era trattato di un'eccezione, crudele, e forse il frutto di un'educazione che gli ha inculcato diritti che non gli appartengono davvero, ma comunque un'eccezione in un ragazzino che, di norma, non nutre alcun interesse per le vite private degli altri; che, in qualsiasi altro momento, si sarebbe voltato, per raggiungere la camera accanto senza pensarci due volte. Il punto è proprio questo: se Shingo fosse passato di lì dieci minuti prima o dieci minuti dopo, molte cose sarebbero state diverse. Il fulcro intorno a cui ruota quel che accade dopo è, in fin dei conti, un oggetto banalissimo, qualcosa che, in un contesto differente, per una persona differente, non avrebbe significato nulla: un pacco.

Gli occhi di Shingo sono catturati da quello che non pare essere altro che un pacco postale, identico in tutto e per tutto a quelli che Usagi ha ricevuto nei mesi antecedenti, dal suo ragazzo in America, e che Shingo stesso ha prelevato dalle mani del postino quando sua sorella era fuori o ancora a letto. Riconosce l'imballaggio, i francobolli e può decifrare il nome del destinatario dalla sua posizione ad un passo dall'ingresso. È un oggetto familiare, che si presenta così come Shingo lo ha sempre visto. Quel che è strano, invece, è la sua collocazione. Perché un pacco indirizzato a sua sorella si trova nella stanza degli ospiti, si chiede con un moto di rabbia. Sente, a pelle, che qualcosa non torna, che si sta verificando qualcosa di profondamente sbagliato, e che deve fare qualcosa a riguardo; allora, varca l'uscio senza alcuna esitazione e afferra lo scatolo imballato: è più grande di un libro e, a caratteri più piccoli, riporta il mittente, Mamoru Chiba, Stati Uniti d'America.

“Che cosa ci fai, qui?”

Shingo sbianca. Ho perso troppo tempo, si ammonisce. Demando lo afferra per un braccio e tira con violenza, costringendolo a girarsi verso di lui. Il pacco cade a terra con un tonfo secco. Demando, Shingo pensa, ha una faccia che non ha mai mostrato alla famiglia Tsukino. Il vero Demando è più vicino ad un mostro delle favole, che ad un essere umano. Fa paura, è spaventoso, ma questo significa che, a maggior ragione, non può permettergli di vincere.

“Lasciami andare subito, o mi metto a gridare!”

“No, non lo farai.”

“Dirò a tutti che stai nascondendo qualcosa: non so cosa tu abbia in mente di preciso, ma so bene che quel pacco è per mia sorella, razza di pervertito!”

Demando sospira. La sua postura si ammorbidisce, pare ritirarsi su se stesso come una molla—come una serpe che si prepara all'attacco—e poi una mano scatta in avanti, le dita avvolgono il collo di Shingo. Premono, premono. Senza pietà. Questo non può essere un essere umano, Shingo dice a se stesso. Questa non può essere la realtà. Vorrebbe disperatamente essere in grado di crederlo.

“Ascoltami bene,” la parole di Demando sono pugnali, freddi e crudeli come la sua presa. “È vero, questo pacco è arrivato stamani, dritto dritto dall'America, solo per Usagi, ma non è opportuno che lo riceva. Il perché è qualcosa che non ti riguarda. Hai avuto la sfortuna di vedere qualcosa che non avresti dovuto, Shingo-kun, mi dispiace. Ora non hai altra scelta che tenerla per te e diventare mio complice... Forse non lo sai, ma mi basterebbe molto poco – una lamentela, le parole giuste – per privare Kenji-san del suo lavoro. E se questo accadesse, cosa ne sarebbe di voi? Mi pare che il mutuo per l'acquisto di questa casa non sia ancora estinto, e lui è la vostra unica fonte di sostentamento. Vuoi davvero gettare la tua famiglia in mezzo ad una strada per—che cosa, esattamente? Un pacco? Un regalino insignificante? No, vero?” Demando stringe la presa, continua a stringere finché Shingo non scuote la testa, spaurito ed angosciato. “Bene. Adesso ti lascerò andare. Mi raccomando: non una parola a nessuno, o lo saprò, stanne certo.”

Uno, due, tre. Tre lunghissimi secondi. Poi, Shingo può di nuovo respirare. L'aria gli brucia in gola e nel naso. Lo fa tossire con una veemenza che gli riempie gli occhi di lacrime.

“Faresti meglio ad andartene in fretta, ma ricorda, Shingo-kun: io voglio solo il bene di Usagi, quindi non pensare troppo male di me, okay?”

Shingo lo fissa con gli occhi spalancati dal terrore. Questo non è un essere umano, dicono. Corre via, incespicando, fino alla fine del corridoio, dov'è ubicata camera sua. Demando sente la porta che sbatte, si chiude, con un frastuono assordante. Sorride. Non ci saranno intoppi.

Può finalmente fare la prima mossa.
   
 
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