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Autore: Blacket    22/11/2015    1 recensioni
[...]Rompendo la monotonia del chiacchiericcio provinciale, un ragazzo bruno si fece avanti- nella sua acuta provocazione, i suoi gesti ed il suo fare chiedevano luce ed attenzioni. Era sicurezza e genuina gloria quella di cui si vestiva, e nel suo passo fluido si ricalcava il superiore condottiero.
Fu vicino ad Ariovisto, ed il suo fiato sapeva d’oro.
-Visto da lontano, somigliavi ad una donna.- scherno, mostrò i denti felini con un sorriso accomodante, lo scrutò da sotto i ricci scuri- mostrandosi poi incredibilmente padrone delle proprie parole, sfiorò incauto i suoi capelli biondi. [...]
|Audace AU in un minestrone di antichi. OC!Gallia, OC!Aestii, OC!Scandinavia, OC!Celt, OC!Britannia|AU- start 1755, Torino|
Genere: Generale, Storico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het, Yaoi | Personaggi: Altri, Antica Grecia, Antica Roma, Germania Magna
Note: AU | Avvertimenti: nessuno
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Tempo antico 9 Note: Finalmente riesco ad aggiornare! In questi mesi ho stravolto la trama, fatto la maturità, iniziato un qualcosa di nuovo e diversi altri progetti che potete trovare sul profilo. Spero mi perdonerete per il ritardo, difficilmente abbandonerei una Fiction a cui sono tanto legata. In cambio, lasciatemi un commentino- è essenziale per me sapere cosa sto combinando, capire se ciò che scrivo può dare qualcosa a qualcuno e se vale la pena continuare.
Passando al capitolo: abbiamo due comparse già preannunciate nelle note precedenti, Arinne (Antica Britannia) e Isabél (Iberia). Le vedremo più spesso in seguito, e mi piacerebbe sapere che pensate di personaggi come loro, oltre al ruolo che ricopriranno poi. Vi ringrazio di cuore, buona lettura!



“Le carezze non son mai state tanto dure e soffocanti, amico mio.
Là –per Dio!- ho lasciato il mio cuore giovane, bestemmie, lacrime! Avresti dovuto prender la tua parte, erano anche per te.” –Lucio, ad un amico.



Giugno 1758, osteria delle quattro stagioni, ora ventunesima

L’osteria delle quattro stagioni ospitava l’anima del farabutto, del brutto e della polvere, della birra e del vento di qualsiasi contrada e altra cittadina; s’incastrava a Torino per puro caso, e non v’era uno solo degli avventori che si sentisse fra la morsa dei Savoia se sedeva sui tavoli beccati e unti- di birra e di alcool, delle curve delle belle donne giunte dai quattro angoli della terra, a ricordare che di bello v’era tutto o ovunque si cercasse.
Il locale portava un paio d’occhi ciechi, le finestre dai vetri colorati di oro e porpora e verde che lasciavano solo le ombre a passare pretenziose da fuori; giusto s’intravedevano i corsetti stretti di chi serviva piaceri, lo slancio dello stanco avventuriero che posava mano sul proprio boccale. Era l’udito ad ingannare il luogo, l’olfatto a renderlo quasi appetibile a chiunque avesse abbastanza fame da ignorare i latrati e le canzonacce che solevano cantarsi solo in compagnia. Chi avrebbe teso l’orecchio sarebbe andato incontro al sussurro d’un paio di amici, al gemito degli amanti e le porte delle camere che andavano chiudendosi frettolose, timbri di voce mai normali e atoni, un gorgogliare che non conosceva accento udibile altrove.
Lucio s’incamminò all’entrata tenendosi la casacca da caserma, scintillante e armata e bellissima; gli pareva sentire il profumo delle vesti Persiane che Morad si portava appresso e il suo cantare di imprese mirabolanti- il romano ghignò perché furioso, felice e adrenalinico di trasformare le proprie mani in un paio di pugni che non erano tanto concordi con la giustizia. Connell seguì il viso di Isabél, che diceva di essere catalana e aveva la pelle bruna, ed era semplice tanto quanto bastava per dimenticare che Ariovisto con lui non ci voleva stare- il giovane fauno era stato rapito per la prima volta in vita sua, e il cuore adolescente tamburellava sconvolto da simili voglie. Avrebbe conosciuto il suo desiderio come Arinne, e non avrebbe più staccato gli occhi dalle lunghe trecce rosse che si sarebbe prodigata a sciogliere solo per vedere il volto pallido fiorire in una maschera di spavento e meraviglia. Il giovane guerriero biondo ignorava sé e i ciottoli irregolari- l’osservava tenendo il fiato in una saccoccia, estraneo allo sguardo curioso di Lucio, che era un lupo ed era furbo, e aveva capito più di quello che avrebbe dovuto.
Iago non smise di cantare. Fu un bene, poiché ai tre stupidi omini che si lasciavano prendere dalle emozioni e dalla vita tutto parve di norma e regola- e fino a che l’accento francese dell’amico avrebbe scandito il pulsare di mani, cuore e pantaloni, tutto andava bene. Attorcigliava le erre e univa gli accenti di parole diverse, andando a creare una sinfonia che non era invero di nessuna lingua, ed era comunque perfetta: Iago andava là per dar voce al meraviglioso dono del canto che Dio aveva voluto che usasse in più modi, per aver sue donne, soldi o il semplice ed elementare cardine filosofico di quattro disgraziati senza alcuna percezione del mondo reale.

Si abbassava l’occhio del sole sulle guglie della Torino magica e oscura, gotica e puntuta e ancor più potente se buia- piena degli anfratti ove chinavano il capo i fantasmi e le streghe. Giocava a ridere illuminata dal sole rabbioso, baciando con imbarazzo il cielo ancora roseo, pallido e viola dopo un sospiro che fece da corona all’orizzonte caldo dell’estate. V’erano le lucciole a cantare del sole, fluttuavano fuori dagli schemi di qualsiasi casa o strada. Ronzavano pigre sperando –un poco, quel che basta- di somigliare alle sorelle stelle.
Vi fu un sussulto conciso di un’atmosfera già ubriaca, e parve più il salto della dama in una giga- la musica non si smorzò, e persino l’ometto tremulo che cerca Gin scadente e nulla più ha visto le rose dell'Accademia appuntate alle divise dei soldatini, lo spadino di guardia e la rocchetta al fianco; uno di loro ha la baionetta, ed è rosso ed enorme, chiama pericolo e le terre della bassa Irlanda, dove si dormiva più in una birreria che con la moglie.
V’erano foglie d’alloro secche appese alle travi –zuppe di freddo e nebbia e di alcool-, e Iago le scelse per cantare ed intonare una vecchia canzone dal parlato tanto verde da sembrare un epilogo e un commiato adatto alle piantine secche che l’osservavano tanto curiose. S’iniziò strimpellando una pianola sfatta e fumata quanto gli avventori, placida e abbastanza fortunata da incontrare ogni tanto qualcuno che coraggiosamente inforcava i tasti -ancora bianchi!-, e iniziava a dare l’accompagnamento ai ventri contorsi in risa, al parlare sguaiato e sputato fra i denti che dava sostegno al luogo- forse più dell’oro e dell’argento. “Oh yew tell me Sean O’Farrell, tell me why you hurry so!”, un ibrido di suoni e cantilene aggrappate con forza sovrumana alla langue d’Oil delle sue terre; ma nessuno fece caso, poiché la voce del giovane francese dai capelli di paglia avrebbe fatto piangere Angeli e Santi.
Un paio d’operai andarono incontro al suo fare, e con loro un ragazzo tinto dei più focosi colori dell’Asia. Portava la porpora violenta ed il ciano ancor più denso a decorare il petto, l’oro sibillino ad incrociare i polsi fini e le spalle, la fronte colorata dal catrame soffocante dei capelli e la mano tesa a mezz’aria, quasi si aspettasse d’essere ancora baciata. Non chinava la testa, Morad, né per guardarsi il petto o i piedi, e così lasciava che altri facessero per lui- quale Lucio, che osservava munito da un ghignare spaventoso la scimitarra, che odorava di vecchio e dell’antico, e forse aveva qualcosa da insegnare pure alla vecchia via del Decumano Sud.
- Speravo d’incontrare il tuo harem, Morad!- il lupo si muoveva sugli stessi assi dell’asiatico, che erano sconnessi e fitti di genti che amavano guardar in alto, ed era elegante e spartano in più modi, portava in gola il dono dell’orazione pungente ed era afflitto da una determinazione votata al successo e al dio Saturno, tanto era pesante. Raccolse i ricci fra le dita tozze, lasciando lo sguardo a sibilare sul volto sbarbato di quel ragazzetto che voleva farsi vedere e conoscere come i vecchi sultani d’oriente. Era nero e curvo, e Lucio subiva il puzzo del narghilè.
-Voglio vederti cadere, Lucio.-
“Serpente, vipera!”, e andò disegnandosi una calma esagitata sul volto bruno, il riso forte sotto la barba scura, schiuso a mezzaluna, -Voglio la tua testa sul banco del tribunale dell’Accademia.-
Il corvo alzò il mento e le labbra morbide, stirando le proprie ali nere e lo sguardo vivo d’un demone- e questa era l’opinione di Lucio, che mai aveva avuto modo di vedere con obiettività il proprio mondo, tanto da disegnarsi i propri problemi da sé. Suonarono parole aspre e di malaugurio, e vennero percepite come accartocciate e nauseabonde dall’orecchio di chiunque e dell’altrui, che curioso si posava sui vestiti di giovanotti tanto inconsueti e spavaldi. Un vecchio manovale, un avvoltoio piegato sul proprio ventre, pensò fossero pure tanto stupidi oltre che belli, e senza saperlo concordò con una dozzina d’operai che avevano mani così sporche da non poterle più lavare.
- Voglio il nome della tua casa fuori da Torino.- sistemandosi la giubba insolita e coperta di veli, iniziò a somigliare in maniera raccapricciante ai volti presi nei Giardini Pensili, al caldo afoso d’una terra ricca che portava ancora sul palato, insaporita dal miele più di altre. S’accese tardi l’occhio scurissimo e furbo, perché il furore e lo scoppiettare che vide in Lucio provocò in lui un singulto; tanto era vivo come multiforme, dalla potenza vigorosa dei titani di cui si narrava a partire dalle fredde terre di Sif. Furono sguainate le fauci bianche del lupo, torte in un’espressività poco ingannevole: s’avvicinò sino a potergli mangiare il volto, i capelli, accartocciare con una zampata le ali nere e unte di qualsivoglia vizio.
- Sei un cane, Morad.- “Un cane!, un vile che volta la schiena alla mia spada!”, lo pensò con la spontaneità di chi si crede nel giusto, gonfiandosi del tremore furibondo del fuoco e dell’anima ululante della tempesta.

-Fanciullina, piantala di strisciare il culo a questa maniera.- Connell parlava col suono che faceva la macina schiacciando il grano, irrobustiva la voce con termini tanto schietti da far bruciare le orecchie; non era suo compito dar vanto d’eleganza, e spesso s’impegnava nel cantare come avrebbe fatto una lamiera scossa e percossa dagli spadoni, borbottando un’invidiabile varietà di parlato grezzo e occasionale. Muggiva e barriva al posto di parlare come si conveniva, e andava giustificandosi delle attenzioni mancate di Ariovisto “per chi, poi? Una prostituta da capelli rossi?”. Teneva il muso animale accartocciato sotto le sopracciglia spesse, la barba smozzicata veniva turbata dalle mani scure e gentili di Isabél- buona e cara e bella, dal viso dolce e i palmi grezzi, abbracciata dai gesti bruschi di un soldatino irlandese. Veniva dall’anziana Toledo, e non v’era nessuno che aveva occhi tanto misericordiosi e lucidi come i suoi, ed i sospiri tanto profondi e sporchi di farina. Ascoltava con un orecchio Connell, che conosceva da tempo in tutti i modi più intimi possibili, e con l’altro il cantare allegro di Iago che era giunto sulle note basse latrando la parola moon più volte, prendendosi gli applausi gravosamente secchi di pochi intenditori già alticci.
- Arinne è molto bella.- ballava e teneva con rigore il fisico minuto, era una fiamma piroettante.
- Io ho lo stesso colore dei suoi capelli…- la mano della volpe andò a salutare le curve morbide di lei, tastò Isabél con irriverenza ed una sana frustrazione –come andava pensando-, facendo balbettare le dita sui nastri del corsetto, che non voleva saperne di allentarsi quel poco che avrebbe voluto lui. –… Eppure non mi guarda così!- batté poi un palmo sulle cosce, pizzicandosi come il visino selvatico di Arinne pizzicava le gote tirate di Ariovisto, che era impettito e seduto davanti al compagno ma che sentiva e vedeva solo quello che il cuore d’un ragazzetto comanda. Aveva il fiato e polmoni gravidi d’un interesse genuinamente appena fiorito, pieno delle labbra di una piccola folletta rossa che non si schiudevano mai, del saltellare rapido attorno ai tavoli- era sfuggente, fatta di vento!
Anche il guerriero boccheggia se preso alla sprovvista, ed è costretto ad abbandonare l’arma ed il cuore alla cintola, subendo ciò che c’è di bello e brutto al mondo; la giovane gli passò attorno, osservò il volto contratto schiantato sul tavolo dell’omino biondo, che seppur bello era più simile a quello di martire messo in croce. Non le piacque, quell’uomo non la guardava.
- Cara, fermati, fermati un attimo!-
Isabél lasciava i desideri di Connell realzzarsi sulla vita, sul petto, sull’imminente scelta di una camera, e teneva per sé un piccolo riguardo capriccioso ma docile- prese lo sguardo di Arinne e indicò Ariovisto, il broncio scolpito agli angoli delle labbra fini, fra le sopracciglia corrotte dalla preoccupazione e prese in giro dal riso faticoso dell’amico, divertito dall’improbabilità del caso e da un nastrino d’un busto che oramai aveva ceduto. "Fermati a dar compagnia!”, e Ariovisto non la sentì bene, perché Iago aveva rinforzato la gola e la fata rossa aveva gli occhi d’una cerva e le lentiggini sul musetto fine, era una triste ribelle che meritava il capo altrui rispettosamente chino. Così fece il tedesco, prima del secondo giro di valzer.
Furono le undici, e l’osteria prese fiato di nuovo, in una sera presa dal balbettare allegro d’un vulcano: dopo un tonfo arrivò il ringhiare di Lucio, che parlava di madri, figli, Dei e porci tutti assieme, in un’ouverture di rabbia che fece scappare un mezzo applauso a Connell, forzato a staccar le mani dall’ispanica.
Si spaventò Iago, riattaccando a suonare come meglio poteva; lo fece Arinne dopo aver visto per bene il biondo fattosi freccia e balzare in piedi scostandosi dal tavolo, arraffando con decisione i rantoli che facevano a loro modo la musica del luogo- ed erano un poco italiani, latini e volgari, animali quanto bastava.
Arrivò alle scale, senza accorgersi che le lunghe trecce d’una donna lo seguivano curiose e feline. Queste lasciarono i baci caldi di Isabél, le risa che facevano da risacca, il modulare molle di un francese che ancora si chiedeva che poteva farci una tastierina simile alle quattro stagioni- ella aveva visto e viaggiato molto più di lui, conoscendo il mare tempestoso e saggiando le spezie d’oriente!, ma questo Iago non poteva certo saperlo.

Il piano superiore era modesto, perché non doveva certo soddisfare i piaceri d’un esteta. Curava con sguardo silenzioso sei letti e qualche finestra di meno, i piedini frettolosi delle prostitute e i compagni che le sceglievano. Contava poca fedele mobilia, metà della quale era riversa nel corridoio, morente e beccata e spaccata in più punti, trafitta dal fare volgare di due sciocche bestie.
- Lucio?!- la voce di Ariovisto non tradiva la sua gioventù in alcun modo, era ancora limpida e aveva tempo per corrompersi di ogni cosa, e tintinnò grave sugli ansiti di un palese scontrarsi. Moderò la camminata, si fece la lince che con stupore veniva seguita al campo, poco prima che venisse nominata cecchino d’insaziabile bravura.
-Perché non mi guardi?- un cinguettare deciso e sporco  gli gonfiò le orecchie rosse, andando ad infrangersi sulle membra ora rigide e colte dallo spavento; Arinne più che guardarlo annusava il suo profumo, ed era scattante e nervosamente selvaggia nel suo fare veloce, distante dall’odore di campo di Liina e lo sguardo placido che gli volgeva.
- Non ho tempo.-
- Perché non mi guardi?- tirò la divisa, il naso orgogliosamente portato all’insù le carezzava il broncio, di certo non nato per una rissa, quanto dall’incomprensione testarda e offesa che si trascinava a dietro: Arinne era rossa, rossa la sua anima furiosa piegata dalla disgrazia. Aveva tenuto la testa china fra le gambe di più d’un uomo accogliendo spinte accompagnate solo da un paio di povere lacrime, eppure restava fiera e feroce e indomita.
- Sei bella.- lo sguardo smaliziato di Ariovisto le fece piacere, poiché da tempo aveva smesso di definirsi donna, tanto che le trecce vaporose e lunghe avevano iniziato ad irritarla, -ma non ti voglio così. Non sei il mio premio.-
Se la bella fata d’Albione si tendeva commossa, Ariovisto accennò al suo cuore di morire un paio di volte, rinfrancato da una limpidezza che avrebbe potuto gestire solo a quella maniera- che de facto, aveva logica tutta sua. Non trovò male in un agire tanto franco, nemmeno quando la ragazza lo prese vicino scacciando il pensiero del compagno, suggerendogli che no, “nemmeno tu sei mio cliente”, baciandolo e spingendolo verso una camera, le manine forti a premere sul petto gonfio di sorpresa. Lo ebbe fra le braccia preso da un panico languido- le fece tenerezza, e l’avrebbe lasciato respirare per conto suo se non fosse stato bello come quegli dei di cui aveva sentito da piccina, e ancora dubitava fossero veri o meno.
Si sentì stringere i capelli, e il biondo cedette alla pressione sulle sue labbra, che erano gentili e timide non solo per l’intuibile inesperienza. Il disegno dei due andò complicandosi, e le mani non ebbero più pudore di andare dove preferivano, lo sguardo offuscato dall’intrecciarsi stentato di un abbraccio infinitamente semplice, posato sui fianchi e stretto ai seni di lei- che non ignorava nulla di Venere e dell’amore, e colse il sospiro del giovane quando gli slacciò i pantaloni bianchi della divisa, “non esiste altrimenti!”. Li abbassò con uno strattone che pareva esser stato chiesto, e si prese tutti i gemiti dovuti- accolse i morsi, le domande soffocate e spezzate, un tremolio dolce e sincero.
Ariovisto non si accorse che Arinne rimase vestita, e null’altro poteva far a riguardo: teneva la testa forzata verso l’alto, le labbra morbide bisbigliavano sul suo ventre e solo gli occhi della giovane fata incontravano di tanto in tanto le stelle curiose, impegnata com’era a lasciare che Ariovisto facesse uscire dalle proprie labbra quello che a lei rimaneva bloccato in gola.
Il secondo piano ospitava le carezze date con una sciabola e botte che si schiudevano in un bacio- poté giurare, suo malgrado, che i sospiri e ansiti, i bisbigli che udì impicciandosi, avevan tutti la stessa tremenda natura.

Accadde poi un fatto curioso, di cui si san vicende e fini solo a metà, come è lecito in questi casi- lo dicevano le sei stanze della seconda pianta, che avevano assistito ad un movimento interessante, una musica piacevole ed un epilogo che sapeva di fumo e carbone.
Videro Lucio, che aveva il volto pesto e riusciva ad essere comunque bello perché vincente e arrabbiato, lasciava le botte a macinare e il sangue bagnare le labbra livide; chiamava Ariovisto, canticchiava e borbottava per sé, quando una piccola dama rossa uscì picchiettando prima una porta, poi saltellando com’era suo solito fare. La seguì l’occhio, sorridendo come un gattone placido.
-Ariovisto!-
Stava sullo stipite, e pareva fosse reduce dalla medesima lotta- lo dicevano i capelli scompigliati, il volto che pareva voler scoppiare e prendere aria, la divisa maltrattata e le braghe ancora da tirar a posto come dovuto. Divenne una statua scossa e percossa, e a Lucio piacque.
- Mi abbandoni per una donna?- ridente gli fu vicino, e lo trovò bello. Non aspettò risposta, poiché era inutile farlo: l’amico pareva aver visto la morte, la vita e tutti i suoi miracoli assieme, stravolto dal cuore e dalla passione per la prima volta in vita sua. Il romano ebbe paura quando si sporse a baciarlo, e non tentò di eludersi poi, credendo di non aver desiderato un gesto tanto pacato e sfuggevole- un reagire tanto inconsueto avrebbe voluto tenerlo per qualche sua fantasticheria, eppure le labbra ancora dolenti forzavano quelle dell’altro in un bacio, le mani trattennero i capelli biondi per poco.
Non guardò più i suoi occhi verdi e malinconici. Anche la sua abile voce da oratore si fece secca.
- Mettiti a posto e vieni giù.-
Il conquistatore prende ciò che piace, e non si rammarica del proprio sdegno- non è avvezzo alla limpidezza, e chiama umiliazione la propria paura. Avrebbero concordato a favore degli spettatori critici e precisi, non sapendo poi a chi dare l’onore di un forte applauso alla stupidità, magari lasciando spazio per un giubilo sincero al sentimento che portavano nel petto i giovani, alla rabbia e all’amore- allo spavento, al dubbio e al sospiro che una mente fresca poteva dare- e alla musica di Iago!, che, per Dio, è tutto fuorché male.


Glossario:
Lucio Tullio Cincinnato (20 anni): Impero Romano

Ariovisto Beilschmidt (17 anni): Magna Germania
Morad Jahandar dei Farrokhi (21 anni): Persia
Olympia (24 anni): Magna Grecia 
Iago (21 anni): Gallia 
Connell (20 anni): Configurato come padre dei Celti, personaggio creato da Kochei che mi ha gentilmente dato il permesso di poterlo utilizzare nella mia fic. 
Liina (16 anni): Aestii
Diederik (23 anni): Scandinavia 
Arinne (17 anni): Antica Britannia
Isabél (22 anni): Iberia

  
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