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Autore: DarkButterfly    01/03/2009    2 recensioni
Lei è una ragazza prigioniera in un palazzo, e lui una creatura della notte che per soddisfare la propria necessità è, in un certo distorto senso, l'unico in grado di liberarla da quella schiavitù. In questa racconto: l'accoppiamento tra una delle mie più grandi passione (i vampiri) e la mia follia morbosa. Godetevela! XD Ringrazio di cuore chiunque avrà il coraggio di leggere la storia dopo questa introduzione, e un grazie, naturalmente, a tutti coloro che mi lasceranno commenti&critiche! Bye!
Genere: Drammatico, Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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A Fairytale From Hell


La brezza trascinava il tiepido profumo dei gelsomini in fiore attraverso l'intera area del giardino. Centinaia di corolle ripiegate su se stesse sognavano caldi pomeriggi assolati e lievi pioggerelline estive, mentre la velata luce della luna vegliava sui loro sonni sereni.

Quieta trascorreva l'esistenza delle piante cullate dalle nostalgiche note d'un violino nella sicurezza di quel fiabesco parco circondato da mura di pietra ricoperte d'edera.

Erano candide le braccia dell'angelica creatura che con eleganza strofinava l'archetto sulle corde tese dello strumento. Strazianti guaiti si diffondevano dall'anima vuota della cassa armonica.

Sottile era il collo che si curvava sullo strumento, sul quale s'abbandonava lievemente una guancia incavata, corvini i folti capelli che le ricadevano sul volto teneramente accaldato.

Quell'angelo distribuiva all'universo, racchiuso nel giardino, le sue melodie e scambiava, sotto il cielo terso, segreti con il cieco sguardo della pallida luna.

Ma ben altri occhi la spiavano, celati fra gli arbusti ed i roseti, in quella notte di primavera. Ferini, quegli occhi sorbivano la deliziosa visione e quella musica sacra.

Le mani, simili alle zampe assassine d'un grifone, tremavano dalla smania di stringere quel corpo giovane e pulsante di calda vita.

Il suo naso fremeva nel captare la scia flebile del suo odore. Deglutiva, cercando di controllare l'eccitazione, mentre attendeva che il momento propizio si presentasse.

Per notti intere si era cibato di quello spettacolo che lei, ignara protagonista assieme al suo violino, gli concedeva. Aveva imparato ad attenderla ogni notte fino a quando le luci della reggia in cui viveva, relegata, non si spegnevano una ad una e le finestre si oscuravano come candele spente da un soffio di fiato. Ed infine eccola apparire: vestita soltanto del candore di una camicia da notte, la lunga capigliatura corvina che scivolava come un mantello sul suo corpicino gracile. Il violino in un mano e l'archetto nell'altra, passeggiava scalza lungo il selciato, incurante della ghiaia che feriva quei piedi delicati ad ogni passo.

Conosceva il suo nome, aveva sentito un domestico chiamarla una sera, e lei s'era affrettata a scomparire. Ingoiata di nuovo da quella massiccia porta di legno che gli impediva di entrare, di seguire i passi silenziosi di quell'angelo.

Era come un sospiro, il suo nome. Un suono paradisiaco e musicale. In quel nome non c'era traccia di malizia o perversione, vi era racchiuso tutto ciò che d'innocente esiste al mondo: un ruscello, un giglio in fiore, un cielo azzurro. La Bestia l'aveva ripetuto un'infinità di volte nella propria testa, ma mai aveva osato ripeterlo ad alta voce, per il timore d'inquinare qualcosa di così meravigliosamente puro. Rimbalzava costantemente attraverso le pareti della sua mente, infrangendosi contro le immagini di quella ragazza ripiegata sul suo strumento. Una musicista, una martire, che contempla, che suona. Dipinta, l'immagine, negli occhi di quell'animale, per quel che resta dell'eternità.

Scivola, la bestia, silenziosamente, fuori dal suo nascondiglio e si avvicina alla ragazza, che ignara continua a suonare. Lei non lo sa, ma quella è la canzone ultima della sua esistenza, la sua marcia funebre. Racconta, quella melodia. Come una balia narra al figlioletto del padrone una fiaba, quella musica lieve scrive nuove parole, nuove frasi, di una storia infinita.

C'era una volta, parevano dire quei suoni nostalgici con voci mute, una Principessa prigioniera di un palazzo. Un oscuro Re l'aveva rinchiusa nella torre più alta ed inaccessibile del castello, per essere l'unico a godere della sua bellezza.

Il Re era benvoluto da tutto il Popolo, ma nessuno sapeva che a notte fonda strisciava nella stanza della Principessa e sfogava sul suo corpo esile le sue frustrazioni. Le note si facevano alte, quasi dolenti, come il guaito d'una belva ferita, la Principessa non poteva far altro che osservare la foreste oltre la quale s'estendeva il povero villaggio. Lontano. Troppo lontano per potervi fuggire senza perdersi tra le pareti di quel labirinto di querce che la foresta rappresentava.

La Principessa Prigioniera trascorreva le sue giornate seduta presso la finestra, ricamando e cantando con voce soave le vecchie ballate che ricordava aver udito dalla voce d'usignolo di sua madre, la Regina, prima che ella passasse a miglior vita. Le note rallentavano, in malinconico crescendo. La Regina era morta molti anni or sono, mentre la Principessa ancora si beava nella sua infanzia. Ogni volta che la Principessa cantava, le ritornava in mente il ricordo dei lineamenti

stanchi di sua madre, ma, assieme a questi, anche i pomeriggi di primavera passati a correre attraverso prati variopinti da fiori selvaggi.

Fu durante un pomeriggio di primavera, quando nei campi sbocciavano i primi boccioli profumati, che un nobile Cavaliere passando nei pressi del castello udì la voce angelica della Principessa. Il suo canto parlava dell'amore e di tutto ciò che di bello esisteva al mondo. Il Cavaliere fu rapito da quella voce che era il primo suono delicato che gli capitava di udire da molto tempo. Le sue orecchie non erano più abituate ad ascoltare tale soave musica, troppo avvezze, ormai, al cozzare delle spade in battaglia e alle urla strazianti di coloro che erano in punto di morte. E i suoi occhi si riempirono di lacrime quando si rese conto che qualcosa in grado di donargli la serenità ancora

esisteva, ed era lì. Tanto vicino che gli bastò alzare lo sguardo perché il suo cuore lo raggiungesse.

<< Siete voi, Mia Signora, che cantate con voce tanto soave? >> Domandò il Cavaliere nella speranza che la sua voce giungesse fino a quell'angelo che ora s'affacciava dalla più alta torre della Fortezza. La Principessa abbassò lo sguardo verso il Cavaliere, il primo uomo che le aveva rivolto la parola, dopo il Re. La musica si faceva lieve, quasi gaia, diffondendo l'amore come una malattia infettiva nei cuori del suo pubblico immaginario. Il Cavaliere era molto diverso dal Re: era giovane, e forte, e bello, e i suoi occhi lontani l'ammiravano con tutta la gentilezza dell'amor cortese.

<< Sono io, Mio Signore. >> Replicò la ragazza mentre il rossore si faceva strada sulle sue guance paffute.

<< Scendi, te ne prego, >> La supplicò il Cavaliere << così potremo parlare faccia a faccia. >>.

La Principessa avrebbe desiderato correre giù lungo le scale del palazzo e spalancare il portone principale per incontrare quell'uomo che sembrava essere arrivato per liberarla dal suo triste destino. Ma alla porta della sua camera era stato imposto un pesante lucchetto e dalle pareti lisce della torre non poteva calarsi, quindi, con un sospiro triste, scosse la testa << Non posso scendere. >> Gli spiegò.

<< E perché mai? >> Domandò il Cavaliere, il quale, per poterla incontrare, avrebbe addirittura volato sino a quell'alta finestra.

<< Sono prigioniera del Re. Questa fortezza è un carcere e questa Torre è la mia cella, Nobile Cavaliere. >> Pianse la Principessa e il suo viso si contrasse in una smorfia di scoraggiamento.

<< Non piangere, Principessa. >> La consolò il Cavaliere brandendo la sua spada lucente << Ucciderò il Re, e ti libererò. >> E davvero pensava che la Principessa presto sarebbe stata libera, come s'addiceva agli usignoli, che poco sono adatti a vivere nelle gabbie.

La musica si faceva più rude, quasi bellicosa, lasciando intendere all'ascoltatore l'imminente scontro. Il Cavaliere si scagliò furente contro la facciata del castello strillando il nome del Re, fino a quando questo non s'affacciò dalle mura. Furente il Cavaliere lo sfidò a scendere e con la spada sguainata lo invitò a farsi avanti, che mai più avrebbe avuto il diritto di sfiorare la bella Principessa. Le note strisciavano lente e solenni, quasi regali. Il Re fece la sua uscita dal rigoglioso parco a bordo di un destriero nero come la notte, che scalpitava furioso mentre il sole rifletteva I suoi raggi sulla lama della spada lucente. Il cavallo candido del cavaliere mosse qualche cauto passo in avanti: entrambi pronti a morire per quella pallida bellezza che piangeva seduta alla finestra della sua prigione. Uno stridio struggente si diffuse con impeto nel giardino e sulle guance rosee della fanciulla scivolarono calde lacrime. Quale destino attendeva la Principessa? Il Re caricò il suo avversario puntando su di lui la sua letale spada, pronto ad affondarla con tutte le sue forse nell'armatura del Cavaliere. Il Cavaliere era, però, sopravvissuto ad un'aspra battaglia e non aveva certo intenzione di perdere la vita durante lo scontro con quell'anziano carceriere. Non aveva certo intenzione di perdere la vita prima di aver potuto sfiorare una sola volta la bella Principessa. La lama tempestata di pietre preziose si diresse con fatale precisione verso il punto in cui il cuore innamorato del Cavaliere palpitava, ma il braccio dell'uomo si eresse, come tempestivo ostacolo, per deviare quella mossa che stava per segnare la sua fine. Il Re era però subdolo e avvezzo a sfruttare meschini tranelli: con un movimento fulmineo colpì il cavallo bianco dell'avversario e si preparò ad infliggere il corpo finale mentre il destriero si lasciava cadere stremato. Il sangue rosso insudiciava il manto niveo dell'animale come un fiore che si espandeva con rapidità preoccupante con lo scorrere dei secondi. La musica rallentava progressivamente e la sua intensità scemava con malinconico languore, trasformandosi in un lugubre marcia funebre. La belva cominciò a scivolare tra le ombre del giardino, avvicinandosi alla fanciulla, ancora posseduta da quella musica dall'anima celestiale. Il Cavaliere accarezzò il manto del suo inseparabile compagno, che ora nitriva disperato, sentendo la vita che scorreva via dalle sue membra possenti tra acute sofferenze. Per l'uomo era una tortura vedere quell'animale fiero spirare in maniera tanto umiliante, sotto lo sguardo sprezzante del nemico. Ne aveva visti tanti di compagni, in guerra, perire nella stessa mortificante maniera. La melodia aveva ripreso velocemente tono, e rimbombava, ora, in quel malinconico giardino, ai suoi occhi sognanti, teatro d'una sanguinosa battaglia. La Bestia strisciò alle sue spalle senza emettere alcun suono, era assuefatto dall'odore della fanciulla e la sua gola bruciava per la sete. Il Cavaliere si voltò, brandendo con decisione le sue armi e fissò il suo sguardo colmo d'ira negli occhi superbi del Re. Quale orrore era la vista di quegli occhi! Resi lucidi dal dolore e dalla rabbia, ardenti per il desiderio di vendetta, cremisi per le lacrime che, con tutta la sua forza di volontà, aveva ingoiato. La Bestia respirò. Un rantolo profondo e sibilante, un suono che poteva provenire soltanto dai meandri del più tenebroso Inferno. La musica s'interruppe e le spalle della ragazza furono scosse da brividi incontrollabili. Lentamente si voltò trovandosi faccia a faccia con la Bestia. Lo sguardo della ragazza divenne vacuo come quello d'una bambola senz'anima quando incontrò quello della Bestia. Quale orrore era la vista di quegli occhi! Resi lucidi dalla follia e dal desiderio, ardenti dalla smania di nutrirsi, cremisi per le lacrime di sanguinosa linfa vitale che, con tutta la sua voracità, aveva sorbito.

Il violino cadde a terra fracassandosi sui ciottoli con un rumore assordante, le schegge volarono in ogni direzione sparpagliandosi attorno alle due figure che si fissavano immobili, inquiete. Quando il silenzio piombò nuovamente anche l'archetto scivolò dalle mani della ragazza, atterrando sul terreno con un lieve tonfo. Sotto il nero maleficio della Bestia le pareva di non poter più formulare un pensiero di senso compiuto, poteva solo fissare quegli occhi e perdersi nei vortici fiammeggianti di quell'Inferno senza nome. Non aveva memoria, la ragazza, del suo stesso nome o del suo passato mentre precipitava tra i demoni caduti e gli angeli ripudiati. Non poteva capire, la ragazza, che il suo futuro compiva passi traballanti sull'instabile filo della vita mentre l'abisso della morte s'apriva burrascoso sotto di lui.

La Bestia posò le mani sui suoi fianchi esili e avvicinò il suo volto al collo di lei. La carotide pulsava sotto la pelle sottile. La poteva quasi percepirne il fragore, come un fiume che, nascendo dal suo cuore affannato, si diramava impetuoso in ogni sua estremità; poteva quasi vedere quel fiume scarlatto che scorreva in quel corpo, potente, attraverso le sue vene.

Era bella la Bestia, agli occhi della fanciulla. Aveva le stesse sembianze che, nella sua mente, aveva attribuito al Cavaliere. Eccezion fatta per gli occhi. Le iridi del cavaliere erano come un'antica foresta: castane all'esterno, ma quando il sole le colpiva si tingevano di verde scuro in prossimità delle pupille. Ed il suo sguardo era, generalmente, colmo d'una serenità e d'una gentilezza profonda. Le iridi della Bestia erano cremisi, e si scurivano in prossimità delle pupille, tanto che era impossibile distinguere dove iniziassero le une e finissero le altre. Ed il suo sguardo era privo di sentimenti, I suoi occhi erano due specchi che non riflettevano l'anima di una persona, ma l'istinto

bestiale d'una fiera. Ma, nonostante quegli occhi fossero rivoltanti, la fanciulla non poté fare a meno di reprimere un sentimento d'incondizionata fiducia nei confronti di quel misterioso individuo: era il suo Cavaliere, venuto da lontano per salvarla.

Le mani della Bestia risalirono con lentezza calcolata I fianchi della della ragazza ed indugiarono sul voluminoso nastro che chiudeva la leggera camicia da notte. Le mani della stessa fanciulla corsero al fiocco e ne tesero un'estremità, sciogliendo delicatamente il nodo e lasciando che la veste scivolasse lieve a terra, scoprendo così le sue forme pubescenti. Era una situazione bizzarra ed estremamente eccitante, lei nuda, nel suo giardino, nella sua prigione, esposta, così inerme, così vulnerabile, allo sguardo di uno sconosciuto.

La Bestia chinò il capo e appoggiò le sue labbra gelide sul petto della fanciulla, appena sopra la morbida curva dei seni appena accennati. La ragazza sospirò eccitata sentendo il respiro caldo dell'uomo sul suo petto. La lingua della Bestia accarezzò con la maestria d'un amante la pelle vellutata di quel corpo pulsante di vita, la sua gola ardeva dalla sete e le sue mani tremava per la smania, sapeva che non sarebbe potuto resistere ancora a lungo. Scivolò fino all'incavo della spalla sulla quale fino a pochi minuti prima era posato il violino e le baciò lascivamente il collo. La ragazza si morse le labbra con impazienza. Il bacio della Bestia divenne più profondo e i suoi canini acuminati affondarono nella carne della giovane sorbendone la superba linfa vitale.

Era valsa la pena di aspettare tanto a lungo e di giungere allo stremo delle proprie forze per banchettare con un pasto tanto sublime. Il suo sangue era come un vino pregiato: dolce come il miele, ma non stucchevole, dal retrogusto incisivo e raffinato. Il suo sangue era come un bouquet fiorito: inizialmente il suo profumo era penetrante, ma velocemente s'affievoliva lasciando solamente una gradevole scia in sottofondo. Il suo sangue era come la musica del suo violino: cominciava con aggressività e foga, e repentinamente scemava in uno struggente accordo. Il suo sangue era semplicemente tutto ciò che la Bestia avrebbe potuto mai desiderare, una leccornia degna degli Dei dell'Olimpo, una bevanda per ubriacare gli Amorini lassù in Paradiso.

La testa della fanciulla era pesante, e una foschia confusa le attanagliava la mente. Davanti ai suoi occhi ballavano figure sfocate, come in un macabro Sabbath. Le sue ginocchia stavano cedendo e le mani, che con tanta tenacia s'erano aggrappate al corpo virile della Bestia, stavano abbandonando la loro salda presa. Le sue palpebre si abbassavano, tremando, creando una barriera tra la sua coscienza e quel mondo cupo e lussurioso che l'aveva brutalmente convinta a perdersi al suo interno. Ogni cosa sfumò nel nero.

La Bestia lasciò cadere dalle proprie braccia il cadavere bianco della fanciulla, era ancora caldo mentre la morte trascinava la sua anima immacolata verso la destinazione ultima. Sul suo collo si aprivano due fori rossicci, che apparivano come punture d'un insetto. Sulle labbra, sul mento della Bestia si erano sparse macchie di sangue che erano gocciolate sulla candida camicia e sul nero panciotto.

Abbandonò il giardino a passi felpati mentre già i fiori si preparavano per schiudersi agli accenni dei primi raggi di sole. Le sue membra erano intorpidite dalla sazietà e dall'imminente arrivo del mattino e la sua mente faticava a richiamare gli intricati sentieri che, attraverso la foresta conducevano al vecchio cimitero. La notte stava concludendosi e ormai tra i fitti rami che s'alzavano in preghiera verso il cielo non si celava più ombra alcuna, davanti agli occhi della Bestia danzavano visioni di donne meravigliose: si libravano nel vento e lasciavano correre le loro risa spensierate all'udito dell'animale. Lui le vedeva, con le loro vesti da camera candide che svolazzavano dietro ai tronchi e ai cespugli e I loro capelli luminosi, e le sentiva, con i loro canti e le loro risate cristalline, ma non riusciva a percepirne la fragranza. Erano così irreali, eppure così solide, nella mente della Bestia.

Le gambe erano deboli, e procedevano con lentezza esasperante, incespicando maldestramente tra le radici seminascoste nel terreno. Le mani della Bestia si aggrappavano al tronco degli alberi, incidendo con disperata foga. Aveva ormai perso la speranza di ritrovare la strada del vecchio cimitero e, mentre i primi raggi di luce già dipingevano lievi sprazzi dorati nella penombra della foresta, lui agognava della placida ombra del vecchio mausoleo, luogo di eterno riposo della sua decaduta casata.

Migliaia di spilli si piantarono nella candida carne della sua mano quando fu investita da un pallido raggio di sole, e, quando si ritirò nell'ombra, essa era rossa e gonfia, coperta di umide vesciche. L'esposizione non era durata più di pochi secondi.

La Bestia si sentiva ormai come un prigioniero braccato da migliaia di cani feroci mentre, coperto dalla giacca, si spostava attraverso le pozze di luce alla ricerca della quieta ombra delle querce. Strilli di dolore si levavano dalla sua gola quando un raggio lo sfiorava e si diffondevano attraverso i boschi e le campagne, fino a giungere alle orecchie dei contadini che s'apprestavano a cominciare la loro giornata di duro lavoro nei campi e nei pascoli.

La Bestia squadrò ogni angolo della foresta, per quanto la sua visuale offuscata dal sonno lo consentiva, alla febbrile ricerca di un luogo sicuro in cui addormentarsi. Ma attorno a lui si estendevano solo letali fasci di luce. Un dolore sordo s'impossessò prepotentemente del suo corpo, partendo dalle mani e dalle ginocchia, quando cadde a carponi sul terriccio.

Chinò il capo e si rannicchiò su se stesso, pregando che qualche miracolo lo salvasse da quella situazione senza via d'uscita. Lacrime di sangue rigarono le sue guance marmoree mentre il sole avanzava verso di lui come un fatale nemico, brandendo la sua spada luminosa, pronto ad infliggere la ferita mortale.

La luce danzò lentamente fino alla sua vittima, sembrava schernirlo, mentre s'avvicinava inesorabile, gloriandosi della sua mortificazione mentre si rannicchiava nell'ultimo insignificante briciolo d'ombra, ormai conscio di non potersi più salvare. Di fronte ai suoi occhi continuavano ad apparire quelle meravigliose fanciulle, ma ora non rideva più allegramente. Ora camminavano verso di lui con occhi gelidi e ghigni malefici dipinti sulle labbra. I bei volti distorti da smorfie crudeli mentre si avvicinavano pronte a linciarlo per avere la loro vendetta, per trovare la loro eterna serenità.

Apollo lo investì con le scintille del suo glorioso astro.

La pelle della belva divenne paonazza e gonfia, nel giro di pochi secondi miliardi di vesciche si formarono ed esplosero. Un caldo infernale stava invadendo ogni cellula del suo essere e il sangue traspirava da ogni poro della sua pelle e da ogni orifizio, colando sulla pelle ustionata come lava incandescente. Dai vestiti si levarono fitte spirali di fumo, ed infine, da un'innocente scintilla, divampò un incendio che divoro interamente la creatura, lasciando al suo posto una macabra scultura di cenere. Durante gli ultimi istanti dell'agonia la Bestia le aveva distinte chiaramente. Le ragazze, quelle dannate ragazze, stavano ridendo spensierate, cantavano e danzavano attorno al falò delle sue carni.

Il sole della prima mattina baciò con gentilezza le carni candide della dormiente Eva che, in eterno, giaceva nel suo giardino ove è sempre primavera. Riposava, nella morte, la meravigliosa fanciulla, cullata dal suo abito candido e dai frammenti del violino, che ora sempre tace.

Quando il Cavaliere incrociò la sua strada, baciò quelle labbra imbronciante con gentilezza, per non turbare quei sogni lievi.

  
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