Irrequieti
e irrazionali siamo noi
Tlink
tlink tlink tlink
Sapevo che dovevo far
aggiustare il rubinetto o, in ogni caso,
l’avrei dovuto aggiustare io stessa, ma in quel momento
volevo solo riposare
dopo una giornata del genere.
Tic
tac tic tac tic tac
Lorenzo ed io non
avevamo davvero niente da fare che
appendere almeno un orologio a muro in ogni stanza.
Povera me! Proprio
quella sera dovevo stare attenta a quei
suoni che mi impedivano di riposare?
Vroooooooooon
E proprio quella notte
uno squilibrato doveva passare con la
sua belva rampante difronte casa mia? Gliel’avrei sfracellata
ben volentieri in
testa quella moto da quattro soldi.
Vroooooooooon
Un altro, o lo stesso?
Frush
frush
Mi girai sul fianco
sinistro nella speranza di addormentarmi.
Tlink
Non potevo crederci.
Tlink
tlink
Aveva ricominciato di
nuovo.
Tlink
Forse era
l’ultimo.
Tic
tac tic tac
Quella sera ero troppo
ipersensibile e frustrata.
Tlink
tlink tlink tlink tlink tlink
No!
Per carità …
Tlink
tlink tlink tlink tlink tlink
Basta!
Sfrush
Mi alzai dal letto e
mi diressi a i piedi nudi con passo
svelto e pesante verso il bagno. Abbassai la maniglia ed aprii la
porta, tirai
una manata sull’interruttore alla mia destra e la luce si
accese con un
lampeggio istantaneo ed elettrico. Quel minuscolo fulmine si disperse
nella
parure e poi tutto l’ambiente s’illuminò
all’istante. Lì sulla sinistra, la
goccia minacciava di cadere e produrre nuovo suono. No, rumore
irritante. Un colpo
secco sul rubinetto d’acciaio sarebbe dovuto bastare per
quella sera e così
feci. Un gesto secco, deciso e sordo, ma non fu sordo il riverbero di
quella
goccia che cadde vendicativa nel fondo del lavandino.
Ero così
irritata da tutto, da tutti, però il sollievo si
fece avanti e sospirai vittoriosa.
Tornai in camera
chiudendo tutte le porte dietro di me e con
un tonfo secco mi buttai a peso morto sul letto.
Tonfh
Mi posizionai a pancia
in giù e lasciai che Morfeo mi
trascinasse nei meandri del suo regno. Chiusi quasi del tutto gli occhi
e
rilassai tutti i muscoli.
Pace. Finalmente pace.
Tic
tac tic tac
Quel maledetto
orologio in vetro di Murano e quarzo viola! I
nervi mi saltarono letteralmente e la lampada sul comodino
centrò l’orologio in
pieno.
Crash
I vetri schizzarono su
tutto il pavimento, l’indomani li
avrei raccolti. Finalmente riposo. Calma, pace, sollievo ed aria fresca
che
filtrava dalla zanzariera del balcone spalancato.
Crah
crah crah
-Maledettissime
cicale!- urlai spazientita.
Era impossibile
dormire, tanto valeva alzarsi.
E dopo aver ripulito
tutto, ricomposto il letto e riparato
in modo egregio il rubinetto, nessuno poteva azzardarsi a privarmi
della mia
buona tazza di caffè mattutino. Sapevo di dover affrontare
una giornata
decisamente “no” di conseguenza avevo
disperatamente bisogno di una buona dose
di energia e sfrontatezza. Quindi mi appoggiai all’isola di
marmo della cucina
e sorseggiai dalla tazzina il liquido rincuorante, proprio mentre due
avvenenti
uomini, seppur teste quadre, mi passarono davanti.
Quasi sputai la
bevanda ricca di caffeina ritrovandomeli lì
davanti, ma mi trattenni sperando che non avessero notato la mia
espressione
inebetita. Sospirai poi e lanciai sbuffando la tazzina di ceramica
nella
vaschetta piena d’acqua del lavabo, ricordandomi di essere
incavolata con
quelle due zucche vuote che stavano facendo dietro front. A dirla tutta
erano
un po’ buffi: sembravano usciti da una gag televisiva con la
loro camminata simultanea
all’indietro.
Malauguratamente per
me, si accorsero che li fissavo
interessata.
Seppur diversi nel
carattere e nel modo di fare avevano più
o meno la stessa fisionomia: entrambi alti più di me, Ettore
leggermente più di
Lorenzo; entrambi muscolosi, Ettore forse troppo eccessivo per i miei
gusti;
entrambi con le spalle larghe; entrambi possedevano il giusto
quantitativo di
quel qualcosa che mi costringeva a mordermi inconsciamente il labbro e
a fare
pensieri impuri sui loro splendidi corpi da Bronzi di Riace.
Mi sentivo una
quattordicenne che non si sapeva controllare,
né in pensieri né in azioni. Era imbarazzante per
me che ne avevo quasi 19 di
anni e che comunque ne avevo passate di cotte e di crude in amore.
-Non vi avevo
confinato nella dependance?- chiesi acida
ricordando ai due di averli sbattuti fuori casa.
Erano imbambolati,
infatti scossero un po’ la testa prima di
inserire la spina del cervello nell’apposita presa per il
timore di dire
qualcosa che gli sarebbe ritorto contro.
Ripercorrendo i loro
sguardi, vidi Lorenzo fissarmi le dita
della mano che avevo poggiato sulle labbra e poi scese insolitamente
sul mio
addome, Ettore invece mi fissava le gambe nude per poi risalire sui
miei seni
con occhi famelici. D’altro canto non potevo neanche dargli
torto: una semplice
canotta grigia in pizzo tirata fin sotto i glutei non era la miglior
mise con
cui presentarsi. Ma non ero neanche tenuta a coprirmi, ero in casa mia
e loro
l’avevano appena invasa senza il mio permesso.
-Eravamo
venuti a
prendere le chiavi.- rispose semplicemente atono Lorenzo. Era un po'
infastidito, ma non capivo da cosa. In ogni caso sapevo che si riferiva
a quel
finto mazzo di chiavi che usavamo per nascondere la vera
accessibilità alla
base segreta, anche ai nostri stessi agenti.
-Scusa
ma te lo
devo chiedere. Tu giri sempre così in casa?
Perché penso che non lo sopporterei.-
improvvisamente proruppe Ettore con la sua contraddistinta calma
irrazionale,
che però mal celava il suo interesse e la sua irritazione al
tempo stesso.
Quasi
come se fosse
stato il mio fidanzato, dimostrò fin da subito di essere di
una gelosia
alquanto sgradevole. E io volli prendermi una piccola rivincita. Quindi
saltai
a sedere con eleganza sull'isola di marmo rosso cremisi ed accavallai
sinuosamente le gambe tenendo la schiena dritta e facendo risaltare il
seno. A volte
dimostravo di essere capace di una stronzaggine fuori dal comune e
ciò poteva
aiutarmi come mettermi nei guai.
-In
effetti no-
risposi e lui sospirò portandosi platealmente una mano a
sorreggersi il petto
possente -Di solito sto in intimo, ma oggi fa freddino...- finii con
una vocina
che voleva mostrarsi invitante e sensuale.
Ettore
divenne
rosso in volto assumendo un’espressione sbigottita, Lorenzo
rise a crepapelle
ed io sorrisi soddisfatta.
-Non
te la
prendere, collega, scoprirai che è quasi impossibile
lavorare con lei e al
contempo mantenere la lucidità.- disse
Lorenzo,
con una naturalezza posseduta solo da chi mi conosceva bene e misurava
accuratamente
le parole, tirandogli una pacca amichevole sul braccio, prima ancora
che Ettore
dicesse qualcosa di compromettente per la sua incolumità.
-E
allora come
dovrei fare?- chiese tra l’amareggiato e l’arreso.
-Semplice!
Fai
esattamente quello che ti dice e sopravvivrai.-
-Ma
tu sei il
capo!- disse confuso Ettore.
-Lei
lo è in mia
assenza e sul campo è l’unica a cui far
riferimento. Lei è il mio capo se è
necessario.- rispose Lorenzo fissandolo negli occhi a mo' di sfida.
-E
se mi dice di
buttarmi da un ponte, che faccio?- proruppe gesticolando il riccio
preoccupato.
-Prima
saluti il
capo e poi ti butti.- chiuse secco Lorenzo, altero ma con un tono di
voce
piatto, indicandomi col capo e riscuotendo una faccia incredula e
leggermente
preoccupata da parte del nuovo collega.
Io
in tutto ciò
mi crogiolavo osservano la loro piccola chiacchierata senza senso,
almeno per
me. Il nostro lavoro era semplice: esegui gli ordini alla lettera o
verrai
eliminato dalle circostanze. Non c’era neanche da chiedersi
cosa fare perché
fermo non potevi stare un secondo che un nuovo ordine ti raggiungeva e
ti
costringeva ad agire. Non avevamo seriamente il tempo necessario a
pensare. Fu allora
che ebbi seriamente paura di trovarmi a lavorare con un disgraziato,
rintronato, inebetito, che non sapeva muoversi, o ancora peggio con un
novellino.
-Ora
andiamo-
disse autoritario Lorenzo, poi più dolce verso di me:
-Preparati, c'è bisogno
di te-
Annuii
semplicemente di rimando.
Mi
velocizzai e
indossai un paio di fuseaux grigi, un paio di shorts in jeans, una
canotta blu,
una giacca top crop in denim e delle Superga blu notte, dirigendomi poi
verso
la nicchia nascosta dietro la villetta. Ad aspettarmi lì
c'era ancora Lorenzo.
-Ettore
è già
dentro?-
-Sì-
poi rispose
alla mia domanda inespressa -L'ho bendato secondo le procedure.
Tranquilla, non
ha visto niente-
Attimo
di pausa e silenzio involontario
Sapeva
che ero
arrabbiata e innervosita per lo sghembo della sera prima e mi
stuzzicò: -Ora è
seduto sotto e chiede insistentemente di te e…- facendo una
breve paura -…di
noi ai nostri colleghi.-
Sorrisi
pensando
che era uno stolto e che i nostri colleghi non gli avrebbero risposto,
semplicemente perché non volevano sapere e gli conveniva se
non volevano andare
incontro alle conseguenze, ma rinfacciai comunque la colpa a Lorenzo
arrabbiata
dal suo comportamento.
-Non
dovevi farlo!-
-Cosa?-
Sapeva
benissimo
cosa intendevo, ma non sapevo se rispose così per farmi
arrabbiare o per non
arrivare alla guerra. Non lo sopportavo quando si comportava da
completo deficiente.
Quindi,
senza
rispondergli, poggiai la mano sul pannello che mi avrebbe scannerizzato
la
frattura dell'osso del polso destro e quella della spalla sinistra;
Lorenzo
fece altrettanto con il suo piede destro e con le costole alla base dei
pettorali. Tempo addietro eravamo stati vittime di un banale incidente
stradale
che fece ribaltare la Jaguar che Lorenzo possedeva prima della X-type
ed
entrambi ci eravamo procurati delle singolari fratture ossee. Da qui
l'idea di
autentificazione personale dell'accesso alla base, poiché
ogni frattura è sempre
diversa da qualunque altra. Poi un congegno analizzava la cornea dei
nostri
occhi ed un altro che non avessimo dei congegni localizzativi addosso.
Per
sicurezza tutti i nostri agenti erano analizzati da quest'ultimo prima
di
entrare. Inserimmo i codici ciclici che cambiavano ogni tre ore e le
porte
dell'ascensore sotterraneo si aprirono in corrispondenza della finta
fessura
nell’arcata.
-Non
era mia
intenzione trattarti come ho fatto ieri. Volevo solo renderti felice.-
confessò
una volta che le porte dell'ascensore all’interno della
roccia si chiusero
dietro le nostre spalle. C'era del dispiacere nella sua voce.
Ciò mi confermava
che diceva il vero.
-Rendermi
felice?- chiesi realmente incredula.
In
realtà
ultimamente riusciva solo a farmi arrabbiare, senza contare i nostri
sentimenti
già sfumati che tanto ci allontanavano. Avrei voluto tornare
indietro e cercare
di rattoppare tutto, eppure non era così facile.
-Hai
scelto il
modo più sbagliato per farlo.- Ero troppo dura. In fondo era
colpa mia se tutto
era diventato così complicato e senza senso, era colpa mia
se non l’amavo più.
-Non
voglio più
vederti devastata come allora. È troppo per me. E se per
essere felice hai
bisogno di qualcuno che non sia io… va bene.-
Era
naturale che
se ne sarebbe accorto anche lui, ma avere pensieri del genere
significava
essere affetti da pazzia. Non avrei mai scelto un altro al suo posto,
non
immediatamente almeno e con così tanta freddezza, sarebbe
stato difficile
persino per me ricominciare. Era giusto che gli dicessi la
verità, non potevo più
nascondermi.
-Lorenzo,
io non
ti amo più e tu lo sai.- era come rincarare una dose
già fin troppo amara e
piena di dolore -Ma non ho bisogno di un Ettore per essere felice. Ho
bisogno
di ritrovare me stessa e capire cosa provo per te.-
-Che
intendi dire?-
mi chiese un po' spaesato.
In
effetti non
sono mai stata un granché con i discorsi, così
cercai di riformulare i miei
pensieri al meglio che potevo: -Tra noi...-
-Non
potrà mai più
funzionare- mi precedette irritandomi alquanto. Odiavo quando
m’interrompeva,
infatti era una delle rare cose che non sopportavo di lui.
-No!-
presi un
respiro e continuai -Tra noi c'è una fisica che non ho mai
avuto con nessuno,
figuriamoci la chimica. Solo con te ho quell'intesa così
forte. Il problema è
che non riesco a capire come tutto sia scemato proprio quando stavamo
meglio.- e mi
congratulavo tra me e me per essere
stata chiara per una volta negli ultimi tempi, dovevo solo specificare
ciò che
realmente era -Io penso che...-
Inaspettatamente
le porte si aprirono, in una frazione di secondo mi guardai i piedi
imbarazzata
e inconsciamente, come se una forza maggiore mi spingesse, uscii fuori
dall'ascensore, lasciando così Lorenzo interdetto.
-Tu
pensi che
cosa?- la sua voce mi riecheggiò dietro, ma io continuavo a
camminare verso l’interno
dell’ambiente color grigio e blu scuro.
Ancora,
di nuovo,
un'altra volta. Me lo chiese più e più volte nei
corridoi prima di arrivare
nella zona pullulante di agenti. Allora, infervorata dallo stress e
dall’angoscia, mi girai di scatto un po' indispettita e lo
puntai arrabbiata.
-Penso
che
dobbiamo lavorare. Ora!-
Odioso
senso di vomito e dolore al petto
Che
stupida che ero.
Solo capace a combinare guai.
Helda, la receptionist
che avevamo assunto praticandole
pericolosamente la cancellazione della memoria, era lì che
ci fissò apparentemente
imbambolata non appena fummo nel suo campo visivo.
Mi dispiaceva per lei
al pensiero che il suo cervello ormai
riusciva a registrare solo e soltanto dati che noi le inculcavamo. In
effetti
si trattava di un esperimento umano, una cavia da laboratorio, trovata
troppo
tardi durante una delle mie prime missioni e, dispiaciuti di come il
governo
avrebbe trattato il suo corpo dopo averla definitivamente uccisa,
decidemmo di
integrarla nell’Organizzazione in modo utile.
All’inizio, pur trovandosi in
condizioni pietose, l’unico intoppo era la reminiscenza dei
nostri affari
segreti, così inconsciamente li spifferava al resto del
mondo una volta
ritornata alla vita quotidiana fuori dall’Organizzazione,
così fummo costretti
a “riprogrammarla”, non avendo più
filtri che la rendessero in grado di
scindere le varie situazioni, rendendola così una specie di
memoria vivente che
ci ricordava repentinamente ciò di cui avevamo bisogno.
Ogni tanto mi chiedevo
se noi fummo più malvagi del governo
stesso a toglierle definitivamente ogni azione cognitiva e a renderla
una
semplice banca dati. Forse avremmo dovuto essere più
magnanimi e toglierle la
vita lasciandole ancora la sua dignità. Eppure
più mi scervellavo
sull’argomento e più mi ripetevo che non eravamo
Dio e che non potevamo
decidere della vita altrui, ma allo stesso tempo ridevo di questo
pensiero, di
fatto il nostro lavoro era togliere vite scomode.
-Buongiorno capo.
Buongiorno agente A.- ci salutò rigida nel
corpo come suo solito, sbattendo ripetutamente e costantemente le
ciglia
bionde, folte e lunghe.
Ingoiai a vuoto, un
po’ per rabbia un po’ perché il senso di
ingiustizia si faceva largo tra mille altri miei pensieri, e la salutai
più
gentilmente possibile. Era una specie di robot ormai, nonostante un
tempo fu
umana esattamente come noi.
Osservare queste cose
senza poter cambiare neanche un
dettaglio era uno dei pochissimi aspetti che non mi piacevano del mio
mestiere;
in realtà non lo sopportavo, ma poi pensavo alle conseguenze
e mi ricredevo.
-‘Giorno
Helda- rispose calmo e distaccato Lorenzo -Ci
ricordi i nostri impegni di oggi, per favore?-
Quella, prima di
rispondere con “Certo capo!”, inclinò
leggermente la testa di lato scattando, segno che stava elaborando la
semplice
richiesta di Lorenzo. Attendemmo qualche istante poi parlò
meccanicamente come
un vero automa.
-Nel giorno odierno il
capo e la vice hanno in programma i
seguenti impegni: ore 07:30 riunione di assembramento squadra e
presentazione
missioni, ore 08:00 allenamento in palestra O, ore 13:30 partenza
missione e
ritorno previsto per le 18:30, ore 22:30 Gran Galà
organizzato dalla Signora
Anna Augusto. Per ulteriori informazioni rivolgere domande specifiche.-
Finì con lo
sbattere di nuovo le palpebre più volte, tirando
il viso nel tentativo di assumere un sorriso convincente e
riposizionando il
capo da quel mezzo centimetro che l’aveva spostato. Qualche
volta pensando a
lei era inevitabile che mi scendesse una lacrima, ma poi ricordavo che
era
proprio lei ad avermi detto grazie per avergli dato nuova vita. A quale
prezzo,
però!
Mentre ricordava a
Lorenzo i nostri impegni, io mi ero
diretta verso la piccola zona ristoro della base ed avevo afferrato
giusto in
tempo l’ultimo plum-cake alla pesca, il preferito di Helda,
dalle grinfie di
Giacomo, il quale mi guardò di tralice ma riconoscendomi un
istante dopo mi
chiese subito scusa. Quando Helda ebbe finito di declamare
l’intero programma mi
sorrise amabile e grata vedendosi comparire davanti a sé la
colazione con un
succo all’ananas; io semplicemente le sorrisi di rimando.
-Grazie Helda, ci
aggiorniamo dopo.- dissi prendendo
sottobraccio Lorenzo e trascinandolo velocemente in sala riunioni.
-Mi spieghi
perché con Helda ti comporti così fredda, come se
non avessi tempo da sprecare con una come lei?-
Ci rimasi un
po’ male alle sue parole. Dopo anni passati
insieme avrebbe dovuto essere colui che mi conosceva meglio di chiunque
altro,
invece sembrava aver dimenticato tutto di me, come se non gli
importasse più
niente.
Portai un dito sulle
labbra e gli feci cenno di far silenzio,
osservando senza essere visti la scena nella quale Helda afferrava
furtivamente
il dolce e lo mangiava aggraziata e con gran gusto. Ciò mi
faceva decisamente
stare meglio.
-Alle volte
dimentichiamo quanto lei sia più umana di noi.
Si nota subito che non vuole perdere la poca dignità che le
è rimasta e
lasciarla in pace nei pochi momenti d’intimità che
ha con se stessa è la cosa
migliore che possiamo fare per ringraziarla del sacrificio che ha fatto
per noi.-
Rimase in silenzio,
fissandomi tra il sorpreso e
l’ammirevole. E quando faceva così la nostalgia di
riavere quello che avevamo
perso prendeva il sopravvento, come il nostro rapporto che andava ben
oltre
l’intesa reciproca e l’affiatamento invidiato dagli
stessi Bonnie e Clyde.
-Ania-
sussurrò, mentre gli altri agenti ci passavano
accanto fingendo di non osservare scrupolosamente le due figure
appoggiate
dietro la porta della sala riunioni, così vicine da essere
ambigue, che eravamo
noi -Non credevo che Helda… e poi tu…-
continuò un po’ impressionato dalla
situazione ma pur sempre convinto -Mi dispiace di tutto, anche per ieri
sera.
Potrai mai perdonarmi, anche per ciò che non sono
più in grado di comprendere?-
chiese poi con un tono che non riuscì a mascherare la sua
desolazione nel
vedermi ormai lontana da lui.
-Vedremo. Intanto
concentriamoci su queste teste quadre da
dirigere.- dissi indicando tutti gli agenti riuniti, ora per la maggior
parte
seduti nella grande e asettica sala bianca.
Col passare del tempo
i nostri agenti si erano abituati al
nostro girovagare tra loro, per carpire dettagli che ci sarebbero
potuti essere
d’aiuto in varie situazioni. Per comunicare i dettagli delle
missioni
quotidiane e schemi annessi sfruttavamo la parete scura verso cui le
sedie
erano posizionate potendo permetterci massima libertà di
movimento, difficile in
caso di presenza di mobilio ingombrante.
Tutti i nostri agenti
si erano accomodati sulle sedie, anche
Ettore lo fece ed io mi posizionai dietro le sue spalle per poterlo
osservare
meglio. Dalla folta chioma riccia e scura notavo a malapena il naso, ma
mi
erano ben visibili le mani grandi e forti intrecciate sulle gambe
divaricate,
segno di spavalderia e agio nel trovarsi in un posto simile o,
contrariamente a
quel che si poteva pensare, tentava semplicemente di dimostrarsi sicuro
di sé.
Solo un gruppo di
cinque sconosciuti era in piedi, contro la
parete opposta alla porta. Indossavano abiti scuri corazzati, come se
fossero
perennemente pronti alla battaglia in una guerra di trincea, bastava
semplicemente che qualcuno gliel’ordinasse. Tutti alti, tutti
muscolosi, tutti uomini…
tutti con l’aria stupida di chi esegue ordini come automi.
Lorenzo, dopo un mio
cenno di consenso, poggiò la mano sulla
parete scura in cui riuscivamo tranquillamente a rifletterci, anche
quando i
dati della missione cominciarono ad apparire sulla superfice come ombre
di schemi
e diagrammi luminosi, e cominciò a parlare.
-La missione di oggi
è strettamente collegata a quella
compiuta nella tarda notte di ieri dall’agente A e dal nostro
nuovo acquisto,
Ettore Mancini, la quale prevedeva la commissione
dell’assassinio di Giovanni
Berletta. Come voi tutti sapete quest’ultimo è il
cognato del capo al vertice
dell’Organizzazione di Soleil, l’unica ad essere
stata capace della scoperta
dell’Organizzazione, cercando anche di sabotarla.-
Mentre Lorenzo
parlava, io guardavo verso il basso, sullo
schienale dove ero poggiata con le braccia, su Ettore che si volse a
guardarmi
incantato non appena si menzionò la missione compiuta
insieme solo poche ore
prima. Aveva l’aria di uno che si era preso una sbandata
ossessiva per un
oggetto del desiderio che mai gli sarebbe appartenuto. Era un
sentimento non
corrisposto.
Ridestandomi dalla sua
presa magnetica e distogliendo lo
sguardo dai suoi occhi crudelmente verde prato, riconobbi
l’ubriacone ucciso la
notte prima che non era affatto un piccolo bersaglio bensì
era un piccolo pezzo
di un ben più grande puzzle. Il problema, ora, era far
combaciare lentamente
ogni pezzo senza che nessuno di essi avanzasse pericolosamente verso il
giocatore.
Fissavo l’immagine del poco sangue sgorgante dal cadavere
riversa sulla parete
difronte a me, pensando a come ce la saremmo cavata senza troppi
intoppi anche
questa volta e scioccamente sperando in un’operazione veloce.
-Uccidendo lui avete
allarmato i capi
dell’OS, in quanto cognato del vertice.-
s’intromise uno dei cinque uomini appoggiati
alla parete, non tanto preoccupato quanto appagato di un nostro
ipotetico passo
falso.
-Ed il nostro compito
è quello di sbarazzarcene, giusto?-
aggiunse improvvisamente Ettore, la cui presenza si era già
eclissata alla mia
visuale anche se ero posizionata proprio sopra di lui. Fui in dubbio
sul suo
intervento poiché non seppi mai se lo fece per essere notato
o per smorzare
quell’aria agonistica, che già era venuta a
crearsi con la battuta ispida di
poco prima da parte dei nuovi ospiti.
Tutti cominciarono a
guardarli di tralice. Sia Ettore che i
cinque non erano visti di buon occhio in assenza di dati sul loro
conto, se
cominciavano con affermazioni banali che conoscevamo già,
oltre ad assumere un
tono altezzoso e pretenzioso, non avrebbero fatto poi molta strada. Di
fatti un
brusio di voci indispettite si alzò nell’aria.
-Dimenticavo: per
questa missione il governo ha ritenuto
opportuno fornirci una squadra tattica pensando che avessimo bisogno di
aiuto.-
proruppe Lorenzo, senza alterarsi a causa della loro superbia,
indicando col
capo gli unici cinque uomini poggiati alla parete, i quali ci
osservavano sprezzanti.
Ridicolo
I nostri agenti,
abituati ad essere efficienti in tutto sebbene
fossero in numero esiguo, li guardarono di sottecchi con
un’aria altezzosa, la
quale personalmente non mi aggradava ma feci finta di non vedere, e un
versaccio all’unisono si fece largo tra il silenzio generale.
Guardai in
cagnesco nella parete scura, difronte ai miei colleghi e non appena mi
videro
s’irrigidirono stizziti sulle sedie e tacquero. Sapevano bene
che quegli
atteggiamenti non erano concessi nell’Organizzazione e se
volevano schernire i
nuovi arrivati dovevano batterli sul campo di battaglia, non con
versacci e
occhiatacce. Dovevano dimostrare di essere migliori anche nel
comportamento.
In ogni caso, chi si
credevano di essere? Mi irritavano. Erano
nostri ospiti e lì nessuna giurisdizione era valida se non
la nostra. Casa
nostra, regole nostre.
-Siete nostri ospiti,
comportatevi da tali.- li rimbeccai
acida, dopo aver messo in riga i miei agenti.
Vidi i più
ardui da tenere a bada tra i nostri agenti molto
alteri, pieni di collera riversa negli occhi, ma fortunatamente si
ricomposero
sapendo che non era il miglior modo per reagire. Ettore in tutto
ciò mi
guardava stranito e confuso; simile al suo atteggiamento era quello dei
cinque
tizi irriverenti alla mia destra, in più mal celavano la
sorpresa che avevano difronte
al potere di una donna in un luogo simile. Mi voltai poi verso Lorenzo,
il
quale mi fece un cenno del capo e ricominciò a parlare della
missione,
comprendendo il mio sguardo. Dopo un po’
l’attenzione su di me scemò e si
focalizzò su Lorenzo.
Non mi piaceva quella
situazione: cinque tizi sconosciuti da
tenere a bada e un uomo morboso che, se ne avesse avuto la
possibilità, mi
avrebbe spogliata lì davanti a tutti. Come uscirne fuori
senza che nessuno se
ne accorgesse?
Cercavo e ricercavo
una soluzione nella mia mente non poi
così tanto lucida, tenendo il capo chino con lo sguardo
rivolto a terra, tra lo
schienale della sedia e le mie Superga, senza ascoltare le direttive
del capo.
Ad un tratto però il mio nome pronunciato insieme a quello
di Ettore mi fece
destare dalla trans in cui ero precipitata ed inesorabilmente sopita.
Lorenzo stava formando
le squadre per la missione odierna:
-I cinque agenti mandati dal governo saranno la squadra tre. Gli agenti
Mena, Giagià,
Peppe e CK saranno la due. La new entry Ettore, l’agente A e
le agenti Silen*
saranno la uno. Ogni squadra avrà un obbiettivo a
sé stante, ma sarà sotto gli
ordini diretti dell’agente A.-
Che diamine stava
combinando Lorenzo? Non gli bastava l’appuntamento
combinato con Ettore la sera prima e l’avermi umiliata
rifilandomi quel figo
opprimente? Ora doveva pure aggravare le cose mettendomi in squadra con
lui!
Eppure pochi minuti prima sembrava aver capito il suo errore e
ciò che non
andava nel nostro rapporto sentimentale come in quello lavorativo.
Lo guardai in cagnesco
e lui capì benissimo che gliel’avrei
fatta pagare, anche questa.
-E per rispondere alla
domanda precedente della new entry. Non
ce ne sbarazzeremo affatto. Abbiamo bisogno che siano tutti vivi.-
Era ufficiale: Lorenzo
aveva perso il senno.
Aveva lasciato
perplessi tutti i presenti, infatti di solito
il comando era di sbarazzarsi di qualunque bersaglio che si frapponesse
tra noi
e l’ottima riuscita della missione. Ma prima che qualcuno
potesse ribattere le
sue decisioni spalancai un’anta della porta
dell’asettica sala riunioni con un
gesto fluido del polso, richiamando tutti all’attenzione.
-La partenza
è stabilita per le 13:30, fino ad allora siete
liberi. Chi invece vuole può allenarsi con noi nella
palestra O.- dissi secca e
decisa facendo alzare i lati B dalle sedie per sloggiare dalla sala.
Sulla porta sostavamo
solo Lorenzo ed io, aspettando
l’uscita di tutti per chiudere lo schermo-parete, quando il
gruppo mandato dal
governo ci oltrepassò e sentimmo una chiara frase di
disprezzo.
Scatto
nervoso, occhi pieni di sangue
In una frazione di
secondo non ci vidi più, tutta la rabbia
repressa scaturita da Ettore, Lorenzo e la strafottenza di quel gruppo
si
riversò sul malcapitato che pronunciò
quell’ispida frase. Lo afferrai dal collo
e lo trascinai fuori dalla sala sotto gli occhi di tutti, sembrava un
fuscello tra
le mie mani tanto che lo sentivo leggero, e lo scagliai contro il
tavolo dove
ancora qualche brioche sopravvissuta cadde a terra. La sua fronte
andò a
cozzare proprio contro lo spigolo in vetro, poi lo raggiunsi con uno
scatto
felino e lo sollevai da terra tirandolo per il colletto della tuta
mimetica.
Era ancora frastornato dalla botta.
La spavalderia di poco
prima era completamente scomparsa, al
suo posto era apparsa paura spropositata riflessa nei miei occhi
cangianti e
atroci. Il resto del gruppo degli sconosciuti era bloccato da chi mi
conosceva
bene, a tal punto da sapere che venirmi incontro non sarebbe stata una
buona
idea.
Sapevo quello che ero
e non me ne vergognavo, anzi lo
sfruttavo a mio vantaggio.
Non seppi come, ma
l’uomo riuscì ad afferrarmi le braccia e
a tirarmi verso il basso in un disperato tentativo di scambiare le
parti e
sovrastarmi. Sciocco da parte sua. Voltai le braccia
all’infuori, con una
semplice mossa girata poi verso l’interno avevo
già afferrato il suo costato
sinistro e la sua gola dal lato destro. Mi facevano alterare i tipi
come lui. Immobilizzai
il suo corpo contro la parete più vicina e lo strattonai
verso l’alto. Sembrava
gracile tra le mie mani. Stringere sempre di più la presa
sulla sua carne,
sotto gli occhi straniti dei presenti, e le sue urla che si propagavano
per
tutta l’aria mi inebriavano di un senso di potere misto ad
una gracile e fin troppo
facile vittoria che a malapena mi appagava.
Vedevo le vene
pulsanti del suo collo in cerca d’ossigeno,
la testa convulsa riversa all’indietro, la presa flebile ed
esasperata delle
sue mani sulle mie braccia, i piedi debolmente scalcianti
nell’aria e sentivo l’adrenalina
che saliva veloce dal basso ventre fino su al cervello insieme
all’ossigeno.
L’insieme di tutte queste sensazioni era così
necessario… soddisfavano in me il
disperato sentimento del bisogno, che in realtà era
diventata una vera e propria
urgenza.
Improvvisamente
però cominciai a percepire i calci, gli
spintoni e gli affanni dei suoi compagni, che cercavano di liberarsi
dai miei
colleghi per poterlo aiutare. Sì, dovevo riconoscerlo: il
loro spirito di
fratellanza era ammirevole.
Mi ripresi, come se
fossi ricaduta in un’altra trans, ma
diversa da quella precedente, e mi fermai prima di superare il limite
oltre cui
non mi sarei più arrestata. Respirai a pieni polmoni e
lentamente, tentando di
non recargli ulteriore dolore, lo depositai a terra, porgendogli poi
una
bottiglia d’acqua afferrata dal tavolo.
Mi avvicinai a lui e
sibilai a denti stretti: -Ringrazia i
tuoi compagni che mi hanno fermata, ora non sentiresti
l’acqua che scorre nel
tuo esofago.-
Voltandomi vidi gli
occhi allibiti dei suoi compagni e i
miei colleghi che migravano tranquilli verso le loro mansioni, ormai
non più
preoccupati di dover intervenire. Ettore invece, immobile nella sua
posizione, possedeva
uno sguardo indecifrabile, stranito e terrificato allo stesso tempo, ma
giurai
di aver intravisto una scintilla di piacere misto ad approvazione.
I quattro rimasti del
governo si avvicinarono ed uno di loro
tentò di aggredirmi. Io mi scansai indietro, evitando di far
nascere una zuffa
inutile, mentre Ettore e Lorenzo afferravano il tizio dalle spalle
trattenendolo.
-Chi ti credi di
essere?- gridò un altro.
Sorridemmo, Lorenzo ed
io.
-Ti
maciullerò sotto i mei colpi, stronza bastarda!- un
altro ancora.
Scoppiai a ridere
nevroticamente, non per ironia o divertimento,
ma per frenare la mia voglia di spaccargli le ossa. L’ira
cresceva in me.
Bastarda? Nessuno, a parte pochi, sapevano la realtà. Chi
ero? Chi ero io? Io
ero il vero capo. Io ero sopra il governo in quel posto e mi faceva un
baffo la
giurisdizione di esso. Gli ero così preziosa che aveva
mandato cinque dei suoi
migliori uomini ad aiutarci. Avrei potuto fare qualunque cosa, anche
sbatterli
tutti fuori, e il governo non avrebbe fiatato. A pensarci convenni che
l’idea
non mi dispiacque, ma poi incrociai lo sguardo quasi disperato di
Lorenzo contro
il mio, beffardo e vendicativo, il quale mi dissuadeva dal farlo. Era
riuscito
di nuovo a capirmi e solo e soltanto per questo non lo feci. Avrebbero
dovuto
ringraziarlo.
-Chi sono...- dissi
flebile ma con tono fermo, voltandomi verso
la mia vittima di poco prima che si teneva a malapena in piedi e poi
verso il
gruppo -Helda, cancella dal database quest’individuo e
rispediscilo a casa.-
Helda
obbedì all’istante, infatti vidi i suoi occhi
cambiare
colore e scrive a mano, con una calligrafia da stampa, il documento che
avrebbe
rinviato al mittente il mio debole avversario.
A
quell’ordine il gruppo dei cinque impallidì e con
loro
anche Ettore. Cercarono comunque di contrastarmi ma li fermai sul
nascere
sorridendo: -Oh, il vostro amico è stato fortunatissimo.
Preoccupatevi per voi,
mia carne da macello!-
Un sorriso sghembo a
trentadue denti aleggiava sul mio viso,
qualche ciocca mi era caduta davanti ondeggiando cupa e il mio passo
era lento
e inesorabile. Smarrimento, shock, paura, si leggeva sui loro volti
mentre io
uscivo da quel luogo per loro nefando.
Sospirai e regolai il
respiro accasciandomi contro un albero
del giardino, lontano dall’entrata della base. Tirai un pugno
alla corteccia e
mi morsi un labbro fino a farlo sanguinare all’interno. Mi
odiavo per
l’alter-ego che avevo sviluppato in quegli anni. Non ero io,
ma ero me e mi
servivo. Ormai esistevano più me, immagini distorte
dell’io che non si faceva
quasi più vedere. Se era fortunato, in qualche rara
occasione, solo Lorenzo riusciva
a vedere qualche frammento di quella che ero un tempo. In ogni caso mi
ero
arresa a me stessa.
Nascosta alla vista
degli altri, tiravo ciuffetti d’erba
verde mal capitati direttamente dal terreno avvolgendoli intorno alle
dita e
inalavo la fresca aria intrisa della tarda primavera alle porte
dell’estate.
Io, una persona ormai psichicamente andata a farsi benedire, chiusa e
taciturna
un tempo, aggressiva e inconsciamente irrazionale adesso, cercava di
trovare un
equilibrio ormai perso da tempo immemore.
Alla fine mi
addormentai appoggiata al tronco dell’albero,
rannicchiata su me stessa, con le gambe tirate a me. Mi svegliai solo
una
ventina di minuti dopo, a giudicare dall’ombra, quando
qualcuno mi accarezzò i
capelli. Aprii gli occhi e inspiegabilmente sperai che fosse Lorenzo.
Era Ettore
accovacciato accanto a me con l’elastico in mano
ed i miei capelli sciolti tra le dita.
-Ce li avevi tutti
arruffati, volevo rifarti la coda ma…- si
scusò vedendo il mio sguardo in procinto di accusarlo.
-Grazie- dissi
cercando di essere gentile e pacata,
riuscendoci e sfilando l’elastico dalle sue dita per
ricostituire una coda più
presentabile possibile.
Mi sistemai a sedere e
invitai lui a fare altrettanto. Si
sedette di fronte a me con le gambe incrociate, fissandomi con quei
suoi occhi
così simili all’erba che tenevo ancora tra le dita.
-Certo che sei strana
forte tu!- dichiarò spiazzandomi
-All’inizio mi sembravi passionale ma pur sempre dolce, ora
sei aggressiva e
impetuosa, come se il mondo fosse tuo e te lo vorresti mangiare.-
Sorrisi amaramente, ci
aveva azzeccato in pieno. Non dissi
nulla, alzai solo gli occhi e li posai sui suoi, incatenandoli.
-Mi piacerebbe sapere
di più della donna di cui mi sono
innamorato.-
A quelle ultime parole
un verso di disapprovazione e
incredulità mi sfuggì dalle labbra, appoggiandomi
indifferente all’albero.
-Credi davvero che sia
amore?- chiesi sprezzante guardando
verso l’alto. Lui mi stava già rispondendo ma non
lo feci neanche iniziare
-Credi davvero che il tuo sia sentimento e non voglia di scoparmi?- mi
avvicinai a lui spavalda -Credi davvero che non sia
quell’irrefrenabile
desiderio di mettermi le mani addosso e vagare famelico sul mio corpo,
godendo
come un matto di possedermi?- dissi così vicina che i nostri
nasi si sfioravano
-Credi davvero che io possa accon…-
-Sì, taci!-
Fu l’unica
cosa che sentii, prima che lui si avventasse su
di me bramando le mie labbra, smanioso della mia lingua, avido della
mia pelle.
Ero a terra con il suo corpo che premeva pesante su di me, ero preda
delle sue
mani che lambivano i miei fianchi e tenevano strette le mie mani sopra
la mia
testa, ero pressata dalla sua smania di voler sempre di più.
Ero finita.
Per quanto piacevole
potesse essere, non era di mio
gradimento. Gli tirai una ginocchiata lì dove non batte il
sole, e me lo
scrollai di dosso rotolando su di lui.
-Provaci di nuovo e te
ne pentirai!- sibilai minacciosa
portandomi al suo orecchio. Mio malgrado, non successe ciò
che avevo previsto:
mi strinse tra le sue braccia e cambiando le parti mi
sovrastò di nuovo,
premendo il suo corpo robusto contro il mio esile seppur atletico.
Si abbassò
verso di me, come poco prima feci io, e mi
sussurrò all’orecchio: -Ora che ti ho trovata non
mi sfuggirai. Ci vorrà tempo,
lo so, ma sarai mia.-
Si alzò ed
un sorriso macabro aleggiò sul suo viso beffardo.
Rabbrividii poi al contatto delle sue labbra contro le mie. Non mi
mossi, anzi mi
pietrificai, ero in balia di una paura folle e irrazionale scaturita da
qualcosa di ignoto in lui.
Cominciai ad averne
terrore ed il mio cuore prese ad
accelerare. Non riuscivo più a controllarmi, tanto meno
stabilizzarmi. I
battiti rallentarono solo quando Ettore si staccò da me e si
alzò
volatilizzandosi, forse perché voleva lasciarmi un unico
assaggio o forse
perché si indispettì vedendo che non reagivo.
Mi ripresi dalla
catalessi, in cui ero caduta da dieci
minuti a quella parte, grazie alle vigorose leccate del mio cagnone,
che mi
accompagnò in casa e si tranquillizzò solo quando
fummo arrivati in veranda.
Inspirai non appena mi
sedetti sul dondolo della veranda
situato al terzo piano. Star si accoccolò contro il muretto
difronte la vetrata,
vigile che qualcuno non mi disturbasse; ogni tanto lo beccavo a
lanciarmi
qualche occhiata per assicurarsi del mio stato d’animo. Lui
era il primo ad
accorgersi se qualcosa nella villa non andava ed il primo ad accorre
per
avvisarmi, o come nel caso di quel giorno a salvaguardarmi.
Davanti a me,
un’immensa distesa di tonalità diverse di
verde si stagliavano per chilometri alternati dal marroncino
caratteristico delle
tegole di qualche tetto o il bianco e il rosa dei fiori che sbocciavano
sugli
alberi. A destra il ruscello appena fuori la mia proprietà
diffondeva la sua
tipica foschia, celante una delle zone più belle del paese,
e la brezza che
arrivava dal mare dietro le mie spalle faceva danzare le foglie verdi e
rigorose sui rami.
Abbassai lo sguardo e
capii quanto piccoli potevamo essere
in un mondo che si stagliava per miglia e anni luce. In sostanza non
eravamo
niente, solo un granello di polvere portato alla deriva dagli eventi
che
l’hanno influenzato. Eppure ero convinta che, a volte, poteva
essere in grado
di scegliere la rotta da seguire.
La situazione era
delle più contorte in cui potessi
trovarmi. Io, un’assassina da ormai più di cinque
anni, quasi fidanzata con il
mio migliore amico che mi salvò dalle mie stesse mani
crudeli, lo allontanavo
da me. Al contempo accettavo senza ritegno le avances di quel tizio
sconosciuto,
mandato dall’uomo che fino ad allora avevo tentato di amare
fino a distruggermi
interiormente e che in quel momento rivedevo nello sguardo fisso e
indagatore del
mio cane.
La vita è
strana, ma non imprevedibile, siamo noi ad essere
così sciocchi da non comprendere ciò che ci
circonda. Lei è un susseguirsi perfetto
di cause ed effetti secondo sequenze che appaiono casuali ma che in
realtà sono
calcolate al millesimo. Spetta a noi decidere a quale sequenza
affidarci.
Diedi un colpetto
sulla seduta del dondolo puntandomi con i
piedi a terra e feci salire Star accanto a me, che coccolone
com’era si
trastullava tra i miei grattini. E scioccamente, distratta dalle sue
zampe che
cercavano di afferrare il mio braccio, non mi accorsi della figura che
a passo
felpato si appoggiò con la schiena dove prima stava Star.
Volsi il capo di
scatto e lo trovai seduto, o meglio accasciato a terra, devastato come
se un
tir l’avesse investito, pieno di preoccupazioni di cui
sapevamo entrambi essere
ardue da scacciare.
-Cosa è
successo?- eruppi in tono anonimo lasciando Star sul
dondolo e sedendomi accanto a Lorenzo, che istintivamente mosso
dall’abitudine
intrecciò le sue dita con le mie. Io le ritirai in fretta
sentendomi
inspiegabilmente imbarazzata.
-Scusa-
Era un sussulto pieno
di tristezza, imbarazzo, disagio, era
un sussulto pieno di consapevolezza, rabbia e tormento. Era irrequieto
e lo
sentivo.
-Nulla…-
risposi nel tenue imbarazzo che non avrei dovuto
avere, ma che fece capolino in quell’infinita gamma di
sentimenti che ci
attanagliavano tutti insieme.
Non lo guardai, lo
sentii prendere un respiro però, poi
finalmente parlò: -Non sono venuto a parlare di noi, se quel
noi ancora esiste...
Non voglio neanche metterci in secondo piano, ma ci sono eventi che mi
costringono a farlo.-
Annuii,
perché era giusto: avevamo scelto quella strada e
dovevamo affrontarne anche le conseguenze.
-C’è
una talpa tra le nostre file e non riesco a
individuarla.- sbiancai -Lo so che controlliamo scrupolosamente ogni
agente,
eppure qualcuno c’è. Ho pensato ai nuovi arrivati,
ma non potrebbero aver
divulgato notizie, non ancora almeno. Inoltre non sanno nulla sul
nostro
database inesistente. Quindi non so chi possa essere.-
-Non ti saprei dire
neanch’io.- nello stupore della scoperta
cercai di stare calma e trovare una soluzione -Chiunque sa che cercare
di
raggirarci non sarebbe una scelta saggia per se stesso. Sono
d’accordo con te:
non può essere uno dei nostri. Invece i nuovi…-
Mi voltai a scambiare
un’occhiata d’intesa con lui.
-Credi che
Ettore… Come?-
Fronte corrucciata,
occhi ridotti a fessure lasciando a
vista solo il nero della pupilla e il castano intenso
dell’iride, espressione
accigliata, labbra mosse in un sorriso d’intesa. Come
resistere a tutto ciò?
Irrazionale
la voglia di assaggiarlo ancora e ancora e irrequieto il sentimento
contrastante in me
Ma ci riuscii. Mi
trattenni.
-Alleniamoci insieme a
loro, magari scopriamo qualcosa.- proposi
machiavellica.
-Bene.- si mise
davanti a me e mi tirò su afferrandomi i
polsi -Sfidiamoli!-
Le mie braccia
cozzarono contro il suo torace e il mio naso
toccò il suo mento. Feci l’errore di alzare lo
sguardo e perdermi nelle scure
pozzanghere simili a quelle fangose e misteriose che si creano durante
la
pioggia. Tanto tranquille, quanto imprevedibili per la loro
profondità. Così si
avvicinò lentamente alle mie labbra, tenendomi per i polsi.
-No.- fui secca
voltano di scatto il capo. Lui sbiancò, ma non
mollò la presa.
-Non
posso…- abbassai lo sguardo colpevole di essere una
traditrice
ed anche se non lo ero mi sentivo comunque tale
-…io… Ettore mi ha baciata, di nuovo.-
buttai fuori in un sussulto.
La stretta
aumentò quasi a farmi male ed i suoi occhi si riempirono
di amarezza e rabbia. Come se gli importasse davvero di me…
Non lo capivo più,
non sapevo più cosa pensare. Un momento agiva come se
volesse sbarazzarsi di me
dandomi ad un altro, il momento dopo mi reclamava sua come se fossi la
cosa che
più bramava.
-Mi
dispiace…- biascicai sentendomi a disagio.
-È mia la
colpa.- ammise finalmente scioccandomi, ma in un
secondo la sua espressione cambiò e divenne glacialmente
sorridente -Non
dobbiamo sfidarli?-
Io annui di rimando
come se fossi una bambola manovrata da
un burattinaio crudele.
Non andammo in
palestra come nostro solito perché Lorenzo
voleva liberarsi dei sassolini nelle scarpe che lo attanagliavano,
così ci dirigemmo
in un punto lontano del bosco che costeggiava il paese. Era adirato con
Lorenzo
per avermi baciato, con me per averlo tradito, con se stesso per avermi
tradito, con il mondo intero per la situazione in cui eravamo; ed anche
se
nascondeva bene i suoi sentimenti non poteva sfuggire alla mia
percezione, lo
conoscevo da sempre.
Aspettammo i quattro
tizi del governo ed Ettore che
arrivarono alle 11:30 circa, tutti spavaldi e sicuri di sé,
con un passo tanto
altezzoso quanto ridicolo. Io sogghignavo dentro pensando alla loro
pena.
-La palestra non era
più adatta?- chiese altezzoso Red 3, il
terzo tizio estraneo. Mi ero decisa a chiamarli tutti Red con un numero
identificativo, non avrebbe avuto senso ricordarsi i veri nomi
poiché di lì a
poco sarebbero scomparsi in missione. Forse potevo sembrare troppo
cinica,
fredda e che sottovalutavo le situazioni, ma fino ad allora non mi ero
mai
sbagliata.
-Forse, ma vi sto
sfidando. E umiliarvi davanti ai miei agenti
non sarebbe caritatevole.-
Lorenzo finse un
sorriso generoso con il solo scopo di farli
adirare: questa era una delle tecniche che preferiva per rendere
l’avversario
cieco. Io preferivo ammaliarli.
Ettore stava in
silenzio appoggiato ad un tronco, osservando
alienato la scena che gli si presentava davanti. Un po’ vile
da parte sua, ma
era ancora una persona dai caratteri troppo enigmatici e non riuscivo a
cogliere la sua vera essenza. Una cosa era certa: come me, i suoi
cambiamenti
improvvisi lo rendevano imprevedibile persino al mio sesto senso.
-Tzè.
Convinto- sputò acido e superbo Red 2, ridestando la
mia attenzione ormai persa nella figura di Ettore.
-Avete paura?- li
sfidai, sapendo che stava per arrivare una
scontata e arrogante risposta da parte loro.
-Due contro quattro?
Siete in svantaggio!- dichiarò Red 1 e
non mi aspettavo nulla di diverso.
-Illusi!- dissi di
getto senza pensare -Saremo quattro
contro uno.- conclusi destando stupore negli avversari.
-Stai scherzando?-
chiese serio Red 4.
Mimai un
“no” col capo sorridendo mentre Lorenzo si era
già
posto tra me e loro, impedendomi lo scontro e amareggiandomi di non
poter essere
io il loro avversario, senza permettermi di replicare.
-Non vale
però!- mi lagnai come una bambina incrociando le
braccia al petto -Mi togli tutto il divertimento!-
Si voltò
con quegli occhi così profondi e dolcemente scuri
che perdersi era un piacere, facendomi un occhiolino degno del
più grande
ammaliatore al mondo. Tacqui, sorrisi e indietreggiai chinando il capo
a mo’ di
dir sì.
-E per me non
c’è divertimento?- proruppe Ettore che fino ad
allora se n’era stato in disparte.
Avrebbe fatto meglio a
stare zitto e non creare casini
inutili irritando Lorenzo, che lo avrebbe massacrato subito dopo aver
umiliato
quei quattro.
-Ettore, taci e vieni
qua!- gli ordinai facendolo zittire,
ma molto probabilmente lo prese come un invito allettante
perché sembrò quasi
saltellare di gioia mentre si avvicinava a
me.
Poi mi voltai verso il
mio superiore e facendogli un cenno
del capo a rassicurarlo lui si mise in guardia. Allontanai la mia
attenzione
dal gruppo che aveva già cominciato a combattere per
voltarmi verso Ettore e
ammonirlo, lui non prese neanche questo per il verso giusto anzi, lo
interpretò
come se io l’avessi voluto stuzzicare. Scossi la testa
rassegnata e disdegnata
dicendogli di seguirmi se ci teneva alla sua incolumità. Se
Lorenzo avesse
deciso di fare sul serio restare a terra non sarebbe stato sicuro.
Scattai indietro e mi
aggrappai al ramo più basso dell’ulivo
secolare sotto cui sostavamo, flettei le braccia, mi tirai su e risalii
restando in piedi sul legno resistente. Ma giudicai la posizione ancora
troppo
pericolosa, quindi salii ancora di un paio di rami aggrappandomi questa
volta
con i piedi e roteando intorno al legno per velocizzarne il passaggio
tra uno e
l’altro.
Qui avevo una buona
visuale e al contempo ero parzialmente
nascosta dalle foglie dell’albero per non distrarre quelli
che stavano sotto,
ma abbassando lo sguardo vidi Ettore provare a salire e scivolare sul
tronco
più e più volte provocando in me una risata
continua. Sembrava un carlino goffo
che tentava di appropriarsi della propria cena su un tavolo troppo in
alto per lui.
Ridicolo. Ed io non riuscivo a smettere di sghignazzare.
-Dammi una mano e non
ridere delle mie sventure.- mi ammonì
irritato e acido, innervosendomi.
-No!-
-Come sarebbe a dire
no?- domandò scioccato e adirato.
-No!-
Stranamente si
rassegnò e riuscendo a sedersi sul ramo più
basso con estrema fatica, dopo quattro tentativi falliti, quasi
strisciando
sulla corteccia, si concentrò sullo scontro ormai iniziato
con un paio di
atterramenti dei Red e una ginocchiata ad un terzo da parte di Lorenzo.
Era indubbiamente
veloce e agile, forte e preciso, fermo e
scaltro nei suoi movimenti; anche la tattica non era niente male:
schivava
finché non vedeva il suo avversario essere affaticato per
assestargli un colpo
secco che lo mandava al tappeto. Era uno spettacolo elegante e
travolgente,
nello stesso momento sottile e fluido, dal quale non riuscivo a
distaccare gli
occhi.
Troppo lontana per
godermi l’azione decisi di scendere di un
paio di rami, ancora molto in alto rispetto ad Ettore che se ne stava a
gambe
incrociate assorto dalle diverse tecniche di combattimento, e mi resi
conto di
avere una visuale migliore su entrambi in quella posizione.
Distratta dalla figura
impassibile e interessata di Ettore,
non notai che Lorenzo si trovò con le spalle ad un tronco
d’albero circondato
dai tre Red intenti a destreggiarsi con coltelli lunghi quanto un
avambraccio.
Il cuore perse battiti sapendolo alle strette e fu un istante a
dividermi dallo
stato di fibrillazione e di preoccupazione a quello del sangue freddo e
dell’azione.
Mi alzai in piedi e
corsi lungo tutto il prolungamento
dell’arbusto come solo una vera scimmietta poteva fare, mi
aggrappai ad esso e
mi calai roteandoci intorno per scendere velocemente sul ramo
successivo, dal
quale mi diedi una spinta e con un mezzo salto all’indietro
mi ritrovai sull’altro
albero. Atterrai sul legno silenziosamente, ma ciò non
sfuggì all’abilità
osservativa di Ettore che mi guardava esterrefatto, evidentemente mi
aveva
seguito con gli occhi per tutto il percorso. Improvvisamente
però, il suo
sguardo mutò e mi fece segno di guardare sopra di me, dove
era il quarto Red
sfuggito prima alla mia vista. Voltandomi verso Lorenzo rividi infatti
solo tre
uomini che lo braccavano e lui che si tamponava una larga ferita sul
costato
destro.
Imprecai. Dovevo
sbrigarmi e non badare al mio inseguitore,
così feci cenno ad Ettore di bloccarlo, ma lui mi sorrise
beffardo e mi rispose
di no con il capo. Che bastardo! Voleva farmela pagare per poco prima.
Dovevo
sbrigarmela da sola, come sempre del resto.
Calcolai velocemente
la distanza tra me ed Lorenzo, tre
alberi a distanziarci in senso circolare, lui era poggiato alla quercia
che intravedevo
subito dopo, quindi quindici metri e quaranta centimetri netti.
Afferrai
immediatamente un ramo sopra la mia testa e cominciai ad oscillare,
senza soffermarmi
a pensare mi lanciai verso l’albero successivo e
così via fino al terzo,
creando delle spirali statiche nell’aria tra un arbusto e
l’altro. Purtroppo l’ultimo
ulivo e la quercia distanziavano troppo per rifare il gioco circense
fatto fino
ad allora, quindi risalii l’altezza dell’albero
facendo leva sulle braccia, premendo
sulle superfici dei rami vicini tra loro. Arrivata così ad
un’altezza
considerevole presi slancio e mi catapultai a qualche metro
più in giù sulla
quercia difronte.
Mi aggrappai con le
gambe al ramo più basso e mi calai a
testa in giù, sguainando un paio di lame corte che portavo
spesso e volentieri
con me.
-Abbassate le armi se
ci tenete a vedere un altro giorno.-
li minacciai fredda toccando le giugulari di un paio di loro con le
punte delle
lame.
Solo una volta sentito
l’odore deciso e travolgente di Lorenzo,
la mia circolazione cardiovascolare decise di riprendere il ritmo
normale. Mi
inebriai del suo profumo, della sua pelle, non appena la mia guancia
cozzò
delicatamente contro la sua mandibola e lui si portò tutti i
miei capelli
dietro la spalla su cui avevo poggiato la testa.
-Potevo farcela
benissimo da solo.- mi disse tra il grato e
l’irritato, con un tono che mi risultò ridicolo
per la situazione in cui era.
Nel frattempo quei tre ridevano come sciacalli credendo davvero di
essere
superiori e blaterando battute ridicole.
-Non credevo foste
così stupidi- dissi assottigliando gli
occhi e premeditando la mossa successiva.
In una frazione di
secondo, quasi non me ne accorsi, Lorenzo
mi sfilò le lame dalle mani tenendole ben salde. Io dandomi
la spinta contro il
tronco saltai oltre il gruppo e afferrando il terzo, che non era sotto
la mira
di Lorenzo, il quale aveva preso il mio posto, lo trascinai dal collo
per
qualche metro all’indietro.
-Invece voi non siete
svegli per niente- mi disse l’uomo
digrignando i denti, tentando di liberarsi dalla mia presa. Ma ogni suo
gesto
fu inutile, persino dimenarsi come uno scalmanato risultò
fatale per la
posizione in cui era. Infatti più si muoveva più
io stringevo la presa sul suo
collo.
Ormai
l’avrebbero dovuto capire che la velocità era mia
amica e che nessuno poteva permettersi di minacciare i membri
dell’Organizzazione. E quando l’ira mi pervase fu
come vedere qualcun altro
muoversi al mio posto ed eseguire con fredda calcolazione tutti
movimenti. Misi
tre dita su un punto ben preciso della gola e premetti forte sui nervi
finché
non vidi l’uomo svenuto ed esanime a terra, ma prima che
potesse davvero morire
soffocato tra i rivoli di sangue e io non potessi più
rinsavire dalla mia
follia rifeci la procedura sentendo nuovamente l’aria esalare
dalla sua gola.
Mi alzai soddisfatta,
ma affamata e vuota, non notando colui
che mi atterrò subito dopo con un colpo alle spalle: il
quarto Red. L’uomo mi
fu subito addosso e tendendo il collo indietro vidi Lorenzo intento nel
difendersi da due Red rimanenti. Mi ero sbagliata a sottovalutarli
così tanto,
in realtà erano alquanto fastidiosi, davvero degli ossi duri
con una forza fisica
sovraumana.
Sentii
l’oppressione del suo corpo su di me e d’impulso
sfoderai
un’altra lama dalla fibbia legata alla caviglia per
trafiggerlo nel fianco, ma
fu sbalzato via da Ettore prima che potessi raggiungere la carne con il
metallo
freddo. Gli occhi del Red si sgranarono quando il suo stesso colletto
lo soffocò,
poiché Ettore lo tirava brutalmente con una mano e con una
gamba teneva il suo
costato ben fermo a terra.
Gioii nel vederlo
pressappoco esanime quando invece poco
prima io stavo per soccombergli, ma ricordai a me stessa che ci
servivano. Un
pugno ben assestato sul capo sarebbe bastato a stenderlo.
-Non ti immaginavo
così rude- mi schernì veramente
sconcertato il mio soccorritore.
Non ero in vena di
spiegargli niente anche perché non avevo
alcun dovere verso lui, se non ricambiargli il favore in missione.
Così mi
girai verso Lorenzo volendo vedere la situazione, ma le mie
preoccupazioni
erano infondate: se la stava cavando alla grande. Stava per mettere al
tappeto
Red 2 dopo avere tramortito Red 3. Improvvisamente però due
mani si
posizionarono sui miei occhi e mi costrinsero ad accucciarmi al petto
di chi mi
stava trascinando lontano da quella piccola piazzetta circolare
d’alberi.
Era impossibile non
riconoscere Ettore e la sua meschinità
mi irritava alquanto.
-Che fai?- farfugliai
soffocata dalla sua mano.
-Anch’io
voglio essere sfidato, ma solo da te- confessò trascinandomi
ancora per qualche metro, sempre più lontano da Lorenzo.
-Com’è
che tutti hanno una strana tendenza a farsi ammazzare
da me?- sbottai una volta liberatami dalle sue mani e la cosa
risultò a quanto
strana. In effetti era dalla sera precedente che mi comportavo in modo
strano,
quella che agiva timida, impacciata e senza un filo di rigore
logico-morale non
ero io. Che diamine mi stava accadendo? Purtroppo mi accorsi solo
allora che
qualcosa in me non andava quando vi era la sua presenza, mi comportavo
come una
ragazzina alle prime armi e la cosa più ridicola era che
neanche quando fui
iniziata ad essere un agente mi comportavo in quella maniera. Mi si era
fuso il
cervello o cosa? Dovevo riprendere possesso di me, del mio corpo e
delle mie
azioni. Volevo ritornare in me.
-No semplicemente
anch’io mi merito una sfida- avanzò
malizioso avvicinandosi sempre più.
Sospirai e tesi i
muscoli abbassando lo sguardo, per evitare
il pericolo di rompergli qualche osso, soffermandomi sul suo brutto
muso.
Cominciava davvero a innervosirmi.
-Forse non ti
è ancora entrato in quel cervello bacato che
hai. Io non ho niente a che fare con te e mai ne avrò!-
sputai secca e acida,
voltandomi e andandomene.
Mio malgrado nessuno
mai mi ascoltava e loro malgrado ne
pagavano le conseguenze.
Quando
tentò di afferrarmi per riportarmi indietro mi
sbilanciai così forte da farmelo ricadere addosso, una volta
a terra, avendolo
tirato per il braccio.
-Com’è?
Fai l’opposto di ciò che dici. Ti stuzzica
l’avermi
addosso?-
Sorrisi
all’ebete domanda retorica e da quella posizione gli
dimostrai come era possibile uccidere qualcuno di così
stolto come lui. In un
paio di swing mi ritrovai ad essere su di lui, che era ancora a pancia
in giù,
e afferrandogli le mani le unii con un ciuffo dell’erba
giallastra che si
arrampicava sul tronco degli alberi. Nonostante la sua natura questa
pianta era
molto resistente, di conseguenza si dimostrava utilissima in
sostituzione alle
corde. Dopo di che lo trascinai fino ad un ulivo e lo appesi con le
braccia all’indietro
ad un ramo robusto.
-Non ti metto KO solo
perché abbiamo una missione oggi
pomeriggio e tu ci servi, altrimenti mi sbarazzerei di te
all’istante- sputai
acida e cattiva.
L’espressione
sul suo volto fu forse il momento migliore da
dodici ore a quella parte. Era terrorizzato da me. Si leggeva sgomento,
paura,
sconforto e confusione, tutto insieme e tutto distinto. Crudelmente
questo era
uno dei migliori pagamenti di noi assassini, ma volete mettere a
confronto la
faccia di qualcuno che è consapevole di essere difronte al
mostro che
l’ucciderà dandovi quella sensazione di potere
assoluto sul destino di quello
con qualsiasi altra cosa? Beh, essere crudele nell’animo
è l’essenza che mi
permise di sopravvivere in quei maledettissimi anni, ma ero altrettanto
sicura
che al mio posto nessuno avrebbe avuto il coraggio di fare la scelta
giusta.
Nessuno.
Mezz’ora
dopo avevo già preparato tutto per la missione e mi
ero catapultata sulla Gip che ci avrebbe portato a destinazione. Ero
partita
leggera ma comoda: leggings, canotta, gilet e scarponi, tutto
rigorosamente blu
cobalto, il colore delle nostre tenute. Armi di ogni genere caricate
nel
cofano, borsone con il giusto indispensabile e via, eravamo
già arrivati a
destinazione un’ora dopo.
Non appena scesi vidi
Lorenzo e gli andai incontro per
chiedergli come stava, dopo tutto lo lasciai solo a combattere nella
piccola radura.
-Lorenzo- lo richiamai
e lui si girò duro in viso. Questo mi
fece male come poche cose.
-Come stai?-
-Bene…-
Bugiardo! Non lo
sopportavo quando cercava di farsi il
grande, sia quando non voleva far preoccupare gli altri che quando
aveva quei
momenti di superbia intrinseca. Roteai gli occhi verso il basso e prima
che
potessi dire qualunque cosa lui mi precedette: -Invece come
è stata la scappatella
con Ettore?-
Geloso? Forse.
Cazzone? Indubbiamente sì.
-Mi ha trascinato via
lui mentre stavo valutando la
situazione, ma sono sicura che te la sei cavata alla grande.- dissi
altera, poi
mi calmai sorridendo al ricordo -Comunque l’ho appeso ad un
albero e
sinceramente non so che fine abbia fatto.-
Riuscì a
rispondermi solo dopo una manciata di secondi, era
scoppiato a ridere a più non posso, evidentemente stava
immaginando quel
rincitrullito per aria. Chissà come si sarebbe liberato da
lì.
-Ecco
perché non è ancora arrivato. Vedi che
però è in
squadra con te.- mi avvisò ricomponendosi rigorosamente e
alzando un
sopracciglio, voltando poi un po’ il capo teatralmente.
-A proposito. Non
è che puoi buttarlo fuori?- chiesi velocemente
imitando una bambina che fai gli occhioni dolci. A quello non resisteva
mai.
-No!- fu categorico,
spiazzandomi ed innervosendomi.
Voltandomi per andare via gli regalai uno dei miei più
altisonanti “Fanculo”
mai dati.
-Ok ok- mi
urlò dietro sperando che mi girassi.
Sorrisi, feci una
linguaccia a vuoto e mi voltai con in
faccia stampata un’espressione impassibile aspettando il
resto della mia
vincita.
-Dopo la missione
avrà l’espulsione immediata
dall’Organizzazione-
Sempre meglio di
niente. Uno a zero per me. Ettore avrebbe
pagato le pene dell’inferno in quella missione.
Visti da lontano
sembravamo macchioline cobalto che vagavano
per la piazza in cui ci trovavamo. Impazziti per il caldo afoso che
faceva, ci
muovevamo come mosconi senza meta alla ricerca di una frescura che non
c’era.
Appoggiata accanto
alla gip mi sentivo morbosamente
osservata da Ettore appena arrivato, che decise di attaccar bottone con
un
“Come vedi questa missione?” e non avendo risposta
continuò a mitragliarmi con
altre centinaia. Io scocciata osservavo un’altra
mezz’ora passare lenta, mentre
Lorenzo e gli altri programmavano la missione nei minimi dettagli su
una carta
geografica del luogo.
-Dovresti ascoltare le
mosse che dovrai fare altrimenti la
missione salterà per colpa tua- sperai di distrarlo
affinché la smettesse di
fissarmi, almeno, ma la cosa non funzionò. Ed infatti la sua
risposta pronta
non tardò ad arrivare.
-Non dovevamo
prepararle prima?- mi chiese continuando a
fissarmi esasperatamente come se non ne potesse fare a meno e
sfidandomi a chi
per prima avrebbe ceduto con la battuta più pessima.
-No. Ci hanno
consegnato le direttive specifiche solo
adesso. Ora vai!- dissi nel mio solito tono acido.
E lui non si smosse di
un millimetro, anzi mi rimbeccò: -E
tu? Non dovresti memorizzare le mosse da fare?-
Il suo atteggiamento
mi faceva davvero alterare. Insomma ero
il suo capo e mi trattava quasi da sottoposto. Ma come si permetteva?
-Non mi serve. Ora
va’!- dissi nel tono più scontroso che
potesse uscirmi, involontariamente ma sentito, e probabilmente il mio
viso si
irrigidì drasticamente e nervosamente in
un’espressione incazzata, vista la sua
di espressione stupita con un pizzico di sconforto e forse paura.
Non dovetti ripeterlo
perché Ettore sgattaiolò letteralmente
via con la coda tra le gambe verso il gruppo che stava revisionando le
mosse
della missione, eppure non potei fare a meno di osservarlo come rapita
dai suoi
movimenti mentre si allontanava.
In realtà,
non ero solita alterarmi anche se il mio
carattere risultava uno dei più scontrosi e duri della
cerchia di persone che
frequentavamo, ma con Ettore era subito stato chiaro che sarebbe stato
diverso,
che mi avrebbe fatto perdere le staffe più e più
volte, che avrebbe rischiato
l’osso del collo di mano mia e con una facilità da
far impallidire. Nonostante
tutto però c’era quel qualcosa che mi frenava
nell’allontanarlo
definitivamente. Forse la curiosità del nuovo, forse un
istinto primordiale,
forse un sentimento flebile e accantonato ma esistente, non lo sapevo
per
certo, sapevo solo che dovevo essere cauta.
Improvvisamente la
temperatura calò. Non l’avvertii io
bensì
l’agente CK, freddoloso com’era lo schernivamo
sempre giocosamente e invece lui
se la prendeva davvero, ma era uno dei nostri migliori agenti.
-Tu hai freddo?- mi
chiese gentilmente l’agente Mena,
avvicinandosi a me con gli agenti Giagià e Peppe a seguito.
Le sorrisi e pensai
che era davvero strano il modo in cui mi
ricordavo di lei, in quella gonna a ruota turchese troppo grande per la
sua
giovane età e degli altri impauriti, come lei del resto, ma
tutti pieni di
speranza che le cose potessero cambiare. Tutto era cominciato con una
disavventura e si era trasformata in qualcosa capace di unirci ancora
di più
come amici.**
Infatti mi prese un
colpo scoprendo che erano proprio alcune
delle persone con cui condivisi la mia infanzia e la mia adolescenza ad
essere
entrati a far parte dell’Organizzazione. Conoscendoli avevo
seriamente paura
che non ce l’avrebbero fatta a superare nemmeno la prima
missione, invece mi
dimostrarono il contrario restando egregiamente al nostro fianco per
più di un
anno e mezzo, e fortunatamente resistevano ancora contro ogni mia
previsione. Erano
abituati a considerarmi il loro leader e io a girovagare furtiva e
attenta tra
di loro, così quando tentai di ledere la loro
volontà con pretese assurde per
allontanarli da quella vita pericolosa e infelice loro,
anziché mollare, la
presero come una sfida contro se stessi per superare i propri limiti.
Mi
stupirono e alla fine dovetti cedere difronte all’evidenza di
persone cresciute
insieme a me e come me diventate adulte e responsabili. Avevamo dai
diciannove
ai ventun anni eppure, per quanto piccoli e inesperti potevamo sembrare
agli
occhi degli estranei, ne avevamo passate talmente tante e nonostante il
nostro
discutibile lavoro sapevamo la differenza tra ciò che era
giusto e ciò che era
sbagliato e ci eravamo presi le responsabilità consci delle
conseguenze.
-No, tranquilli. Voi?-
risposi dopo un paio di secondi.
Ormai ero assorta nei
ricordi e l’egente Mena, ovvero
Filomena, accortasi di ciò mi cinse in vita stringendomi a
sé. La cosa mi
faceva alquanto sorridere: lei era molto più minuta e bassa
di me, con tutti i
tacchi mi arrivava a malapena all’orecchio, e il suo modo di
consolarmi mi
pareva tanto goffo. Ma possedeva una dolcezza tale che non abbracciarla
e
stringerla a mia volta era impossibile. Quella ragazza era la dolcezza
e
l’ingenuità in persona, ma se voleva nel momento
del bisogno era capace di sfoderare
artigli peggio di una leonessa. E per ironia della sorte, due regine si
abbracciavano bisognose l’una dell’altra quando in
realtà il popolo chiedeva
loro aiuto.
Ci staccammo e subito
gli sguardi altezzosi dei Red furono
su di noi, Ettore invece ci osservava incuriosito ed Lorenzo
stranamente era
atono e senza espressione. I Red cominciarono a ridere sfoggiando un
lato del
tutto bambinesco così Giacomo e Giuseppe (alias
Giagià e Peppe), le due più
grandi teste calde che conobbi in tutta la mia vita, avanzarono verso
di loro
con il chiaro intento di ammutolirli. Che non andassero a mio genio non
era un
segreto, ma ora si stavano inimicando pericolosamente anche gli altri
membri
dell’Organizzazione.
Sapevo che a breve
sarebbero scomparsi alla nostra vista e
perciò evitai che i ragazzi gli andassero incontro
bloccandoli. I miei compagni
d’infanzia erano diventati due bestioni e, al contrario della
timidezza
adolescenziale di Filomena ormai scomparsa del tutto, il loro impeto
impulsivo
si faceva sentire di tanto in tanto, scatenando a volte risse senza
fine.
-Non vi permettete!-
li avvertii lasciando la pressa sui
loro addominali.
Giuseppe continuava a
guardarli in cagnesco, mentre Giacomo
annuì verso di me e disse: -Tanto non li vedremo tornare a
casa, si
disintegreranno da soli-
Annuii io stavolta e
chiamai a raccolta Ettore e le gemelle
Leila e Delia per riorganizzare la mia squadra. I vari gruppi si
scambiarono un
paio di parole e poi partimmo tutti insieme verso la radura, ovvero il
punto in
cui l’OS aveva piantato la sua base probabilmente per
l’avamposto di una sua
missione.
Procedemmo subito
verso la boscaglia e ci dividemmo nei
gruppi già ordinati durante la riunione di quella mattina,
ma poiché avevo
cacciato via un Red, Lorenzo si vide costretto a prendere il suo posto
se
voleva garantire la sopravvivenza del gruppo, almeno per buona parte
della
missione.
Mentre avanzavamo ci
acquattammo dietro alberi o fronte per
evitare di essere visti dal nemico, fino al raggiungimento del primo
appostamento presso una rientranza simile ad un piccolo Gran Canyon, la
quale
era orientata esattamente sul loro accampamento.
Feci cenno ad Lorenzo
perché lui e la sua squadra si
muovessero per primi verso la sinistra dell’accampamento
nemico, attraversando
un altro paio di appostamenti. Come li vidi a metà del loro
percorso mandai CK,
Giagià, Peppe e Mena nella direzione opposta, facendogli
fare un percorso analogo,
ma i miei occhi erano sempre puntati sul la squadra dei Red. Avevo
seriamente
paura che nel bel mezzo dell’azione i cinque si mettessero a
litigare animatamente
e agendo così avrebbero fatto saltare la copertura o mandato
all’aria l’intera
missione.
Sostanzialmente si
trattava di sterminare tutti gli agenti
nemici ed anche se questo poteva sembrare crudele le cose stavano
così. Tra
l’Organizzazione e l’OS non correva buon sangue,
era circa un anno che era
guerra aperta.
Lorenzo guidava il
gruppo che silenziosamente e
rigorosamente lo seguiva, sperando che il peggio non arrivasse,
dall’altra
parte CK guidava il suo gruppo. Invece le gemelle, Ettore ed io avevamo
cominciato ad avanzare verso il centro del luogo sparpagliati e attenti
a non
destare sospetti. Le nostre tute infatti erano tali da confonderci con
gli
agenti nemici, differenziavamo solo di qualche dettaglio non visibile a
prima
vista e di una tonalità più scusa del tessuto
rispetto alle loro uniformi.
Arrivati al centro
dell’accampamento, facendo finta di
scambiarci ordini con i pochi agenti nemici che vagavano per
l’accampamento,
nella speranza di esserci mimetizzati tra di loro, osservammo la
piccola torre
di trasmissione dati che sostava nella piazzola. Dovevamo farla saltare
in
realtà, ma purtroppo nessuno dei nostri agenti era riuscito
ad infiltrarsi tra
i nemici per farlo. Così eccoci là tutti in
cerchio intorno alla torre,
nonostante le nostre diverse posizioni, facendo finta di tenerci
occupati in
mansioni fittizie, con agenti ad est ed ovest
dell’accampamento pronti ad
attaccare qualora ce ne fosse stato il bisogno.
Ettore stava
tranquillamente interloquendo con un agente
nemico distraendolo sul lato est; Leila Silen, la riccia mulatta, era
sul lato
nord che fingeva di affilare i propri coltelli da lancio; Delia Silen,
la rossa
punk, sul lato ovest rimontava alcune pistole trovate su un banco per
infilarle
furtivamente nella propria borsa; poi c’ero io difronte la
porta della torretta
di ferro che non vista da nessuno entravo dentro il piccolo locale.
Tutto era stato
programmato minuziosamente e tutto era
perfetto se Lorenzo non si fosse dimenticato di dirmi che quel posto
era
interamente e completamente automatizzato, il che fu un guaio per me.
Non
sapevo un emerito tubo di tecnologia di base figurarsi di una avanzata
così
tanto da mandare avanti tutto un intero accampamento nemico,
così cominciai ad
imprecare a bassa voce per non farmi sentire. Non sapevo dove mettere
mano nel
vero senso della parola, infatti avvicinatami a quella che riconobbi
come la
postazione principale, munita di monitor e di tastiera con puntatore
mouse, mi
sedetti e cominciai ad osservare i vari codici in verde che mi
scorrevano
davanti verticalmente.
Ero davvero nei guai.
Come avrei fatto a raccapezzarmi in
quel mare di codici?
Per disperazione mi
infilai le mani nei capelli
appoggiandomi con i gomiti sulla scrivania, nel movimento di
frustrazione però
andai a muovere erroneamente il mouse e sentii uno strano tintinnio.
Alzando il
volto l’immagine del desktop mi lampeggiò in
faccia e mi sentii l’essere più
stupido del mondo. Si trattava solo di uno screen saver, il
più antiquato di
tutti tra l’altro. E solo tre icone vi erano sullo schermo,
una era quella del
pannello di controllo.
-Eureka!- esaltai per
un attimo dimenticandomi di essere in
missione e subito cliccai l’icona del pannello di controllo
per ricopiare tutti
i dati su un’apposita pennetta prima di sgattaiolare fuori.
Il cuore mi batteva a
mille come se non avessi mai fatto una
missione in vita mia, quando in realtà erano ormai passati
più di quattro anni
da quando ciò era all’ordine del giorno per me.
Andai subito con lo
sguardo alla ricerca delle gemelle e di
Ettore e li vidi immediatamente; stavano combattendo a denti stretti
con cinque
agenti nemici che li sovrastavano non solo per numero ma anche per
abilità e
agilità. Evidentemente il piano era saltato e noi eravamo
stati scoperti. Così
tramite l’orologio comunicatore chiamai la squadra di CK per
supportarci, ma
non aspettai il loro arrivo per buttarmi sopra un nemico e sgozzarlo
con una
delle mie lame.
Delia era qualcosa di
portentoso: atterrava gli agenti con
la sua estrema agilità, sgusciando tra incroci di lame e
coltelli da lancio e
intercettazioni di proiettili vaganti, facendo sembrare quelli goffi e
pesanti,
una volta storditi e decapitati poi dalla sorella. Infatti Leila non
era da
meno, più sinuosa, lenta forse, ma non appena avvistava
l’opportunità con un
taglio netto faceva saltare le teste come se fosse la Regina di Cuori
in Alice
in the Wonderland. Erano un duo così funesto e
così affiatato allo stesso tempo
che chiunque da fuori se non avesse capito la loro parentela a causa
della
diversità fisica l’avrebbe intuita dalla perfetta
coordinazione dei movimenti.
Delia imprigionava atterrando, Leila finiva sgozzando.
Ettore
all’inizio sembrava restio a combattere, solo quando
vide le due sorelle e me agire duramente d’impulso si prese
di coraggio e
cominciò da assestare colpi al costato e sugli zigomi degli
agenti. Eppure non
sembrava voler davvero ferire gli avversari, in realtà si
capiva benissimo che
qualcosa lo frenava. Prendeva dal collo le sue vittime e con decisione
le
atterrava stordendole, alcuni però erano davvero tosti
così dovette scontrarsi
corpo a corpo per avere la meglio su di loro.
Dopo un po’
eravamo già compatti e affiatati, riuscendo
anche a trovare un nostro ritmo sincronizzato per sbaragliare tutti. Ma
non
erano Terminator e i nemici crescevano sempre di più. La
squadra di CK non era
ancora arrivata ed io mi stavo seriamente preoccupando, ma avevamo
urgentemente
bisogno d’aiuto, così decisi di chiamare la
squadra dei Red.
Schivai un pugno
dritto in faccia mentre mi abbassavo e mi
portavo sul mio orologio comunicatore: -Red accorrete.
C’è bisogno di voi.-
Nessuna risposta
arrivò. Nel frattempo un nemico ebbe la
genialata di volermi puntare una sorta di sciabola alla gola,
già lo stavo
schiavando per poi infliggere un colpo al fianco quando Ettore mi venne
in
soccorso invertendo le parti e impugnando la lama rubata la
conficcò nel corpo
del nemico, che dolorante stramazzò a terra.
Mi
aveva salvato…
-A…Lorenzo
corri!- continuai esitante verso l’orologio
comunicatore, ma presto il senso di angoscia mi assalì
-Corri!- Urlai.
Ancora nessuna
risposta.
Angoscia,
preoccupazione e irritazione in me
Perché?
Perché non c’era lui?
Rabbia
Le immagini scorrevano
lente difronte a
me, il tempo rallentava tutto intorno e un brivido di terrore
sconosciuto mi
risalì per la spina dorsale. Dove cavolo erano i supporti?
Dove cavolo era Lorenzo?
Lui era sempre come me, il mio punto di riferimento, il mio ago della
bussola,
la mia spalla ed il mio protettore. Dio mio, dov’era?
Sentii un dolore alla
gamba destra e mi
piegai dal bruciore: un agente doveva avermi colpito con qualcosa di
rovente.
Ancora una volta vidi Ettore salvarmi, ancora. Ed il senso
d’impotenza
m’invase.
Osservai poi le
gemelle che
combattevano come forsennate. Ispirate, o meglio istigate, da una forza
di
volontà assurda, tenevano testa alla situazione e agli
agenti che si
moltiplicavano. Ma più agenti crollavano e più
altri li sostituivano, sempre
più robusti e preparati al combattimento dei primi. Prima o
poi anche le
gemelle sarebbero crollate.
Acutizzando
l’udito sentii delle grida
verso est dell’accampamento e mi rilassai sapendo che
finalmente la squadra di
CK stava avanzando per raggiungerci abbattendo nemici lungo il suo
cammino. Non
mancava molto ormai, riuscivo a vederli ad una cinquantina di metri da
noi,
bisognava solo stringere un altro po’ i denti.
Ma evidentemente il
nemico non aveva
nessuna intenzione di lasciarci neanche una piccola speranza di uscire
da
quell’infernale bolgia. Trovandoci circondati tentai di
rompere quella strana
formazione abbattendo il primo anello della catena umana più
vicino a me,
peccato che si trattasse di un energumeno di due metri con di una
stazza
sovraumana. Stavolta non sapevo davvero come me la sarei cavata.
Schivai il primo pugno
che andò a vuoto,
il secondo ed un calcio che lo fece leggermente destabilizzare, notando
così
che la sua gamba destra non reggeva bene il suo peso eccessivo, e si
sbilanciò.
Quindi tentai di illuderlo di essere di nuovo il suo bersaglio
schivando la sua
ripetizione di pugni, facendo finta di essere in difficoltà.
Ma il dolore alla
mia gamba destra cominciò a farsi sentire, il bruciore si
trasformò il dolore
lancinante, come se la carne continuasse a dilaniarsi
all’interno.
Fortunatamente strisciai in tempo con la gamba e indietreggiai
costringendo il
mio avversario a scagliare un calcio più lontano del suo
normale raggio
d’azione, facendolo così sbilanciare e cadere a
terra. Misi un piede sulla sua
spalla per evitare che l’energumeno ribaltasse le parti e
fulmineamente gli roteai
di netto il collo, così da rompere il collegamento alla
spina dorsale e quindi
tutti i collegamenti nervosi, decretando il decesso istantaneo.
Semplice e indolore si
direbbe, forse.
CK, Mena,
Giagià e Peppe arrivarono in quel preciso momento
e le azioni divennero molto più fattibili. Insieme ormai da
tempo, ci
conoscevamo così tanto che non serviva dirsi corsa fare, lo
facevamo e basta.
Mena estraeva i coltelli e Peppe era lì pronto a coprirle le
spalle con i suoi,
Giagià mirava il nemico ed io sparavo un colpo dritto in
fronte all’altro
agente che lo stava per assalire, CK assestava pugni e calci come un
forsennato
e le gemelle Silen lo affiancavano. Sbaragliavamo i nemici come se
fossero dei
fuscelli sotto le nostre mani e le loro ossa sembravano ramoscelli
calpestati
in pieno autunno. Alla fine anche Ettore riuscì ad
amalgamarsi al gruppo e a
tenere il nostro stesso ritmo; quell’ombra di dubbio che lo
frenava era
apparentemente sparita.
Sorrisi, respirai e
per un momento mi dimenticai di Lorenzo
che ancora non si era fatto vedere. Stranamente ero tranquilla e sicura
che
tutto sarebbe andato come pianificato. Troppo tranquilla che
stupidamente non
mi accorsi dei colpi che quei macellai dei nemici cercavano
d’infliggermi sul
costato. Ripresa la lucidità schivai ripetutamente, ma non
davano alcun segno
di voler demordere. E di nuovo, inspiegabilmente e inaspettatamente, mi
sorpresi nel vedere Ettore che mi salvava per l’ennesima
volta da quei colpi e
abbatteva l’ultimo dei nemici.
Lì ebbi la
conferma di due cose ovvie in quel momento ma
certe e solide: ero frustrata dal fatto che era Ettore a salvarmi e non
Lorenzo,
per quanto io potessi essergli grata, e odiavo più di ogni
altra cosa essere
improvvisamente diventata dipendente da qualcuno e non riuscire a
riottenere la
mia autonomia.
Un dolore lancinante
allo stomaco si fece largo tra il gusto
amaro in bocca e la vista che man mano diventava sempre più
offuscata, mettendo
in secondo piano la ferita aperta sulla gamba.
Ero arrabbiata,
frustrata, indispettita, irritata, fragile e
confusa sulla mia vita. Avevo bisogno di recuperare dignità
ed autonomia per
ritornare quella che ero. Volevo di nuovo essere me e non un automa
nelle mani
di altri che facevo finta di lasciarmi la piena libertà
delle mie azioni.
Mi poggiai ad un
pilastro e presi coscienza di quel che
stava accadendo: i miei uomini, tutti, mi osservavano attenti in attesa
di un
mio comando. Un dubbio fece breccia e s’insinuò
nella mia mente come un
serpente che sibila all’istigazione: questa vita, questo
potere lo vuoi?
E chi non
l’avrebbe voluto? Tutti senza ombra di dubbio
avrebbero accettato in fretta e furia, ma in quel momento, ormai
confusa dall’eclissi
delle mie costanti fisse, decisi di rimandare questa mia angoscia.
-Troviamo gli altri e
torniamo alla base.- ordinai con un
tono di voce più atono che mai, volendo solo tornare a casa.
La missione era
conclusa e agli altri non restava che
seguirmi a ruota senza fiatare.
Arrivati
all’appostamento dei Red, non ci aspettavamo di
certo ciò che ci apparve: erano tutti morti, trucidati.
Nessun rumore,
nessun’azione, nessun avviso. Ora capivo la loro assenza sul
campo.
Il sangue prese a
scorrermi nelle vene all’impazzata. Anche
se ero arrabbiata con Lorenzo ero così preoccupata di
perderlo. Il mio sguardo
confuso e perso cercava instancabile in quello scenario di rosso, blu e
verde.
Mi calmai interiormente solo quando lo vidi. Fortunatamente era
lì vivo e
vegeto, comparso all’istante come se avesse sentito la nostra
preoccupazione,
che già raccontava l’assalto subito,
abbracciandomi e assicurandomi che tutto
era a posto. Decidemmo così di tornare a casa.
Una morsa in gola e un
odore acre, che in realtà non vi era, mi
accompagnarono per tutto il tragitto di ritorno. L'odiavo, odiavo la
situazione
in cui mi aveva cacciato, odiavo la mia vita.
La stanchezza
s'infiltrava lentamente della mia mente. Ad ogni passo che
facevamo in avanti qualcuno o qualcosa ci spingeva a retrocederne di
tre. Ero
stanca, troppo, anche solo per pensare a come sarebbe stata la mia vita
se non l’avessi
accettata con quella fretta di scappare dai pericoli, per me e per le
persone a
me care. E in realtà ero caduta in un baratro ancora
più pericoloso. Stringevo
lo sterzo della Gip così forte che la plastica si poteva
tranquillamente
fondere con la mia pelle e le mie unghie, allontanavo il suono del
respiro di Lorenzo
accanto a me, così come respingevo il suo odore chiaro
nell'aria nonostante il
tanfo della morte e della battaglia a coprirci.
Non ce la facevo, non
potevo farcela, e la cosa che mi dava più dolore era
il fatto di essere stata abbandonata. Pensavo di essermi allontanata io
da lui
e invece fu lui a lasciarmi sola in balia delle avversità.
Al mio fianco c'era
stato Ettore, inaspettatamente lui, a compiere quella che era sempre
stata abitudine
di Lorenzo. Lui mi aveva salvata e nessun'altro lo aveva fatto.
-Mi dispiace-
Come il colpo che
rompe la finestra e la frantuma nella quiete più assoluta
– la quiete che mi ero creata – Lorenzo ruppe il
silenzio pesante e atroce su
di noi.
Tirai letteralmente
una steccata sul pedale del freno mentre percorrevamo
una curva a gomito. Il risultato fu il rischiosissimo quasi
ribaltamento della
Gip e un ritorno su se stessa, subito dopo l'arresto di botto della
vettura e
quindi lo slittamento di lato sulla ruota anteriore destra. Ma la parte
migliore, anche se il mio ego e il mio sarcasmo avrebbero fatto meglio
a
restare rinchiusi nei meandri della mia coscienza, fu
l’impatto violento della
faccia di Lorenzo contro il vetro del parabrezza.
Mi voltai di scatto,
arrabbiata e irritata nel profondo, verso quella
brutta faccia di cavolo con cui viaggiavo, il quale si stava tastando
il naso
cercando disperatamente di capire se fosse rotto. Ma con quale cavolo
di uscite
se ne arrivava?
-Ti dispiace?-
domandai sarcasticamente retorica con enorme disappunto e un
tono di voce inconfondibilmente altero, talmente tanto che Lorenzo si
tese e
stette in allerta perché non gli facessi chissà
cosa. E faceva bene ad essere
preoccupato…
Rabbia
incontrollata e morsa divoratrice allo stomaco, formicolio disturbatore
e
istigatore delle mani
Quanto avrei voluto
dargliene di santa ragione in quel momento.
-Hai idea di quel che
ho passato?- sputai fuori sempre altera e piena di
frustrazione -Il panico, la paura, la tensione? Tu non c'eri! Non
sapevo
dov'eri e le possibilità tragiche nella mia mente apparivano
in continuazione.-
non seppi perché ma il tono cominciò a scemare
nelle ultime parole.
Non ero per niente
tranquilla eppure non riuscivo più a tenere quell'alto
rigore nella voce che, a parer d’altri, sempre mi distingueva
nei miei momenti
di pura rabbia.
-Ti ho sentito e
stavamo venendo ma poi i rumori sono cominciati e ci siamo
dispersi e...- tentò di giustificarsi, ma vedendomi girare
la chiave nel quadro
per spegnere definitivamente la Gip capì che era meglio
tacere.
-Sai qual è
la prassi, non c'è bisogno che te la rammenti. L'hai stilata
tu
stesso. Ma non c'eri, era pericoloso e tu non sei venuto e non sei
corso via da
lì...- respirai a fondo la voce mi si stava incrinando -Ho
avuto paura per te.-
confessai.
Lacrime dentro
e fuori
-Perché?-
chiese a testa bassa -Tanto non mi ami più. Cosa t'importa
di
me?-
Tutto
“La
convinzione dell'uomo sarà la sua rovina” diceva
un antico proverbio e
aveva ragione.
-Niente- invece
risposi, facendomi paura da sola per quanto sembravo
sincera.
Un altro diceva che
“L'onestà fa posto al suo contrario difronte alle
avversità”.
-Allora siamo
d'accordo: ognuno per sé. Saremo insieme solo sul lavoro.-
declamò
duro e deciso.
Feci appello a tutte
le mie forze ed evitando di versare una sola lacrima, ancorata
al mio orgoglio, risposi: -Sì-
Rimisi in moto e
ripartii, dritta verso la periferia. Guidai senza sosta e
fermandomi solo difronte a un enorme e antico maniero di agricoltori e
artigiani,
correlato da un’immensa distesa di verde coltivata dai
contadini, feci scendere
Lorenzo a casa sua che mi ringraziò freddo per quello che
diventò un ispido
passaggio e ripartii ancora per raggiungere la mia villa questa volta.
Tutto
era stato estremamente breve, a tal punto che mi sembrò
un’unica frazione di
secondo.
Nel tragitto, presa
dalla frenesia e dalla frustrazione, impulsivamente
chiamai Giacomo che accettò senza repliche la mia richiesta.
Figurarsi, dopo
tutto ero il suo capo. Il problema è che poche e semplici
parole possono
distruggere il mondo a prescindere da chi le pronuncia.
Altro ballo
organizzato da Anna, altro vestito accuratamente scelto da lei.
E sì, perché Anna non poteva accontentarsi di
fare l’organizzatrice di eventi
megagalattici, doveva anche essere una stilista da paura.
Malgrado il vestito
interamente in pizzo rosso sangue che mi lasciava
libere spalle e schiena con un profondo spacco sulla gamba sinistra e
quelle
strabilianti scarpe a spillo con il tacco e la punta tempestati di
pietre
vitree, il mio cavaliere mi fece sentire a mio agio nonostante lui non
avesse
avuto questo compito di solito. In effetti Giacomo non mi accompagnava
spesso
in occasioni del genere, le uniche volte furono in missione sotto
copertura, ma
mai fu per nostra scelta spontanea.
Il gesto e di
conseguenza il tradimento di Lorenzo mi resero debole a tal
punto di scegliere un mio amico per essere accompagnata all'ennesimo
Gala di Anna,
ma l’oppressione di Ettore, il quale mi mangiava con gli
occhi anche in quel
frangente, mi indusse a scegliere qualcuno che era capace di
proteggermi. Proteggermi?
Quando mai io avevo bisogno di protezione! Il mio senso logico-etico
era andato
a farsi benedire ormai.
Ero stanca di tutta
quella situazione e dovetti ammettere, soprattutto a me
stessa, che mai come prima di allora sentii il bisogno di scappare da
tutto e
da tutti, creato dall'oppressione della responsabilità che
vigeva su di me e
dal dubbio di non esserne in grado di sostenerla né tanto
memo di meritarla. Quindi
l’unica soluzione, in realtà la via di fuga, che
riuscivo a vedere era
scappare, andarmene e lasciare tutto là.
Un passo. Un semplice,
stranissimo, insolito, maledettissimo passo all'indietro
che forse mi avrebbe portato alla serenità e alla
libertà. Non era
assolutamente difficile. Lì, all'entrata di quell'immenso
salone del primo
piano dell'hotel più prestigioso dei dintorni, posseduto dal
mio migliore
amico, davanti a tutti coloro che mi videro crescere, almeno una volta,
l'unica
cosa da fare era alzare la pianta della scarpa appariscente e costosa e
indietreggiare, lasciando il braccio gentilmente offerto dal mio
partner
occasionale.
Mi resi conto che
quella non era minimamente la vita che l’adolescente sopita
in me desiderava; quella era la sequenza sbagliata di eventi che
purtroppo
avevo scelto e da cui purtroppo non potevo scappare, almeno non in quel
momento.
-Ania!- un urlo
stentoreo di gioia si propagò per l’immensa sala,
con
quella voce cristallina ma insolitamente saggia di Anna.
Ogni speranza
di fuggire svaniva nell’aria
-Ania, sei in ritardo
colossale!- mi rimbeccò tirandomi via da Giacomo e
dal gruppo degli sfacciati curiosi riunitosi intorno a noi.
Potei solo lanciare un
cenno di scusa col capo a Giagià e lui uno sguardo
che traduceva “Capisco. È Anna, la nostra pazza,
euforica, inarrestabile Anna.
Vai.”, prima che la mia sequestratrice mi trascinasse da un
braccio con la
scusa di farmi fare una sorta di tour di ospite in ospite per conoscere
più
gente possibile. In realtà la festa, come la situazione, era
un ottimo pretesto
per mettere in mostra le doti di Anna: nel presentarmi le persone non
dimenticava mai di far ricadere il discorso
sull’organizzazione della festa e
sui nostri vestiti, ovviamente creati da lei.
Della mia stessa
età, Anna era il mio esatto opposto. Sempre felice,
solare, estroversa, poco passionale ma al contempo molto impulsiva. Con
i suoi
capelli color paglierino e gli occhi azzurri, con la sua altezza e la
sua
eleganza, rispecchiava il prototipo di donna che attrae qualunque uomo,
anche
se in verità a lei non era mai interessato aver quel tale
potere sull’altro
sesso. E se in me aveva visto il rosso passione, riversandolo nella sua
creazione che indossavo, per lei il colore l’avevo scelto io.
Si era
confezionata un dolce ma intrigante tubino verde cacciatore che le
scopriva le
spalle e le fasciava strette le gambe atletiche, con quella pseudo-coda
da
sirena in macramè aragonese che lei portava con grande
charme. Diversamente da
me i gioielli per lei avevano acquistato una regola fondamentale
durante la sua
adolescenza, “Grandi e vistosi”, infatti ne
indossava di veramente appariscenti
e articolati come nidi di ragno. Bella e intramontabile lei aveva anche
una
certa e inconfondibile classe nel muoversi su quei tacchi molto
più vertiginosi
dei miei, ma semplicissimi in quel colore beige cipria. E se io
prediligevo i
capelli sciolti, o semi raccolti come quella sera, lei amava alla
follia gli
chignon scomposti e particolari; quella sera una treccia larga era
arrotolata
sul suo capo come una corona greca. In fondo non aveva tutti i torti,
quella
era una sua festa e quello era il suo regno.
-Allora?- mi
incitò Anna a spiegarle con quel fare da donna di mondo.
-Allora cosa?- chiesi
falsamente ignara di ciò a cui si riferiva. Era
chiaro che Ettore era il gossip più succulento del momento,
ma io stranamente
non sapevo come comportarmi con lui né tanto meno avevo
voglia di parlarne o
parlarci.
-Come cosa, Ania?-
E in una frazione di
secondo, mentre la mia amica stava cercando di strapparmi
chissà quale notizia dalle labbra, il mio neo incubo si
manifestò dietro di me
accompagnato dal capo.
Ettore e Lorenzo erano
lì, eretti dietro le mie spalle facendomi sentire
una piccola insignificante fallita, entrambi con lo stesso sguardo di
chi aveva
vinto la scommessa del secolo.
Strinsi i denti
facendomi male ma restai calma e aspettai disperatamente
che quei sorrisi sghembi scomparissero al più presto,
cercando poi una frase
che avesse un minimo di senso logico-razionale per non sprofondare
ancor più
nel ridicolo.
-Ah... Ciao!- reagii
davvero sorpresa, soprattutto vedendo Lorenzo che poco
prima aveva giurato di volermi stare alla larga. Girandomi poi verso
Anna
tentai di presentargli Ettore, ma mi ero dimenticata della sua vena
impulsiva.
-Tu dovresti essere
Ettore, giusto?- chiese improvvisamente retorica
puntandolo col dito. Lui le rispose con un cenno del capo e con un
sorriso a
trentadue denti, Anna invece emise un suono gutturale di sufficienza
che fece
sbiancare anche Lorenzo: -Dalla fama che ti precede ero convinta tu
fossi chissà
chi. Ed invece... non sei un granché!- disse squadrandolo
dalla testa ai piedi
con uno sguardo distaccato e al contempo tesa come se sentisse qualcosa
di
sbagliato.
Non sapevo come
ribaltare la situazione. Annina, o meglio quel lato che
pensavamo si fosse eclissato di Anna era tornato alla carica e ci
faceva
preoccupare. Come cavarsela ora?
-Beh, Anna, non sei
l’unica a pensare che Ettore non sia in grado di
sostenerci.- ammiccò Lorenzo in mia direzione facendomi
ribollire il sangue
nelle vene.
-Che? Io non...-
tentai di replicare, ma fu tutto inutile vista l’intrusione
di Filomena e Giacomo.
-In effetti non sa
esattamente come sia stare tra di noi.- avanzò
Giagiá,
avvalorando la tesi di Lorenzo, mentre io tentavo di smentire.
-Ma oggi se
l’è cavata alla grande sul campo di battaglia,
nonostante fosse
la prima volta.- Mena spezzò finalmente una lancia in suo
favore, ma Ettore
persisteva nel guardami come se l’avessi tradito.
Qualunque cosa detta
in quel momento sarebbe stata modificata dall’abile
retorica di Lorenzo che mi sfidava con i suoi occhi tetri. Allora era
questo il
suo scopo, farmi litigare con gli altri? Con lui era certa la
sconfitta,
preferii tacere.
Nel frattempo ci
raggiunsero anche Giuseppe e il nostro vecchio amico
Salvatore, nonché proprietario dell’immenso
edificio in cui ci trovavamo, che
si avvicinò affiancando Anna.
-Piacere, io sono
Salvatore, Sasá per gli amici.- si presentò
cordialmente
tendendo una mano. Ettore un po' titubante ricambiò.
-Tranquillo non
mangio- scherzò Sásá -Ma dovresti
stare più attento alle
battute di Lorenzo.-
-Non era una battuta!-
replicò Lorenzo tentando di riprendere il discorso
precedente.
-È vero!-
esclamai improvvisamente, sorprendendo tutti -Volevo il
rompiscatole fuori dai giochi, ma mi sono ricreduta: è un
degno elemento. Resta
con noi!- dichiarai facendo valere il mio potere, stanca che a poco a
poco
fosse screditato.
Ma quella sera
sembrava che nessuno volesse mancare perché a noi si unirono
anche le gemelle, CK e arrivò persino Nicola con una bionda
ossigenata, fasciata
pericolosamente in un tubino blu cobalto, il nostro colore, che le
arrivava a
malapena sotto il sedere ed un paio di stivaletti neri con tacco
grosso. Sembrava
tutto fuorché una donna con un minimo di classe.
Però mi ricordava qualcuno,
anche se capii chi solo quando si attaccò al braccio di
Lorenzo come un polipo
e lo baciò sul collo, suscitando lo sdegno e lo stupore di
tutti, ma non il
mio.
-Lore, piuttosto che
rompere le scatole al nuovo arrivato e ai nostri
amici, perché non controlli i pezzi che ti lasci dietro?-
gli consigliò Nicola,
che sempre impersonò quel pizzico d’istigazione
nel nostro gruppo, riferendosi
alla bionda ossigenata tra le braccia del capo.
-Scusate, ma quanti
cavoli siete?- sbottò all’improvviso Ettore, messo
un
po’ da parte anche se era visibilmente più
tranquillo di prima, che era stato sommerso
da sconosciuti.
Scoppiammo a ridere un
po’ tutti tranne l’ossigenata. Non eravamo tanti,
ma
era difficile riunirci tutti insieme, ed anche se in una strana
circostanza ci
eravamo riusciti. Tutti, uno ad uno, eravamo lì a
presentarci e ripresentarci
per quelli che in fondo eravamo: una forza della natura, scalmanata e
inarrestabile.
Solo una nota stonava,
lei, che si presentò come se fosse chissà chi.
Una
diva, una dea, una venere orrenda nell’animo. Rise sguaiata
con una mano
fintamente posizionata davanti la bocca spalancata e parlò
esattamente come una
snob dell’alta società.
-Io sono Carin Asghida, la fidanzata di
Lorenzo.
Piacere.-
Gli altri cercavano il
capo con lo sguardo, sbigottiti per l’assenza della
sua smentita, ma io ero calma e tranquilla e osservavo la gallina
oscena su
quei tacchi da battona che sorrideva come un’ebete. Poi
cominciò a squadrarmi
con sfida e sufficienza nell'attesa che mi presentassi, aspettandosi
una mia pessima
figura. Lei sapeva chi io ero.
Ma come ricordare chi
ero io? E non solo a lei, ma anche ad Lorenzo.
Fortunatamente mi vennero in aiuto le parole che mio fratello mi disse
prima di
partire, ricordando chi in realtà io ero a me stessa.
“Ti
guarderanno dall'alto al basso credendosi migliori di te. Tu alzati in
piedi lentamente e sorridi ricordandogli che eri solo seduta.”
Tesi la mano e dissi
semplicemente “Ania” aspettando il momento in cui
lei
me l’avrebbe lasciata, spostandomi poi verso il palco, dove
le modelle di lì a
poco avrebbero sfilato.
Alzai delicatamente
l'orlo del vestito in pizzo e risalii le scale,
osservata dalla sala che raggiungevo il microfono sul fondo del palco e
pigiando
su di esso richiamai all'attenzione il resto dei presenti presi dalle
loro
conversazioni.
Anna mi avrebbe
scusato per averle rubato la scena, ma una regina rivendica
sempre il suo posto. Quindi feci cenno ad Anna e Filomena di seguirmi
sul palco
che arrivarono veloci ma con molta grazia, l’una di un verde
speranza
invidiabile e l’altra di un blu elettrico gioviale e
sbarazzino.
-Buona sera Signore e
Signori, vi dò il benvenuto a questa magnifica serata
di beneficenza gentilmente offerta dal direttore e proprietario di
questo
spettacolare Resort, Salvatore Alan Poggio,- dissi indicandolo con un
cenno
della mano e un primo applauso invase la sala -organizzata da Anna
Mejor, nonché
grandiosa stilista della sfilata che fra poco vi delizierà,-
partì il secondo
applauso che fece arrossire Annina -condotta e diretta dalla giovane e
dolcissima
Filomena Agostino.- un altro corposo applauso, soprattutto per le
bellezze
delle mie due amiche -Ricordando che tutto è all'insegna
dello sviluppo della
ricerca medica, i miei amici ed io, Ania Aimeri, vi auguriamo una
divertente e lieta
serata.-
Sorrisi visibilmente
rilassata, sapendo che il fegato di quella Barbie di
quinta mano e di Lorenzo si stavano contorcendo, e mi beavo
contemplando il
guanto di sfida lanciato che decretava l'inizio di una nuova guerra. La
mia battaglia,
quella della mia vita, era iniziata in quell'istante.
-Che la serata
cominci!-
Taira
Croft