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Autore: serClizia    23/11/2015    1 recensioni
Clark, un super-uomo che cerca di essere un giornalista qualunque, si imbatte nel fascinoso Bruce Wayne ad un ricevimento di gala.
Genere: Malinconico, Sentimentale, Sovrannaturale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Slash | Personaggi: Un po' tutti
Note: Movieverse, Otherverse | Avvertimenti: nessuno
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Bruce.

Bruce tira fuori dalla tasca il cartoncino.
Ha cominciato a piegarsi, delle crepe lo percorrono in lungo e in largo, uno degli angoli ha un orecchio.
Tutto perché non riesce a decidersi a chiamare, né a buttarlo via.
Alfred gli posa la colazione davanti, il lungo tavolo di legno apparecchiato solo per lui come tutte le mattine.
“Grazie, Alfred.”
“È un piacere, padron Bruce. Buon appetito.”
La stessa formula che si ripetono ogni giorno, da che Bruce ha memoria.
Il maggiordomo aspetta pazientemente che consumi il suo pasto – con il biglietto da visita appoggiato tra il tovagliolo e la tazza di caffè – prima di esporgli il programma della giornata.
Riunioni del consiglio alla Wayne Enterprises, altre riunioni per le organizzazioni di beneficenza, telefonate, e-mail, bla bla bla.
Tutte cose che possono aspettare una semplice chiamata veloce, no?
Si ritira nella sua stanza, le lunghe tende bianche che svolazzano per il vento. Ad Alfred piace tenere le finestre aperte, forse pensa che la brezza faccia un po’ di compagnia in quella villa troppo grande per loro due.
Tira fuori il cellulare – uno smartphone ultimo modello, con qualche modifica personale – mentre liscia il cartoncino con il pollice.
“Kent?”, risponde una voce assonata. Bruce controlla il Rolex al polso con le sopracciglia alzate – in effetti non è stata un’idea brillante chiamare alle 7:45 del mattino.
“Pronto?”
“Clark,” butta lì, secco, stringendo il bigliettino nel palmo.
“Bruce,” la voce di Clark si fa più soffice, come se fosse una lieta sorpresa – effettivamente Bruce ci ha messo una vita a decidersi, dopo due settimane magari non ci sperava nemmeno più.
“Scusa se…”, per un attimo è tentato di dargli del lei, d’altronde non c’è stato il permesso accordato da parte di entrambi di passare al tu. “…ti ho svegliato.”
Ci sono dei rumori dall’altro capo del telefono, cigolii, probabilmente Clark si è messo a sedere su di un letto molto scomodo.
“Non ti preoccupare. Immagino che inizi presto, tu.”
Bruce annuisce – è sempre stato un uomo di poche parole – prima di ricordarsi di essere al telefono. Rotea gli occhi; a volte, per essere uno degli uomini più intelligenti del pianeta, è proprio un idiota.
“Sì.”
Clark soffoca uno sbadiglio, e Bruce lo ascolta alzarsi, forse prepararsi un caffè. Si chiede esattamente tra quanto si renderà conto che riuscire a chiamarlo è più o meno l’intera estensione del suo piano. Lui, il grande detective, ha deciso di provare ad improvvisare. Un’idea brillante, non c’è che dire.
Il silenzio continua senza che Clark se ne lamenti, e Bruce ne approfitta per riordinare le idee e formulare una strategia di supporto.
“Allora, stavo pensando…”
“No, non oggi.”
Bruce si acciglia. “Come?”
“Scusa, non ce l’avevo con te. Non è oggi il giorno di posta, signora Halloway. Non si preoccupi. Arrivederci,” dei mormorii in lontananza e una porta che si chiude. “Dicevi?”
“Parli con me?”
“Sì, Bruce,” Clark ridacchia – in sottofondo una moka fa il suo inconfondibile borbottio. Almeno in quello ci ha preso, si sta facendo il caffè. Non è del tutto rincoglionito.
“Pensavo…,” Bruce si strofina la fronte. “Martedì sera. Hai impegni?”
Una credenza cigola, poi il rumore di una tazza su di una superfice solida. Dalla propagazione del suono, Bruce pensa sia marmo – un bancone o un tavolino?
“Nessun impegno. Sono un giornalista piuttosto libero.”
“Bene.”
“Bene?”, per fortuna si sente un sorriso nelle parole di Clark.
“Bene che tu sia libero, intendo. Non volevo insultare il tuo lavoro.”
Per qualche motivo, questa telefonata sta andando tutta nel verso sbagliato.  Bruce si ritrova a camminare su e giù per la stanza. Ed è una stanza molto, molto grande.
Non sa nemmeno perché non stia andando bene, ha a malapena detto tre frasi.
“Martedì sera, allora,” Clark riprende le fila, cosa che Bruce accoglie con sollievo.
“Sì. La limousine passerà a prenderti alle… 7:30?”
C’è una pausa. Lunga. Bruce cerca di capire cos’abbia detto di sbagliato stavolta.
“Una limousine?”
“Sì, uhm… il posto che ho pensato è un po’ lontano, ho…”, si tossicchia nella mano. “Ho pensato sarebbe più comodo…”
Adesso è il turno di Bruce di fare una pausa. Clark ridacchia.
“È molto gentile da parte tua. Preferisco venire con i miei mezzi, se non ti dispiace.”
“No, assolutamente no!”, Bruce sta facendo mulinare le braccia in aria. Si pentirà di questa telefonata per tutti i giorni a venire, probabilmente.
“Ottimo! Mandami l’indirizzo.”
“Certo. Te lo mando via SMS? Email?”
Si sente una specie di lieve risucchio, Clark sta probabilmente sorseggiando il caffè. “Come preferisci.”
“Ok. Bene. Direi che è tutto per oggi. Credo che sia giunto il momento di finire questa imbarazzante telefonata.”
Il suono della risata di Clark si propaga all’interno della stanza, riempiendola. Bruce non pensava una risata potesse avere un tale potere anche attraverso un telefono.
“Non è stata così male.”
“Sì,” ribatte Bruce. “Lo è stata.”
“Va bene,” finisce di ridacchiare. “Come dici tu. Allora… a martedì. Buon lavoro, oggi.”
“Anche a te. A martedì.”
“Non vedo l’ora.”
Bruce riattacca con un sorriso, che fa sparire prontamente quando torna al piano di sotto e trova Alfred a guardarlo tutto aggrottato, come se avesse sorpreso un alieno al posto della sua faccia.
Non gli sfugge come quel cipiglio si trasformi in un’espressione compiaciuta quando nota il biglietto che tiene ancora in mano. Per fortuna, non fa commenti.
La sua faccia, comunque, parla al posto suo per tutto il tragitto fino all’ufficio. Bruce è quasi grato di infilare la grande vetrata dell’ingresso e fuggire il più lontano possibile dal suo maggiordomo.

La giornata si rivela impegnativa e noiosa come il memo di Alfred mattutino aveva suggerito.
Riunione dopo riunione, stretta di mano dopo stretta di mano, Bruce riesce finalmente a tornare a casa.
Alfred gli porta il suo bicchiere di scotch serale, che si gusta seduto sul divano della sala padronale di Villa Wayne.
Bruce si perde un attimo in quieta contemplazione dei dipinti e dei vasi cinesi di qualche dinastia Ming, per poi alzarsi a percorrere quel corridoio, svoltare a destra e premere quel pulsante, che gli apre quella porta nascosta su quei gradini che lo portano giù alla sua caverna.
Le gocce d’acqua cadono intorno a lui, in quell’ambiente sempre umido che considera la sua vera casa.
Accende il mainframe e si accomoda sulla sedia di fronte allo schermo, sorseggiando di nuovo lo scotch.
“Fai una ricerca su Clark Kent,” gli ordina. “E dammi un po’ di blues.”
Con Eddie Cochran come sottofondo, gli ci vuole mezz’ora per memorizzare tutto quello che c’è da sapere sul ragazzo venuto dal Kansas con la passione del giornalismo, sulla morte di suo padre, e quel poco altro che ha trovato su di lui.
Una persona stranamente assente dal rumoroso via vai dei social network. Non c’è nemmeno un articolo su qualche sua vittoria nella Little League, o di una promettente carriera come Quarterback del liceo.
(Era convinto che uno così dovesse per forza essere un giocatore di football.)
Finisce il bicchiere di scotch leggendosi tutti gli articoli che trova sul Daily Planet Online firmati Clark Kent.
È bravo. Ha un modo semplice e diretto di raccontare, senza fronzoli.
Dev’essere per questo che non è un’opinionista di prima pagina, quelli hanno la tendenza ad esagerare con i giri di parole inutili e la verbosità.
Verso l’una, pigia il bottone dell’interfono che lo mette in comunicazione con Alfred. “Sto uscendo.”
“Certo, Padron Bruce. Stia attento, là fuori.”
“Come sempre.”
Dieci minuti dopo è fuori, la Batmobile che sfreccia nella notte, la sua vera identità cucitagli addosso sotto forma di costume da Pipistrello.
Ha proprio voglia di rompere qualche mascella, stanotte. Per festeggiare.


La sveglia lo sorprende con un trillo intermittente direttamente nel cervello.
Sta ancora grugnendo quando Alfred entra ad aprire le finestre per lasciar entrare la brezza mattutina.
Il suo troppo zelante maggiordomo evacua la stanza per lasciarlo vestire, di solito. Questa volta invece rimane, le mani incrociate dietro l’abito nero e bianco, nella sua usuale posa.
Bruce lo guarda, interrogativo, il naso ancora nascosto sotto le coperte.
“Volevo solo informarla che oggi è Martedì, padron Bruce.”
E d’un tratto, Bruce è completamente sveglio.
Arriva a lavoro in anticipo, se ne accorge con uno sbuffo fissando male l’orologio al polso.
Si è vestito e preparato velocemente, come se sbrigandosi la giornata potesse passare più in fretta.
Alfred lo ha seguito in tutte le stanze col suo solito zelo e raccogliendo quello che Bruce lasciava a terra, rassettando dove doveva rassettare, come sempre. Sembrava divertito dalla frenesia del ‘Signorino’, ma come un perfetto gentiluomo inglese, non ha aperto bocca.
Nemmeno adesso, mentre lo osserva dallo specchietto del guidatore, sembra si stia trattenendo dal fare qualche commento.
Bruce sbuffa l’ultima volta e si decide a scendere dalla macchina.
“Grazie del passaggio, Alfred.”
“Buona giornata e buon lavoro, Padron Bruce.”
Lavoro che si svolge nel più lento e noioso modo da che Bruce abbia memoria.
Gli sembra che le lancette si ostinino a ticchettare il più lentamente possibile, per dispetto nei suoi confronti, colpevole di qualche delitto che deve espiare.
In effetti, la coscienza pulita non ce l’ha.
L’unico momento meno grigio della giornata è stato il messaggio di risposta di Clark quando gli ha inviato l’indirizzo del locale.
Alle 17:30 in punto sfreccia fuori dall’edificio, con le sue segretarie al seguito che gli rovesciano addosso impegni con il respiro affannato. Le congeda tutte, mandandole a casa prima.
Bruce non ha un appuntamento da anni, ha bisogno di tempo per prepararsi. In tutti i sensi.

“Padron Bruce?”
Alfred si affaccia sulla porta con la sua flemma impeccabile.
“Mmh?”
“Sono le diciannove.”
“Grazie, Alfred.”
Bruce stiracchia la schiena e allunga le gambe sul pavimento. Erano anni che non faceva meditazione.
Un’oretta per la prima volta va più che bene – Rhas riderebbe di lui se lo sentisse così.
Accende la televisione per avere un po’ di sottofondo mentre si prepara, si toglie la canotta bianca e i pantaloni neri – il classico outfit da meditazione – lanciandoli dove Alfred possa trovarli subito, e si fa una doccia di 5 minuti.
Quando torna in camera Channel News sta ancora parlando dell’aumento di criminalità a Metropolis, con dati che sono solitamente riservati a Gotham.
Bruce spegne la tv mentre si sistema le maniche della camicia. Basta lavoro per stasera.

La limousine si ferma di fronte al Metronome alle 19 e ventinove.
A Bruce piace arrivare in perfetto orario.
Il locale che ha scelto è un piccolo ristorante chic situato un po’ fuori mano, lontano dalle luci e dal caos della città. E soprattutto lontano da chi la abita.
Se c’è una cosa di cui Bruce non è mai stato avvezzo, è far sapere a tutti i tabloid la sua scelta di frequentazioni.
“Buona serata, Padron Bruce.”
“Grazie, Alfred. Per favore, aggiornami se c’è bisogno che ritorni a Gotham.”
Alfred inarca un sopracciglio allo specchietto. “Sono sicuro che i criminali possano aspettare per una sera, Padron Bruce.”
“Non lo fanno mai, Alfred. Controllerò il telefono ogni pochi minuti.”
Scivola fuori dallo sportello prima che possa ribattere.
Individua Clark all’istante, così alto e… fuori luogo, in un posto così.
Sembra stia cercando di scavarsi le tasche dei jeans nell’attesa – però il sorriso che lancia a Bruce non appena lo nota rischia di accecarlo.
Sorriso che si spegne quando nota il suo vestiario. Bruce indossa un completo Hugo Boss – senza cravatta, perché è un appuntamento casual – e Clark cambia espressione mentre abbassa lo sguardo sui suoi jeans sdruciti e la semplice camicia grigia.
Si toglie una mano dalle tasche per sistemarsi gli occhiali. “Ho sbagliato tutto, vero?”
Bruce sorride, tendendogli la mano. “Clark,” l’altro gliela stringe un po’ confuso. “Certo che no. Stai benissimo.”
Lo invita ad entrare con un gesto teso della mano. Almeno adesso sono nervosi entrambi.
Clark continua a stringersi le mani nelle tasche anche quando la cameriera va loro incontro, anzi, sembra affondarle sempre più a fondo.
Bruce nota come si stia guardando intorno, le pareti di legno, l’eleganza generale degli ospiti – forse avrebbe dovuto dirgli qualcosa riguardo al dress code. Si fa una nota mentale di avvertirlo, la prossima volta.
Se ci sarà una prossima volta, si ammonisce.
La ragazza – una biondina sui 25 con una pinza nera a tenerle su i capelli e scoperto il collo – li sta per portare ad un tavolo centrale quando Bruce la ferma con una mano sull’avambraccio.
Le sussurra all’orecchio la richiesta di un posto un po’ più appartato, che lei accetta con un cenno del capo contornato da un sorriso calcolatore, e li conduce ad un tavolo all’angolo.
Scivola sul sedile imbottito con un sospiro, cominciando il familiare gesto di slacciarsi la giacca per poi fermarsi, alle serate casual non si allaccia mai la giacca. È troppo tempo che non ha una serata casual.
Clark si siede di fianco a lui, rilassandosi visibilmente.
Bruce ci ha visto giusto, sarebbe rimasto teso tutto il tempo nel tavolino al centro che aveva prenotato. Lì dove sono, con le pareti direttamente alle loro spalle, si sentirà sicuramente più al sicuro.
Quando la stessa ragazza porta loro i menù, Clark si toglie gli occhiali per posarli sul tavolo. Bruce gli lancia uno sguardo curioso mentre sfoglia le pagine.
“Oh, sono miope. Da vicino ci vedo,” gli spiega prima di reimmergersi nella lettura con un cipiglio a increspargli la fronte.
Dopo qualche minuto mette il menù da parte. “Ok. Non ho la più pallida idea di cosa sia più la metà delle cose che sono scritte qui sopra.”
Intreccia le dita sul tavolino, appoggiandovi sopra i gomiti.
Bruce sorride sotto i baffi, facendo un pessimo lavoro nel tentare di nasconderlo.
“Non prendermi in giro, signor Wayne. Non hanno tutti fatto la vita del principe delle favole.”
“Oh, credimi, non è davvero una vita da principe,” non smette di sorridere, nonostante la punta di amarezza nel toccare l’argomento. “E io che avevo addirittura considerato il Plunge.”
Clark fa indietreggiare la testa inclinando il collo. “Cos’è? Il nome non sembra promettente.”
“Uhm, è un locale su una delle migliori terrazze di Manhattan.”
“Manhattan? Tipo… New York Manhattan?”
Bruce annuisce e Clark scoppia a ridere, quella sua risata cristallina che lo aveva riempito al telefono e che ora fa voltare qualcuno dei commensali.
Sinceramente, Bruce se ne frega.
“Volevi portarmi a Manhattan?”
Bruce alza le spalle, richiudendo il menù. “Scelgo sempre i posti migliori.”
“Non ne dubito,” Clark si guarda intorno, divertito. “Beh, io sono favorevole all’andare fuori città. Quindi la prossima volta, magari…”
Bruce si concede un momento per assimilare la piacevole notizia che Clark è disposto a vederlo una seconda volta. “Magari. O magari no.”
“Oh, andiamo. Mi hai sventolato davanti questo bocconcino e poi me lo rifiuti?”
“Magari voglio impressionarti.”
Clark stringe un po’ le labbra, senza perdere il suo sorriso genuino che rispecchia quello che gli nuota negli occhi. È così diverso dall’uomo che ha incontrato alla serata di gala. O almeno, a quello che gli si è presentato all’inizio.
“Considerami impressionato.”
Una pausa lunga un secolo passa su quel tavolino mentre si guardano con le maschere abbassate, e la prospettiva di futuri incontri nella testa.
“E comunque,” riprende Clark. “La prossima volta lo scelgo io il posto.”

Alla fine Bruce ordina per entrambi, Clark alza addirittura le mani in segno di resa all’arrivo della cameriera.
Si scambiano le classiche domande sulla vita lavorativa, e Clark lo ascolta parlare di lavoro per dieci minuti buoni con interesse prima che Bruce si autocensuri dal timore di annoiarlo a morte.
“E tu?”, gli chiede, addentando una forchettata di cibo. “Come ti trovi al Planet?”
“Non è male. Gli articoli che mi affidano non sono niente di che – fatta eccezione per le serate di gala, naturalmente,” gli lancia un sorriso quasi civettuolo. “Ma mi piace scrivere, e mi piace investigare. Il capo, Perry, è un tizio completamente matto, ma mi lascia ampio respiro.”
Si ferma brevemente per masticare e buttare giù qualcosa a sua volta. Bruce non interviene, sospettando che non abbia finito di parlare.
“Anche perché sono articoletti del cavolo che nessuno legge, in ogni caso.”
Bruce apre la bocca per dire qualcosa come “Io li leggo”, ma poi dovrebbe ammettere di aver passato una serata impegnato a fondo nella lettura di ogni cosa mai prodotta dalle sue mani. Non gli pare il caso, e la richiude.
“Stai lavorando su qualcosa, al momento?”, gli sembra una domanda più opportuna.
“A dire il vero, sì”, e qualcosa gli si accende nello sguardo, una scintilla di interesse e frenesia tipica dei giornalisti. “Perry mi sta facendo indagare su questa serie di rapine a Metropolis.”
“Ah, sì. Ne ho sentito parlare al telegiornale,” Bruce ripensa a qualche ora prima mentre si preparava ad uscire. “Tre rapine solo nelle ultime due settimane, giusto?”
“Giusto, ma vuoi sapere la cosa più interessante? Tutti i testimoni sono inattendibili.”
Bruce interrompe il movimento di portarsi la forchetta alle labbra, e la riabbassa. “In che senso?”
Clark sorride, pregustando la reazione alla sua informazione succosa. “Erano tutti preda di allucinazioni. In tutte le banche, tutti i presenti, che fossero della clientela, dello staff, o poliziotti sopraggiunti sul posto.”
“Ma è impossibile.”
“Esatto.”
Il cervello di Bruce si mette al lavoro istantaneamente, calcolando tutte le possibili varianti.
“Dev’essere una specie di tossina,” mormora senza rendersene conto.
“Dici?”
Bruce si riscuote, Clark lo sta guardando con fare interessato. Deve avere un udito molto fino.
“Sì, voglio dire… per un tale livello di allucinazioni collettive non bastano dei flash di luci e schermi a intermittenza. Devono aver rilasciato qualche tossina nell’aria.”
Clark annuisce, concentratissimo. “Hai assolutamente ragione.”
Bruce ricomincia a mangiare, fingendosi rilassato, come se la cosa non lo riguardasse. Non riesce a trattenersi dal dire un’ultima cosa, però, sperando che lo aiuti per il suo articolo. “Avranno avuto delle maschere antigas.”
Magari se riesce a scrivere una bella storia, non sarà più relegato in quinta pagina.
Clark sembra grato anche dell’ultima dritta. Gli sorride nel suo modo genuino, e Bruce si domanda chi diavolo sia l’uomo della serata al gala, quello tutto impacciato e passivo, perché non c’è niente di lui nella persona che gli sta davanti. In quella sicura di sé, con la voglia di indagare e scavare per una storia, con la battuta pronta e la risata così piena. Quella con cui è così facile parlare. Quella che sembra pronta a correre una maratona cinque volte di fila, scalare una montagna e farsi l’oceano a nuoto senza spillare una goccia di sudore. E che di passivo non ha veramente niente. Nemmeno nel modo in cui si trovava a disagio in quel contesto così diverso dal suo.
Anche perché al momento ne sembra totalmente dimentico, mentre mangia e guarda Bruce e sorride.
“Che cos’è questa musica?”, gli chiede d’improvviso.
Bruce lo guarda storto, non può farci niente. “Non conosci Nina Simone?”
“A dire il vero, no.”
“Etta James?”
“Non posso dire di sì, no.”
Bruce si infila il filetto in bocca, pregno di indignazione al pensiero di quelle preziose note sprecate su orecchie ignoranti.  “Dovresti ascoltare più blues, allora.”
Clark ridacchia. “Ho la netta sensazione che lo farò.”
Bruce pensa che l’indomani gli farà male la faccia per tutto quel sorridere a cui non è abituato.
A quanto pare, quando lo fai sul serio e non solo per i giornalisti e gli investitori, si usano dei muscoli diversi.

Clark si scusa per andare in bagno 5 minuti, e Bruce ne approfitta per controllare il telefono.
Si era completamente dimenticato di Alfred.
Per fortuna non ci sono notifiche, anche se pensa che il pazzo inglese lo andrebbe a prendere in elicottero se ci fosse un reale pericolo per qualcuno.
In quell’esatto momento gli arriva un messaggio e gli si ghiaccia lo stomaco per aver parlato troppo presto.
‘C’è stato un incidente sulla Quarta e la Sesta Avenue, Padron Bruce’, e mentre prepara una lista di scuse per andarsene di fretta, gliene arriva un secondo. ‘A quanto pare un personaggio non identificato è intervenuto sul posto ed ha risolto la situazione, signore’.
Bruce capisce che Alfred è sconcertato quanto lui dall’uso di quel ‘signore’ alla fine, non lo usa mai.
“C’è qualcosa che non va?”
“No, no,” Bruce smette di accigliarsi verso il cellulare e se lo rimette in tasca. Clark sembra un po’ spettinato, con un bottone sbottonato in mezzo alla camicia.
Si risiede col suo solito sorriso, anche se un po’ meno genuino. Bruce comincia a guardarsi intorno, quasi aspettandosi di vedere qualcun altro uscire dal bagno – magari risistemandosi i pantaloni.
Ma non succede niente, a quanto pare nessun altro ha avuto bisogno della toilette in quei minuti.
Bruce è sempre più incuriosito.
È abituato a leggere le persone da che ha memoria. Le vede, le osserva, e il suo cervello fa il resto. La teoria della deduzione, come direbbe Sherlock Holmes.
Eccetto che con Clark quella teoria non funziona, e non c’è una singola cosa che vada al suo posto, allineandosi perfettamente con le altre.
Bruce Wayne non riesce a decifrare Clark Kent.
La cosa gli fa salire un sapore di eccitazione su per la gola che non sente da tanto tempo.


La cena finisce come finiscono tutte le cene, soltanto che questa è l’eccezione alla regola perché Bruce non ha mai avuto un appuntamento così. Né con uomini né con donne, non gli è mai capitato di sentire quell’elettricità sotto pelle, quella sensazione allo stomaco che stia succedendo qualcosa di irrimediabilmente giusto. Il solo pensare una cosa del genere lo terrorizza più di ogni supercriminale che abbia mai dovuto affrontare. Paura e sottile soddisfazione si intersecano dentro lui man mano che il cibo finisce e i bicchieri si svuotano. Dovrebbe chiedere se Clark vuole un drink, un liquore al posto del vino pregiato che ha scelto per accompagnare il pasto, ma ha scelto Martedì per il loro appuntamento in caso le cose fossero andate male, e la scusa del lavoro la mattina presto non sarebbe stata affatto una scusa.
Non aveva calcolato che avrebbe potuto ritorceglisi contro.
Ci sono ancora così tante cose da dirsi, da scoprire l’uno dell’altro. Così tante piccole verità da estorcere al misterioso Clark Kent, che per fortuna gli lascia pagare il conto senza fare obiezioni, lanciandogli un eloquente ‘Tanto non potrei pagare nemmeno se lo volessi’ con lo sguardo.
“Quindi…”, comincia Clark sul sagrato, appena fuori dal ristorante, mentre Bruce ancora si sta togliendo di dosso lo sguardo complice che gli ha lanciato la cameriera mentre uscivano – sperando che non intendesse parlare coi tabloid né che gli abbia fatto una foto con il cellulare di nascosto. Stanotte dovrà controllare a modo tutto con il Bat-computer della caverna.
“Quindi,” ripete.
“A quanto mi pare di capire, ci salutiamo qui.”
“Sì. Il lavoro.”
Clark occupa metà del marciapiede con la sua stazza, la schiena dritta, un sorriso gentile sul volto, come se capisse la riluttanza di Bruce nel salutarlo. “La prossima volta potremmo vederci nel fine settimana.”
Bruce sorride di rimando, incapace di non lasciarsi contagiare. “Mi farebbe piacere.”
“Bene. Ma il posto lo scelgo io.”
“Affare fatto.”
Bruce allunga la mano, tenendo l’altra salda nella tasca. Clare gli rivolge di nuovo quello sguardo confuso di inizio serata, ma gli passa presto, e reciproca la stretta, tenendola salda qualche istante di più di qualche ora prima. Tre ore e mezzo prima, lo corregge il suo cervello, mentre si sofferma leggermente più del solito a fotografare i dettagli del ricciolo ribelle di Clark, del mondo in cui la camicia gli stringe sul bicipite, e quanto gli stia stringendo un pelo più intensamente le dita.
“Buonanotte, Bruce.”
“Notte, Clark.”

 
  
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