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Autore: My Pride    01/03/2009    16 recensioni
Nessun mortale avrebbe mai saputo dare quel timbro alla propria voce.
Era simile al canto del vento fra le brughiere che si confondeva con il richiamo della pernice bianca; melodiosa come l’inudibile fioritura degl’iris selvatici; pura e densa come la fragranza degli abeti, dei pini e dei larici; palpabile come il muschio bagnato dalla rugiada mattutina.
Era tutto questo ma al contempo non era nulla, emblematica come il fuoco, misteriosa e solitaria come la notte che ci avvolgeva nel suo silente abbraccio.
[ Van Hohenheim POV ]
[ Agli esordi de «Il bacio del vampiro» ]
Genere: Dark, Malinconico, Sovrannaturale | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: Alphons Heiderich, Edward Elric, Hohemheim Elric, Trishia Elric
Note: AU, What if? | Avvertimenti: nessuno
- Questa storia fa parte della serie 'Vampire's Story ~ Il Bacio del Vampiro'
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Sinner’s Night [Mistake of a Life] Titolo: Sinner's night [Mistake of a life]
Autore: My Pride
Fandom: FullMetal Alchemist

Tipologia: One-shot [ 8817 parole ]
Personaggi: Van Hohenheim, Edward Elric, Trisha Elric, Alphonse Elric
Genere: Dark, Malinconico, Sovrannaturale
Rating: Arancione
Avvertimenti: AU, Non per stomaci delicati
The angst time: 11. Inganno


FULLMETAL ALCHEMIST © 2002Hiromu Arakawa/SQUARE ENIX. All Rights Reserved.

The blood on our hands is the wine , we offer as sacrifice
Come on, and show them your love
Rip out the wings of a butterfly
For your soul, my love,
Rip out the wings of a butterfly
For your soul
[1]

    Un tempo non ero affatto ciò che sono oggi.
    Non ero solo il portatore di morte che ammaliava le sue vittime prima di porre fine alla loro vita, che rubava il sangue dai loro corpi addormentati nelle case, o da chi si era perso fra le strade e riusciva a scorgere il fugace lampo dei miei occhi prima di smettere di respirare. Non ero il mostro che nei primi anni della sua vita era costretto a rifugiarsi in cripte buie e ammuffite fino al calar del sole, e che vagava poi come uno spettro dorato nei vicoli oscuri. Non ero nemmeno la creatura che recitava ancora la parte dell’uomo di prestigio che era diventato nel corso dei secoli, e che nella quasi piovosa Edimburgo o nella nebbiosa Londra aveva portato il caos per oltre cinquant’anni.
    Immune alla debole luce del sole di quelle città dopo secoli passati nell’ombra, potevo passare inosservato agli occhi degli umani che non riuscivano a percepire il mio immenso potere a causa della loro ignoranza, i quali non si rendevano conto di chi io fossi finché le mie zanne non affondavano nella loro carne in cui scorreva ancora, come un mare fra le mie mani, il loro sangue, l’essenza del loro essere.
    Lasciate, però, che io vi racconti come successe. Erano gli anni in cui la rivolta contro gli inglesi si era appena conclusa, e il nostro re, Guglielmo il Leone, era stato costretto a giurare fedeltà ad Enrico II. In molti furono obbligati ad accettare tale condizione, e io, umile figlio d’un contadino - facente parte nei suoi primi anni di uno dei tanti clan prima che il possesso basato sulle terre venisse abolito da Davide I -, vivevo degli aridi frutti della terra che noi stessi coltivavamo.
    Ero appena nella mia ventinovesima estate quando accadde. Mio padre era morto dopo aver contratto un morbo che solo i nobili sarebbero riusciti a superare, nei loro lustri castelli e nelle loro morbide camicie da notte, con a loro disposizione i miglior curatori che le nostre tasse versate ai loro feudi potevano pagare. Già nove anni prima mia madre era stata portata via dalla stessa malattia, e mio padre e miei tre fratelli si erano occupati dei pochi terreni che possedevamo per poter permettere a me e alla mia unica sorella di avere almeno pane e rape per mangiare, ma non avevo mai accettato che gli altri facessero qualcosa per me. Così, seppur giovane, li aiutai a guadagnare un po’ di soldi lavorando in nero come garzone nella bottega d’un commerciante, rincasando solo a notte fonda. Poi era scoppiata la rivolta.
    Durante le continue sommosse, due dei miei fratelli vennero coinvolti, e le braccia utili per arare la terra si ridussero solo a quelle di mio padre e del fratello che si era salvato. Non passò molto tempo prima che la morte portasse via anche lui e mia sorella, lasciando solo noi due. Io e mio padre ci arrangiammo come potemmo, spesso lavorando il doppio da noi concesso. Avevamo trovato lavoro presso la piccola proprietà d’un alto borghese a cui serviva forza bracciante per i suoi possedimenti, e anche se il salario non era dei migliori e condividevamo un piccolo casolare con gli altri lavoratori, potevamo godere d’un tetto sopra la testa e di un modesto pasto caldo tutti i giorni. Brodo e pane, ma era sufficiente, almeno finché anche mio padre non s’ammalò a causa del troppo lavoro.
    Vegliavo su di lui la notte invece di riposarmi nonostante lui stesso mi dicesse di farlo, e alle prime luci dell’alba cominciavo il lavoro nei campi, chiedendo alla sguattera che ci preparava da mangiare il favore di controllare che non peggiorasse. In quello stato riuscì a resistere per oltre un anno, ma le sue condizioni si aggravarono nell’autunno del 1177, quando il freddo divenne così pungente che anche in quella misera capanna, con un bivacco acceso nel centro e tutti raggruppati intorno ad esso, non riuscivamo a riscaldarci a dovere.
    Quella notte la pioggia era insistente, il terreno fangoso sembrava avvolgere il casolare e il vento che infuriava faceva tremare il tetto dalle travi rancide, rischiando di farlo crollare; i brividi che avevano scosso il corpo di mio padre aumentavano d’intensità ogni volta che apriva la bocca per tossire, e io non potevo far nulla se non ripulirgli il sangue che spesso gli macchiava le labbra quando succedeva. Ero impotente e potevo solo guardarlo morire. L’avevo assistito come concesso dalle mie misere forze mortali, detergendogli il sudore dalla fronte o dal mento, bagnandogli il volto con una pezza quasi lurida che avevo trovato accanto al catino che usavamo in tanti.
    Smise di respirare poco prima che la notte raggiungesse i colori del mattino, e quello stesso giorno lo vidi sepolto sotto metri di terra, in una tomba senza nome e senza le onoranze del suo antico clan. Non ero propriamente di religione celtica e nemmeno cattolica, ma ricordo distintamente che quel giorno, mentre osservavo quel terreno smosso dove erano coricati i resti mortali dell’uomo che era stato mio padre, mormorai qualche parola incomprensibile e sconnessa, forse animato dai sentimenti che un figlio può provare verso il proprio genitore. Aveva continuato a piovere, vero, però, anche con tutta la forza di volontà che possedevo, non ero riuscito a muovermi. Non avevo versato nemmeno una lacrima, ma l’affetto che nutrivo per lui aveva lasciato che immagini del tempo che avevamo trascorso insieme si accavallassero senza un ordine preciso, sostituendo il pianto al quale non avevo dato vita. Il padrone mi aveva concesso quel giorno di lutto e io l’avevo sfruttato a vegliare sulla tomba muta, rientrando nel casolare solo quando l’umidità era divenuta insostenibile.
    Trascorsero altri tre anni prima che decidessi di lasciare quelle terre. Vagai per i sobborghi di una cittadina vicino al Loch, infreddolito e sporco come un mendicante; racimolavo quei pochi denari che riuscivo a guadagnare in uno dei bordelli dove avevo trovato un misero lavoro di sguattero, pulivo i pavimenti di legno incrostati di sudiciume, i tavoli sbilenchi e il piccolo bancone altrettanto sporco dove veniva servito da bere ai clienti, per lo più mendicanti o malavitosi che si intrattenevano con le sgualdrine del luogo.
    Erano pochi i momenti che potevo concedere alla mia persona. Passavo notte e giorno a svolgere gli incarichi che il padrone della locanda mi affidava, spesso portando da bere e da mangiare ai pochi uomini colti che vi entravano per consumare il whisky annacquato che servivamo e l’haggis preparato con il fegato delle pecore poco nutrite. Mi perdevo nei discorsi colti in cui si gettavano, affascinato da quel mondo che avevo solo potuto sognare e mai raggiungere. Spesso, con la scusa di portare loro qualcos’altro, mi intrattenevo più del dovuto per ascoltarli, per imparare ciò che loro sapevano, e le loro conoscenze imperversavano nel mio animo come un fiume in piena che si ingrossava ad ogni parola. Avevo venticinque anni e avevo passato tutta la mia vita ad arare campi o a pulire i pavimenti, ero analfabeta e le poche cose che conoscevo erano solo quelle essenziali per vivere. Tutto ciò che sentivo quando discutevano mi appariva nuovo, sconosciuto.
    Fu durante l’inverno del 1184 che un incidente pose fine a quell’esistenza. Il bordello in cui lavoravo venne chiuso dagli inglesi, e finimmo tutti a vagabondare per strada nonostante le piogge e le nevicate che imperversavano sul paese. Cominciammo a vivere di stenti raggruppati in piccole comunità, io e gli altri non volemmo lasciarci poiché avevamo imparato, in quegli anni, a convivere quasi come fossimo una famiglia. Eravamo quattro uomini e due donne, e spesso rubavamo per quest’ultime abiti caldi per permettere almeno a loro di non patire quel freddo pungente. Passammo più di due settimane a vivere in quel modo.
    Due o tre sere dopo l’ultimo furto, un malore improvviso mi colse durante il sonno, mentre dormivo avvolto in stracci raggomitolato accanto ai miei compagni in una vecchia stalla dal lezzo dei cavalli malati che l’abitavano oltre a noi. Cominciai a tossire così forte che svegliai anche gli altri. Mi chiesero come stessi, come mi sentissi, ma non riuscivo a parlare, solo a tossire. Tutto ciò che riuscivo a pensare era che avrei fatto la stessa fine dei miei genitori e dei miei fratelli, e non volevo essere gettato in una fossa per cadaveri senza essere ricordato da nessuno. Non volevo morire senza conoscere nulla del mondo, senza comprenderne le bellezze, senza aver provato l’amore... ma tossivo e tossivo, non riuscendo a respirare. I polmoni erano ormai in fiamme, gli occhi mi bruciavano a causa della febbre che sentivo invadere il mio corpo mentre i brividi del delirio serpeggiavano lungo la mia schiena e sotto la mia pelle. Ero boccheggiante e scosso da spasmi.
    «Non supererà la notte se continua così», solo questo riuscii a sentire da una delle due donne che era con noi, Giselle, prima che la vista si riducesse solo ad un oscuro oblio. Tutto era diventato una foschia dove le sagome dei miei compagni erano indistinte, mentre li vedevo muoversi piano, lenti come fantasmi, lasciando dietro di sé scie biancastre che non avevano consistenza né odore. Sembravano fluttui di fumo che si disperdevano nell’oscurità. L’odore della paglia era diventato aspro e denso, e nel mio stato ci misi qualche istante per capire che uno degli uomini ne aveva raggruppata un po’ e l’aveva posta sul mio corpo, nel tentativo di riscaldarmi e di far scendere la febbre.
    «Servirebbe qualcosa di molto più pesante», disse ancora Giselle. «Questa paglia non basta».
    Avevo provato a muovere le labbra per ringraziarla, questo lo ricordo, ma quando, dopo sforzi, riuscii ad aprirle, biascicai solo qualche parola incomprensibile che nessuno di loro riuscì a comprendere, mentre con le poche forze che mi rimanevano tentavo di scorgere i loro volti cupi. Restai in quello stato per un tempo che, se ci rifletto adesso, non ho l’agio di ricordare. Nemmeno i miei compagni, se fossero vivi, sarebbero in grado di stabilirlo. Sembrò che patissi mille atroci sofferenze, per quelle che valsero per me un’eternità quando forse furono soltanto poche ore o pochi minuti, o forse mezzo dì.
    Ardevo. Così mi sentivo. Percepivo sulla pelle la sensazione del fuoco che avvolgeva il mio corpo, i muti demoni della febbre che strillavano nella mia mente; rivedevo la mia vita come se fosse quello che oggi credo chiamino diapositiva, o una cosa del genere. Le gioie e i tormenti, la fatica e la tristezza. Tutto passava in un lampo indistinto e senza voce: scorgevo il volto snello di mia madre, il sorriso che non le abbandonava mai le labbra; mio padre che, sotto il sole di mezza estate, lavorava nei campi, detergendosi il sudore dalla fronte con il braccio sinistro, e al suo fianco i miei fratelli, che salutavano me e mia sorella allegri, come se si stessero divertendo anziché lavorando. Poi, un urlo indistinto proruppe in quelle fioche immagini, squarciandole con i suoi artigli invisibili e riducendole sotto i miei occhi in brandelli di stoffa. Non avevo compreso, in quel primo momento, che ero io stesso a gridare.
    «I demoni lo stanno chiamando, non possiamo fare più niente per lui», un sussurro da uno degli altri, Alasdair. Praticava, un tempo, la stregoneria. E se lui aveva detto che per me non c’era più nulla da fare, era così. Lo sapevo io come lo sapevano tutti, lì dentro. Persino i cavalli avevano cominciato a nitrire, come fossero spaventati, ma non volevo arrendermi, non volevo abbandonare quel misero appiglio alla mia vita.
    Provai anche ad aggrapparmi ad uno dei loro stracci, stringendolo convulsamente fra le mani per quanto le forze me lo permettessero, sentendo la mano di Giselle fresca come l’acqua d’un ruscello sulla mia fronte in fiamme. La presa cominciò a scemare non più di qualche attimo dopo. Troppo debole, non riuscivo più nemmeno a tenere gli occhi appena socchiusi.
    Abbassai del tutto le palpebre, lasciando che il braccio cadesse con un tonfo sordo sulla montagna di paglia umida accumulata sotto di me. Il mio cuore aveva smesso di battere per meno di due minuti, e quella sensazione di gelo che mi colpì dopo fu l’ultima cosa che ricordo con esattezza. Non sentivo più nulla. Solo freddo, credo. Non riuscirei a spiegarlo tutt’ora, quello che sentii. Forse fu più simile ad un bagno nel Loch durante l’inverno, quando le acque sono così gelide che la pelle sembra andarti a fuoco, quando ne vieni a contatto. Era come se stessi fluttuando nel buio che mi aveva avvolto dal momento in cui avevo chiuso gli occhi, come se le vesti che indossavo fossero fatte di un ghiacciato oblio, mentre non sentivo rombare null’altro che il silenzioso suono del nulla.
    Le voci dei miei compagni s’erano affievolite già da un bel po’, così come i nitriti dei cavalli. Aprii gli occhi solo qualche tempo dopo, fuori, nell’oscurità che avviluppava il paese. Avevo provato a rimettermi in piedi affondando le mani in quella fanghiglia melmosa in cui mi ero risvegliato, guardandomi spaesato intorno. La stalla era sparita, ero solo tra tanti cadaveri - le membra di alcuni venivano ancora scosse da spasmi involontari - e malati, lontano dalla città e al limitare del bosco. Mi avevano abbandonato. Non vedendomi respirare, avevano forse ben pensato di lasciarmi lì a marcire, senza nemmeno concedermi il lusso di una semplice e modesta tomba.
    Conficcai le unghie nel fango, il volto contratto in una smorfia e i capelli, ricoperti di melma anch’essi e intrisi di sudore e pioggia sporca, incollati al volto, come biondi fili che incorniciavano i miei lineamenti. Non seppi, in principio, cos’era la sensazione che mi aveva travolto d’improvviso l’animo. Risentimento, abbandono. Quelle due emozioni accrescevano in me un qualcosa che poteva solo esser definito come una rabbia smisurata, nutrendo la belva dell’irragionevolezza. I sussurri del sottobosco e della notte si confondevano con i lamenti di quegli esseri sventurati che come me erano stati lasciati al loro destino, all’addiaccio fra le spoglie di chi non era riuscito a resistere al freddo pungente che si infiltrava fra gli stracci che in molti, io compreso, indossavano.
    Riacquistai a poco a poco il controllo dei miei arti. Ad ogni passo che facevo, vedevo uomini feriti e malati che mi fissavano, gli occhi sbarrati e i volti sbiancati nel candore della morte, che tentavano di riscaldarsi stringendosi nei loro sudici stracci o a rialzarsi in piedi a loro volta per lasciare quel posto maledetto. La fossa dei cadaveri, ecco dove mi ero svegliato. Un luogo in cui nessuno avrebbe mai voluto ritrovarsi.
    Superai, se ben ricordo, più d’una ventina di morti, tutti accatastati l’uno sopra l’altro, con il sangue delle loro ferite coagulato sul terreno viscido e fangoso. Ormai abbandonato a me stesso, mi inoltrai in mezzo a quella montagna di cadaveri, riuscendo a sentire, man mano che mi discostavo, il brusio sconnesso dei gemiti dei sopravvissuti che diveniva sempre più flebile. Non mi ero allontanato più di trenta piedi che la voce bassa e malinconica di qualcuno mi richiamò, sussurrata come lo sciabordio d’un piccolo ruscello nella foresta. Cercai con lo sguardo la creatura dalla quale proveniva tale voce, senza trovarla.
    Non ho detto essere umano o uomo per un buon motivo. Nessun mortale avrebbe mai saputo dare quel timbro alla propria voce. Era simile al canto del vento fra le brughiere che si confondeva con il richiamo della pernice bianca; melodiosa come l’inudibile fioritura degl’iris selvatici; pura e densa come la fragranza degli abeti, dei pini e dei larici; palpabile come il muschio bagnato dalla rugiada mattutina. Era tutto questo ma al contempo non era nulla, emblematica come il fuoco, misteriosa e solitaria come la notte che ci avvolgeva nel suo silente abbraccio.
    Fui incantato, da quella voce. Volevo a tutti i costi trovare quella creatura a cui apparteneva. La cercai a lungo, seppur ancora scosso da qualche accesso di tosse. Essa continuava a chiamarmi a sé, come se mi cercasse disperatamente anch’essa. Mi imbattei in quella creatura poco dopo. Giaceva, pallida in volto e con i chiarissimi capelli biondi che glielo incorniciavano, su una macchia di felci, una mano abbandonata sul seno quasi del tutto scoperto e l’altra ad accarezzare delicata il capo d’una cerbiatta, mentre con un sorriso ammaliante mi osservava con i suoi occhi color ghiaccio, così sbiaditi da sembrar bianchi.
    «Sento su di te l’odore della morte», mi disse in un sussurro lei, con quel suo tono inumano e gorgogliante, sfiorandosi una spalla nuda con due dita. «Vieni a me, lascia che ti guardi».
    Come se le gambe non fossero state le mie mi mossi, praticamente rapito da quegli occhi e da quelle labbra che continuavano a muoversi silenziose, senza proferir parola. Mi inginocchiai accanto a lei, guardando la sua pelle candida appena rosata, gli occhi neri della cerbiatta riflessi stranamente nei suoi. Si rialzò a sedere a sua volta lasciando che il leggero velo che fungeva da veste scivolasse di poco sulla pelle d’alabastro, mentre l’animale che pocanzi stava accarezzando le si avvicinò, poggiandole la testa in grembo come a volerla nascondere.
    Una sua mano, fredda come la morte che avevo di poco veduto, si posò su una mia guancia, sfiorandola fuggevolmente prima che chinasse il volto verso di me. «Sei così giovane», mormorò languidamente, disegnando la curva delle mie labbra, passando poi agli zigomi, alle palpebre che avevo appena abbassato, «e io sono così stanca».
    Quiete, solo questo avevo provato mentre quella donna mi aveva stretto a sé con le sue esili ma forti braccia, mentre le sue labbra avevano preso in rassegna il mio volto.  Sentivo il calore sprigionato dal corpo della cerbiatta, ma non quello del suo. Era fredda come il ghiaccio, ma la sua bellezza non era eguale a quella di nessuna donna avessi mai visto. Sembrava una di quelle creature che gli antichi greci avrebbero chiamato Dea. Ignuda, vestita solo della pelliccia vivente dell’animale che la teneva al caldo e che le faceva da unica compagna, era splendida anche con i capelli scompigliati intorno al viso. E i suoi occhi... quegli occhi, erano stati l’attrazione fatale che mi aveva fatto cadere nella sua tela. Una tela che prometteva lussuria e passione.
    «Sii la mia forza, e la morte non ti renderà sua schiava», un altro suo quieto sussurro, la melodia della sua voce crebbe appena, divenendo ovattata. «Sento il tuo tormento, sento i tuoi desideri più torbidi e nascosti... abbandonati a me e vedrai ciò che la vita ti ha negato, le tue antiche sofferenze saranno solo un ricordo sbiadito e lontano».
    La guardai, e mi parve di non vedere null’altro che i suoi occhi color ghiaccio. E specchiandomi in quelle pozze d’acqua gelida, vidi il sorriso trasognato che increspava le mie labbra, la mia testa che accennava ad un sì muto. Fu più semplice di quel che credetti, il dopo. Nemmeno mi accorsi che la cerbiatta era fuggita lanciando un lamento che vibrò nell’aria. Quelle labbra e quegli occhi che avevo così tanto rimirato in quella donna divennero due oscuri oblii mentre si chinava sempre di più verso di me, leccandomi il collo con la sua piccola lingua rosea e quasi ruvida, come quella d’un gatto.
    Non so cosa mi aspettassi, data la sensazione che aveva invaso il mio corpo. Di sicuro non era ciò che avevo pensato io al principio. Me ne resi conto solo quando lei mi morse il collo, la carne al di sopra dell’arteria, facendomi inarcare la schiena e spalancare la bocca in un grido senza voce. Il risucchio umido del sangue mi giungeva nitido alle orecchie, ma non provavo stranamente a sottrarmi da quell’ammaliante creatura che s’era dimostrata una vampira. Avevo solo pensato “Beh, meglio morire fra le braccia d’una donna che in un campo infestato dal lezzo del letame”.
Non feci nulla per impedirle di dissanguarmi, e lei nemmeno lo fece. Non mi uccise.
    Ricordo che sentii l’odore del suo sangue mescolato con il mio, la sua pelle candida premuta contro le mie labbra aride. Poi, un risucchio. Ero io che mi nutrivo del suo sangue. Fu indescrivibile ciò che provai nel sentirne il sapore dolciastro sulla lingua, nel sentirlo scendere denso e caldo nel palato. Era linfa vitale, un continuo orgasmo, il sussulto letale del corpo che moriva e viveva, viveva e moriva per poi rinascere, ancora e ancora, nel tormento, nell'oscurità, nel sangue. La vidi dinnanzi a me, pochi minuti dopo, mentre si passava lentamente il mignolo della sinistra sulla curva piena del labbro inferiore, ripulendolo dal sangue. Mi stava osservando, ormai in piedi, completamente nuda. Anche il suo leggero velo era caduto ai suoi piedi, creando un piccolo lago. Una risatina si levò dal suo petto, come se fosse divertita.
    «Allontanati più che puoi da questo posto dimenticato da Dio, prima che ti trovino», mi disse, con quel suo dolce sorriso che non stonava affatto sul suo bel viso, nonostante le labbra ancora macchiate del mio sangue. «Slàn leat, mo brèaga aingeal
[2]».
    Restai immobile con una mano premuta sul collo pulsante e gonfio, ad osservare il punto in cui lei era svanita lasciando solo una leggera nebbiolina che si confondeva con la vegetazione circostante, un flebile odore di brughiera e di fiori selvatici. Lo ispirai a fondo, socchiudendo gli occhi. Sentivo, frattanto, il dolore imperversare dentro di me, senza che ne facessi realmente caso. La situazione non mi era ancora chiara, e mi vergogno a dirlo, oggi. Io, il flagello degli uomini in quest’epoca, non mi ero reso conto d’essere stato infettato.
    Fu molto difficile seguire il consiglio di quella maestosa vampira, per me. Ero riuscito a rimettermi in piedi solo dopo svariati tentativi, e ad incamminarmi come uno spettro per il fitto e scuro bosco, trovando rifugio nelle tana stretta e soffocante d’un branco di lupi. Non mi avevano attaccato, forse fiutando ciò che ero da poco diventato, ma quando avevo provato a metter fuori il muso con loro, ero stato accecato dalla lucentezza del sole, che mi aveva costretto a rannicchiarmi sul fondo della tana insieme ai cuccioli.
    Solo quando era calata la notte ero riuscito a sbirciare fuori. Mi era sembrato di trovarmi in un mondo nuovo, in un mondo che non avevo mai veduto, e cominciai molto presto ad imparare qual era il mio posto. In principio mi cibavo degli animali che popolavano il bosco, per lo più caprioli e lepri, o di tanto in tanto qualche gatto selvatico quando riuscivo ad avvistarne uno. Avevo anche scoperto che, più il tempo passava, più la luce del sole mi bruciava sempre meno gli occhi, che erano divenuti meno sensibili al suo calore. Persino la pelle sembrava resistere poco, ma non mi arrischiavo mai a cacciare di giorno. Attendevo il favore delle tenebre, ormai divenute mie sole compagne.
    Passai pochi mesi vivendo in quel modo, spostandomi, con la forza del mio nuovo corpo che avevo imparato a conoscere e padroneggiare egregiamente, in una cittadina affollata e confortevole, dove il gelo stava pian piano scemando. Credo che oggi il suo nome sia Glasgow, che noi chiamiamo Glaschu, se non vado errato. Fatto sta che riuscii ad accumulare tutto il nutrimento necessario per svariati anni, senza che gli esseri umani che la popolavano fossero mai al corrente di ciò che accadeva. Uomini e donne morivano nei loro letti, nessuno riusciva a capire cosa succedesse. E io continuavo a vagare indisturbato, quasi divertito da quel mondo in cui, d’improvviso e per un caso fortuito, mi ero ritrovato.
    Raggruppavo ricchezze, avevo un prestigio. Ogni vittima che mietevo era d’alto rango, portatrice di averi e tesori. Me ne impadronivo come fossero mie, creandomi la vita che non avevo mai vissuto. Se avessi voluto, avrei potuto ridare al mio antico clan il rispetto che meritava, le terre strappate ingiustamente agli antichi padri riconsegnandole nelle mani dei figli. E l’avrei fatto, se non fossimo stati un paese corroso da guerre e feudatari. Mi limitai solo a liberarmi del mio vecchio nome di sguattero trovandomene uno più consono alla mia persona, vivendo tranquillamente fra gli umani quando mi aggradava, partecipando alle serate mondane dei nobili inglesi spacciandomi con loro per quello che noi, nella nostra lingua, chiamiamo Laird. E loro mi credevano, credevano all’illusione di terre brulle che gli mostravo, all’utopia dei miei possedimenti nelle Highland, come se pendessero dalle mie labbra e travasassero ogni parola traboccasse da me.
    Non ero il solo, però, ad avere quegli straordinari poteri. Spesso, molto spesso, incrociavo sulla mia strada persone comuni, che apparivano ad occhi altrui e certe volte persino ai miei mendicanti o nobili borghesi, ma, nelle ore della mia caccia, scorgevo di rado le loro agili e flessuose figure che, con salti aggraziati e piroette, rubavano sotto il mio naso le mie vittime, rivolgendomi pacati sorrisi prima di dissolversi nell’oscurità che c’inghiottiva. Percepivo da loro un potere immenso, un qualcosa che non poteva assolutamente essere paragonato alla forza e alla misteriosa lucentezza che io stesso irradiavo, qualcosa che andava oltre la mera comprensione, mortale o immortale che fosse. Non riuscivo mai ad intrattenere un dialogo, con quelle creature così simili a me. Sentivo i loro pensieri, la bizzarra sorta d’avvertimento che il loro odore di terra tombale emanava, come se cercassero di mettermi in guardia da un lascivo pericolo che incombeva su tutti noi.
    Quelle creature sparirono solo un paio di mesi dopo, portando il sentore della morte lontano dalla città e dalle sue strade, braccate da ciò che loro, nelle loro menti, avevano chiamato “cacciatore”. Lo sterminio delle streghe, forse? Volevano forse intendere quello, con le loro mute parole? Comprendere tali allusioni m’era difficile come se non capissi il mondo ormai immortale in cui mi trovavo, persino quando avvertivo io stesso l’odore di corpi che bruciavano non riuscivo a rendermene pienamente conto. Stavano cacciando noi, me. Una delle tante creature che loro consideravano un’eresia. Un abominio nei confronti del loro Dio. Ma non mi lasciai prendere dal panico: continuai a vivere tranquillamente nel lusso e nell’agio che i miei tesori mortali potevano permettermi, partecipando a qualsiasi serata mondana che il brillante mondo della nobiltà intratteneva quasi ogni notte, annegando nell’oblio del piacere.
    Ero nato per questo. Ero nato per rendere partecipi gli uomini di quanto la loro vita, in confronto alla mia, potesse essere fragile e delicata come il petalo d’un fiore, come al minimo tocco insistente delle dita potesse sgualcirsi o appassire, come avrebbero dovuto godersela prima della tragica fine. Ero nato per ammaliarli e condurli alla perdizione, per sedurli e far loro assaporare i piaceri della carne, la lussuria profonda e la passione che io, in quanto emblema del desiderio, potevo trasmetter loro sfruttando la sola cadenza della mia voce o il luccichio indistinto dei miei occhi, occhi che con il loro solo potere riuscivano ad incantare lo spettatore con lo sguardo, occhi che sembravano fatti d’oro fuso, non del colore quasi grigio d’un cielo plumbeo d’autunno come quando ero mortale.
    Ero il chiaro disinganno, il peccaminoso diletto, il periglio d’una notte di luna nuova, persino l’ombra della cupidigia che si rafforzava e non svaniva, divenendo un’indissolubile realtà. Ero tutto questo senza che loro potessero far nulla per fermarmi, senza che potessero resistere alle mie tentazioni, ai richiami muti della mia voce. Li attiravo a me, li facevo miei. Suonavo con queste mie mani immortali le melodie dell’illusione, strofe di canzoni che solo le mie vittime riuscivano ad ascoltare, come fossero semplici brani divenuti arte dei loro musicisti mortali, le cui dita scorrevano sui tasti dei loro strumenti. Contemplavo, con il passar degli anni, l’avvizzire dei loro volti, la pelle che s’inaridiva divenendo quasi incartapecorita, come se bruciasse lievemente senza l’aiuto del fuoco.
    Guardavo tutto questo mentre il tempo sfuggiva rapido dalle mie mani. Loro vivevano e morivano, mentre io, risanato dai difetti mortali, non dovevo più temere nessuna malattia, non avevo più nessun impedimento. Avevo un corpo immortale e perfetto, non avevo nemmeno più bisogno di lavorare e spezzarmi la schiena come avevo sempre fatto. Mi sentivo... invincibile.



    Fu con una sorta di gioia selvaggia che mi crogiolai nei secoli che passarono, nell’assistere ai continui cambiamenti che il mondo che mi circondava stava subendo, nell’accumulare sempre più terre e ricchezze, nell’osservare da punti remoti le battaglie che scuotevano come un terremoto il mio paese, nel vedere come da una morte nasceva una nuova vita. Avevo persino avuto la malsana idea di partecipare alla rivolta del 1295, assistendo al suo svolgimento fino al 1305.
    Nell’oscurità della notte, nascosto fra la penombra dei possedimenti dei nobili, assistevo in silenzio alle loro discussioni, ai loro piani di battaglia. E ridevo, non potevo far altro che ridere. Parlavano d’un alleanza con la Francia, in lotta con la nostra antica nemica: l’Inghilterra. Ed ogni sera, mentre scoppiavano rivolte fra la popolazione, io restavo occultato nelle tenebre, ad osservare quanto la stupidità degli uomini non fosse affatto cambiata.
    Un’altra guerra comportava solo altre vittime. La maggior parte della mia famiglia era stata portata via da lei, e adesso altri avrebbero inutilmente perso la propria vita per una battaglia di rivendicazioni politiche. Ma quello, già da un bel paio d’anni, non era più stato un mio problema. Lasciavo che gli uomini annegassero nella cupidigia dei loro averi, nella stoltezza delle loro azioni, nelle rappresaglie che amavano così tanto creare.
    Quando le guerre cessarono e le rivolte furono soffocate, decisi di lasciare quel paesino ormai quasi distrutto e recarmi nella più bella città che in quel tempo fosse mai esistita: Dùn Èideann, o, come direste voi, Edimburgo. Credo fosse il 1329. Aye, quando la nostra nazione, anziché di guerre cruente contro l’Inghilterra, era teatro di continue lotte fra i nostri stessi nobili. Non nego che vi avevo partecipato anch’io, al principio. Ma avevo sempre desiderato, maggiormente, la quiete. La quiete che non avevo più trovato da quando quella bellissima vampira mi aveva morso. E la trovai proprio lì, in quella cittadina. Nessuno potrebbe mai immaginare il piacere impervio che provai nell’incontrare tutti quei letterati e quei filosofi che vi si erano radunati, nel crogiolarmi nel loro sapere, di apprendere ciò di cui erano a conoscenza solo standoli a sentire da lontano. Con i poteri che avevo acquisito, ero persino in grado di eguagliarli.
    Sapevo leggere e scrivere, io che non avevo mai potuto farlo, e spesso mi accostavo a loro intromettendomi nei discorsi, intrattenendo discussioni filosofiche che non avrei mai potuto fare, se fossi stato ancora il ragazzo umano d’un tempo. Lo stupore era talmente tanto che quasi non me ne capacitai immediatamente, vagando fra le strade quando il giorno si tingeva dei colori del sangue che io stesso versavo, distratto dalla grandezza e dallo splendore che quella città, alla luce del sole o a quella della luna, aveva da offrirmi.
    Acquistai un casolare non molto lontano dalla città, un’antica magione che nei tempi d’oggi non vedo da molto, ma dove passai parecchi dei miei giorni immerso nella grande biblioteca di cui era fornita, andando a caccia di notte e rituffandomi nella lettura di quei testi che un tempo non avrei nemmeno potuto toccare per quanto era alto il loro valore. Era una sorta di piacere che andava oltre al suo senso intimo, quello che provavo e vivevo. Amavo l’odore del sangue, amavo ripulirlo dalle mie labbra quando minacciava di sporcare le belle vesti che mi compravo, o lasciando persino che colasse senza remore, macchiandomi le mani e il volto come fosse l’elisir dell’eterna giovinezza che molti stolti andavano ricercando. Ero io l’emblema dell’eternità. E passai dei secoli stupendi, nel torpore di quell’essenza.
    Il nutrimento non mancava mai, soprattutto durante gli anni dei dissidi che continuavano, e continuano tutt’ora, indistintamente fra noi e l’Inghilterra nonostante il nostro sovrano avesse in sposa una donna di quella dinastia. Potevo uccidere tranquillamente quando più mi aggradava, senza dovermi preoccupare se la vigilanza, in quegli anni molto forzata, scorgeva me o le vittime che abbandonavo per la strada. Scoprii persino di poterne creare altri, come me. Miei servitori fedeli che mandai poi per il mondo, a conoscere le gioie e i tormenti, a carpirne i più reconditi segreti.
    Il culmine di quella che per me era ormai divenuta un’indescrivibile lussuria lo raggiunsi durante gli anni della Riforma. Provavo una bizzarra sorta di divertimento, quando assistevo a quelle lotte, non solo politiche, ma persino religiose. Fingevo d’esser dalla parte di uno e dell’altro indistintamente, aspettando solo il momento propizio per attuare i miei assalti, cibandomi di loro e godendo del terrore dipinto sui loro scialbi e lisci volti prima della fine. Ne vidi molte, in quei secoli. Abolizioni religiose, guerre civili, protestanti e cattolici si battevano per motivi a cui io non prestavo nemmeno attenzione.
    La pace non si raggiunse molto presto, ci volle l’ascesa in trono di non ricordo quanti sovrani, prima che questo avvenisse, ma fu in qugli anni che la conobbi. Anche se ero diventato la preda d’un cacciatore, che chissà come mi aveva trovato e sapeva cos’ero, quante vittime avevo mietuto, riuscii a conoscerla. Trisha. Così si chiamava. Uscivo tutti i pomeriggi solo per incontrarla, vedendola sempre lì, seduta alla vetrina dell’erborista.
    Era splendida, non avevo visto nulla di così bello da quando la vampira d’argento m’aveva trasformato. Aveva i capelli lunghi, d’un castano dorato quando la luce li colpiva, e li lasciava spesso sciolti, o li legava in una piccola crocchia quando lavorava. Di rado i suoi grandi occhi color nocciola incrociavano i miei, ma, quando lo facevano, vedevo una sorta di luminosità in essi. Desideravo quella donna. La volevo. E non tardai a parlarle, presentandomi a lei per quel che ero. O quasi. Non le dissi che ero un vampiro, ma un Laird. Ne rimase colpita, ma non fu per quello che mi amò, dopo.
    Passammo molto tempo insieme, fu capace di farmi ritrovare il calore che non sentivo da molti secoli, un qualcosa di profondo che non aveva voce. Divenne mia sposa qualche anno dopo. La portai nel lusso e nell’agio dei miei averi, e lei mi accolse nel suo letto come fossi un normale uomo, amandomi come mai nessuna avrebbe mai saputo fare. Nemmeno fece domande sulla freddezza del mio corpo.
    Mi donò, con mia grande sorpresa, due figli. Non avrei mai pensato, fino a quel momento, che un vampiro fosse fertile. Persino lei era sempre stata cagionevole di salute, non credevo avrebbe potuto sopportare due gravidanze. E alla vista di quelle creature minute, fragili ma forti, non so dire cosa provai. Avrei dovuto essere orgoglioso, come tutti i padri, ma non sono sicuro che l’emozione che serpeggiò nel mio corpo fosse orgoglio. Stavo comunque per dimenticarmi la cosa più importante, ciò che la rendeva, per me, speciale. Era cattolica. Era cattolica ed era sposa d’un vampiro. Era cattolica e aveva donato ad un mostro due figli. Ah, che ironia! Che sottile sarcasmo!
    Seppe della mia natura soltanto un paio d’anni dopo, quando tornai a casa ad ora tarda con gli abiti sporchi di sangue, del sangue di uno della congrega che voleva sterminarmi. Era rimasta a vegliare su uno dei nostri due figli, Edward. Non essendo immune alle normali malattie degli esseri umani, a undici anni aveva contratto una febbre così forte che quasi temetti lo perdemmo, come persi i miei genitori e come rischiai di morire anch’io, se non fossi ciò che sono. E quella notte, in cui la sua salute era quasi migliorata, la mia Trisha non aveva lasciato che fossero i servi o la governante ad occuparsi di lui, ma aveva provveduto lei stessa.
    L’espressione sconvolta del suo volto quando mi vide fu terrificante. Non riesco tutt’ora a dimenticarla. Portava una catenina con una croce d’argento, sulla camicia da notte. Aveva preso l’abitudine d’indossarla quando andava a controllare la febbre ad Edward e ad augurare la buona notte al nostro secondo figlio, Alphonse, spesso recitando in latino qualche preghiera affidando i loro sogni al suo Dio. Alla vista del sangue che mi macchiava il viso, il colletto e persino i polsini in trina, i suoi occhi si erano spalancati e ingigantiti, mentre si avvicinava piano, con cautela. Sfiorò tutto, terrorizzata.
    «Ti hanno aggredito?» una sua domanda flebile e accorata, la mano che passava in rassegna del mio corpo alla muta ricerca di possibili ferite. Non era raro, a quel tempo, che briganti o malfattori attaccassero uomini di prestigio come me. E nel velo d’ignoranza in cui viveva, nemmeno lei avrebbe potuto pensare che fossi io, l’assassino.
    Le avevo poggiato delicato una mano su una guancia, sfiorandogliela appena prima di scansare le sue mani e cingerle i fianchi con un braccio per portarla nel piccolo salotto. Quando si fu accomodata la guardai intensamente, senza avere realmente il coraggio di farlo. Sentivo la tristezza gravarmi in volto, sapevo che in quel modo avrei rovinato tutto ciò che in quegli anni avevamo creato fra noi, la felicità e l’intimità che, sebbene le differenze culturali e sociali, ci aveva legati, persino la diversa appartenenza. Suo padre difatti, un nobile inglese, aveva permesso le nostre nozze solo per la posizione che mi ero conquistato in quei secoli, e, a dire la verità, anche per mia intercessione. Avevo usato un pizzico del mio potere, per convincerlo. E una volta riuscito, nella dote aveva persino aggiunto un possedimento nei pressi di un piccolo paesino inglese, dove mi trovo tutt’ora. Ma non è su questo che dovrei dilungarmi.
    Ricordo che mi persi nei suoi grandi occhi, nelle onde che i suoi capelli sciolti creavano ricadendo sulle spalle, contrastando con il candido colore della sua pelle. Non riuscii a dire nulla, solo a guardarla. Era qualcosa che non si sarebbe mai potuto spiegare a parole. Così mi sedetti al suo fianco, poggiando il mento sulla sua spalla e inspirando a fondo il suo odore, concentrandomi sul pulsare ritmico del battito del suo cuore, del calore del suo corpo contro il gelo che investiva il mio. L’avevo desiderata come un uomo può desiderare una donna, ma l’avevo anche desiderata come uno della mia specie avrebbe potuto desiderare del sangue. Era anche il suo sangue a tentarmi, non solo il suo corpo. Mi ero sempre controllato a lungo, soprattutto nel non dirle la verità, ma quella notte non so cosa mi spinse a farlo.
    Mi allontanai da lei per rimettermi in piedi, traendo un lungo sospiro e voltando la testa, incapace di resistere ancora al suo sguardo attento.
    «Ti senti bene, caro?» ancora una domanda, alla quale esigeva risposta. Qualsiasi cosa avessi detto, per me sarebbe sempre sembrata ironica. Un vampiro non può stare bene, indipendentemente da quanto si è nutrito. E mi si strinse il cuore, mentre la guardavo.
    «Sono anni, ormai, che non sto bene, mo mnà
[3]», mormorai, chinandomi verso di lei. Ancora una volta respirai il suo profumo, un misto di rose selvatiche e lavanda che portava sempre, anche quando passava le sue giornate nel nostro giardino. E non so cosa mi spinse a farlo, fatto sta che schiusi molto lentamente le labbra, snudando le zanne senza pronunciar parola. Parlavano da soli, quei canini perlacei che possedevo. E non mi sfuggì affatto l’espressione che aveva assunto il suo volto.
    Gli occhi dilatati, la bocca serrata come per non gridare e non svegliare i piccoli o i domestici, il suo corpo che si alzava per allontanarsi da me. «Vampiro...» solo quella parola, mentre la vedevo stringere fra le mani la sua piccola croce argentata, mentre la vedevo indietreggiare sempre di più.
    Quando provai ad avvicinarmi mi scacciò, scuotendo con impeto la testa e correndo via, attraversando tutta la casa per uscire fuori nella gelida e piovosa notte. Seguii la sua figura dalle grandi finestre, incapace di muovermi. Tutto si era ormai infranto, caduto a pezzi come uno specchio e lasciando che le sue schegge si conficcassero nel mio cuore, che da quel momento non provò più nulla.
    La ritrovammo due giorni dopo, isolata dal mondo a dormire nel suo giardino. Era molto fredda, e la sua salute cagionevole si era aggravata. Ci lasciò qualche mese dopo. I miei figli non si ripresero molto presto, proprio come accadde a me. Il lutto fu più eterno dei secoli che avevo passato in solitudine. Per dimenticare, cominciai a viaggiare, portando con me Edward e Alphonse per far vedere loro il mondo, nonostante la giovane età, o lasciandoli per pochi giorni con la governante per raggiungere i possedimenti che avevo ormai ereditato in Inghilterra, per controllare la loro validità. Non restammo a lungo ad Edimburgo, soprattutto per distanziarmi dal cacciatore ormai divenuto la mia ombra.
    Spesso ci ritiravamo in quel piccolo maniero, li portavo lì con la scusa delle vacanze estive, ma era solo per non pensare all’orrore a cui io stesso avevo dato vita e a cui avevo dato forma, al terribile errore che avevo fatto raccontandole la verità. Nulla però, purtroppo, poteva farmi dimenticare. Vedevo lei quando guardavo il volto di Edward. Vedevo lei quando mi perdevo negli occhi più scuri di Alphonse. E anche il ritratto che spesso rimiravo non faceva altro che ricordarmela. L’unico ritratto che avevo di noi due e i nostri figli, l’unica cosa che avrebbe mai lasciato intendere la bellezza che lei possedeva a chi non avrebbe mai potuto vederla. Perdevo ore, durante la notte, dopo la caccia, a fissare intensamente quel ritratto. Nella mia solitudine era ciò che potevo fare.
    Un episodio mi è rimasto impresso, un qualcosa che non credevo possibile a quel tempo. Ero appena tornato da un giro di ronda per la città, dopo essermi nutrito ed essermi dissolto facendo perdere le mie tracce a quella che era ormai divenuta la mia ombra. Avevo trovato Edward e Alphonse davanti al ritratto, ad osservarlo e a spostare il loro sguardo sulle poche candele che, nei candelabri, illuminavano la stanza. Non riuscii subito a capire cosa stessero facendo, o almeno finché non sentii Alphonse mormorare qualche parola nella nostra lingua, parole che mi ricordarono una delle preghiere di Trisha. E la piccola risatina che si era lasciato sfuggire Edward, limpida e cristallina, mi colpì come uno schiaffo in pieno viso. Rassomigliava a quella dolce e delicata della maestosa vampira che mi aveva donato quella vita, era ammaliante e piena d’innocenza al tempo stesso che ne rimasi turbato.
    Ero nascosto fra le ombre e li osservavo, stando attento ad ogni minimo particolare.  Alphonse, che se ben ricordo aveva undici anni, parlava adesso tranquillo e sciolto in inglese, ormai utilizzato da tutti, accarezzando la cornice del ritratto, gettando giusto qualche occhiata verso Edward, più grande di lui di due anni. Lui stava invece guardando quasi stupito le candele, e scuoteva di tanto in tanto la testa mentre borbottava tra se e se qualche parola, in latino.
    «Se papà viene a sapere che sai questa lingua ti punirà», lo ammonì Alphonse, con la semplicità con cui un bambino può dire qualcosa.
    Vidi Edward rivolgergli un sorriso indulgente, un sorriso che lo fece sembrare più grande. «Se tu non glielo dici, non lo saprà», replicò, allargando il sorriso e lasciandosi sfuggire un’altra piccola risata. «L’ho imparata dalla mamma, non voglio dimenticarla».
    «Ma la mamma non te l’ha mai insegnata, come hai fatto?»
    «Mi è bastata sentirla quando la parlava per capirla».
    Forse quello che sentii dietro la schiena fu un brivido gelido, quando pronunciò quelle parole, non so dirlo con esattezza, adesso. Avevo il timore che quella sua frase, nella sua innocenza, riservasse misteri oscuri. Sperai che fosse solo un caso, che fosse un ragazzino come tanti che aveva una maggiore capacità d’apprendimento rispetto ai suoi coetanei, ma dovetti ricredermi quando compì quattordici anni e lo affidai ad un maestro privato per insegnargli tutto ciò di cui aveva bisogno.
    Un giorno il maestro mi prese in disparte, giusto prima che uscissi. Eravamo in salotto, e le sue parole mi stupirono.
    «Conosce tutti i testi a memoria, li legge in meno di mezza giornata, mio Signore.» questo mi disse, e gli leggevo il terrore negli occhi. «E quando provo a fargli una domanda, mi anticipa chiedendomi a modo suo cosa significa. Sembra mi legga nel pensiero.»
    Era sicuramente il terrore, a dare quel colore a quello sguardo dilatato che aveva. Aveva paura di mio figlio. Dovetti sbarazzarmi di lui quello stesso giorno. Voleva lasciare il suo servizio e andare altrove, portando con sé il segreto della mia famiglia, e non potevo permettere che altri venissero a conoscenza di quel che sarebbero potuti diventare i miei figli, del reale terrore che avrebbero potuto scatenare.
    Mi nutrii di lui, sbarazzandomi del corpo prima che altri lo trovassero e facendo in modo che risultasse esser partito lontano. Dovetti inoltre verificare le sue parole, capire fino a che punto fosse in avanzamento il “virus” che io avevo trasmesso ad entrambi. E quando mi specchiai negli occhi di Edward, che quand’era bambino tendevano ad un color nocciola come quelli di Trisha, capii che il momento non avrebbe tardato ad arrivare. Erano divenuti quasi color oro, profondi e dolci come due pozze di miele.
    «Dovete dirmi qualcosa, padre?» mi aveva chiesto, sbattendo aggraziato le palpebre. Si stava preparando per coricarsi accanto al fratello, con il quale divideva ancora la camera.
    Mi invase il terrore nel ricordare ciò che era successo con Trisha, così scossi la testa, baciando le guance d’entrambi. «Buona notte, figli miei», dissi solo, dando vita ad un piccolo sorriso. «Dormite sonni tranquilli, sarà la luna a vegliare su di voi». Li lasciai poi per andare a caccia, correndo in libertà sotto il manto di stelle che ricopriva il cielo oscuro, sentendo la consistenza delle tenebre sulla pelle, come una carezza, il fruscio dell’uomo che mi seguiva come una presenza inconsistente e misteriosa. Voleva vedermi morto, com’era suo lavoro, ma non mi attaccava mai. Si limitava solo a seguirmi silenzioso.
    Passai poi gli anni seguenti stando attento a lui e ad ogni cambiamento da parte dei miei figli, osservando sconcertato il portamento con cui camminavano, la grazia e l’eleganza che dimostravano quando voltavano appena la testa o intrattenevano conversazioni con altre persone. Ed ero più che sicuro che tutti li ascoltassero ammaliati, nonostante fossero appena dei ragazzini sedicenni entrati da poco a far parte del regno dorato della nobiltà.
    L’ora giunse nella loro diciottesima estate. Era il sesto mese della nostra permanenza nel maniero dei miei possedimenti a Sheerness, e da poco ero rientrato dall’incontro che avevo avuto con uno dei ricchi borghesi che lavoravano a Londra, trovando l’alloggio che dividevo con il maggiore dei miei figli completamente vuoto. L’ombra che ci aveva tenuti d’occhio si era dissipata, forse lasciandomi in pace sebbene non lo credessi, e avevo pensato che Edward stesse dormendo, per questo ero entrato piano, ma non l’avevo trovato.
    Rientrò solo un’ora prima dell’alba, con un odore che non era il suo sul corpo. Credetti per un attimo che fosse sangue, quello che sentivo, che la transizione si fosse impossessata del suo corpo imponendogli di nutrirsi. Solo dopo mi accorsi che la sua innocenza era sparita. «Dove sei stato?» gli avevo chiesto, stanco per l’ora del mio riposo, che si avvicinava.
    Mi aveva rivolto uno sguardo spaesato, forse sconvolto, mentre si scioglieva i capelli per passarvi le dita in mezzo, affrettandosi a voltare la testa. Era l’atteggiamento di chi ha fatto qualcosa di cui si vergogna. «Ho fatto una passeggiata, padre», fu la sua risposta, mentre si coricava con ancora indosso la sua camicia. «Sono stato fuori solo mezz’ora».
    «Bugiardo», replicai, ricevendo un’occhiata ambrata.
    «Non potete sapere se mento, non c’eravate».
    «Sono rientrato tre ore fa. Motivo per cui non ti credo, Edward».
    Gli occhi dorati si dilatarono, alle mie parole. Mi parve che si mordesse il labbro inferiore quasi a sangue, e se l’avesse fatto, ancora affamato com’ero, sarei stato inebriato dall’odore. E anche quando si scostò di poco i capelli dal collo, sentii l’odore della sua pelle, ma a quell’odore che avevo imparato con gli anni a conoscere, s’era mescolato un altro, un altro che mi parve familiare. Era l’odore d’un altro uomo, l’odore del figlio di colui che usavo come alibi per le mie vittime. Ecco dov’era stato, quella notte. Disobbedendomi, era stato insieme a quel ragazzo. Ma non era stato propriamente quello, il motivo del loro cambiamento. Forse il fatto che stavo morendo.
    Fu quello il punto di rottura, probabilmente. Poiché quando ritornammo a Sheerness, qualche tempo dopo, anche il cacciatore che mi dava la caccia ci seguì, ingaggiai con lui una furiosa lotta, uscendone vivo per miracolo. Con una lama d’argento mi aveva squarciato il fianco, e se non fossi riuscito ad azzannarlo alla gola come un lupo mannaro, mi avrebbe conficcato un paletto nel cuore.
    A casa, terrorizzato dalla morte e dalla prospettiva che i miei figli si sarebbero trasformati senza comprenderne il perché, presi una drastica decisione. Accelerai i tempi, pensandoci io stesso. Tolsi prima di mezzo i domestici, poi passai a loro. La paura sui loro volti, i loro occhi che mi fissavano. Gli stessi occhi con cui mi aveva guardato Trisha, lo stesso timore. Le urla, i battiti che acceleravano e il sangue che colava. Furono giorni d’Inferno quelli che passarono per compiere la transizione, e ancor più quando fui costretto a togliere di mezzo l’unico ostacolo che frenava la sete di sangue di Edward. Quel ragazzo dovetti ucciderlo e maledirlo. Lo condannai ad una vita che non era vita, lasciando che fosse il tempo a decidere la sua sorte. Credo si chiamasse Hamish, o forse Roy. Aye, il secondo nome. Si chiamava Roy.
    Non posso dimenticare lo sguardo inferocito di Edward, quei suoi occhi dorati e tendenti al nero che esprimevano rabbia, i canini appena spuntati palpitanti fra le sue labbra. E tuttora non me lo perdona. A distanza di trecento anni dall’accaduto, ancora ripensa a quella storia. Già, siamo nel 1915, e quella tragedia accadde nel 1612.
    Non so quante volte provò a morire, in quegli anni. Si rifiutava di vivere quella vita come se fosse qualcosa d’indescrivibile, la vedeva come una maledizione che non gli lasciava scampo. Provò persino ad attaccare me, a fuggire nuovamente nella terra in cui era nato. Alphonse, invece, se n’era fatto una ragione molto più velocemente di lui. Veniva con me a caccia, godeva dell’inebriante odore che il sangue lasciava fluttuare nell’aria e della paura che vibrava nei corpi delle vittime prima che le massacrasse. Spargeva troppo sangue, ma imparava in fretta.
    Ci volle poco prima che anche Edward lasciasse perdere i buoni propositi. Ricordo che, poco meno di cinquant’anni fa, si imbatté in un gruppo di cacciatori. Quella volta era stata la prima in cui ero stato realmente orgoglioso di lui, in cui l’avevo davvero visto perdere il controllo. Troppo assetato, non aveva capito più nulla. Ero rimasto a rimirare la sua forza e la sua agilità come un normale genitore può ammirare gli sforzi del figlio sul lavoro o sullo studio.  Il modo fluido con cui feriva quegli uomini che tentavano di colpirlo, il momento in cui aveva sfregiato uno di loro sfigurando il suo volto a vita. Tutto il sangue che scorreva a fiumi era strepitoso, e contrastava divinamente sulla sua pelle candida e sui suoi biondi capelli. Dopo trecento anni non ci si fanno più molti scrupoli sull’uccidere, dopo tutto. O lo fai, o sei tu a morire. E ci aveva messo poco, a capirlo.
    Ora gli lascio fare quello che vuole, attendendo il momento propizio per il sacrificio. Abbiamo ritrovato i discendenti del cacciatore che mi ha quasi ucciso, e non voglio sprecare nessuna occasione ottima per eliminare la loro dinastia una volta per tutte. Anche se si sta dedicando molto di più a pedinare quel prete, dovrà presto obbedirmi. So che gli ricorda il suo antico amante, e so che forse è proprio lui, ma dirglielo adesso, sarebbe come condannarmi a morte da solo. Senza di lui non potrei veder compiuta la mia vendetta. E presto, molto presto, si scriverà la parola fine, su questo lago di sangue che stiamo creando. Le lapidi grideranno, le campane suoneranno il canto della morte per porre il loro omaggio a noi spettri immortali. Persino le tenebre diverranno un tutt’uno con noi, donandoci la protezione di cui abbiamo bisogno per consacrare la nostra causa e lavare via il disonore e l’umiliazione dal nostro nome.
    La vendetta è un piatto che va servito freddo, ma nelle mie mani diverrà l’Inferno. Un Inferno dal quale nessuno si potrà salvare, forse nemmeno noi. Vivere o morire, dopo quasi mille anni, non fa poi tanta differenza. Questo, però, sarà il tempo a deciderlo, o persino mio figlio Edward. Io non devo far altro che attendere.













_Note inconcludenti dell'autrice
Mi ha fatto molto piacere scrivere questa storia. Nonostante fosse molto introspettiva e non sapessi esattamente come svolgerla, alla fin fine le mani sulla tastiera filavano da sole e sono riuscita ad arrivare alla conclusione, dando vita al passato di Van e facendo così capire bene che cosa lo abbia spinto a comportarsi nel modo in cui si comporta adesso. Non ha difatti avuto un gran bel passato e dopo mille anni ha una visione ben diversa del mondo, cosa che comunque non lo giustifica ma riesce a farlo comprendere meglio.
Ultime note. La canzone d'apertura è degli HIM [His Infernal Majesty] e si intitola Wings of a Butterfly.
Un pizzico di pubblicità prima di sparire, che non fa mai male! In corso c'è ancora “Il figlio delle Tenebre” e spero che qualcuno, dopo aver letto questa doppia shot, si appassioni ai vampiri e magari vada a darci una sbirciatina... 
Adesso, con un bell'effetto a dissolvenza, dopo l'ennesima notte passata insonne, mi dileguo!


[1] Il sangue sulle nostre mani è il vino che offriamo in sacrificio
Vieni, e mostriamo loro il tuo amore
strappiamo le ali di una farfalla
per la tua anima, amore mio
strappiamo le ali di una farfalla
per la tua anima
[2] Arrivederci (A te) mio bellissimo angelo [Gaelico scozzese]
[3]Moglie mia [Gaelico scozzese]


_My Pride_

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