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Autore: Bolide Everdeen    20/11/2015    0 recensioni
[Storia ispirata alla fan fiction interattiva "500".
Distretto 12, Mihael Stevens.]
Gli occhi sono lo specchio dell'anima, così recitava un antico proverbio. Quell'assenza di luce provocava la sparizione degli occhi. E la sparizione degli occhi, nell'oscurità, provocava la sparizione dell'anima.
[...]
Nel frattempo, erano tutti macchiati dal nero. Il loro volto era velato dal nero, le loro labbra che non si erano scucite per ore erano velate dal nero, le loro mani avevano vissuto nel nero. E i loro occhi, sotto a tutto quel colore, non potevano che deprimersi e procurarsi la stessa tinta. I loro pensieri. La loro vista.
Era chiamata “vita”. Molti la definivano qualcosa di positivo, gioioso, frizzante. Però le sue opportunità si riducevano ad un grido. Un grido con innegabili venature di nero.
Genere: Malinconico, Slice of life | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: Altri tributi
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
- Questa storia fa parte della serie '500 - Behind the scenes'
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Nero

L'aria iniziava già ad oscurarsi. Era un riflesso naturale della profondità, ma Mihael non era disposto ad accettarlo. Non avvertiva questa predisposizione nelle sue vene. Loro optavano semplicemente per riassumere tutta la contrarietà in un pugno, un pugno risparmiato all'aria. L'aria che era selezionata come un nemico improbabile e perciò salvata, lievemente, da un respiro e da un ultimo tentativo di Mihael di rimanere quieto. Troppo impulsivo. Si sussurrava parole per tentare di guarire la sua attitudine. Il buio avrebbe continuato ad infittirsi, a diventare uno stile di vita, l'unico riscontro degli occhi. Gli occhi sono lo specchio dell'anima, così recitava un antico proverbio. Quell'assenza di luce provocava la sparizione degli occhi. E la sparizione degli occhi, nell'oscurità, provocava la sparizione dell'anima.

Per lui, era questo il meccanismo. La porta si aprì dinnanzi a sé e dinnanzi alla squadra che era stata incaricata di sopportare la sua presenza nella discesa; una persona in più, una in meno, condividere il silenzio, reprimere tutti i discorsi. Troppo complicato, discorre. Non era corretto, d'altronde. Non era corretto nel momento in cui l'ossigeno iniziava a divenire ancora più rarefatto, i pensieri più rarefatti, l'energia avrebbe iniziato a divenire più rarefatta. Da un momento all'altro. Nonostante quelle fossero azioni abituali, Mihael non sopportava la situazione. Forse per la sua costanza. Non la sopportava.

Camminò. Cominciarono tutti a camminare, quel generale “tutti” che concerneva miriadi di lavoratori, un numero indefinito quanto il significato della definizione. Lui si affidava ad una strada che non aveva alternative, non avrebbe offerto aperture per rendere quella giornata uno spiraglio di luce. Non credeva negli spiragli di luce. Dopo quell'esperienza persa nell'assenza di quell'elemento, non avrebbe potuto crederci. Non più. Sarebbe stato innaturale. Non poteva classificarlo in altro modo.

Altro modo. Non c'era altro modo per nulla. Non c'era altro modo per nutrire sua madre e le sue due sorelle. Nella lista non era incluso un uomo, un'autorità come un padre, ma Mihael non valutava corrette bugie simili come sostituire il vuoto con un nome scarabocchiato, finzioni solo cartacee. Non effettive. Quando sarebbe tornato in superficie, la realtà comunque lo avrebbe aggredito come il sole. E avrebbe detestato tutti i rimpianti della vita parallela delle miniere.

Stava scendendo nelle miniere. Un altro giorno. Altre ore. Altre occasioni volatilizzate. Avrebbe potuto partecipare alle lezioni scolastiche, imparare, recarsi in quel posto solamente come gita scolastica per un'abitudine irrevocabile di tutte le classi. Lui aveva anticipato la gita ed aveva amplificato il numero di volte in cui si sarebbe replicata.

Lui lavorava in quel posto. Il medesimo posto che aveva soffocato suo padre, un'incidente che ormai non si sarebbe più potuto definire con lo stesso nome. Se erano occasioni così usuali, se era un destino talmente comune, come mai episodi del genere erano ancora chiamati “incidenti”? Routine. Routine in verità era il sottofondo per quegli avvenimenti. Un giorno una famiglia a spendere le sue lacrime, il successivo qualcun altro. Ovviamente, c'era qualche periodo di serenità, o meglio di silenzio, che si frapponeva fra un'evenienza e la successiva, però sarebbe avvenuto. Sarebbe avvenuto, nel futuro.

Forse la vittima sarebbe stata una persona vista ogni mattina. Registrata nel suo album di ritratti, disegnata con il carboncino in un momento di fascino incontrastabile in direzione di uno sconosciuto che tale sarebbe rimasto. Sarebbe rimasto tale fino a culminare la sua vita con la morte, in una cassa di legno, o forse neanche in qualcosa di simile. Sotterrato. Scomparso, per sempre.

Talvolta si domandava come fosse morire sotto quel terreno. Il metodo che ti avrebbe dovuto consegnare la vita, invece la contrastava. Casualmente, scusandosi con una medaglia o una frana per urlare il proprio dispiacere. In realtà era sempre un metodo per porsi su un piedistallo, mostrarsi davanti a tutti quanti. Nascondere chiunque fosse celato sotto le macerie. Letteralmente. Inevitabilmente.

Poi entrò nelle miniere. E tutto ciò che era stato prima variò di stato. Dal liquido al solido. Dall'energia potenziale all'energia cinetica dei suoi muscoli. Definizioni che probabilmente non avrebbe mai sentito. Tutti i vuoti sovvenivano quando il suo unico paesaggio erano delle strade, buio rischiarato da noncuranti lampade, una piccozza, i soliti movimenti innescati come se fossero la sua ragione di vita. Erano la sua unica possibilità. Di vita e di morte.

Iniziava. Si adeguava ad una posa addirittura minatoria, qualcosa di ripetitivo che lo rendeva instancabile, atono, senza alcune emozioni. Così non avrebbe potuto domandarsi come mai eseguiva quegli ordini del cielo come se le sue sensazioni fossero indifferenti, transitorie sulla sua pelle. Le malattie non fossero reali. Come se l'aria malsana non si espandesse e non avesse l'opportunità minacciare i suoi polmoni, provocare malattie. Si sarebbe trattato ancora di tempo. Prima o poi il tempo si sarebbe realizzato in mesi, anni, decenni di lavoro in quello stesso posto. Prima o poi. Avrebbe pazientato, nel frattempo. Non affamandosi, intanto. Credendo di non affamarsi. Procurandosi il cibo necessario per rendere tutte le sue necessità un'impressione.

Distretto 12. Distretto del carbone e del nero. Niente sembrava popolare le strade se non il carbone, niente di differente. Mihael... lui era un burattino. Lui era un surrogato delle generazioni precedenti, era il frutto dei doveri della generazione precedente, era semplicemente ciò che sarebbe dovuto avvenire. Un genitore morto, un figlio vivo. Un figlio diventa genitore. Un genitore morto, un figlio vivo. Una situazione che si sarebbe risolata in questo modo fino a quando qualcuno non avrebbe ottenuto il coraggio necessario per esprimere ogni sua fame in un grido, devastare l'aria con quel grido, colorare il nero. O anche con una carezza, con una parola.

Lui non aveva le fonti sufficienti per condurre una simile sfida. Lui spendeva ogni sua energia in quel lavoro. Ogni sua concentrazione in quel lavoro. E quando riemergeva da quel posto, era solo un paio di occhi inquietati dal sole, con le braccia devastate, con i polmoni minacciati, con una labbra che era in procinto di eruttare dal profondo del suo stomaco. Una rabbia che mai si manifestava. Perché avrebbe dovuto? Sua madre lo attendeva a casa. Le sue sorelle lo attendevano a casa. Le sue sorelle attendevano con diligenza il loro momento. Sua madre ormai non aveva più le qualità per impiegarsi in un simile compito.

A dire la verità, Mihael scorgeva anche donne coetanee a lei picconare e sollevare il carbone e trasportarlo, però loro fin da ragazze erano state minatrici. Sua madre proveniva da Capitol City, ed in quello aveva la sua inibizione. In più, Mihael non avrebbe avuto metodo di proporre una simile vergognosa opzione a sua madre. Adesso, lui era il padre. Lui sarebbe stato il responsabile della fame, e dell'assenza di essa sui volti della sua famiglia. O della loro fierezza. Quest'ultimo un obiettivo certamente più malleabile.

Lavorò. Lavorò, come dettava il clima, come dettava l'oscurità, come dettavano i suoi colleghi accanto a lui. Gli altri surrogati di loro stessi, altre dosi di rabbia repressa, forse. Confinavano anche loro la loro ira, oppure giunti a casa si ripagavano con la violenza sulle loro mogli, sulla loro progenie? No, Mihael. Ogni volta che questo pensiero si manifestava, questa era la risposta, diretta più a sé che agli avvenimenti privati degli altri. No, Mihael. Non sei un mostro. Sei solo un minatore. Per ora. Per ora.

Sapeva cosa non sarebbe dovuto diventare. Era cosciente anche della difficoltà dell'obiettivo. Praticamente irraggiungibile. Avrebbe trovato il modo per gestirsi, nel futuro. Per adesso, la vita procedeva. La vita si affannava, si concludeva in ogni secondo, ricominciava e finiva. Era il momento di uscire. Mihael ritornò all'ascensore. Salì con gli altri. Desiderò di scrutare l'oscurità per l'ultima volta, e la salutò per rivederla il giorno successivo. Questi erano gli ultimi momenti di automaticità contraddittoria. Non li avrebbe mai negati. Anche perché incarnavano gli unici attimi in cui si sarebbe potuto dedicare un minimo di sincerità.

Ritornarono alla base. Uscirono dall'ascensore e Mihael ebbe per la prima volta la visione della luce in quella maniera; filtrata da quelle persone. Ciao anche a te, luce. Come se fosse un'estranea, e parzialmente lo era. I suoi occhi si socchiusero un attimo davanti a quell'elemento contrastante nei confronti della sua vita di pochi minuti prima e poi si dedicarono alle persone che lo circondavano.

Uomini. Donne. Ragazzi suoi coetanei; ragazze sue coetanee. Scappavano in velocità nella speranza di non essere destinati a quel mestiere per l'eternità. L'eternità giungeva fino a quando era stato deciso di porre la loro fine, per naturalezza, per malattia o per diretto incidente. L'eternità comprendeva anche gli “incidenti”. Nel frattempo, erano tutti macchiati dal nero. Il loro volto era velato dal nero, le loro labbra che non si erano scucite per ore erano velate dal nero, le loro mani avevano vissuto nel nero. E i loro occhi, sotto a tutto quel colore, non potevano che deprimersi e procurarsi la stessa tinta. I loro pensieri. La loro vista.

Era chiamata “vita”. Molti la definivano qualcosa di positivo, gioioso, frizzante. Però le sue opportunità si riducevano ad un grido. Un grido con innegabili venature di nero.

 

Spazio autrice

Salve.

Questa è la ventunesima (nonché quartultima) one shot della serie “500 – Behind the scenes”, dedicata ai tributi della fan fiction interattiva “500” (di conseguenza, i personaggi di cui scrivo non sono stati inventati da me ma da differenti autori). Qui si parla di Mihael Stevens, tributo del distretto 12, in una dimensione totalmente distante dagli Hunger Games ma altrettanto angosciante. Credo di non aver trasmesso quest'idea allo stesso modo, però ci ho provato. Anche perché la mia ispirazione è giunta a momenti tragici. Alle ultime battute. Spero di essere perdonata dall'inventrice di Mihael se tutto questo è privo di ogni personalità.

Anche se probabilmente nessuno sta leggendo questo, Bolide vi saluta.

Alla prossima,

Bolide

  
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