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Autore: Shirokuro    22/11/2015    1 recensioni
{ ayano / hibiya centric; hbd ayano 'nee-chan!!; alternative route | one-shot di 2055 parole circa | angst?; introspettivo? }
«...sei la persona più matura di questo mondo e ti chiederei di insegnarmi, ma la verità è che sono troppo impedita per imparare qualcosa di tanto importante. Ma va bene così. Penso che a modo mio, come mostro e come piccola eroina, sono un’ottima amante per lui e per loro, nonché per tutti».
Genere: Angst, Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: Ayano Tateyama, Hibiya Amamiya
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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La sottile linea di confine tra il significato di onestà e di sincerità
   Ayano, in qualche modo, odiava le parole. Non riusciva a scriverle tutte correttamente – nonostante la veneranda età di diciassette anni –, alcune avevano un suono totalmente in discordanza con la parola stessa, parole difficili che si scrivevano con un solo tratto e parole semplicissime che ne necessitavano più di dieci. Non capiva le parole e basta. Ma non era solo il giapponese, con i kanji, il katakana e via dicendo, ma tutte le parole del mondo. La composizione di lettere che era necessaria per scriverne solo una... la parola fiore, ad esempio. Il suo ideogramma era troppo difficile per quell’esplosione di gioia sotto forma di petali ed allergie, per scriverlo in hiragana ci volevano ben due simboli, per scriverlo in inglese addirittura sei caratteri! Eppure, fiore, hana, flower, non era solo un suono? Uno bellissimo, dal magico potere di materializzare nella nostra immaginazione quella delicata esistenza che altro non era. Ma non era solo la loro scrittura! Se ci pensava bene, era il concetto stesso di parola che non le andava a genio. Era giusto che bisognasse comunicare con quelle – non era abbastanza stupida da pensare altrimenti –, ma perché creare più parole con lo stesso significato? O perché dare più significati ad un insieme di fonemi?
   «Siamo eroi» gracchiò, le ciocche castane che si mutavano in bionde, il Sole ad abbracciarle nella bianca luce dell’estate senza fine. Hibiya la guardò, incerto. «Siamo eroi, non credi anche tu?» insistette, la voce che tremava con i piedi a cercare l’equilibrio su una fragile ringhiera che sarebbe presto spostatasi.
   «Non eravamo mostri?» domandò il ragazzino, lo sguardo a cercarla in alto. Avvertì nelle ossa il gelo degli ultimi anni con lei. Aveva passato così tanto, così tanto tempo in quel luogo, aveva smesso di misurare il tempo con i criteri che venivano insegnati a scuola; oramai si basava solo su quello che penetrava il suo corpo, le sensazioni che lo pervadevano. Si domandò se aveva già vissuto con lei, se fosse solo un’impressione, se fosse l’abitudine che portava appresso di veder morire l’angelo nero che aveva sempre accanto mentre quella tenera sciarpa rossa non era mai stata trafitta dalla grande città bianca. La ragazza sorrise: «Perché dare ad ogni membro della famiglia un nome per poi chiamarci di nuovo famiglia?» esalò imbarazzata. Forse era quello il suo unico pensiero da quando si era seduta al banco vuoto nella stanza deserta sopra l’orologio dalle lancette rotte ed arrugginite, affiancando il tepore dei volti delle sue tante famiglie.
   «Perché darci dei nomi se tanto restiamo tutti esseri umani?» rispose il dodicenne, tentando di accontentare la figura in lontananza, sempre più piccola verso l’alto. Ayano poggiò una punta sulla ringhiera subito sotto che pareva dare su uno stretto marciapiede in pendenza. Saltò quei sessanta centimetri d’acciaio liquido e non proferì parola fin quando, camminando con passo giocoso e saltellante, non si ritrovò davanti al basso genietto che le teneva compagnia una centesima volta. «Hai ragione» asserì poi, invitandolo con un gesto della mano a seguirlo a giocare. Da quando era caduta, aggrappandosi al vuoto di una serpe rossa nel tramonto, non poteva far altro, detta sinceramente.
   Hibiya la seguiva, perché da quando si era semplicemente svegliato quel quindici Agosto di tanti – tanti – anni fa, non faceva altro che correre in cerchio, inseguendo la speranza di salvare chi trascinava con prepotenza. Ora la sua speranza indossava una divisa scolastica delle medie ed era alta un metro e sessanta, sessantacinque forse. O addirittura meno. E poi, sentiva come fosse connessa alla defunta dei gatti estivi; ma quella era una supposizione senza basi. La castana – i cui capelli ora da illuminati d’oro erano coperti di muffa nera – si fermò a raccogliere qualche sasso, quando furono arrivati sotto un ponticello posizionato molto casualmente sopra una pista ciclabile. Ne scelse uno in particolare con la destra, lo lanciò di qualche centimetro in aria senza distogliere lo sguardo e quando ricadde nel suo palmo, lei scansò la mano, afferrò dal lato l’oggetto e poi prendendo in prestito dalle sue riserve un po’ di forza lo lanciò verso il muro che venne attraversato. Formando una parabola, rimbalzò su una superficie acquatica due volte e poi affondò nei mattoni rossi. Il muro ancora lì.
   «Cosa hanno in comunque tuo marito e la tua famiglia?» chiese, sistemando la sciarpa con la mano piena di sassolini. 
   «Che mio marito è la mia famiglia?» azzardò, senza pensarci troppo, convinto quanto serviva.
   «Ops! Risposta sbagliata; li amo tutti e due!» confermò poi, lanciando una seconda pietra verso i mattoni che si tingevano di azzurro afoso. Hibiya non capiva, ma annuì perché non era un ragionamento sbagliato. La dolce poetessa gli porse la mano con cui si era sistemata l’ornamento color passione, polverosa, permettendogli di raccogliere i piccoli oggetti che conteneva ed invitandolo ad unirsi a lei. Hibiya preparò il lancio, dopo aver accettato l’offerta, come fosse un lanciatore in una partita di baseball e, con modesta potenza e velocità dubbia, colpì la barriera. Non l’attraversò come con la misteriosa figura in nero dagli occhi nocciola. Anche se era interdetto, non si lamentò dell’accaduto. «Ma questo non significa che io ami solo loro» proseguì dopo qualche istante di silenzio. Tirò un altro missile che rimbalzò ancora sul fluido inesistente. «Cosa siamo, noi?»
   «Eroi?»
   «Forse» arrossì indecisa. Hibiya decise di rinunciare: forse tutte le donne avevano la caratteristica di non essere comprensibili. «Conosci il significato di sinonimi, vero?» Annuì. «Non so se siamo eroi, ma siamo sicuramente mostri ed alla fine, tutti e due, significano la stessa cosa. Non è ironico, come i paladini della giustizia lottino contro sé stessi?» bofonchiò nella lana di papavero mattiniero. Gli occhi socchiusi lasciavano intravedere una spensierata adolescente che si immergeva in una drammatica e teatrale malinconia che dalla sua posizione, il ragazzino non capiva. «Non trovi crudele che un eroe debba stare lontano dai suoi simili perché mentre lui ha acquisito il suo potere per salvare il mondo, loro ci siano semplicemente nati? E poi perché un mostro dovrebbe mai volere il mondo? Non esistono possibilità che quel mostro sia un eroe proprio come il primo? Magari non gli è solo concesso di provarci il contrario. E non è altrettanto crudele, che quel mostro si convinca del ruolo che gli altri gli hanno preparato?» sentenziò infine, lasciando vagare la mente. Lasciò un altro sasso distratta, che questa volta non attraversò l’ostacolo, ma impresse il proprio passaggio in esso, creando un tunnel fluido ma il quale era chiaramente un’irregolarità, un fenomeno che non sarebbe dovuto verificarsi.
   «Non esiste la famiglia. Non esiste l’anima gemella. Esiste una sola parola che comprende tutte le persone a cui vogliamo bene, che portino il nostro cognome o meno. Amanti. Perché è questo che accomuna famiglia, fidanzato, insegnante e conoscente: l’amore».
   «Per un conoscente?»
   «Siamo tutti amanti. Siamo nati per esserlo. Altrimenti, non avremmo un cuore. O meglio, magari la nostra anima è solo una connessione neurale o cose del genere, non me ne intendo, ma sai, anche così, noi siamo comunque nati per essere gli uni gli amanti degli altri».
   «Anche noi siamo amanti?»
   Ayano sorrise, lanciò in aria i sassi e quando atterrarono leggeri come piume trasportate dall’aria, disse: «Esatto!»
   Ayano aveva sempre odiato le parole che Hibiya conosceva benissimo. Per lei, l’unica parola che meritasse di essere conosciuta era felicità. Ma la felicità che tirava un filo rosso e blu, legati al kanji di amore, che somigliava ad una simpatica teiera, e gli allegri simboli che si leggevano famiglia. Poi altri fili portavano i nomi che Hibiya aveva tirato in ballo durante il gioco degli esempi. Era terrorizzata da come scegliere una parola invece di un’altra potesse cambiare totalmente il significato di cosa provava.
   «Sei felice?»
   «No, la mia amica è sparita».
   «Non importa, ora hai me!» Dopo qualche istante di stupore, il castano rise sotto i baffi; non le credeva nemmeno un po’. «Visto? Siamo tutti capaci di amarci, per quanto poco ci conosciamo: non dimenticarlo mai».
   Hibiya non era un genio in ortografia ed il suo lessico faceva abbastanza pena, ma mentre prendeva la mano della luce cioccolata leggeva anche le cose più difficili – provarle era diverso, scriverle, pensarle, ma quando le aveva davanti sapeva interpretarle in maniera eccelsa, pronunciava ogni fonema con una precisione spaventosa, le sapeva correggere se erano sbagliate. Le parole erano quelle, non si potevano cambiare, non erano stati loro a decidere in che ordine andassero per comporre un pensiero, quali fossero quelle volgari e quali quelle forbite, non potevano farci nulla; potevano solo rivoltare la situazione a loro favore e creare composizioni, usare le parole meno adatte nei contesti più disparati, un po’ per ribellarsi, un po’ per esprimere la loro confusione nei confronti di quel sistema mai approvato ma oramai stabilito. «Non posso approvare quello che dici, ma sento che in qualche modo, ti voglio bene; ti basta?»
   Lei lo osservò, mentre le piccole dita magre e disperate cercavano di trattenere la malinconia fisica che non poteva far altro che stupirsi. «Anche destino e morte sono sinonimi?» domandò poi, decidendo che quel gioco gli piaceva. La castana sorrise di nuovo e stringendo a sua volta la piccola mano, scosse la testa in segno di negazione. Non argomentò la sua risposta, si limitò a guardarlo con occhi colmi di languida commozione, la pelle chiara e delicata che si faceva accarezzare dai capelli morbidi – che con la scomparsa del ponte sovrastante erano tornati a farsi avvolgere dall’afoso biondo, con le ciocche ancora in ombra che mostravano il suo vero marrone, così scuro da stupirsi addirittura quel calore innaturale riuscisse a schiarirlo a tal punto. Hibiya per un po’ ricambiò quello sguardo con decisione che però venne a mancare dopo quel poco, quindi ritentò. «Esistenza e amore, allora?» Ora lei annuì. Continuò a studiarlo per un paio di secondi, prima di dedicare il suo sguardo al nulla davanti a lei – nulla, in realtà, pieno di tutto, visto il paesaggio che ignaro dei loro discorsi o fin troppo cosciente di essi continuava a scorrergli dinnanzi, offrendo tanto da guardare, ma nulla che lei e la sua luce paranormale potessero osservare con tutta quella dedizione.
   «Sai, anche nel momento in cui vieni al mondo, in qualche modo c’è amore. Sei nato dall’amore di qualcuno, o dal suo odio, che in qualche modo rimane differenza nei confronti dell’altro. Quindi quando inizi ad esistere, sei il frutto di un sentimento crudele che si deve per forza provare» provò a spiegargli. Se Hibiya fosse stato un professore o anche solo il padre della sua speranza, colta dal giardino del bianco deprimente attorno a loro con indosso quella divisa delle medie, l’avrebbe ripresa per la troppa confusione delle sue parole. Ma lui non era né il suo insegnante, né il suo tutore: era solo Hibiya Amamiya e, dato quel misero titolo, non ne aveva il diritto. Erano le parole a dettare quella legge, doveva solo piegarsi al suo passaggio. «Già», rispose invece. «E... intelligenza e maturità
   «A questa sai rispondere!» ridacchiò la ragazza. «Tu sei stupido! Tanto». Il più piccolo si sentì profondamente offeso. «Però hai imparato tante cose che i tuoi coetanei non possono imparare e non potranno mai. Sai che la morte non è nera, ma bianca e gialla! Sai che l’afa è di questo infinito celeste. Ma soprattutto, conosci i valori del difendere e dell’amare qualcuno, sai che ci si deve dedicare profondamente per esso». Chiuse gli occhi e lasciò la mano del bambino; portò ambi gli arti all’altezza del petto e li stese di fronte a sé con cura, come stesse scrivendo in kanji complesso. Hibiya scorse degli spigoli di carta sulle dita e poi vide un piccola gru – un origami fin troppo abusato – volare via, prima di accartocciarsi su se stessa e cadere, sprofondando nel terreno. «Per questo, sei la persona più matura di questo mondo e ti chiederei di insegnarmi, ma la verità è che sono troppo impedita per imparare qualcosa di tanto importante. Ma va bene così. Penso che a modo mio, come mostro e come piccola eroina, sono un’ottima amante per lui e per loro, nonché per tutti».
   Ayano odiava profondamente le parole: indicavano tutto con precisione, l’immaginazione ed i sentimenti erano confinati.
   Hibiya provava a capire come distruggere quell’ordine al fine di ricomporlo, solo perché gli sembrava più giusto così.
   «Posso amarti?» chiese il dodicenne – con i suoi cento e più anni di esperienza –, abbracciandola con delicatezza da dietro.
   «Te l’ho detto: lo fai già».



 
Soundtrack(s); Ayano no Koufuku Riron (IA), Dovrebbe essere così (Francesco Renga), CLiCK (CLARiS). Ieri ho vissuto la traumatica quanto incredibile esperienza del vedere un film erotico //alla fine 50 sfumature di grigio non è male come credevo!!// con una mia carissima amica e i suoi genitori a casa sua. Mi sono divertita abbastanza, sì. //coff coff
Comunque. Questa fan fiction l'ho scritta tipo un mese fa. Cioè, no, l'ho scritta in due mesi, ma il mese scorso l'ho finita. Ma sono troppo, troppo, troppo pesaculo per pubblicarla. Avrei altre tre cosettine da pubblicare belle che finite da aggiungere su efp. MA mi sono improvvisamente ricordata che oggi è il compleanno del mio grande amore (Blu Oak, sì) e della dolce sorellona depressa, quindi mi è parso carino fare oggi il grande passo. Inizialmente avrei voluto scrivere una bella HibiAya, perché il cuore me lo diceva, ficcandoci alla fine anche Momo, ma non sono abbastanza crudele ed in qualche modo, è finita così: una semplice one-shot, ambientata in un route casuale in cui Ayano – come nel manga e nell'anime – prende "in custodia" Hibiya, sollazzandolo per il Daze, spiegandogli cose e facendogliene vedere, solo che senza traumatizzarlo, che ruota attorno ad una riflessione dei due sulle parole che sono il principale mezzo di comunicazione che l'uomo ha. Non so, mi sembrava una cosa abbastanza sensata ed onestamente sono abbastanza soddisfatta del risultato. Mi pare un buon augurio di buon compleanno per la piccola Ayano.
Per quanto concerne il testo, i soliti appunti. Si domandò se avesse già vissuto con lei: si riferisce per l'appunto agli altri route in cui potrebbe aver incontrato Ayano, chissà, d'altronde, quante volte è successo. un metro e sessanta: giurin giurello non ricordo quanto è alta Ayano, ricordo un vago metro e cinquanta ma mi pare pochino quindi-- come fosse connessa alla defunta dei gatti estivi: perché Ayano è la nipote di Hiyori ed entrambe si perdono nel Daze come sacrificio, sebbene in maniera diversa. provarle era diverso, scriverle, pensarle, ma quando le aveva davanti sapeva interpretarle in maniera eccelsa, pronunciava ogni fonema con una precisione spaventosa, le sapeva correggere se erano sbagliate: si riferisce sia alle parole che ai sentimenti in generale (o emozioni, visto il femminile). per lui e per loro, nonché per tutti: lui è Shintaro, loro sono Kido, Kano e Seto, tutti sono tutte le persone che hanno conosciuto Ayano, dal padre ad Haruka fino a Momo od addirittura Ene.
Il titolo... non ha un grande significato, è l'introduzione al tema delle parole e della ricerca del loro significato.
Be', penso sia tutto. Grazie mille per aver letto e nel caso spero vi sia piaciuta. Ancora, auguri ad Ayano e bye!!
   
 
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