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Autore: Dark_Blame    25/11/2015    1 recensioni
Duke Convington ha finalmente arrestato Marq Delaine, il sedicente capo di una setta dei bassifondi che si faceva venerare come un santone. Ora deve convincerlo a confessare i suoi crimini e le azioni della sua "chiesa", lo spaccio di droga e i morti d'overdose, scontrandosi con la fastidiosa ideologia del sovversivo.
Quello che Duke non sa è che il suo "vizietto" privato lascia i segni.
Genere: Drammatico, Thriller, Triste | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: Tematiche delicate
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Come amava definirlo il suo socio Constantine, il sotterraneo era un caldo buco d'inferno, le pareti con l'intonaco screpolato sempre umide e trasudanti affetto. Quel particolare microclima era dato dalla vicinanza con la sala caldaie; vicino alla prigione del commissariato c'era uno snodo di raccolta dei tubi per le servomacchine di tutti gli edifici sovrastanti. Duke si liberò della giacca e arrotolò ben bene le maniche della camicia. Il secondino annuì lievemente nella sua direzione. Ma forse quel movimento se l'era solo immaginato, un'illusione ottica data dal tremolio dei numerosi doppi menti del grasso, pachidermico uomo, che dovendo restare là sotto era sempre in canottiera. Duke si assicurò di aver poggiato la giacca lontano dal bicchiere lercio in cui Bombolo - sicuramente un nome d'arte - teneva i denti finti. Avrebbe bestemmiato forte il cielo se l'acqua della protesi fosse venuta in contatto con qualsiasi oggetto di sua proprietà.
«Faccio due chiacchiere col nostro ospite d'onore,» disse, tanto per avvisare.

Attraversò ad ampie falcate l'unico corridoio del sotterraneo. Una fila di lampade a gas, alla sua destra, gettava un fascio di luce tremolante sulle celle. Ce n'erano cinque in tutto: in quel momento le prime quattro erano riempite solo dall'ombra delle sbarre. L'ultima ospitava il suo uomo. Si era assicurato che fosse messo lì. In quell'angolo, un tubo dritto dalle caldaie scorreva fuori dalle pareti, libero di irradiare calore e umidità, e occasionalmente uno sbuffo di vapore.
L'inquilino della cella cinque stava aspettando in piedi il suo arrivo.
«Marq Delaine» lo salutò, impregnando la voce di finta giovialità «Vedo che ti stai godendo il soggiorno gratuito nella nostra piccola sauna.»
Delaine storse la bocca, il naso e tutti i muscoli del viso, in una smorfia repentina gradevole come un calcio nelle vergogne. La sua voce uscì fuori secca:
«Non è quello il mio nome, Convington.»
Il criminale non aveva colto l'ironia. Eppure la “sauna” doveva gradirla: i suoi lunghi capelli grigiastri erano fradici, dritti ai lati della testa, gli si attaccavano alle guance scavate o rimanevano a penzolare come i rami di un salice. Gocce di sudore cadevano in continuazione sulla sua faccia, seguendo la linea aspra degli zigomi. Delaine lo guardava con gli occhi infossati, una postura sgangherata di fronte alle sbarre.
Non poté fare a meno di provare una certa soddisfazione. Aveva visto criminali incalliti diventare docili come gattini non ancora svezzati dopo aver passato il tempo che meritavano in quella cella. E quelli che aveva visto non avevano l'aggravante di essere in astinenza da manadd. Agguantò uno sgabello e lo trascinò davanti alle sbarre, sedendosi comodamente di fronte al criminale. Finse un'aria innocente.
«Eppure è così che è scritto, Marq, sui tuoi documenti. Non vorrai mica che io ti chiami … aspetta com'era … il Maya? Andiamo.»
L'altro rifece quella smorfia, anche se stavolta si mostrò meno infastidito.
«Sarebbe comunque incorretto. Quello è il nome che mi hanno dato gli sbandati, le anime della strada; preferirei il nome che mi sono dato da solo.»
«Io preferirei avere una bella villa a Berley e ricevere il cavalierato dalla Regina» Duke si fissò le unghie. Si sarebbe ingoiato la lingua prima di glorificare quel cazzone, facendolo il piacere di chiamarlo con l'epiteto che si era affibbiato. «Chi ti vendeva il manadd, Marq?»
«Nessuno. Non ne ho mai comprato.»
Duke sollevò le sopracciglia. «Devo supporre che te le abbiano regalate, tutte le dosi che abbiamo trovato nel tuo covo?»
«Esatto.» Marq Delaine assunse un'aria di sufficienza, come se quella conversazione non gli interessasse.
«Trentacinque fottuti chili, Marq.»
«Erano scorte della chiesa.»
Ignorò volutamente la risposta. «Era roba tua, Marq. Sai che già possedere così tanto manadd basterebbe a tenerti qui un bel po'? Se non fosse per tutte le altre schifezze che hai fatto, non staremmo nemmeno avendo questa conversazione.»
«Schifezze? Non è perché vi ho disgustato che mi trovo qui. Ho visto come trattate le “schifezze” in questo paese: tollerate che scorrano lontane dalla vista, basta che non sporchino i vostri viali.»
Per quanto avesse evitato di dargli corda sulla Chiesa, evidentemente era troppo sperare che il criminale non gli facesse la fottuta predica. «Si chiamano fogne, Marq. A nessuno piace pestare la merda.»
«No, non sono qui per quei poveracci che hanno fatto il mio nome né per il manadd. Sono qui perché vi faccio paura.»
Duke rise, senza nemmeno bisogno di fingere. «Oh, andiamo. Ammetto che ti eri fatto un certo nome dei bassifondi. Ma non credi di essere diventato un po' egocentrico?»
Lo guardò fisso, in quegli occhi incastonati dalle pieghe del viso e della pelle. Poi fu lui a sorridere. La bocca gli si aprì quasi da orecchia a orecchia, mostrando una fila di denti sorprendentemente bianchi e puliti. Una rarità per un drogato.
«Mi sono appena reso conto di una cosa.»
L'espressione del prigioniero era fastidiosa.
«Ti sei deciso a dirmi qualcosa di interessante, Marq?»
«Penso,» rispose, con deliberata lentezza «di si.»
Marq Delaine si ficcò una mano in tasca, con un gesto arioso e rilassato. Improvvisamente il suo atteggiamento e la sua postura non avevano più nulla dell'insofferenza di poco prima. Duke sentì la propria soglia di guardia innalzarsi. Per quanto fosse impossibile, si aspettava che il prigioniero estraesse un coltellaccio.

Invece no. Le dita ossute di Delaine tornarono vuote, se non per un piccolo oggettino sferico, grigio e opaco. Niente che un carcerato dovesse avere, ma non era nulla di pericoloso. Forse si trattava di un componente caduto da qualche servomacchina. L'altro cominciò a giocarci, passandosi la piccola sfera negli spazi tra le dita.
«A cosa pensi che mi servisse, il manadd
«Oh, a delle belle serate con la tua cricca, senza dubbio. Ma devi dirmi tu cos'altro.»
«Nessuno dei miei seguaci» scandì bene le parole «si fa. Io non lo permetto.»
Notò che continuava a parlare al presente, come se avesse ancora controllo sulla setta.
«E tutte le vostre scorte? Li facevi spacciare?»
«Le consegnavano loro una volta intrapreso il cammino. La loro … droga. La loro e quella delle anime perdute che cercavano di trascinarli dentro di nuovo.»
«Ecco come vi siete inimicati tutte le bande locali. Rubavate agli altri spacciatori.»
«Non rubavamo, cercavamo di convertirli. Di salvarli. Con alcuni ci riuscivamo. Gli altri ...» Delaine sputò a terra. «Miseri sciacalli» sentenziò. «né migliori né peggiori del branco di cui fai parte tu, solo più stupidi e più piccoli.»
Duke sentiva il sudore accumularsi sulla fronte e sotto la camicia, la cappa calda e umida della prigione che cominciava a sortire i suoi effetti. Al contrario di lui, il prigioniero sembrava galvanizzato dal rancore nel suo discorso. Niente di nuovo dai soliti vaneggiamenti sovversivi, ovviamente, ma poteva capire perché fosse stato a capo di una fiorente attività dei bassifondi. La sua “chiesa”. L'uomo aveva carisma e odio in proporzioni giuste da attirare a sé le fedeltà di schiere di poveracci e accattivarli alla sua volontà, come bulloni su un magnete.
«E tu credi di essere migliore di loro, Marq?»
«Diverso.» Il tono della risposta era definitivo, gli occhi infossati due monete grigie in fondo a un pozzo. «Noi non spacciamo. Non ci droghiamo. Se qualcuno vuole avvicinarsi al cammino, provo a sollevarlo dal suo tormento. Tuttavia ...»
Parlami dei morti, bastardo. Andiamo.
«... qualche volta trovo un povero reietto che non riesco a salvare. Individui spezzati, fragili; posso aiutarli, ripulirli, dare loro un po' di conforto nei piccoli confini della mia chiesa.» Marq Delaine aprì la mano sinistra, esponendo il palmo verso l'alto.
«Ma appena tornano nella vostra società, li distruggete di nuovo.» Il pugno destro impattò contro l'altra mano, simulando lo schianto di un martello. «Alcune persone arrivano da me troppo stanche, troppo deboli. Come passeri nati negli inverni gelidi. Dove tu vedi un barbone, io vedo un uomo che ha provato troppe volte. »

Pausa. Poi sul volto del detenuto riapparve quel ghigno da orecchia a orecchia, quell'espressione di sicurezza che gli faceva venire voglia di sbattergli la faccia nelle sbarre.
«E qualche volta anche una ricca pelliccia serve solo a nascondere i calci nelle costole.»
«Cosa succede, allora?» Duke avvicinò il viso alla gabbia, ricacciando gli istinti violenti. Non valeva la pena di sfogarsi sul bastardo e togliergli quel vano compiacimento. Cazzo, stava praticamente confessando.
«Allora,» riprese Delaine con pacatezza «se non posso salvarli, posso risparmiar loro il dolore. Quando la droga ... è l'unico posto in cui possano rifugiarsi, io apro loro le porte alla nostra scorta. Perché si perdano in essa.»
Spiegherebbe i morti d'overdose. Duke si ritrasse, un sorriso accennato agli angoli della bocca.
«Molto bene.»
Si alzò, allontanando via lo sgabello con un gesto del piede. Ci sarebbe stato altro lavoro da fare, ma già la conversazione costituiva una prima ammissione di colpa da parte dall'insopportabile bastardo. Era sceso nella prigione solo per vederlo sudare e, onestamente, infastidirlo: non si aspettava certo un risultato così. Si poteva dire soddisfatto: dopo aver condotto l'arresto, sarebbe stato anche in grado di ottenere un aumento di pena.
Non riuscì a trattenersi: «Capisci di aver ammesso di averli istigati al suicidio, vero Marq?»
L'altro non rispose. Il pugno destro si aprì, rivelando al suo interno la piccola sfera grigia.
«Io non ho forzato nessuno. Mi ricordo dei loro visi, le loro espressioni; alcuni mi erano così riconoscenti che pretendevano di pagarmi per l'aiuto che gli fornivo. Qualcuno con quel poco che aveva, qualcuno con molto.»
Duke lo ignorò. L'odio era sparito dalla faccia del prigioniero, che in quel momento sembrava perso nelle sue farneticazioni. Cominciò ad andarsene, percorrendo il corridoio asfissiante all'indietro. Quando fu arrivato a metà altezza, qualcosa cadde alle sue spalle. Si girò. Marq Delaine doveva avergli lanciato contro la piccola sfera che aveva in mano, che ora rotolava sul pavimento. Vincendo il disgusto iniziale, la raccolse.
«Un'ultima cosa prima del nostro prossimo incontro, Convington» lo apostrofò il prigioniero, invisibile dietro il muro della sua cella «come sta tua moglie?»
Duke sfregò un polpastrello sull'oggetto. Notò al tatto due buchi agli estremi opposti, come se la sfera dovesse essere attraversata da un filo.


Ci ripensò solo molto dopo. Aveva dovuto fare rapporto, parlare con il suo superiore; nel frattempo l'entusiasmo si era un po' spento. Se non riuscivano a dimostrare l'istigazione al suicidio, in effetti, non potevano mantenere l'aggravante. Si sarebbero dovuti accontentare del possesso di quella quantità mastodontica di droga. Delaine negava che fosse sua, ma non avrebbe avuto importanza. In ogni caso aveva mandato Constantine a incalzare alcuni contatti che avevano avuto rapporti con la “chiesa”, aveva raccolto le idee, infine, era uscito in anticipo. Era salito al volo su uno dei convogli pubblici per tornare a casa; viveva in un quartiere residenziale a quaranta minuti di cammino, solo venti grazie agli sbuffi energici della piccola locomotiva urbana. Il suo palazzo lo aspettava, la facciata rossa scrostata e imperturbabile.

Entrò. Come al solito i primi piani di scale erano permeati dalla puzza di cavolo bollito. Mise la giacca sotto braccio; nel farlo, il piccolo oggetto gli cadde di tasca. Lo raccolse. Doveva averci giocato durante il viaggio di ritorno, perché lo strato di fuliggine e sudiciume era venuto via laddove erano passate le sue dita. Sotto, la superficie era lucida e madreperlacea. Cominciò a macinare i gradini come una macchina, un fastidioso tarlo nella testa. Al pianerottolo del secondo piano gli venne in mente che Glory non l'aspettava a casa così presto. Avrebbe potuto comprarle dei fiori e farle una sorpresa. Ripensandoci, però, tornare a casa presto voleva anche dire ascoltare le sue fottute lagne per più tempo. Le sue dita si chiusero a pugno istintivamente. Ma ormai non aveva voglia di tornare indietro e cercarsi un pub. C'era da sperare che sua moglie non fosse dell'umore di rompergli le palle. Una rampa di scale dopo, la puzza di cavolo si tinse di una nota esotica. Al terzo gli tornò in mente quell'ultima domanda di Delaine. Aveva pensato che fosse una minaccia vuota, l'ultimo tentativo di infastidirlo. Non era strano che sapesse che era sposato: portava la fede al dito. Presa in una vera chiesa, quella.

Arrivato al quarto riconobbe l'odore nell'aria. Gli riempiva i polmoni – aperti per via dello sforzo fisico – come l'acqua li riempe a un annegato. Penetrante, eppure piacevole. L'oppio dell'uomo folle, lo chiamavano. Duke fece l'ultima rampa saltando gli scalini a due a due, catapultandosi contro la porta del suo appartamento. Mancò tre volte il buco della serratura e finalmente aprì. Una nebbia sottile aleggiava nell'ingresso, strisciando languida dalla porta socchiusa della camera da letto. Un paio di pantaloni e di calzini spaiati lo fissavano dal pavimento.
«Glory!» si sentì urlare.
Sua moglie giaceva immobile sul matrimoniale, lo sguardo vitreo fisso sul soffitto, coperto da banchi di fumo. Era circondata da cataste di vestiti tirate fuori dall'armadio e poi abbandonate, lasciate sulla coperta come spoglie di guerra. Lei in compenso era quasi nuda, collant a coprirle le gambe e una camicia bianca da uomo aperta sul petto magro. Una delle sue. La puzza del manadd era quasi insopportabile. Duke guardò sua moglie e la muta accusa dei lividi bluastri sopra le costole sporgenti. Macchie nere sulla pelle chiara. L'altra sera … Avrebbe voluto gridare, avrebbe voluto abbracciarla. Ma le contusioni lo bloccavano. Lo guardavano. Erano una prova di cos'aveva fatto, una prova recente.

Individui spezzati, fragili; posso aiutarli, ripulirli, dare loro un po' di conforto, diceva Marq Delaine, nella sua testa. Se non posso salvarli, posso risparmiar loro il dolore.

«M-mi dispiace,» riuscì finalmente ad avvicinarsi, a prendere la testa di Glory tra le braccia. Le sentì il polso: il battito era lento, il respiro lieve. Evitò di toccare quelle macchie nere sul costato come se fossero peste. Per ogni contusione visibile dovevano esserci cento, mille nascoste all'interno del corpo e dell'anima di sua moglie. Scivolate. Cadute dalle scale. Una porta presa in faccia …

«... io non …» La voce gli si rompeva. L'altra non sembrò badarci. Sul comodino, in un cassetto aperto, c'era la collana – regalo di qualche compleanno prima. Il filo era rotto e le perle rimaste erano poche, pochissime.

Duke gridò di nuovo il nome di sua moglie, ma lei era lontana.

Perché si perdano in essa.


 

*Nota dell'autore*
Pubblico anche qui questo racconto breve, scritto per una sfida amichevole su WD. Il genere dell'ambientazione si rifà un po' alle tematiche steampunk; qui l'ho messo sotto noir perché più consono alle tematiche trattate (piuttosto che fantasy o sci-fi). L'ambientazione fa dopotutto solo da contorno. Come al solito qualsiasi commento è gradito e benvenuto.
 

  
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