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Autore: steffirah    23/11/2015    0 recensioni
Dal momento in cui ho visto
l'uomo che mi è più caro mentre riposavo,
ho cominciato a credere a quelle cose
che gli uomini chiamano “sogni”
Una giovane fanciulla, disperata, sola, colpevole. In una notte di luna piena le appare in sogno un nobile affascinante. I loro incontri si faranno sempre più intimi e segreti, ma riusciranno mai ad incontrarsi?
Genere: Poesia, Storico, Triste | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Hinata Hyuuga, Naruto Uzumaki | Coppie: Hinata/Naruto
Note: AU, Cross-over | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Nessun contesto
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CAPITOLO 8
 
 
Il desiderio di incontrarla. Era quello ciò che mi spingeva ad andare avanti, ciò che mi spronava a proseguire in quel breve viaggio che durava ormai da giorni, parendomi interminabile.
Tutto era iniziato in una notte di tempesta: osservavo immalinconito il vento scuotere con impeto gli alberi del monte Obase, perduto nel mio dolore inconsolabile. Ciò che avevo perso non lo avrei mai più ritrovato e per quanto arrancavo in cerca di una famiglia, di un titolo nobiliare, in vista di una scalata sociale, sapevo che nulla sarebbe cambiato. Le mie condizioni sarebbero sempre rimaste le stesse, un nobile di medio rango, né ricco né povero, ma erede di un'intera casata perché ultimo sopravvissuto. I problemi riguardanti l'eredità non avevano neppure sfiorato la mia mente, finché il mio ultimo parente rimasto in vita, uno dei tre sennin, celebre per i suoi poemi, mi disse che il villaggio sarebbe passato nelle mie mani e avrei dovuto dedicarvi anima e corpo. Fino ad allora mi ero sempre divertito, fuggendo dai miei doveri, trovandoli meramente noiosi. Ma adesso che non c'era più nessuno? Chi dovevo ascoltare? Di chi potevo fidarmi? Di quei nobili perbenisti e opportunisti di corte? Sapevo che bastava davvero poco per soddisfare le ultime volontà di colui che avevo per lungo tempo considerato come un padre: trovare una ragazza di rango né troppo alto né troppo basso, corteggiarla, sposarla, mettere su una famiglia e far rifiorire il clan Namikaze. Un clan che, tra l'altro, avrei voluto cancellare.
Per generazioni i Namikaze erano stati imperatori e, alla morte di mio padre e mia madre, era subentrato il parente più prossimo, della zoku Sarutobi. L'imperatore aveva degli eredi, motivo per il quale non volevo immischiarmi in tali faccende. Probabilmente ero anche io un erede legittimo, ma non era il potere ciò a cui aspiravo: io non desideravo altro che avere una famiglia. Volevo riavere indietro i miei genitori, volevo provare amore e, per una volta nella vita, volevo essere davvero felice.
Ecco perché, affinché non mi legassero al governo per i loro infimi scopi, decisi di assumere per conto mio le redini del mio villaggio, con pochi e fedeli servitori, sotto il cognome della zoku di mia madre, Uzumaki. Così non avrei attirato l'attenzione su di me.
Questo pensavo quando, cullato dagli ululati del vento, mi addormentai e la vidi per la prima volta. Fu un momento davvero fugace e lei ne era sorpresa quanto me. Mi chiesi, in quell'istante, come avesse potuto entrare nella mia camera, quando poi non ne riconobbi i pannelli, riccamente decorati con motivi floreali. Anche lei stava seduta nei pressi di un porticato, da sola, accanto ad una stufetta; per poco non si ustionò le dita per lo spavento, quando si accorse della mia presenza. In fretta si celò il viso con una manica, intimidita, voltandosi da un'altra parte. Rimasi lì, immobile, in un angolo, come folgorato. Prima che potesse nascondersi l'avevo vista e mai avevo incontrato una creatura tanto perfetta in vita mia.
Di donne, ne avevo viste parecchie, soprattutto di quelle che venivano dal mio secondo padre e mi sembravano tutte frivole, sciocche, insignificanti. Tradivano i loro mariti e da loro venivano tradite. Quello si chiamava amore? Era davvero quello l'idillio erotico curtense? Essere un cortigiano perfetto significava seguire l'esempio di Hikaru Genji e amare tutte le donne? Non l'avrei mai accettato. Io avrei scelto una donna, e questa donna l'avrei amata per sempre.
Per questo motivo fino ad allora era sempre stato difficile, quasi impossibile, soddisfare le richieste di mio padre. Ma adesso... Non la conoscevo, non sapevo il suo nome, l'avevo intravista soltanto per un istante, eppure ero sicuro che si trattasse di lei. Non vi era ombra di dubbio.
Quando mi svegliai, quella prima notte, non riuscivo a capacitarmene: era stato talmente reale che mi sembrava di continuare a vedere le sue fattezze nell'oscurità del cielo invernale. Non poteva essere un sogno. Rivedevo i suoi capelli nel velo della notte, i suoi occhi nella brillante luce delle stelle, la sua pelle nella candida neve che improvvisamente sembrava più luminosa, più calda.
Non me ne resi neppure conto, ma da quell'incontro cominciai ad amare l'inverno e a comporre talmente tante poesie da sorprendere persino me stesso. Di giorno mi esercitavo nelle pratiche di corteggiamento, ma ogni notte, ad ogni incontro, finivo sempre con l'essere talmente abbagliato dalla sua bellezza da rimanere fermo in un angolo della stanza, immobile, pietrificato, una statua decorativa che la venerava in silenzio. Non riuscivo neppure a parlarle, in qualche modo il suo silenzio mi impauriva, mi faceva sentire un codardo. E se mi temeva? E se mi odiava per questi incontri impropri? Se mi stavo infiltrando come un ladro nella sua vita privata? O peggio, se lei non era altro che una fantasticheria? Se era un frutto della mia fervida immaginazione? Se era uno spettro? Se era una donna morta da tempo? ... Non sarebbe mai stata mia...
No. Non potevo permetterlo. Lei doveva essere mia, o quanto meno doveva conoscere i miei sentimenti, così puri e sinceri. Se mi avesse rifiutato me ne sarei fatto una ragione, forse era già stata promessa in sposa a qualcuno o era già maritata. Ma in quel frangente non riuscivo a riflettere e così una notte mi feci coraggio.
La trovai stesa nel letto, forse non aveva ancora aperto le porte a quella illusoria realtà, ed esitai. Stavolta stavo davvero per fare un passo più lungo della gamba e tutto si sarebbe deciso la notte seguente.
Scivolai silenziosamente accanto a lei – non volevo disturbarla e intromettermi nei suoi dolci sogni – e posai un rametto di glicine a cui avevo annodato una poesia accanto al suo viso. Mi vergognavo di me stesso, era la prima volta che facevo leggere quello che componevo a qualcun altro e forse i miei versi erano troppo semplici e banali. Mi avrebbe sicuramente considerato un ingenuo, di certo aveva sperimentato corteggiamenti migliori di questi miei infantili tentativi. Stavo per riprendere il mio dono quando le sue ciglia fremettero e capii che era troppo tardi per tirarmi indietro. Aprì le palpebre e i suoi occhi, confusi, incontrarono i miei, terrorizzati dal quale avrebbe potuto essere l'esito di quell'incontro. Mi sforzai di sorriderle come sempre, quando venni strappato via dal suo sguardo, svegliandomi all'improvviso, coperto d'un velo di sudore.
Era giunta l'ora di cercarla sul serio, rimisi i miei uomini in cammino e un monaco in un villaggio mi consigliò di chiedere aiuto alla dea Kannon, che si diceva potesse esaudire i desideri. Quando mancava meno di un giorno alla destinazione la sognai di nuovo. Ero trepidante, mi sentivo in qualche modo più vicino alla mia meta, ed ero curioso di conoscere la sua risposta. Lei, tuttavia, si limitò a guardarmi. Mi osservava, incredula, come se non fosse possibile per noi incontrarci ancora nonostante le lunghe notti trascorse in sua compagnia.
Quella notte la luna splendeva alta, nel cielo, era come se all'improvviso fosse giunta l'estate.
Impavidamente le sfiorai una mano, mentre il cuore mi tremava nel petto... Ma lei non si ritrasse. Improvvisamente il bisogno di toccarla, di sentirla più vicina, era diventato insopportabile. Portai il palmo della sua mano al viso e vi posai le labbra. Un leggero rossore si impossessò delle sue guance: era davvero deliziosa. Sorrisi, intenerito dalla sua reazione così fanciullesca, e ipotizzai che fosse inesperta quasi quanto me. Di certo nessuno poteva battermi nell'essere impacciato.
Avrei voluto fare di più, stringerla tra le braccia, farle capire che c'ero, che poteva contare su di me in qualsiasi momento. Eravamo estremamente vicini, mai lo eravamo stati così tanto, riuscivo a sentire il suo delicato profumo di lillà, il calore emanato dal suo corpo avvolgermi e legarmi a sé. La vidi perdersi in me quanto io mi stavo perdendo in lei, le sue labbra si dischiusero e stavo per cedere al desiderio di renderla mia, quando realizzai non avesse risposto alla mia poesia. Non aveva risposto al mio amore.
Mi svegliai, amareggiato, prima ancora che lei riuscisse ad emettere qualsiasi suono. Mi arresi all'idea che, almeno nei sogni, non saremmo mai riusciti a capirci, ma non lo avrei mai accettato nella realtà. Dovevo trovarla, assolutamente, e sentire la sua risposta, a qualsiasi costo.
Quella stessa notte giungemmo al tempio e all'alba del giorno dopo pregai velocemente la dea. Non c'era molto tempo. Dopo essere scesi dal luogo sacro comprammo una barca, affidando i cavalli ad uno dei miei uomini, per poter perlustrare il territorio.
Fu allora, totalmente preso dalla mia missione, che sentimmo un rumore assordante. Ci voltammo tutti verso il ponte dinanzi a noi, il cui legno andava sbriciolandosi sotto i piedi di una dama. Non ci pensai neppure due volte a togliermi l'eboshi, il sekitai e l'hou del sokutai per gettarmi nelle gelide acque del fiume, pur di soccorrerla. Nuotai controcorrente e la vidi annaspare, in cerca d'aria. Ringraziai il cielo che indossasse semplici abiti della zona – ipotizzavo fosse stata anche lei al tempio, oppure lavorava lì, anche se le due dame ben agghindate al suo servizio sembravano far cadere questa teoria – e liberai un lembo del suo vestito che si era impigliato tra le rocce, per poi prenderla tra le braccia e tornare in superficie.
Trovai la barca a pochi metri da me, chiesi ai miei compagni di aiutarmi a tirarla su e mi accorsi che avesse perso conoscenza. Pensai avesse bevuto parecchia acqua, così mi adoperai a farle riprendere i sensi, slacciandole di poco la stretta veste che le rendeva difficile respirare, praticando le basi del pronto soccorso, mentre sentivo Sasuke inveire contro qualcuno. Non capii cosa avesse detto, ero troppo concentrato a salvarle la vita: avrei impedito a qualunque costo che qualcuno morisse dinanzi i miei occhi, di nuovo, senza fare qualcosa per salvarla.
Dopo un po' vidi le sue labbra tremare e iniziò a tossire, voltandosi su un lato. La aiutai a stare seduta e a sputare l'acqua, liberando i polmoni. Potevo solo immaginare quanto le bruciassero, quanto fosse impaurita era plausibile dalle lacrime che scivolarono dagli angoli dei suoi occhi, che stringeva come se temesse di essere ancora lì sotto, di essere ancora in pericolo. Come se tutto fosse perduto.
La coprii con l'hou e le massaggiai le spalle, rassicurandola che era salva e adesso andava tutto bene. Si strinse nel mio vestito, come in cerca di una protezione e, preso da chissà quale istinto, la abbracciai, per trasmetterle il mio calore e la mia sicurezza.
«Va tutto bene.», ripetei, accarezzandole i capelli, come se fosse una bambina, ma lei si tese come una corda.
Mi chiesi cosa le avesse preso all'improvviso quando appoggiò le mani sul mio petto e si allontanò di poco, alzando lo sguardo su di me.
Non era possibile. Quegli occhi li avrei riconosciuti ovunque. Quel dolce e infantile sguardo che tanto avevo desiderato. Come avevo potuto non rendermene conto subito? Lei era lì. Mi guardava, incredula. Mi sorrideva, riconoscente. Era tra le mie braccia. La persona che tanto avevo agognato era davanti ai miei occhi. Era viva, piena di colori, era splendente, era calda nonostante fosse totalmente ricoperta d'acqua ghiacciata, era leggera, era una dolce presenza, era così –
«Brutto mascalzone, giù le mani dalla nostra padrona!»
Qualcosa di duro mi colpì la fronte, caddi all'indietro e finii col battere la testa.
«Ancora tu, donna?»
Mi misi seduto, massaggiandomi le due zone colpite, trovando un vaso di ceramica affianco al mio viso. Ma cosa?! Un attentato? Qualcuno osava sfidarmi?
Guardai nella direzione da cui era arrivato e notai una delle dame, dai lunghi capelli rosa, prendere la donna dei miei sogni e voltarla verso di sé, privandomi del bagliore del suo viso. Non poteva essere! Voleva portarmela via? Proprio adesso che l'avevo trovata?!
«Fa' silenzio! E anche voi Hinata-sama, non vi azzardate a pronunciare parola. Già vi siete fatta toccare e baciare da quello screanzato, non vogliamo che la situazione degeneri ascoltando persino la vostra voce!»
Un attimo. Ero io lo screanzato?
Ma cosa ben più importante: avevo scoperto il suo nome! Si chiamava Hinata! Era davvero perfetto per lei, mai nome poteva adattarsi meglio ad un essere umano.
Sorrisi inebetito, totalmente inebriato da lei. Mi stesi, portandomi un braccio sugli occhi, continuando a ripetere il suo nome nella mia testa.
Hinata.
Hinata!
Allungai una mano verso il sole, e strinsi il pugno come per afferrarlo.
Hinata! Adesso che ti ho trovato farò qualunque cosa per renderti mia! Riuscirò a farti innamorare di me! Ci sposeremo e creeremo una grande famiglia! Tu, Hinata, realizzerai il mio sogno, ne sono certo!! Ed io farò qualunque cosa per realizzare il tuo!
Ti amo, Hinata!!



Terminologia:
- zoku = clan, famiglia, tribù
- Eboshi, sekitai e hou sono elementi che compongono il sokutai, ossia l'abito tipico di un nobile dell'epoca.
 
  
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